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Leggere per essere. La rappresentazione letteraria del bandito e la costruzione delle identità antagoniste nei movimenti sociali.

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INDICE

Introduzione………..…... 2

Sui movimenti sociali in Italia………..………...……8

1. Robin Hood: il bandito eroe………..17

1.1. Il mito nella storia: evoluzione di una leggenda……….…25

1.2. Il mito oggi: due proposte a confronto………45

1.2.1. Robin la volpe……….……..46

1.2.2. Robin e la Magna Charta…………..………50

1.3. Dalla ballata alla memoria collettiva: come i miti ci abitano….……56

1.3.1. Bande metropolitane: costruirsi un’identità nella società liquida………...60

2. Long John Silver e i pirati..………...71

2.1. I pirati: banditi dei mari………..73

2.2. The Treasure Island: quando nasce Long John Silver………79

2.3. La vera storia e il degno erede………...94

2.3.1. Jack Sparrow……….95

2.3.2. La versione di Björn Larsson………...……..108

2.4. Liberi di solcare il mare………...….117

3. Jules Bonnot l’anarchico….……….124

3.1. L’anarchia nella Francia di fine ‘800………...……….124

3.2. Anarchici e letteratura………...132

3.3. In ogni caso nessun rimorso………..140

3.4. Banditi nella sala………...……155

Conclusioni………163

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INTRODUZIONE

Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e, allo stesso tempo, rimango me stesso. 1

Quando iniziai il percorso di studi che va ora a concludersi, lo feci per l’attrazione sconfinata che i libri esercitavano su di me: piccoli mondi racchiusi in poche pagine, creazioni magiche in grado di farmi diventare chiunque, di farmi vivere tutto. Temevo che studiandoli, analizzandone i meccanismi e vivisezionandone le componenti questo incanto si spezzasse. Non è mai successo e anzi mi sono resa conto di quanto il potere della narrazione non riguardi solo i miei sogni e le mie fantasie ma fondi e ricrei la vita di ognuno in ogni momento. Da questa scoperta è nata l’idea del seguente lavoro di tesi che prova a raccogliere la sfida lanciata da Iser quando dice:

Un interprete non può più pretendere di insegnare al lettore il significato del testo, poiché senza un contributo e un contesto soggettivo non si dà nulla. Di gran lunga più istruttiva sarà un’analisi di ciò che realmente accade quando si legge un testo, poiché è allora che il testo comincia a dischiudere il suo potenziale; è nel lettore che il testo prende vita.2

1 C. M. BAJETTA, “Rimanendo me stesso” C.S. Lewis e la critica letteraria, in C. S. LEWIS,

Lettori e letture. Un esperimento di critica, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. 20.

2 W. ISER, Der Akt des Lesens, trad. it. di Granafei R., L’atto della lettura, Il Mulino, Bologna 1987, p. 54.

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Cercherò d’indagare come la lettura influenzi le dinamiche sociale di una comunità e come, a loro volta, esse influenzino la lettura3. Mi

concentrerò su come i meccanismi collettivi di costruzione sociale dell’identità4 influenzino la ricezione del testo e come ne determinino

l’interpretazione, diventando fattori essenziali per la «costruzione-di-coerenza»5ma soprattutto proverò a scoprire nei testi le motivazioni di

un agire collettivo. Per fare ciò dovrò camminare sul limite di due mondi: da un lato quello della letteratura, dall’altro quello dell’immaginario ed è forse il caso di chiarire meglio questi due concetti chiave. Per definire ciò che è letteratura userò le parole di Paduano:

Sono letterari i testi che nei confronti del destinatario avanzano la pretesa di toglierlo – per un intervallo di tempo delimitato, contrassegnato da segnali demarcativi precisi, che hanno valore metalinguistico e funzione rassicurante – dalla vita quotidiana per inserirlo in una dimensione esistenziale alternativa, costituita in forma autosufficiente dalla letteratura medesima. 6

Per immaginario intendo qui tutto quel bagaglio di topoi racchiusi nella mente umana, quelle astrazioni che ci servono quando

3 Per un approccio diretto invece al rapporto singolo lettore-testo che analizzi ciò che avviene all'atto della lettura, consiglio: U. SEILMAN e F. LARSEN, Personal resonance to literature: a study of

remindings while reading, «Poetics», 18, 1989 pp. 165-177.

4 Dove per identità intendo il self indagato da Goffman che «non è un’entità mezzo nascosta dietro gli eventi, ma una formula mutevole per gestirci tra essi. Come la situazione prescrive la maschera ufficiale dietro la quale nasconderci, così prescrive pure dove e come trasparire, e la cultura prescrive che tipo di entità ci dobbiamo credere per aver qualcosa da mostrare in questo modo». (E. GOFFMAN, Frame Analysis, Harper and Row, New York 1974, pp. 573-574, in P. P. GIGLIOLI,

Introduzione, in E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, trad. di P. P. Giglioli, Il

Mulino, Bologna 2013, p. XXI).

5 «La costruzione-di-coerenza [...] in quanto struttura di comprensione essa dipende dal lettore e non dall’opera, e come tale è inestricabilmente intrecciata con fattori soggettIvi, e, soprattutto, con gli orientamenti abituali del lettore». (W. ISER, L’atto della lettura, p. 52).

6 G. PADUANO, Il testo e il mondo: elementi di teoria della letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 20.

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interpretiamo qualcosa di nuovo, quella infinita serie di idee preconcette che usiamo per decodificare il reale contingente e decidere come muoverci in esso: la nostra capacità di agire correttamente in un dato contesto, e d’interagirvi in modo funzionale7 rappresentando

correttamente la nostra parte,8 è data dalla capacità che abbiamo di

decodificarlo secondo schemi mentali preconcetti costruiti mediante la fruizione, la lettura, di altri copioni.9 Quanto queste due realtà siano

interconnesse penso sia lapalissiano; quanto esse siano però spesso tenute lontane e distanti nel mondo accademico credo sia altrettanto evidente. Parlare d’immaginario richiama immediatamente il mondo degli storici della cultura, dei sociologi e di chi, in generale, si occupa di comprendere il reale complesso e variegato che ci circonda. Parlare di letteratura richiama, invece, le lugubri e accoglienti stanze d’una biblioteca polverosa, ricca di libri e solo di libri che solo di libri possono parlare. Ciò è piuttosto buffo se si pensa a quanto la letteratura parli e abbia sempre parlato a, e del, mondo e quanto il mondo sia irrimediabilmente impregnato di letteratura e soprattutto se

7 Quanto questa competenza sia fondamentale nel contesto sociale lo esprime benissimo Goffman dicendo:«essere rozzo o sciatto, parlare o muoversi in modo sbagliato, significa essere un pericoloso gigante, un distruttore di mondi. E, come dovrebbe sapere ogni psicotico e ogni comico, qualsiasi mossa studiatamente impropria può lacerare il velo sottile della realtà immediata» (E. GOFFMAN,

Espressione e identità, Mondadori, Milano 1979, p. 79).

8 La terminologia utilizzata da Goffman nel descrivere le interazioni sociali è volutamente analoga a quella teatrale. Così:«Una “rappresentazione” può essere definita come tutta quell’attività svolta da un partecipante in una determinata occasione e volta in qualche modo a influenzare uno qualsiasi degli altri partecipanti» e più avanti: »Il modello di azione prestabilito che si sviluppa durante una rappresentazione e che può esser presentato o rappresentato in altre occasioni, può essere chiamato “parte”». (E. GOFFMAN, La vita quotidiana come rappresentazione, trad. di M. Ciacci, Il Mulino, Bologna 2013, p. 26).

