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Intervista Testimone n. 1

1. Parliamo del progetto Homeless: quando è nato e con quale scopo preciso?

R. Nasce da più di 20 anni. L’obiettivo è promuovere il diritto di cittadinanza delle persone senza dimora partendo dall’accoglienza. Noi abbiamo un asilo notturno all’interno del quale ospitiamo una 30ina di persone: in realtà sono 24 nell’ordinario che diventano30 nei periodi di emergenza freddo/caldo e poi abbiamo 4 posti riservati all’emergenza sanitaria, ossia posti che vengono attivati in convenzione con il servizio sanitario dove vengono inviate persone con problematiche sanitarie dimesse dall’ospedale che non hanno più bisogno dell’assistenza sanitaria ma hanno bisogno di un posto protetto dove poter stare nel periodo post-ospedaliero. L’obiettivo dunque è quello di accogliere persone senza dimora.

2. L’efficacia del progetto da cosa dipende maggiormente?

R. è molto difficile da valutare. Noi siamo un progetto di bassa soglia, ci occupiamo fondamentalmente della riduzione del danno, nell’accogliere le persone nella fase emergenziale. Mancano, come problema a livello nazionale, le cosiddette strutture di secondo livello, cioè quelle che possono favorire un reinserimento delle persone. A Pisa e in qualche altra zona di Italia abbiamo attivato da pochi anni un nuovo progetto che si chiama Housing First che, come dice il nome, parte dalla casa, propone ad alcune di queste persone la possibilità di partire da un alloggio per poi costruire un percorso. Quello che abbiamo osservato in questi 20 anni di attività che, ripeto, riguarda tutti i soggetti che operano in questo ambito, è che provare a costruire percorsi quando ancora la persona si ritrova in una situazione di disagio abitativo non è semplice; spesso trovare un lavoro significa esporre la persona a fallimenti che ha già vissuto in passato e quindi che l’efficacia la valutiamo su quello che è il nostro compito primario cioè l’accoglienza, però è chiaro che, volendo fare un ragionamento più ampio e volendo valutare un numero di persone che riescono veramente a inserirsi i dati sono abbastanza negativi.

3. Come è cambiata la concezione del progetto nel corso di questi anni rispetto alla visione originaria?

R. è cambiata molto, più che altro, la tipologia delle persone che accogliamo. 20 anni fa avevamo soprattutto italiani con dipendenze di vario tipo, soprattutto da alcol e da sostanze. Negli ultimi anni da un lato si sono affacciati nuovi tipi di dipendenze, soprattutto da gioco, e poi sono apparse, all’interno della popolazione degli italiani, anche problematiche differenze, come i padri separati che sono sempre più numerosi, quindi le cosiddette nuove povertà legate alla crisi, e poi soprattutto, da quando c’è stato sostanzialmente l’allargamento delle frontiere dell’Unione Europea anche ai paesi dell’Est c’è stata una forte componente proveniente dall’Est europeo. Prima invece la componente degli immigrati era proveniente dall’area Magreeb, dall’Africa del Nord. Chiaramente questo ha avuto un impatto notevole anche sul nostro modo di operare, perché in questo momento la componente maggiore è quella degli immigrati, circa il 60/65% delle persone che accogliamo sono immigrati. Questo da un lato ha reso più difficile la convivenza all’interno delle strutture perché si innescano le cosiddette “guerre fra poveri”: sono meccanismi sempre presenti in queste strutture, rese ancora più aspre con la componente degli immigrati. Questo ha modificato molto il nostro modo di lavorare. Un altro aspetto importante è il calo notevole delle risorse: paradossalmente abbiamo avuto una crescita esponenziale, confermata anche da dati recentissimi nel sito della Fio.psd, e un calo delle risorse. Pisa, sotto questo aspetto, rappresenta una realtà diversa, perché ha progettato una struttura nuova, dove invece in altri luoghi hanno riadattato vecchi edifici pubblici come dormitori anche perché, politicamente parlando, rende poco questo versante. Abbiamo una struttura riprogettata ad doc per fare da asilo notturno, è stata riprogettata grazie ad una forte sponsorizzazione della Fondazione Pisa che, tra l’altro, ha posto anche un vincolo sulla destinazione d’uso trentennale, in questi anni siamo partiti da una struttura piuttosto precaria e siamo arrivati al punto attuale grazie anche ai risultati ottenuti soprattutto in rapporto con la città. Un elemento fondamentale nel nostro lavoro è quello del rapporto con i quartieri nei quali andiamo ad operare, perché le nostre sono strutture ad alto impatto, o

