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Social Innovation e Partnership pubblico-privato (PPP)

3.2. Forme di interazione in evoluzione: le partnership pubblico-privato

Dopo aver affrontato, nei due capitoli precedenti, il tema dello stato attuale del welfare state, con tutte le problematiche che lo stato sociale si è trovato ad affrontare per mantenere un ruolo importante nel panorama delle politiche sociali, e dell’ascesa del ruolo del Terzo Settore negli attuali scenari di welfare, passiamo ora ad analizzare da vicino uno degli strumenti che sempre di più viene utilizzato come “buona pratica” nell’implementazione delle politiche sociali, tenendo presente il panorama della social innovation appena descritto: le partnership pubblico-privato (da ora in poi PPP).

Il welfare state è uno degli ambiti dell’amministrazione statale più colpito, se non il più colpito negli ultimi tre decenni, dalla pressione riformatrice. L’ondata riformista ispirata ai principi nel NPM e della governance ha segnato in maniera preminente gli strumenti in seno all’amministrazione pubblica per il policy making. Le partnership tra amministrazione pubblica e soggetti privati sono diventate uno degli strumenti più celebrati, promossi ed utilizzati per la realizzazione di opere e servizi pubblici in moltissimi ambiti di policy (Guidi, 2011:9), affiancate da un’esaltazione delle qualità del privato nel sopperire all’inefficacia e all’inefficienza della burocrazia pubblica, portando sulla scena dell’implementazione delle politiche l’attore privato che diventa, in questo caso, partner dell’amministrazione pubblica.

Le PPP rappresentano uno strumento ampiamente riconosciuto, anche in ambito scientifico, come pratica utilizzata in tutte le parti del mondo e in vari settori delle politiche pubbliche; questo successo è dovuto anche al carattere deciso delle PPP, che prendono posizione su una particolare visione dei problemi che si propongono di affrontare e anche sui mezzi necessari per risolverli.

Se prestiamo attenzione alla definizione di PPP che ha fornito la Commissione delle Comunità Europee nel Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni presentata nel 2004, ci rendiamo conto che la PPP si riferisce in generale a:

forme di cooperazione tra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione e la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio.

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Seguendo questa definizione, la PPP viene indicata come una forma di cooperazione tra soggetti pubblici e soggetti privati in vista della realizzazione di un’attività di interesse pubblico. Il partenariato si definisce come un rapporto formale tra soggetti considerati alla pari, dove il soggetto privato diventa partner del soggetto pubblico e per questo coinvolto in tutte le fasi di realizzazione dell’attività, dalla progettazione, al finanziamento, alla gestione economica (Bonfanti, 2016).

Sempre il Libro Verde pone in rilievo le quattro caratteristiche che fanno di una collaborazione tra soggetti pubblici e privati una vera e propria PPP: 1) la durata relativamente lunga della collaborazione, in relazione agli aspetti del progetto da realizzare; 2) la modalità di finanziamento del progetto, garantito in parte dal settore privato e, in misura notevole, dai finanziamenti pubblici; 3) il ruolo dell’operatore economico, che partecipa a varie fasi del progetto (progettazione, realizzazione, attuazione, finanziamento). Solitamente il partner pubblico si concentra sulla definizione degli obiettivi da raggiungere in termini di interesse pubblico e qualità degli interventi, sul rapporto costi/benefici e sul controllo del rispetto di questi obiettivi; 4) la ripartizione dei rischi tra partner pubblico e privato, che in un’impostazione diversa solitamente gravano maggiormente sull’amministrazione pubblica. Ovviamente la ripartizione dei rischi si effettua caso per caso, in funzione della capacità delle parti di gestire e controllare gli stessi (Libro Verde, 2004:3).

Le PPP sono considerate ormai uno strumento a cui ricorrere come alternativa ai tradizionali metodi di esternalizzazione e affidamento dei servizi a soggetti terzi all’amministrazione pubblica. Il loro più grande vantaggio è quello di contribuire al miglioramento della qualità nella realizzazione di un’attività o di un servizio, mirando a ricomprendere in tutte le fasi del progetto il soggetto privato. Questa caratteristica si congiunge perfettamente con il trend in atto che vede «un’evoluzione del ruolo dello Stato e della pubblica amministrazione in campo economico, un ruolo divenuto negli ultimi anni soprattutto di organizzazione, regolazione e controllo […] sorpassando il passato ruolo di operatore diretto nel mercato» (Bonfanti, 2016: 3). Ne consegue che per mantenere un livello qualitativo alto di fornitura di beni e servizi si ha la necessità di una collaborazione ben costruita con il settore privato, collaborazione resa ben salda dal rispetto dei ruoli che, seppur diversi, sono convergenti nella riuscita dell’attività: il

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settore pubblico impegnato a identificare gli obiettivi e il settore privato motivato a raggiungerli, individuando gli strumenti adeguati allo scopo.