9 Si veda al riguardo la distinzione tra “narrazioni ontologiche” e “concettuali”: le prime descritte come «relative alla propria identità che si fondano sulla memoria autobiografica » mentre le altre sono definite«i modelli culturali, gli schemi, che vengono utilizzati per interpretare le narrazioni ontologiche» E. DE GREGORIO, La costruzione narrativa dell'azione deviante: analisi dei contenuti

e delle strutture narrative con ATLAS.ti, dottorato di ricerca in psicologia sociale, dipartimento di

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si pensa che i testi stessi non esistono se non in relazione con ciò che vive fuori da essi. Quanto la nostra esistenza sia, e si basi, su un racconto più o meno condiviso che forgia costantemente la nostra percezione del reale e determina il nostro agire lo esemplifica la domanda, tanto provocatoria quanto legittima, di Compagnon, nel

Demone della teoria: «ci innamoreremmo se non avessimo mai letto

una storia d’amore, se non ce ne avessero mai raccontata una?».10 La

psicosociologia ha già da tempo riconosciuto nella letteratura un veicolo di costruzione collettiva del racconto e uno degli strumenti d'azione sul reale:

Romanzi e racconti costituiscono altri modi di rappresentare le esperienze ed al contempo di agire sul mondo, fungendo da elementi attivi nel discorso collettivo, intervenendo e co-agendo al fine dello sviluppo e della modificazione di rappresentazioni sociali (Nencini, Sarrica, romaioli, & Contarello, 2008).11

Se la letteratura influisce dunque sul nostro modo di costruire ed agire il reale, ecco che lo studio della letteratura può divenire una via di comprensione e di esso e di noi stessi. Non solo, la comprensione del mondo che la produce e la fruisce diventa un'altra via d'analisi della letteratura intesa come prodotto sociale. Infatti sono le nostre percezioni, il nostro agire e il nostro percepirci in relazione al mondo e alle nostre azioni in esso a condizionare il nostro modo di ricevere nuove narrazioni:

10 A. COMPAGNON, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, trad. di M. Guerra, Einaudi, Torino 2000, p. 31.

11 A. CONTARELLO, I. MARINI, A. NENCINI e G. RICCI, Rappresentazioni sociali

dell'invecchiamento tra psicologia sociale e letteratura, Psicologia & Sociedade, 23 (1): 171-180,

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Si instaura qui un processo comulativo di tipo circolare: la fruizione crea cioè un bisogno di conferma culturale che a sua volta rinforza la scelta di fruizione da parte degli «utenti».12

Dunque la letteratura crea il proprio lettore almeno quanto il lettore crea la possibilità d'esistenza di un'opera letteraria.

Il caso concreto che prenderò in esame sarà quello della figura letteraria del bandito e la sua interazione con la costruzione identitaria dei movimenti sociali in Italia. Il corpus di testi analizzati, (il lungo metraggio Diseny Robin Hood (1973), i film di Ridley Scott Robin

Hood (2010), quello di Verbinski Pirates of the Caribbean.The curse of the Black Pearl, i romanzi The Treasure Island, di R.L. Stevenson, La vera storia del pirata Long John Silver (1995) di Björn Larsson e In ogni caso nessun rimorso (1994) di Pino Cacucci) è stato scelto

sulla base di criteri del tutto soggettivi, cercando di scovare quelle figure banditesche che, da un lato vengono sentite vicine ed essenziali per la costruzione della propria identità da parte della collettività in esame, dall’altro sono emblematiche di modi differenti di rappresentare il bandito in letteratura.13Per comprendere il senso della

appropriazione identitaria della figura del bandito e come essa influenzi o meno la lettura dei testi relativi, ho voluto analizzare, seppure brevemente, le principali tappe diacroniche dell’evoluzione letteraria dei personaggi considerati, partendo da quella sorta di narrazione zero che è la Storia o, per meglio dire, la narrazione

12 P. R. DONATI e M. MORMINO, Il potere della definizione: le forme organizzative

dell’antagosnismo metropolitano, in A. MELUCCI (a cura di), Altri codici, Il Mulino, Bologna 1984,

p. 364.

13 Cercherò, per quanto mi sarà possibile, di non considerare in sede d’analisi dei testi la tanto controversa volontà autoriale. Adotto al riguardo la frase di Ricoeur«Ciò che dice il testo importa di più di ciò che ha voluto dire l’autore» (RICOEUR P. , Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1989, p. 187).

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storica. Non è mia intenzione indagare quanto i testi siano o non siano fedeli ad essa, bensì mi interessa capire quali aspetti ne vengano sottolineati e quali invece tralasciati, per evidenziare quale sia la prospettiva che la figura del bandito incarna nell’immaginario contemporaneo. Allo stesso modo mi interessa sottolineare quali aspetti di questa prospettiva vengano poi ribaditi e interiorizzati dai movimenti sociali per scendere a fondo di quale possa essere la ricezione dei testi e per quale ragione e per quali spinte essa avvenga in un determinato modo.

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SUI MOVIMENTI SOCIALI IN ITALIA

La comunità specifica della quale cercherò di indagare le modalità di ricezione e riuso della figura del bandito è quella dei movimenti sociali in Italia dell'area della sinistra antagonista o radicale. L'aggettivazione «antagonista» si riferisce qui a un atteggiamento conflittuale tenuto nei confronti della comunità altra a quella del movimento, conseguente, almeno in parte, alla radicalità della proposta politica che spesso interessa tutti gli ambiti del vivere sociale e rende quindi complessa una relazione non conflittuale con chi non aderisce a quella stessa proposta.14 La definizione forse più difficile è

invece quella di movimento sociale poiché è il tentativo di fissare un soggetto sociale per sua natura fluido. Nell’iniziare la sua trattazione al riguardo, Gagliano definisce il proprio oggetto di studio come quei movimenti che:

Sono accomunati da forti identità ideologiche collettive volte alla rottura e/o al cambiamento parziale o radicale del sistema dominante.15

Dato quanto imposto dal senso comune e da un razionalismo materialista, si vorrebbe pensare che questa ribellione al sistema dominante nasca in quelle classi sociali che vedono frustrata la loro possibilità di accedere a quei beni materiali di cui le classi dominanti possono usufruire. In realtà gli studi sociologici al riguardo evidenziano come

14 S. BONI, Vivere senza padroni. Antropologia della sovversione quotidiana, Elèuthera, Milano 2006, p. 18-19.

15 G. GAGLIANO, Problemi e prospettive dei movimenti antagonisti del novecento. Temi, strutture

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Il senso che il singolo attribuisce all’azione non è quello di migliorare la propria posizione all’interno della società, di modificare i rapporti di potere o le disuguaglianze sociali ma […] l’individuo è fondamentalmente impegnato nella costruzione della propria identità personale. 16

Quest’impostazione nello studio dei movimenti sociali, il cui più importante esponente in Italia fu Alberto Melucci, contrasta con molti degli studi precedenti che vedevano i movimenti come attori storici mossi da ragioni strutturali:

Per molto tempo, parlare di attori della storia si riduceva a situarli nei conflitti, nei cambiamenti, nei problemi strutturali dove essi avevano trovato la loro ragion d’essere. […]. Gli attori erano le figure umane di questi conflitti strutturali.17

L’ottica di Melucci illumina il fenomeno da una prospettiva del tutto differente che parte dal considerare i movimenti sociali alla pari di ogni altra relazione sociale:

Le relazioni sociali esistono in quanto produttrici e portatrici di significati. In quanto tali essi rinforzano l’identificazione partigiana e permettono agli attori di collocarsi nel più vasto mondo sociale articolando i propri interessi e valori, identificando amici e avversari, alleati potenziali e avversari irriducibili.18

16 L. LEONINI, Introduzione, in L.LEONINI (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società

planetaria, Guerini, Milano 2003 p. 34.

17 A. TOURAINE, Azione collettiva e soggetto personale nell’opera di Alberto Melucci, trad it. di A. Fabbrini in LEONINI L. (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società planetaria, cit., pp. 43-44.