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meglio considerate tali, e quindi spesso il livello di percezione che c’è nei quartieri è negativo, quindi abbiamo dovuto lavorare molto sul versante della mediazione nel rapporto con la città, per fortuna con risultati molto positivi. Nella struttura dove eravamo prima abbiamo ridato vita a dei progetti che si facevano in quella struttura, che era un circolo Arci prima del nostro arrivo, proprio per restituirla in parte al quartiere e favorire anche l’integrazione tra le persone senza dimora che in qualche modo la vivevano e i residenti stessi che “l’avevano perduta”, anche se in realtà era stata chiusa molto prima del nostro arrivo. Anche nella struttura dove siamo attualmente lavoriamo molto con il quartiere, perché da un lato abbiamo l’esigenza di restituire la struttura, almeno nei momenti in cui non la utilizziamo noi, al quartiere stesso, dall’altro favorire l’integrazione delle persone senza dimora, accorcia molto le distanze dall’apertura ei cancelli. Un tempo lavoravamo con la convinzione che il livello di visibilità che avevamo fosse da tenere il più basso possibile, quindi l’idea che fosse necessario diventare quasi invisibili, meno ci notano e più siamo bravi. Ci siamo resi conto che questo meccanismo non funziona e quindi anzi ora evidenziamo quotidianamente quello che facciamo: abbiamo un sito internet, un profilo facebook, utilizziamo le finestre social in ogni modo, proprio perché da un lato ci sembra corretto raccontare alla città come soldi pubblici vengono spesi su un versante guardato con sospetto sia dalla politica sia dai cittadini stessi, dall’altro ci siamo resi conto che aprire accorcia e distanze, quindi far percepire ai cittadini che all’interno della struttura operano degli operatori qualificati, che lo fanno per mestiere dopo un percorso di studi; soprattutto metter a contatto i cittadini stessi con persone che sono assolutamente normali, solo un po’ più sfortunate, che hanno avuto situazioni di vita che in molti casi possono capitare a chiunque, perché parliamo appunto di padri separati, di lutti gravi che hanno portato a situazioni di depressione grave. Mettere a contatto le persone creando delle occasioni: abbiamo un punto Paas, che è appunto uno sportello informatico a disposizione del quartiere, come ad esempio gli anziani del quartiere che devono accedere a pratiche burocratiche online, ma è aperto anche ai nostri utenti che lo usano per ricreare relazioni che magari avevano perso, quindi mettersi in contatto con le famiglie, con amici e parenti, oppure per costruirsi un account di posta elettronica da utilizzare per cercare lavoro. Quel contenitore lì ci consente di mettere quasi allo stesso tavolo residenti del quartiere con persone senza fissa dimora, e questa vicinanza è quella che ci consente di vivere nel quartiere serenamente. Il quartiere di Porta a Mare, poi, è un quartiere difficile però ormai da anni nessuno parla del dormitorio, nessuno ne parla come problema; vengono anche le scuole a visitare la struttura, cerchiamo anche di lavorare per costruire nella testa delle nuove generazioni un’idea di accoglienza diversa, che faccia capire l’importanza di queste strutture sul territorio. Per fortuna, da un po’ di tempo, anche altri comuni stanno cominciando ad investire: per esempio Livorno, che ha sempre avuto una popolazione di senza dimora importante dal punto di vista dei numeri, ha attivato un asilo notturno che ci ha permesso di distribuire un po’ le persone tra il nostro centro di Pisa e di Livorno. Quindi da un lato l’obiettivo è fare in modo che sempre meno persone dormano in strada di notte (34 posti su una stima di 200/220 persone che dormono in strada a Pisa in qualsiasi giorno dell’anno): una parte di queste, da alcuni anni a questa parte, vanno a Livorno dove ci sono altri 30 posti circa. Questo è un altro grosso cambiamento che si è verificato nel tempo, perché poi città vicine altrettanto importanti non hanno niente.