La Commissione delle Comunità Europee, sempre nel Libro Verde relativo ai partenariati pubblico-privati e al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni, identifica due tipi di PPP: quella istituzionalizzata e quella contrattualizzata. La prima si forma grazie alla decisione del soggetto pubblico e del soggetto privato (che possono anche essere plurali) di dar vita ad un nuovo soggetto di natura mista impegnato a perseguire un obiettivo condiviso. Possiamo identificarla come la PPP per eccellenza in cui entrambi i soggetti si impegnano a istituire un nuovo soggetto giuridico, investendo denaro, lavoro e prestazioni. L’unico elemento che manca è la ripartizione del rischio per la parte privata, non perché ne sia priva, ma perché il rischio viene assunto dalla nuova società creata e ripartito tra i soci a seconda del grado di partecipazione alla stessa. La seconda, invece, è una PPP formalizzata da un rapporto contrattuale, con l’assunzione dei rischi da ambedue le parti e dei relativi ruoli all’interno della collaborazione.

Ponendo l’attenzione sul significato terminologico dell’espressione PPP, notiamo subito i primi problemi. Parlando di pubblico, siamo portati a rendere giustizia all’equazione pubblico= Stato che si occupa dei cittadini. In questo caso l’aggettivo pubblico non identifica lo Stato che agisce da protagonista nelle politiche pubbliche, ma identifica più i destinatari di questo intervento, cioè la platea dei cittadini a cui queste politiche sono destinate. Eppure quando si parla di partenariato pubblico-privati, soprattutto nel campo delle politiche sociali, il pubblico si riscontra nell’intervento dello Stato e delle agenzie dislocate sul territorio. Quando si parla, invece, di privato siamo proiettati subito verso il privato non profit, il privato sociale, le OTS, quando invece ormai tante esperienze ci raccontano di una storia dove anche il privato profit può avere un protagonismo in partenariati virtuosi. Ai fini della nostra trattazione, possiamo accettare queste due posizioni dal momento che l’attenzione viene qui posta nei confronti delle politiche sociali e dei servizi di pubblica utilità nei confronti di una platea di utenti bisognosa di risposte sempre più urgenti.

Una precisazione fondamentale di cui tenere conto è che dagli anni Ottanta/Novanta le partnership tra enti pubblici, soprattutto locali, e OTS sono cresciute in maniera

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esponenziale, fino a raggiungere oggi, anche dopo gli anni della crisi, ormai quasi la forma ordinaria degli interventi di policy, e in particolare nell’ambito socio- assistenziale. Sostanzialmente si è passati da un sistema in cui per secoli, dal 1600 fino alla fine del 1800, i sistemi di protezione sociale erano a dominanza privata, gestiti da enti caritativi che amministravano i lasciti e le donazioni in favore dei poveri, ad un sistema, dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta/Ottanta del Novecento, in cui la questione dei poveri diventa un ambito a dominanza pubblica da affidare allo Stato (Ferrera, 2006; Carbone, Kazepov, 2007; Esping-Andersen, 2000). Negli anni del “welfare glorioso” predominava la convinzione che il comparto dei servizi sociali fosse governato dal sistema pubblico (Ranci, Pavolini, 2015). Con gli anni Ottanta la partita si rimette in gioco: l’avvento del neo-managerialismo porta con sé la convinzione che il settore pubblico debba abbandonare la gestione diretta dei servizi e affidare la stessa a fornitori esterni attraverso un apposito contratto, ponendosi invece nelle vesti di controllore23. Le amministrazioni centrali iniziano a concentrarsi sul ruolo che meglio si addice, cioè a reperire risorse, fissare obiettivi e affidare la gestione ai soggetti terzi (Guidi, 2011:81). Dunque, sotto la spinta del NPM e del paradigma della governance, le PPP vengono identificate come il migliore strumento in grado di garantire il contenimento dei costi, poiché maggiormente orientate a soddisfare le esigenze dei destinatari degli interventi, e come una nuova arena di partecipazione dal basso e di maggior coinvolgimento dei cittadini e delle associazioni nel processo di implementazione delle politiche pubbliche e sociali. Dagli anni Ottanta in avanti l’utilizzo di PPP sarà il leit-motiv ripetuto in tutte le etichette che hanno in qualche modo riassunto i paradigmi di innovazione e modernizzazione del nostro “fare sociale”.