18 M. DIANI, La base relazionale delle identità di movimento: riconsiderare la «novità» nei «nuovi

movimenti sociali», in LEONINI L. (a cura di), Identità e movimenti sociali in una società planetaria,

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Dunque se la funzione di ogni relazione sociale è quella di posizionare se stessi nel mondo sociale, la funzione specifica della relazione sociale «movimento» può essere vista come:

Una forma di azione collettiva basata su una solidarietà, che esprime un conflitto attraverso la rottura dei limiti di compatibilità del sistema di riferimento. 19

La definizione di Melucci resta piuttosto generica per poter abbracciare un vasto numero di fenomeni ma, definendo meglio il campo d’interesse e concentrandosi sui movimenti italiani appartenenti all’ambito della sinistra e debitori del percorso dei Social Forum, di cui per l’appunto De Nardis si occupa, trovo interessante la descrizione che ne ricava a partire da quattro caratteristiche:

1) Tutti i movimenti tenderebbero a strutturarsi attraverso reti relazioni informali, costituite da un insieme di rapporti formalizzati che coinvolgono individui e gruppi fornendo le precondizioni per la mobilitazione collettiva (Della Porta 1988);

2) Naturalmente, per far sì che la struttura a rete si realizzi occorre che i partecipanti al network di movimento condividano credenze e sviluppino un senso di solidarietà collettiva (Melucci 1989);

3) Un movimento così strutturato tenderà a mobilitarsi attraverso forme di azione collettiva di tipo prevalentemente conflittuale (Touraine 1989);

4) Infatti, la natura sostanzialmente non-istituzionale dei movimenti sociali (Alberoni 1981) fa sì che essi prediligano forme di azione che attribuiscono un ruolo determinante alla protesta pubblica, tipica dei movimenti contro-culturali e politici.20

19 A. MELUCCI, Movimento in un mondo di segni, in A. MELUCCI (a cura di), Altri codici, Il Mulino, Bologna p. 423.

20 F. DE NARDIS, Cittadini globali. Origini e identità dei nuovi movimenti, Carocci, Roma 2005 p. 30.

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La relazione che mi interessa istituire ai fini del seguente lavoro di tesi è quella tra la dimensione solidaristica, rivolta all’interno del movimento, e la dimensione conflittuale rivolta verso l’esterno. Entrambe queste spinte opposte servono a costituire e segnare l’identità del movimento. La centralità della definizione identitaria dei movimenti nella società contemporanea come chiave di lettura dell’azione e della simbologia del movimento è un tema ampiamente dibattuto: già Tarrow aveva notato che:

Benché i movimenti spesso ricorrano alla protesta per ottenere dei vantaggi, questi vantaggi per le organizzazioni dei movimenti non vanno visti in termini strettamente economici, quanto strumentali ai loro più ampi interessi, che sono quelli di consolidarsi, di mantenere la loro coesione interna e reputazione esterna, di distinguersi da nemici e concorrenti. Ecco perché non possiamo sperare di capire i movimenti sociali come semplici aggregati di desideri dei singoli di ottenere benefici economici «razionali».21

Nell’analisi successiva di Melucci, come Touraine osserva,

Egli presenta le società contemporanee […] come società in cambiamento costante e soprattutto società nelle quali l’identità si frammenta fino al punto, e questo è l’essenziale, che non è più la ragion dell’azione ma il suo obbiettivo. […] l’azione collettiva diventa autoreferenziale.22

La ricerca è dunque quella dell’identizzazione cioè quella del soggetto:

Come sforzo degli individui per costituirsi come attori il cui obbiettivo principale è questo: esistere come soggetti singoli e coerenti.23

21 S., TARROW, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990 p. 10.

22 A. TOURAINE, Azione collettiva e soggetto personale nell’opera di Alberto Melucci, cit. p. 50. 23 Ivi, p. 56.

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Il tentativo non è di creare un’identità in senso individuale ma:

L’immagine di noi stessi come persone che cercano di imporre al mondo diverso e mutevole delle esperienze la loro unità come soggetti.24

Dunque non stupisce che la maggior parte degli attivisti all’interno dei movimenti sociali siano quei soggetti sociali che più di ogni altro stanno cercando di affermare la propria immagine di se stessi nel mondo, vale a dire gli adolescenti. Al riguardo Smesler nota:

Gli studenti e gli adolescenti in generale hanno un tasso elevato di partecipazione a vari tipi di esplosioni collettive; una ragione è che essi si trovano in un’età che rappresenta un «intervallo» tra il ruolo relativamente ben definito di bambino e l’insieme altrettanto ben definito di ruoli occupazionali, familiari o religiosi dell’adulto. Quando i giovani entrano in questi ruoli adulti, la loro tendenza a partecipare a episodi collettivi, sia frivoli che seri, in generale diminuisce. 25

Questa necessità di fondare la propria identità viene complicata e arricchita dalla pratica dei movimenti delle cosiddette «identità multiple»,26 vale a dire dell’abitudine dei militanti a partecipare a più

movimenti contemporaneamente. Questa forma di attivismo nasce e si sviluppa in parallelo con lo svilupparsi dei movimenti monotematici (No Tav, No Mous, etc) che spesso non esauriscono il bisogno di chi li attraversa. L’agire luoghi e pratiche differenti non è sempre accettato in egual misura proprio perché appartiene a una visione aperta e fluida dei movimenti che, nei momenti di minor forza, rischia di mettere in crisi la coesione del movimento:

24 Ivi, p. 55.

25 N. J. SMELSER, Le dimensioni sociali e psicologiche del comùportamento collettivo, in A. MELUCCI (a cura di), Movimenti di rivolta. Teorie e forme dell’azione collettiva, Etas libri, Milano 1976 pp. 114-115.

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In situazioni diverse, in cui è forte il peso delle singole identità e ideologie, la tendenza sarà quella di impostare reti di relazioni dense e ben integrate però con un forte rischio di frammentazione. Finché sussisterà una forte ideologia unificante prevarrà la tedenza a costruire forme di network a

clique (Della Porta, Diani 1997) in cui gli attori sono coinvolti in relazioni

intense con una forte propensione ad attivare scambi. […] Nella fase di basso impegno pubblico, le reti di movimento si possono addirittura dissolvere lasciando il campo ad organizzazioni chiuse, di tipo settario, o tutt’al più di carattere contro-culturale.27

La forma intermedia tra le identità multiple e le forme di attivismo settario può essere considerata quella della rete relazionale più blanda dell’area che, pur mantenendo il principio del network, regola e controlla in modo più saldo e formalizzato i rapporti garantendo una più semplice gestione delle identità:

Le aree di movimento sono definite in termini empirici dalla presenza di un reticolo di aggregazioni che condividono la cultura del movimento. Gli indicatori empirici per la determinazione di un’area sono: a) l’esistenza di aggregazioni con qualche carattere di stabilità (un nucleo identificabile di partecipanti, una localizzazione, una certa continuità nel tempo); b) la presenza di un’autodefinizione del gruppo come parte del movimento; c) l’esistenza di un reticolo più o meno esplicito di relazione tra i gruppi.28

Sia nelle fasi di maggior settarismo, sia in quelle di maggior apertura, i movimenti non fondano la loro coesione su atti formali di adesione ma su un senso di appartenenza e di solidarietà:

Un presupposto fondamentale alla riuscita di mobilitazioni collettive sta nel mantenere coeso un movimento sociale. La sua natura mobile impone che l’assenza di legami formali sia compensata con la costruzione di legami sostanziali, di «solidarietà». Essa, fin dall’Ottocento, è stata considerata come la capacità della collettività di agire verso gli altri come un soggetto unitario (Gallino 1978), una predisposizione verso l’alterità che si realizza all’interno come risorsa coesiva.29

27 Ivi, p. p 54-55.

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Questa ricerca di appartenenza e di coesione ha un’importanza primaria nella vita del movimento: attraverso la costruzione di identità collettive alternative è possibile generare un conflitto radicale, altrimenti non generabile:

Nei movimenti sociali, i gruppi (essi stessi dei media) assolvono alla funzione di consentire agli individui di ridefinire le relazioni simboliche tra di loro, rispetto alla società, rispetto alla natura, ricreando reti di rapporti che si contrappongono radicalmente alla «massa» ed alla sua atomizzazione.30

Le reti di rapporti e i rituali a cui è affidata la loro reificazione diventano, quindi, il centro della sfida al potere che non riesce più a inglobare magmaticamente il conflitto:

Nella circolazione indiscriminata dei segni, i messaggi sono tutti compatibili, anzi, quanto più sono «critici» tanto più circolano velocemente e contribuiscono ad alimentare l’energia complessiva del sistema. Di qui il trasferimento delle potenzialità di conflitto, che dai mesaggi, i contenuti, passano alle forme, alle modalità di relazione simbolica, ai rituali.31

Per riuscire a costruire una forte identità in uno stato tanto fluido è necessario un racconto condiviso, una mitologia di se stessi che guidi i comportamenti dell’individuo ma in relazione ad istanze collettive. Ecco allora che la letteratura diventa uno strumento privilegiato.

[La letteratura] ha il vantaggio di riflettere al tempo stesso un mondo immaginario e una realtà, più o meno simbolizzati. Esso si pone al punto d’incontro tra l’individuale e il collettivo.32

29 F. DE NARDIS, Cittadini globali, cit. p. 85.

30 J. SASSOON, Ideologia, azione simbolica e ritualità: nuovi percorsi dei movimenti, in A. MELUCCI (a cura di), Altri codici, cit. p. 386.