4. Secondo lei, il progetto Homeless può essere considerato una partnership pubblico-privato? Perché? R. Sì, a tutti gli effetti lo è, perché il soggetto titolare è l’ente pubblico, la SdS della zona pisana, una

società creata in Toscana ormai da tempo che fonde le competenze sul socio-sanitario di tutti i comuni dell’area; partecipano al comparto socio-sanitario, con le relative spese, tutti i comuni dell’area pisana. Quindi il nostro committente è l’ente pubblico; il progetto però è gestito da sempre dal privato sociale. Ci sono tre cooperative sociale, due di tipo A e una di tipo B: la cooperativa Il Simbolo, che è la cooperativa capofila, che gestisce la parte notturna, il coordinamento del progetto e del segretariato sociale, poi c’è la cooperativa Arnera, che gestisce i servizi di strada, la ricerca delle persone per strada e la distribuzione di beni di prima necessità, il materiale salva cita (cibo e bevande durante l’estate); poi c’è la cooperativa di tipo B, la cooperativa Axis, che gestisce il servizio di pulizia, lo fa impiegando persone svantaggiate, in qualche caso anche persone che hanno vissuto una parte della loro vita in struttura, quindi ex senza fissa dimora. Abbiamo contatti quasi quotidiani con l’ente pubblico, quindi sia il tecnico di riferimento, Marzia Tanini, responsabile del settore alta marginalità, sia l’Assessore seguono molto da vicino il progetto; si svolgono frequenti riunioni, c’è un frequente scambio di vedute anche perché soprattutto il lavoro di strada che facciamo è sempre sotto i riflettori, perché è ovvio se ne sente parlare tuti i giorni e anche la situazione della stazione di Pisa è sempre

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sotto riflettori per situazioni delicate, quindi c’è uno scambio continuo con loro anche per governare questi fenomeni e per gestirli al meglio. In altre città invece non c’è questo rapporto pubblico-privato: ci sono situazioni gestite completamente dal pubblico e situazioni gestite completamente dal privato. 5. In che modo si è verificata questa collaborazione tra settore pubblico e privato sociale?