Se prendiamo quello che alcuni autori (Ranci, 2017; Ascoli, 2011), presentano come il paradigma del welfare mix troviamo pesantemente il valore del welfare come mix, appunto, di attori pubblici e privati; spostandoci al welfare community-societario (Di Nicola, 2011)24 , il senso è quello di coinvolgere il più possibile le comunità locali e le organizzazioni che vivono e operano al loro interno dentro il sistema pubblico degli interventi; il paradigma della social innovation poggia sull’idea di trovare metodi

23 La questione delle trasformazioni dei sistemi di welfare dovuti all’avvento del paradigma del NPM

è stata affrontata nel capitolo primo.

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innovativi per favorire un ripensamento dello Stato sociale come investimento più che come costo e considerano la partnership pubblico, inteso come lo Stato e le sue articolazioni territoriali, e privato non profit una chiave fondamentale per cercare di tradurre in pratica questi assunti fondamentali.

Anche l’Italia, tra gli anni Ottanta e Novanta, è stata interessata da questo crescendo di interesse nei confronti delle PPP, nonostante i ritardi del sistema di welfare sempre un passo indietro rispetto allo scenario europeo. In particolare, seguendo il ragionamento di Guidi (2001: 89-92) è possibile tracciare due cicli di riforma che hanno avvalorato l’utilizzo di questo strumento nelle pratiche di public administration.

Il primo ciclo si può collocare agli inizi degli anni Novanta, interessati dalla riforma degli enti locali tramite la legge 142/199025 e le leggi del 1991 sul volontariato e sulla cooperazione sociale, rispettivamente la legge 266/1991 “Legge-quadro sul volontariato” e la legge 381/1991 “Disciplina delle cooperative sociali”, che hanno rappresentato un punto di svolta nel rapporto tra enti del Terzo Settore e amministrazione pubblica, legiferando in un settore che fino ad allora era rimasto ancorato alla vecchia tradizione cattolica del volontariato religioso. Inoltre gli interventi legislativi degli anni Novanta si ponevano l’obiettivo manifesto di mettere ordine negli assetti costitutivi del welfare state italiano e di istituzionalizzare collaborazioni tra settore pubblico e privato che avevano preso avvio in molte parti dell’Italia in maniera informale.

Il secondo ciclo normativo delle PPP italiane si può collocare negli anni 2000, grazie all’emanazione della legge 328/2000, che riformava il sistema integrato di interventi e servizi sociali, e alla successiva riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione avvenuta tramite la legge 3/2001. Entrambe queste riforme hanno avuto il merito di porre chiarezza in un settore, quello sociale, lasciato troppo tempo in balia di una disciplina rimasta indietro nel tempo e nello spazio; rispettivamente, la legge 328/2000 riformava l’ambito degli interventi e dei servizi sociali, rivoluzionando il ruolo del Terzo Settore, considerato partner non solo per la fornitura dei servizi ma anche per le preliminari fasi di programmazione e progettazione degli interventi. La Riforma del Titolo V della Costituzione sancisce, invece, una svolta nel cambiamento federalista del

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nostro Paese, perché affida maggior risalto alla programmazione locale degli interventi e introduce il principio di sussidiarietà orizzontale per regolare i rapporti tra privato non profit e pubblica amministrazione.26

Nell’attuale scenario italiano, caratterizzato da tentativi di superamento della crisi fiscale, dalla globalizzazione e dalle dinamiche di integrazione europea che sempre più spingono verso un riassetto dell’intera gestione della macchina pubblica, potremmo affermare di trovarci in un terzo ciclo normativo, suggellato dalla Riforma del Terzo Settore avvenuta tramite la legge 106/2016 e i suoi decreti attuativi 117/2017 e 112/2017 che hanno introdotto una disciplina organica delle OTS e rimarcato, ancora di più, il ruolo preminente del Terzo Settore come partner del pubblico nella co- programmazione e co-progettazione delle politiche sociali.

Possiamo, dunque, affermare che la partnership pubblico-privato rappresenta lo strumento ormai più indicato per offrire servizi e interventi appropriati ai diversi bisogni sociali, poiché si suppone che questa modalità organizzativa produca servizi più personalizzati, economicamente più sostenibili, più legittimati dinanzi l’opinione pubblica, più capaci di coinvolgere e responsabilizzare la comunità e gli utenti e più inclini a produrre innovazione sociale rispetto a una gestione totalmente pubblica o affidata al privato profit tout court (Guidi, 2011).

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