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Ma da quale deprivazione33 nasce il conflitto? Come ho detto

l’identizzazione del soggetto e il suo posizionamento nella società è una parte della risposta ma credo insufficiente senza una spiegazione più esatta del perché il sistema di potere regolarizzi questa identizzazione e quale forma di dominio tenti di salvaguardare. Al riguardo propongo un’analisi di Bourdieu:

Strutturando la percezione che gli agenti sociali hanno del mondo sociale, la nominazione contribuisce a fare la struttura di questo mondo e tanto più profondamente quanto è più largamente riconosciuta, cioè autorizzata. Non vi è agente sociale che non aspiri, nella misura dei suoi mezzi, a questo potere di nominare e di fare il mondo nominandolo.34

I sistemi sociali contemporanei agiscono paradossalmente su questo potere, estendendone la disponibilità teorica ma regolandone la possibilità effettiva:

I sistemi complessi si producono attraverso un’estensione della capacità simbolica e della capacità riflessiva: l’informazione ne diviene la risorsa fondamentale. […] Essi spostano cioè la regolazione verso la capacità individuale di produrre senso, verso le strutture biologiche e motivazionali dell’agire umano. In questo paradosso sistemico si radicano i conflitti antagonisti nelle società contemporanee.35

In altre parole, la società contemporanea estende la possibilità di rendersi autori del reale ma allo stesso tempo istituisce su questa possibilità un campo di conflitto. Coscienti di questo, i movimenti

32 M. J. CHOMBART DE LAUWE, I segreti dell’infanzia e la società: nella letteratura, nelle

comunicazioni di massa, nella ricerca teorica, Armando, Roma 1977, p.14.

33 Dato che, come nota Smelser: «Ci deve essere un qualche tipo di «spinta» più attiva all’azione e ciò ssume normalmente la forma di qualche deprivazione reale o immaginaria». N. J. SMELSER, Le

dimensioni sociali e psicologiche del comportamento collettivo, cit. p. 116.

34 P. BOURDIEU, Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques, trad it. di Silvana Massari, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Guida, Napoli 1988 p. 99. 35 A. MELUCCI, Alla ricerca dell’azione, in A. MELUCCI (a cura di), Altri codici, cit. pp. 18-19.

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sociali si costituiscono e agiscono in modo da poter affrontare la sfida del contro-dono:

Sul piano simbolico il dominio si afferma quando viene preclusa la possibilità della reversione del dono n e l contro-dono (Mauss 1965, Baudrillard 1979). Il potere unilaterale di donare, di generare ed offrire modelli e forme rappresentative – estensione del principio di nominazione – è ciò che riproduce continuamente il predominio degli apparati sugli individui e l’inerzia, l’apatia delle masse. A tale asimmetria, ed al rapporto di dominazione che essa fonda, i movimenti tentano di sottrarsi nella logica dell’obbligazione simbolica: vale a dire, rispondendo ai modelli imposti dagli apparati con l’offerta di modelli alternativi cui il sistema a sua volta non possa replicare (non negoziabili).36

Proprio per questo i movimenti sociali hanno bisogno di narrazioni nuove, di costruire modelli alternativi a partire da racconti e storie e si prefiggono spesso l’obbiettivo di sperimentare e offrire modelli e forme rappresentative e relazionali inedite:

Dove i movimenti si misurano è piuttosto nel tentativo di offrire: non tanto dei «contenuti» o dei «messaggi» (troverebbero ben poca gente disposta a credervi), quanto forme diverse di relazione simbolica, modi diversi di percezione e produzione del sociale. 37

Queste nuove relazioni simboliche devono fungere da guida e rendere comprensibile, all’interno e all’esterno, i confini dell’appartenenza. Proprio come le nazioni necessitano di miti fondativi e di eroi modelli, allo stesso modo i movimenti sociali ricercheranno in narrazioni condivise le basi della loro coesione. Analizzare il ruolo e la funzione della figura letteraria del bandito e come essa sia centrale in questa produzione d’identità è il mio intento.

36 SASSON J., Ideologia, azione simbolica e ritualità: nuovi percorsi dei movimenti, in A. MELUCCI (a cura di), Altri codici, Il Mulino, Bologna 1988, p. 402.

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1. ROBIN HOOD: IL BANDITO EROE

Tra le tipologie di bandito esistenti nel panorama letterario è di certo quella del bandito sociale, del bandito eroico ad aggiudicarsi più facilmente l'empatia del lettore. Il bandito che ha preso la strada dell'illegalità per sbaglio, per ingiustizie subite, per corruzione e crudeltà della società e che dedica la propria esistenza alla difesa dei poveri e degli ultimi ha una lunga tradizione nella letteratura. Il bandito-eroe più famoso, il primo a tornare alla mente di molti, tanto da essere diventato uno stereotipo è Robin Hood. È facile intuire come, anche nel caso dei movimenti sociali, questa figura abbia una rilevanza particolare. Prima ancora di analizzarla nel dettaglio si può ipotizzare che la sua caratteristica di difensore dei poveri e degli oppressi contro i ricchi e i potenti la renda allettante per i lettori attivisti. Per verificare questa ipotesi, e comprendere meglio in che modo si sviluppi la relazione tra il personaggio e i suoi lettori, mi accingo a delineare il contesto storico del banditismo medievale prima di dare uno sguardo d'insieme alla tradizione letteraria che ha tramandato sino a noi la figura di Robin Hood. Vorrei, infatti, evidenziare i tratti evolutivi del racconto e come esso possa essere passato dall'essere fatto storico, all’essere racconto popolare, letteratura colta, cinema e infine elemento dell'immaginario dei movimenti sociali.

La storia del banditismo, nell’Europa d’Ancien Regime e in quella moderna, si sviluppa come storia di conflitti sociali.38 Con il formarsi 38Eric Hobsbawm al riguardo parla di una delle«forme più primitive di riforma e di rivoluzione» (E. HOBSBAWM , I banditi, trad. it E. Rossetto, Einaudi, Torino 1974 p. 23).

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del complesso sistema di potere che governava, con tutte le particolarità regionali, l’Europa feudale, i contadini erano diventati il ceto che sopportava il gravoso incarico di produrre quanto era necessario al proprio sostentamento e a quello dei guerrieri:

È stata senza dubbio una grande rivoluzione quella che, nel corso del X secolo, ha praticamente eliminato la vecchia distinzione della società cristiana in liberi e servi per sostituire a tale antica dicotomia […] quella più pratica e significativa in m i l i t e s e rustici, che implicava l’individuazione di un confine preciso non già nel campo normativo-istituzionale, bensì in quello delle funzioni sociali e dei generi di vita, tra coloro (i pochi, in fondo) che avevano il privilegio di portare le armi e di combattere ed erano per questo normalmente esenti dal sopportare il carico delle imposizioni bannali e coloro (la stragrande maggioranza dei laici) dai quali ci si aspettava un impegno nel mondo della produzione tale da soddisfare alle loro stesse peraltro limitate esigenze e a quelle, un po’ più pesanti e sofisticate, di quanti dei frutti del loro lavoro avevano il privilegio di poter vivere.39

Nel corso del Medioevo si andarono delineando i rustici con caratteristiche omogenee in tutta Europa:

Individuo con una propria specifica vita che lo differenziava dagli artigiani e dai cittadini, parte di una famiglia che costituiva per lui la prima e naturale cellula sociale, membro di una parrocchia che lo iscriveva fin dalla nascita alla cristianità […] il contadino era anche componente della comunità rurale locale. Quest’ultima realtà, al di là di diversità anche sensibili da una regione all’altra e nel corso del tempo, rendeva simili tra loro i contadini di tutta l’Europa, anche se non mancavano […] fenomeni di uomini della campagna che vivevano in solitudine (il che non significa necessariamente tuttavia del tutto slegati dalla comunità d’origine), e se diventeranno via via più numerosi, in conseguenza dello stesso sviluppo economico, gli sradicati, i vagabondi, i mendicanti, i briganti e i delinquenti di origine contadina.40

39F. CARDINI, Il guerriero e il cavaliere, in a cura di LE GOFF J, L’uomo medievale, Laterza, Bari 2006 p. 83.