R. Il progetto nasce oltre 20 anni fa promosso dalla Caritas diocesana, in un’annata con un freddo particolarmente intenso; fu organizzata una sorta di accoglienza per emergenza freddo, vennero attivate una serie di associazioni e cooperative per accogliere le persone in quell’inverno particolarmente rigido. Dopo quell’esperienza, che fu la prima in città, la Caritas stessa decise di promuovere un tavolo per discutere rispetto alla prospettiva che si poteva dare a quell’esperienza e attorno a quel tavolo è nata l’idea di lavorare per la realizzazione di un servizio, di un progetto e quindi nasce in questo modo il Progetto Homeless. La struttura è sempre rimasta quella, quindi il pubblico che in qualche modo governa e dà le linee di indirizzo e il privato che gestisce, privato che sempre di più, da qualche anno a questa parte, è in rete anche con soggetti che anche a livello nazionale operano su questo versante: per esempio il dott. Carta, che all’interno del progetto è il responsabile della parte mediazione, è anche vicepresidente nazionale della Fio.psd, l’organizzazione di secondo livello che coordina il lavoro dei soggetti che lavorano su questo versante. Quindi c’è un forte legame con il pubblico, a livello locale e regionale (il Paas stesso è un progetto finanziato e promosso dalla regione Toscana). All’interno del centro c’è un altro servizio che abbiamo attivato da qualche anno a questa parte che vede un altro soggetto, un’associazione di volontariato, l’Ordine di Malta, cioè dei soggetti che all’interno del nostro centro, grazie ad una rete di medici volontari, aprono due volte alla settimana, in parallelo con il Paas, uno spazio dove visitano gratuitamente le persone senza dimora. Questa è un’altra cosa interessante, perché non c’è in Italia una struttura di accoglienza come la nostra all’interno della quale c’è uno sportello informativo con persone competenti in gradi di alfabetizzare le persone da un punto di vista informatico, e un ambulatorio dove i medici dell’ospedale di Pisa vengono due volte a settimana offrendo il loro tempo per visitare le persone. questa è una cosa fondamentale perché da un lato alcuni nostri utenti non potrebbero accedere ad alcuni servizi, perché sono non in regola con i documenti, e poi perché c’è chi non riesce a superare lo scoglio determinato dalla parte burocratica che poi spaventa anche il cittadino comune. Per prenotare un esame molto spesso ci vogliono dei mesi, immaginiamoci una persona senza dimora che non ha casa, non ha lavoro, vive in situazione di assoluta emergenza, magari ha anche dipendenze non si ricorderà mai di dover fare un esame importante; anche quando se ne ricorda non è banale per una persona in quelle condizioni riuscire a procedere. Quindi questa presenza ci garantisce di annullare anche questa distanza, perché noi abbiamo dei medici che vengono a casa delle persone che non hanno casa e quindi favoriscono anche questo accesso al sistema sanitario, per cui incontrandole lì se ci sono esami che non possono essere fatti fanno da tramite e questo ci permette di accedere a dei servizi che prima erano impensabili. Tra i soggetti che lavorano con noi ci sono anche gli Amici della strada, un’associazione nata in ambito Caritas che è fondamentale perché da un lato avvicina al progetto persone che, nella vita di tutti i giorni, fanno altro, quindi è un ulteriore occasione pe noi per raccontare quello che facciamo e contaminare la città, e poi ci aiutano a distribuire il cibo il mercoledì sera, incontrano persone che prima erano senza fissa dimora all’interno della propria casa (Housing First) e fanno in modo che la casa paradossalmente non diventi un luogo di emarginazione, perché spesso quello che accade è che magari si trova una casa e le persone non hanno reti e sono più sole di prima. questa associazione dà questo contributo, cerca di capire in che modo procede la sperimentazione della vita in casa, e poi fanno un lavoro di ricerca sul territorio: girano per la città, incontrano persone, le orientano, danno informazioni sui servizi. Loro sono nati nel periodo in cui è nato il progetto, quindi fondamentalmente loro sono tra i promotori, facevano parte di quel gruppo di persone legate alla Caritas che hanno in qualche modo spinto perché in città si attivasse qualcosa in questo versante.

6. In quali fasi del progetto è stato coinvolto il partner privato?

R. Dall’inizio: nasce promosso dalla Caritas che continua ad avere un ruolo importante, perché sul territorio offre una serie di servizi fondamentali e che permettono di governare un fenomeno che ha numeri importanti se messi in relazione con le dimensioni e il numero di abitanti della città; Pisa ha un numero di senza dimora per abitante superiore alla media nazionale proprio perché i servizi che offre sono di qualità superiore alla media. È chiaro che Caritas, da questo punto di vista, ha sempre avuto

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una tradizione importante perché è partita con il Centro di Ascolto, che rimane un servizio importante, poi con il servizio docce, che ci consente di far fare la doccia a tante persone ogni giorno, per arrivare all’ultimo servizio attivato in ordine di tempo che è la Cittadella della Solidarietà, il famoso supermercato solidale che consente l’accesso a persone che non hanno reddito e molti dei nostri utenti usufruiscono anche di questo servizio. Quindi Caritas continua ad essere per noi un partner fondamentale. Un altro rapporto importante è con un ente pubblico è quello con la mensa universitaria: questa è un’esperienza innovativa che molte realtà hanno effettuato. Noi siamo stati i primi ad attivare rapporti con la mensa; ormai da tantissimi anni mandiamo i nostri operatori a ritirare le eccedenze della mensa universitaria. Il cibo viene distribuito una parte agli ospiti dell’asilo notturno e una parte in strada, circa 70 pasti al giorno. Questo ci permette di avere un cibo di qualità, e consente alla mensa di avere un canale di smaltimento di quello che non distribuiscono che ha un valore aggiunto importante, non viene buttato e risparmiano nei costi di smaltimento. Questa è una cosa che diamo per scontato, ma molto importante, perché con una scelta intelligente si riescono ad avere vantaggi da una parte e dall’altra.