40G. CHERUBINI, Il contadino e il lavoro nei campi, in a cura di J. LE GOFF, L’uomo medievale, Laterza, Bari 2006 pp. 139-140.

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Proprio perché facenti parte dell’anello più debole dell’ordine sociale, obbligato a pagare col proprio lavoro i servizi di protezione e amministrazione resi dal signore, i contadini erano anche coloro i quali soffrivano di più le frequenti crisi economiche41 e sociali del

Medioevo, non a caso il fenomeno del banditismo è a esse strettamente correlato.42 Un gradino più in alto, a metà strada con i

signori, si trovavano in Inghilterra gli yeoman: artigiani, piccoli proprietari terrieri o lavoratori specializzati. Un tipo particolare di yeoman era l’«armed attendant» al servizio del signore43 normalmente

scelto per le sue doti di arciere anche in forza dell'economicità dell'arco rispetto all'attrezzatura da cavaliere, ruolo riservato alla nobiltà. Gli yeomen e i contadini raramente entravano in conflitto e anzi si percepivano parte di una comunità omogenea. Al contrario potevano rimproverare diverse cose al signore: dall’eccessiva propensione alla guerra all’introduzione di nuove imposizioni pecuniarie:

Il conflitto assumeva più spesso le forme della resistenza silenziosa o dell’accordo, ma esplodeva ripetutamente anche nella sommossa aperta, talvolta, quando gli interessi contadini erano comuni ed emergevano capi locali più capaci, anche in sommosse regionali o super regionali.44

41L’economia agricola contadina del Medioevo si fondava su di un «desiderio primario di autarchia e di autosufficienza presente in tutte le comunità rurali e non estraneo neppure ai proprietari cit.,tadini e ai ceti superiori della società […] la fragilità dell’agricoltura di fronte ai capricci della natura e la minaccia sempre incombente della carestia, unite alla difficoltà dei trasporti a distanza dei prodotti agricoli, forniscono la spiegazione di fondo di questo atteggiamento» Ivi,, p. 133.

42 E. HOBSBAWM , I banditi, cit., p. 17.

43 A. PUTTE e J. GILBERT, The Spirit of Medieval English Popular Romance, Routledge, Florence 2000 p. 83.

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Queste rivolte si concludevano quasi sempre con sanguinose repressioni che ribadivano il potere del signore relegando i contadini al ruolo di vinti e oppressi.

La popolazione agricola e delle campagne viveva in piccoli villaggi non fortificati anche se non mancava un popolamento sparso. Generalmente, però, i luoghi al di fuori dello spazio abitato venivano percepiti come pericolosi e quindi evitati:

Nell’immaginazione medievale, i luoghi deserti e le zone selvatiche coperte di boschi svolgevano un ruolo piuttosto notevole: suscitavano paura, costituivano la negazione naturale della vita sociale.45

In questa assenza di società, e quindi anche di legge e repressione, trovavano spesso rifugio i banditi. A volte descritti come eroi martiri, altre come bestie spietate, i banditi avevano un rapporto ambiguo con le comunità di riferimento. Ma cosa voleva dire essere ‘banditi’? Il bando era un’istituzione antica che, nel diritto romano poteva variare considerevolmente nella sua applicazione traducendosi in esilio da un determinato luogo o in obbligo di permanenza in un altro. Per quanto riguarda il periodo medievale la sua applicazione si conforma alle «leggi barbariche» per cui:

Esso sostituisce il sacrificio della vita, il quale potrebbe costituire un’indennità nella violazione di un ordine sacro. Il bando è dunque esclusione dal diritto di pace, significa spogliare l’uomo dei suoi diritti naturali, privarlo della sua condizione vera e propria. La Lex Salica (55,2) sentenzia che il bandito«vagus sit». Ciò vuol dire che va trattato come un lupo, quindi scacciato dalla collettività umana, e la sua uccisione sarebbe un mezzo legittimo di difesa.46

45B. GEREMEK, L’emarginato in a cura di J. LE GOFF, L’uomo medievale, Laterza, Bari 2006, p. 399.

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Inoltre, fin dal più antico diritto romano, a colui che viene bandito è dato il divieto di acqua e fuoco («interdictio acquae et ignis») ovvero sia la perdita dei benefici di residenza e ospitalità simboleggiati dalla possibilità di dissetarsi e di riscaldarsi. In generale si può quindi dire che il bandito fosse qualcuno che la società sceglieva di marginalizzare, di escludere e relegare fuori dai suoi confini. Per quanto dura ci possa sembrare oggi la pratica del bando, soprattutto considerando la generosità con cui veniva usata, bisogna considerare la diversa visione antropologica da cui nasceva il diritto medievale.

All’origine di molte legislazioni statuali c’è un’idea diffusa e comune a molti: il delinquente non è una persona che ha commesso un determinato delitto, e per questo viene incriminato, ma invece è uno che ha «una naturale attitudine al male». L’attitudine al male è una propensione che, proprio perché sarebbe naturale, è inestirpabile e di conseguenza non è compatibile con la convivenza con i suoi simili.47

È interessante notare che il bando, inteso nel senso medievale di esilio, non impedisce di stabilirsi pacificamente in un altro luogo. La durezza di questo provvedimento fonda le sue basi sull’importanza che aveva nell’immaginario dell’epoca il radicamento spaziale nella vita di un individuo:

La promozione della stabilità era un fenomeno comprensibile in un tipo di società le cui strutture di base si formavano nelle condizioni di grandi migrazioni che facevano del nomadismo uno stile di vita largamente diffuso. Indipendentemente dai cambiamenti al livello di mobilità, quali si hanno nel corso del Medioevo, l’associare la mobilità spaziale al senso di pericolo dell’ordine sociale rimane un elemento costante.48

47 E. CICONTE, Banditi e briganti: rivolta continua dal cinquecento all’ottocento, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, p. 41.

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Si può dire che l’essere bandito, a differenza dell’essere criminale, fosse uno status relazionale: si era banditi rispetto a una comunità. Senza questo termine di paragone il termine stesso di bandito sarebbe stato insensato. In una simile punizione si poteva incappare per i motivi più disparati, non era certo un fatto raro49 e non capitava

sempre e solo a poveri disgraziati portati al crimine dalla fame e dalla disperazione. Le lotte politiche interne all’Italia del ‘500 furono una vera e propria fucina di banditi.

In Abruzzo il banditismo teramano degli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento «non è altro che una guerriglia nobiliare». Tutti si confondono con i criminali comuni con i quali condividono il nome che li designa e che viene adoperato senza andare tanto per il sottile: banditi.50

E allo stesso modo nell’Inghilterra di Edoardo II verranno dichiarati banditi i Contrariants del conte Lancaster.51 Il fenomeno arrivò ad

assumere tali dimensioni che:

Una delle principali cause dell’abbandono delle campagne nel secolo XIV fu proprio il brigantaggio, che spingeva le popolazioni disperse nei campi a raggrupparsi in località più facilmente difendibili.52

Spesso coloro i quali venivano chiamati banditi da una fazione, dall’altra venivano onorati come eroi. Al riguardo non posso per altro non citare il caso assai più recente della lotta partigiana in Italia che, per motivi ovvi, riveste un ruolo centrale nell'immaginario dei

49Ivi, p. 403:«Le persone che troviamo negli archIvi, criminali sono fondamentalmente gente comune, inserita nel mondo del lavoro organizzato, in contesti familiari e di buon vicinato, ma che, ad un certo momento, all’improvviso o gradualmente ha rotto con tali strutture».

50E. CICONTE Banditi e briganti: rivolta continua dal cinquecento all’ottocento, cit., p. 29 . 51 Sulle vicende del Conte Lancaster sotto il regno di Edoardo II, si consiglia la lettura di a cura di Z. N. BROOKE, C. W., PREVITè-ORTON , e J. R. TANNER, Storia del mondo medievale, ed ita Alberto Merola, Garzanti, Milano 1983, pp. 696-708.