7. Qual è la divisione dei ruoli tra i partner all’interno del progetto?

R. Il pubblico, fondamentalmente, osserva un po’ dall’alto, ha compiti politici di indirizzo, noi siamo la parte operativa anche se partecipiamo a tavoli di confronto che ci consentono di dire la nostra su tutta una serie di questioni. Il governo politico dei vari progetti dell’area è pubblico, c’è un assessore competente, un tecnico di riferimento e noi ci occupiamo della parte operativa, cioè del governo della macchina, dei meccanismi di funzionamento della macchina. Le scelte politiche vengono fatte, coinvolgendo la parte privata, ma dal pubblico: scegliere quante risorse destinare ad un progetto, scegliere se aumentarle o diminuirle, scegliere come affrontare il rapporto con la città spetta al pubblico; le scelte operative le facciamo noi. Pisa è una realtà particolare sotto questo punto di vista perché investe più della media, però negli ultimi anni anche su Pisa abbiamo avuto un aumento esponenziale dei numeri (siamo passati da incontrare nei primi anni di attività 300/400 persone l’anno a 1000 persone) e una riduzione dei finanziamenti, anche se per fortuna i rapporti sono stabili, anche se la stabilità a volte è sinonimo di taglio, perché i rapporti di lavoro cambiano, i costi delle forniture aumentano… però abbiamo avuto anche stagioni importanti di taglio che corrispondevano per altro a quelle di maggiore crescita, per cui si è verificato il paradosso di crescita importante del numero di utenti e taglio dei finanziamenti che ci ha costretto ad acrobazie importanti, perché abbiamo scelto di fronte al taglio di non tagliare i servizi, quindi di non ridurre gli orari di apertura per non danneggiare gli utenti finali, abbiamo scelto di ridurre le ore dedicate al governo e poi abbiamo fatto un lavoro importante di raccolta dei materiali per recuperare risorse. Il rapporto con la mensa è stato consolidato, accrescendo il numero dei pasti da destinare al servizio, abbiamo attivato un rapporto con il Banco Alimentare, che ci ha permesso di avere in maniera gratuita materiale per le colazioni o per la lavanderia, e poi c’è stato un grosso contributo da parte dei nostri lavoratori che, comprendendo l’importanza di mantenere alto il livello di qualità dei servizi, hanno messo a disposizione ore di volontariato (il progetto Paas, ad esempio, è realizzato con ore di volontariato messe a disposizione dai lavoratori della cooperativa).

8. Con riguardo al grado di responsabilità, in che modo sono ripartite tra i soggetti promotori?

R. La parte politica e di indirizzo è appannaggio del pubblico, con una tradizione consolidata, almeno fino ad oggi, di rapporto con chi gestisce orizzontale, perché noi siamo sempre stati coinvolti nelle scelte di indirizzo, nella progettazione della nuova struttura anche dal punto di vista tecnico. La responsabilità della parte operativa è del privato: fare in modo che la struttura funzioni come deve è compito del privato, con un confronto dove necessario con il pubblico.

9. Durante la realizzazione del progetto, il partner privato è stato coinvolto nelle fasi di programmazione e progettazione? Se sì, in che modo?

R. Sì, proprio perché tutto nasce in quel famoso tavolo promosso dalla Caritas, dopo l’emergenza freddo affrontata. Quel tavolo che ha dato vita al progetto periodicamente viene sempre riconvocato, quando ci sono occasioni di questo tipo. È un tavolo che partecipa ala definizione delle linee