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movimenti sociali in Italia ed è spesso citata come esempio di rivendicazione del termine «banditi »:

I partigiani in Italia erano definiti banditi perché, fino a quando la guerra non è volta alla trasformazione, alla vittoria, cioè nel senso, dei movimenti antifascisti, cioè, è della sconfitta, cioè nel senso, dell'asse nazisti-fascisti, cioè, e giapponesi, evidentemente, cioè nel senso, la storia la dettava e la scriveva, cioè, chi... chi stava al potere.53

Dunque vediamo delinearsi due macro tipi di banditi storici: da un lato il povero, l’anello debole della struttura sociale che, schiacciato dalla necessità o dall’ingiustizia, si trova a violare la legge e diventare bandito;54 dall’altro il bandito politico che, perduta la partita, si vede

costretto a fuggire per evitare le ritorsioni. Se i secondi hanno spesso un chiaro disegno politico e rivoluzionario, i primi, condividendo la cultura e il sistema valoriale proprio della società rurale da cui nascono, avranno la tendenza a essere in realtà conservatori o, come li definisce Hobsbawm, «tradizionalisti rivoluzionari»:55

Il programma dei banditi, quando ne hanno uno, è di difendere o restaurare l’ordine tradizionale, di ristabilire le cose «come dovrebbero essere» (e cioè, per le società tradizionali, come si credeva che fossero in un passato, reale o mitico).56

La loro funzione non è tanto quella di costruire una società egalitaria e più giusta, quanto quella di raddrizzare i torti e offrire una speranza di riscatto.

53 Intervista Alessandro R. min.2.15. Le interviste sono state eseguite come interviste semistrutturate e vengono trascritte secondo il metodo ortografico.

54Al riguardo Hobsbawm«[i banditi] restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia.» (E. HOBSBAWM , I

banditi, cit., p. 12).

55 Ivi, p.21 56Ivi, p. 20.

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Essi non possono abolire l’oppressione, ma stanno a dimostrare che la giustizia è possibile, che i diseredati non è necessario che siano umili, impotenti, mansueti.57

Parte dell’interesse suscitato dalla figura di Robin Hood può essere giustificato dal fatto che, nelle versioni giunte fino a noi, sembra conciliare entrambi gli aspetti. Se infatti è vero che:

Robin è subito presentato come l’incarnazione dell’onore, come colui che s’incarica della punizione. Corregge il male suscitato dall’avidità di ricchi prelati e dalla corruzione di funzionari reali. Ma non cerca di rovesciare le regole sociali; al contrario, le sostiene e le appoggia contro le macchinazioni dei potenti che le sfruttano, se ne fanno vanto e le scalzano.58

È anche vero che, di fatto, Robin sembrerebbe caldeggiare un radicale cambiamento ai vertici delle autorità. Anche per questo il nome stesso di Robin Hood è diventato simbolo di riscatto contro le ingiustizie e i soprusi59 perpetrati da potenti corrotti e malvagi che, o si vedono

costretti a rispettare quelle regole che avevano vilipeso, o si prendono la meritata punizione attraverso un’infallibile freccia. Tutto molto

57Ivi, p. 50.

58J. C. HOLT, Robin Hood. Storia del ladro gentiluomo, trad it G. M. Griffini, Mondadori, Milano 2005 pp. 14-15.

59 Va detto che l’abitudine di rubare ai ricchi per dare ai poveri e l’incredibile generosità del fuorilegge è un dettaglio che viene introdotto nel 1632 da Martin Parker in The true tale of Robin

Hood dove si dice: I poveri incolumi potevan passare,/ e alcuni di passare sceglievano,/ chè ben già di

lui sapevano/ disposto esserli sempre ad aiutare. (G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di

Robin Hood. Sulle tracce dell'eroe fuorilegge e delle sue generose imprese, trad. it. , Piemme, Segrate

1996, p. 45). Parker prende l’idea, probabilmente, da un episodio della Gest in cui Robin presta a un cavaliere caduto nelle sue mani, i soldi per il riscatto del figlio. Sempre nella Gest ha probabilmente trovato spunto dalla stanza introduttiva e in quella finale dove si dice: Cryst haver mercy on his

soule,/that dyed on the rode./ For the was a good outlawe/and dyde pore men moch god. […] No more ye shall no gode yeman/ that walketh by grene-wode shawe;/ ne no knyght ne no squyer/ that wol be a gode felawe. (della sua anima abbia pietà il Cristo,/ che in croce è morto./Era infatti un buon

brigante,/la gente povera ha molto soccorso. […] Ma guardati bene dal fare male al contadino/ che lavora la terra con il suo aratro./Non dovrai fare del male ad ogni buon yeoman/ che passa fra gli alberi della foresta/ e nemmeno al cavaliere e neanche allo squire/ che sarà una brava persona. Trad.it in G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin Hood, cit., p. 57-58) Altrove però Robin non si nessun problema a derubare della povera gente come in Robin Hood and the Potter, ballata ritrovata sul verso di un documento del 1502 col dettaglio delle spese per il banchetto di matrimonio dalle figlia di Enrico VII.

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appagante per il pubblico che ha premiato la storia con una lunghissima fama che arriva fino a popolare l'immaginario dei movimenti sociali.60 Ma come nasce la leggenda e come si evolve? È

possibile ritrovare dei dati storici alla base dei racconti e vi è qualcosa di reale nella visione di un Robin Hood difensore dei poveri contro i soprusi? Come si è arrivati nei secoli a delineare la figura che oggi pervade il nostro immaginario? Sull’esistenza storica di Robin Hood si è molto dibattuto e si dibatte tuttora.61 In questa sede non interessa

entrare nella discussione se non per proporre un’analisi di quello che potrebbe essere stato il personaggio di partenza della storia e poter poi vedere come questa si è modificata. Se quel personaggio avesse o non avesse, all’epoca, basi storiche, importa poco. Certo è che fin da tempi remoti sembra essere diffusa l’idea che Robin sia un personaggio effettivamente esistito per quanto le sue gesta non si trovino registrate in nessun archivio e nessun contemporaneo abbia lasciato traccia di averlo conosciuto.

1.1 Il mito nella storia: evoluzione di una leggenda

Ricercare il grado zero del racconto di Robin Hood, la sua possibile realtà storica, non è per nulla semplice. Il personaggio che la tradizione ci ha tramandato è, infatti, contraddittorio perché sembrerebbe sommare due forme di banditismo: bandito politico e contadino. Se si tenta di analizzarlo storicamente, si trovano delle

60 Anche se non riguarderà il seguente lavoro di tesi poiché non si tratta di un movimento sociale italiano, non posso non ricordare anche solo di sfuggita la mobilitazione per la Robin Hood Tax. http://robinhoodtax.org.uk

61«Robin Hood gode di un particolare riconoscimento. Nel Dictionary of National Biography è stato inserito un articolo interamente dedicato alla dimostrazione della sua inesistenza.» (C. J. HOLT,

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affascinanti discrepanze prima di tutto riguardo il suo ceto sociale. Il Robin (o Robert, accettando che Robin sia un diminutivo) che ci viene tramandato e giunge fino a noi è un conte (viene normalmente appellato Robert di Loxley, conte di Huntigton, cosa che lascia perplessi su quale sia realmente il suo possedimento, ma non c’è dubbio che ci si trovi di fronte a un nobile) ma la sua arma distintiva non è la spada, come dovrebbe essere per un cavaliere o un nobile di rango, bensì l’arco lungo, arma tipica degli yeomen al servizio dei baroni e dei cavalieri.62 Come mai questa contraddizione? In primo

luogo la menzione di Robin conte di Huntington si deve per primo ad Anthony Munday63 che tra il 1597 e il 1598 scrisse due commedie The Downfall of Robert Earle of Huntington e The Death of Robert Earle of Huntington (quest’ultima insieme a Henry Chettel) in cui, per la

prima volta, Robin Hood veniva associato a Huntington.64 L’idea della

nobiltà del protagonista Munday la mutuava invece dall’antiquario di Enrico VII, Jhon Leland, che nel 1542 la sosteneva.65 Dunque

sembrerebbe trattarsi di un’aggiunta postuma, dovuta, forse, alla volontà di nobilitare il personaggio e inserirlo a miglior diritto nel pantheon dell’immaginario nobiliare. Il riferimento alle doti di arcieri di Robin, Scarlet, John e gli altri‘allegri compagni’, lo troviamo, al contrario, in una delle ballate66 più antiche (risalente, si pensa per

analisi linguistica al 1400): A Gest of Robin Hode, poema di

62 Ivi, p. 87.

63Per maggiori informazioni sull’autore consiglio T. HILL, Anthony Munday and Civic Culture, Manchester University Press, Manchester 2004..

64 L. POTTER, Playing Robin Hood: the legend as performance in five centuries, University of Delaware Press, Delaware 1998 pp. 65-66.

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quattrocentocinquantasei stanze di quattro versi diviso in otto canti, conservato su di un testo a stampa dell’inizio del sedicesimo secolo. Qui viene detto:

Thryes Robyn shot about/ and alway he cleved the wand./ And so dyde good Gylberte/ with the whytehande./ Lytell Johan and good Scatheloke/ were archers good and fre;/ Lytell Much and good Reynolde/ the worste wodle thet not be./ Whan they had shot aboute,/these archers fayre and good,/ evermore was the best, forsoth Robin Hode.

Tre volte tirò Robin/ e sempre fendette l’asticella./ E così fece il buon Gylberte/ con mano ferma./ Little John e il buon Scarlet/ erano arcieri in gamba e generosi;/ Il piccolo Much e il buon Reynolde/ non erano certo da meno./ Quando tutti ebbero tirato,/ i bravi arcieri,/ di gran lunga era il migliore,/ senza dubbio, Robin Hood.67

Dunque le attestazioni più antiche sembrano indicare un Robin Hood «eroe di piccoli proprietari terrieri».68 Ma come potrebbe, un

eventuale Robin Hood storico, essere diventato bandito? Moltissimi contadini e piccoli proprietari terrieri divenivano banditi per necessità. Se così fosse anche in questa occasione, Robin potrebbe essere un nome tra i tanti, preso a simbolo di vicissitudini molteplici e trasformato in urlo di riscatto e vendetta per tutti coloro i quali si ritrovavano in prima persona a dover diventare banditi o per chiunque avesse amici o parenti rifugiatisi nella foresta. Esiste però un’altra ipotesi verosimile ma difficile da verificare. La riporto non tanto per la sua veridicità storica ma per mostrare come il confine tra il comune

66«Componimenti di questo genere sono i pometti narrativi trasmessi oralmente che hanno per soggetto temi diffusi in tutta la poesia popolare internazionale, temi ricavati da romanzi, vicende aventi protagonisti eroi popolari delle classi sfruttate, avvenimenti storici o avvenimenti in parte storici in parte inventati.» D. DAICHES, Storia della letteratura inglese, trad it. a cura di G. Marzano, Garzanti, Milano 1970, p. 107, per approfondimenti Ivi, pp. 107-112. 67G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin Hood. cit., p. 33.

68D. DAICHES,Storia della letteratura inglese cit., p. 108. È questa anche la tesi di James C. Holt.

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fuorilegge e il bandito politico possa essere stato sottile e perché non mi pare improbabile che possa essere stata proprio questa particolarità a far sì che, tra i moltissimi banditi e bracconieri che vissero nell’Europa feudale, sia arrivata sino a noi proprio la vicenda di Robin Hood. Per introdurre questa ipotesi vanno prima specificate alcune coordinate temporali e spaziali deducibili sempre dalla Gest. Prima di tutto va sfatato un mito: la foresta di Sherwood non è mai nominata nella Gest e il primo accenno al riguardo lo si trova in Robin Hood

and the Monk, conservato su di un manoscritto del 1450 ma si pensa

proveniente da una ballata precedente. Gli accenni qui riportati alla foresta denotano, però, una scarsa conoscenza del territorio da parte di chi scrive e sono sempre piuttosto generici e casuali. Analizzando invece i nomi attribuiti a formazioni geologiche, che facciano riferimento a Robin Hood, si nota che il più antico riferimento documentario attestato è a Bransdale:

Un atto del 1422 della Priora di Monk Bretton nello Yorkshire, vicino a Wakefield menziona una Robin Hood’s Stone.69

Questo è un metodo abbastanza sicuro per determinare quale fu il centro di propulsione della leggenda poiché, espandendosi la fama dell’eroe, si espandono, in genere, i riferimenti territoriali che lo riguardano. Accettando per il momento Bransdale come riferimento geografico, provo a tracciare una coordinata temporale. Anche qui si dovranno rivedere idee radicate nell’immaginario novecentesco poiché la tradizione vuole Robin Hood in lotta contro il perfido Re Giovanni (si pensi al recente film di Ridley Scott prodotto da

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Universal che vede Robin Hood promotore della Magna Charta70) ma

la Gest parla solo di un re e lo chiama Edoardo. Il primo riferimento a Re Giovanni di cui siamo a conoscenza risale al 1521 ed è opera di John Major.71 Nella Gest viene inoltre detto che il re, recatosi a

Nottingham, perdona Robin e l’unico re Edoardo recatosi nel nord e passato da Nottingham fu re Edoardo II nel 1323. Unendo a ciò l’assenza di ballate precedenti al 1400, sembra verosimile collocare le imprese di Robin Hood intorno al 1300.72 Sempre restando nel campo

del verosimile è interessante il fatto che Edoardo II si sia recato a Nottingham in quel periodo per concedere proprio un’amnistia, in particolare un’amnistia ai Contrariants, ossia a quello sparuto gruppo di guerriglieri che si era salvato dalla disfatta dell’esercito di Thomas Lancaster (formato in larga parte da yeomen e contadini com’era d’uso all’epoca) dopo la battaglia di Bouroghbridge e datosi alla macchia proseguendo azioni di disturbo. Notiamo a questo punto che la foresta di Bransdale si situa a breve distanza dal maniero di Lancaster, a Wakefield. Proprio qui visse, all’epoca che ci interessa, un uomo chiamato Robertus Hood.73 Per quanto le prove raccolte nel

1952 dall’archeologo J.W. Walker in The true story of Robin Hood, sulla partecipazione di questo Robin Hood all’esercito di Lancaster non convincano gli storici, non si possono nemmeno ignorare le incredibili analogie tra il racconto e la storia. La moglie di questo

70 Vedi par. 1.2.2

71 Per una completa discussione sul problema della datazione rimandiamo a G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin Hood, cit., pp. 69-72.

72 Si tenga conto anche del fatto che l’arco lungo inglese, chiamato longbow, si diffuse dal Galles al

resto dell’Inghilterra solo nel XIII sec.

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Robin Hood, ad esempio, di nome Mathilda Hood, è l’unica Mathilda ricordata nei Court Rolls dell’epoca e quindi coincide, molto probabilmente, con Mathilda Toothill, figlia di Hugh Toothill, sposato in seconde nozze con la vedova Joan Staynton, madre di Elizabeth Staynton, priora di Kirkless74 che, guarda caso è la priora dalla quale,

nella Gest, Robin cerca aiuto in quanto sua parente stretta e che invece lo tradisce con l’aiuto del suo amante: Red Roger. E a proposito di Red Roger, all’epoca viveva un certo cappellano Roger Doncaster, cavaliere dal 130975 (nella Gest viene in effetti appellato Sir Roger).

Dunque un uomo col giusto nome e titolo e con tutte le possibilità di divenire amante di una priora potendo entrare e uscire senza sospetti dai suoi appartamenti in qualità di cappellano.

Per quanto poco solide possano essere le prove storiche e per quanti dubbi possano lasciarci, la teoria di Robin Hood yeoman impiegato nell’esercito di Lancaster e poi guerrigliero fuorilegge è sicuramente molto affascinante anche perché verosimile: un bandito yeoman che fosse al contempo guerrigliero e tagliagole non è una follia come molti altri esempi storici documentati ci raccontano. La storia del pirata Mission, vissuto nella seconda metà del ‘600, ci parla, ad esempio di un’eccezione nel panorama della pirateria76 nella quale

l’idealismo ha prevalso sulla logica del profitto individuale: Mission era un giovane provenzale di buona famiglia imbarcatosi come marinaio per seguire il suo irrequieto carattere e che divenne, come

74Il dubbio è grande anche perché le prove del matrimonio tra i due, raccolte negli anni ’40 da Wlaker, non sono oggi più verificabili.

75G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin Hood, cit pp. 129-130. 76V. Cap. 2

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spesso accadeva, corsaro. Sotto l’influsso di un prete domenicano che aveva buttato il saio alle ortiche, Mission diventò il più strano pirata che mai abbia solcato i mari. Convinti sostenitori della causa comunista, Mission e i suoi marinai batterono i mari trattando con assoluta mitezza ogni nave abbordata, ridistribuendo sempre equamente il bottino, liberando gli schiavi e i prigionieri nel nome della libertà e dell’uguaglianza, e non trattenendo mai ostaggi. A bordo della sua nave Mission non ammetteva bestemmie, il gioco a soldi o l’ubriachezza e quando fu raggiunta una sufficiente somma, i pirati si stabilirono nel Madagascar fondando la colonia Libertalia dove non esisteva la proprietà privata e si parlava in una sorta di esperanto.77 Sempre negli archivi storici troviamo anche la storia del

brigante Giosafatte che, divenuto bandito per difendere l’onore della sorella, compie gesta degne di un Errol Flynn verde vestito:

Si piglia gioco del terribile maresciallo Spezzaferri, arrivato apposta da Napoli per catturarlo. Il militare, senza saperlo, trascorre con lui, vestito da frate, parecchie ore. Provvede di dote due fanciulle bisognose che, grazie alla sua generosità, possono sposarsi. […] si consegna solo dopo un accordo.78

Il rischio davanti a storie umane così incredibili, è di cadere in un eccesso di cinismo e dimenticare che le azioni degli uomini non sono solo guidate da volontà di potere ma anche dal bisogno di corrispondere al proprio senso del dover essere. Se dunque non è impossibile che i banditi abbiano agito anche per scopi che andavano oltre il proprio mero profitto, perché non credere verosimile la storia

77P. GOSSE, Storia della pirateria, trad. italiana S. Caprioglio, Mondadori, Bologna 2008, pp. 208-214.

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di un guerrigliero yeoman? O quanto meno perché non pensare che la storia possa essersi inizialmente diffusa in questi termini ed essere stata presa per verosimile dal pubblico del 1400? Partendo da qui sarà interessante verificare quali trasformazioni ha subito la leggenda nel corso dei secoli successivi. L’introduzione del titolo nobiliare, ad esempio, è un elemento estraneo alle ballate originarie, funzionale all’entrata di Robin Hood nel mondo della letteratura alta e della corte. Cercherò ora di ricostruire le fasi di queste trasformazioni e, soprattutto di come e perché nell’oggi Robin sia diventato ciò che i libri, la televisione e i film vogliono che sia.

Alcuni elementi propri della Gest sono sovrapponibili con le vicende di Fulk Fitz Warine:79 entrambi gli aiutanti più importanti dei due

protagonisti si chiamano John, a entrambi viene ordinato di aspettare e condurre al campo una compagnia di ricchi viaggiatori, in entrambe le storie i prigionieri pagano e vengono rimessi in libertà dopo aver pranzato coi fuorilegge, in entrambe le storie John si traveste e si reca in città per ingannare l’antagonista etc.80 Da ciò possiamo dedurre che

la Gest contenesse topoi modulari tipici di un genere o per derivazione diretta o per poligenesi.81 Questa tesi parrebbe avvalorata 79Fulk Fitz Warine fu un barone ribelle dello Shropshire durante il regno di Re Giovanni. Dichiarato fuorilegge per una falsa accusa di tradimento nel 1200, nel 1203 fu perdonato e riabilitato ma nel 1215 si ribellò nuovamente a favore della Magna Charta. Da qui probabilmente Munday e i suoi successori prendono molti dei temi del Robin Hood moderno. Per una trattazione completa al riguardo si veda C. A. ROCK, Fouke le Fitz

Waryn and King John: Rebellion and Reconciliation in L. A. KAUFMAN, British Outlaws of Literature and History: Essays on Medieval and Early Modern Figures from Robin Hood to Twm Shon Catty, McFarland, Jefferson 2011.

80Per un’esaustiva comparazione si veda: G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin

Hood, cit., pp. 150-156.

81Evidentemente questo mette in crisi la sua validità di documento storico. I dettagli analizzati, però sembrano essere abbastanza specifici.

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dall’esistenza di una ballata composta nel 1450, Robin and Gamelyn, in cui l’eroe vendica la morte di Robin Hood. Gamelyn è un eroe la cui origine è del tutto estranea alla vicenda di Robin Hood e risale, probabilmente al 1350. Molti dei temi della vicenda di Gamelyn riecheggiano la versione moderna di Robin Hood: privato della sua eredità, diventa fuorilegge e si scontra con lo sceriffo locale fino a ottenere il perdono del re. Anche questa fu molto probabilmente una delle fonti di Munday. Ad ogni modo la presenza della contaminazione delle vicende di Robin Hood con quelle di un precedente eroe presenta una metodologia di proliferazione narrativa già usata in altri cicli di ballate come ad esempio l’introduzione di Parsifal all’interno del ciclo bretone.82 La Gest ci appare, quindi, sempre più come un’opera di

genere, ricca di topoi narrativi ed espedienti modulari. Se così fosse sarebbe interessante notare che gli‘allegri compagni della foresta’ corrispondono perfettamente a quell’ideale di amor socialis che corrisponde alla notitia contubernii (lo spirito di gruppo e di corpo) che costituisce l’esercizio primo del perfetto cavaliere all’epoca delle

chanson de geste. Con questo non si vuol dire che la Gest appartenga

a un genere tardo-cavalleresco, bensì si vuole sottolineare come in essa confluiscano e sopravvivano ideali propri di tradizioni differenti tra cui quella cavalleresca, fatto piuttosto diffuso nella tradizione delle ballate popolari:

Le ballate popolari, dicevamo, tendono ad attribuire ai banditi l’adesione agli ideali cavallereschi. Il bandito non difende, ammesso che li difenda, solo i poveri e le donne, ma quanti vivono nelle sue stesse condizioni di fuggiasco, perseguitato ed emarginato.83

82Riguardo al ciclo arturiano rimandiamo alla lettura di: a cura di R. S. LOOMIS, Arthurian

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Anche le successive aggiunte di personaggi sono andate spesso in questa direzione. Il caso più eclatante è quello di Maid Marian: la prima apparizione del suo nome accanto a quello del fuorilegge risale al 1508 in una serie di componimenti di Alexander Barlcay intitolata collettivamente The Ship of Follies:

Yet would I gladly hear some merry fytte of Maid Marion, or else of Robin Hood84

In realtà qui i due nomi sono solo accostati, forse sotto l’influenza del poema pastorale del poeta francese Adam de la Halle dal titolo Robin

and Marian del XIII sec. I due personaggi descritti non hanno nulla a

che fare con la vicenda di Robin Hood (Marian è una pastorella e Robin è il suo amante, non tira con l’arco e non è un fuorilegge) ciò non di meno può essere che Munday abbia tratto da queste due occorrenze l’idea di far cambiare il nome della compagna di Robin da Mathilda a Marian al momento di entrare nella foresta.85 Certo è che

da allora in avanti Marion ha avuto un ruolo sempre più importante nella vicenda di Robin Hood fino a diventarne cardine e a ricomparire nel titolo stesso di un film.86 Ma cos’ha spinto Munday ad affiancare a

Robin Hood quest’inedita presenza femminile? Forse una tradizione

83R. NIGRO, Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri., Rizzoli, Milano 2006, p. 11.

84«Sarei però felice di udir qualche allegro canto di Maid Marion, oppur di Robin Hood » da G. PHILIPPS, e M. KEATMAN, La leggenda di Robin Hood, cit., p. 118..

85Dal punto di vista dalla ricostruzione storica è incredibilmente interessante che Munday abbia chiamato proprio Matilda la moglie di Robin Hood. Forse un’antica tradizione ne aveva tramandato il nome, forse era nominata in altre ballate e forse la scelta di mutarle il nome in Marion si era determinata per via dei May games di cui i personaggi erano divenuti parte nel folklore popolare. Di certo la coincedenza avvalore l’idea che il contadino Robertus Hood sposato a Mathilda Hood possa essere il Robin storico.

86Si ra riferimento a Robin and Marian, film statunitense del 1976 diretto da Richard Lester e prodotto da Denis O’Dell e interpretato, tra gli altri, da Sean Connery e Audrey Hepburn. Vedi più avanti.

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tramandata che non ci è pervenuta, forse una variazione sulla devozione mariana di Robin, o forse la semplice constatazione che al suo Robin mancava una dama per cui battersi per completare il profilo del perfetto cavaliere. In effetti, nell’opera di Munday la trasformazione del fuorilegge in bandito-cavaliere sembra compiuta: per quanto il contenuto delle sue imprese sia molto più terreno e meno favoloso, lo vediamo circondato da amor socialis nella migliore tradizione arturiana, lo vediamo combattere per una dama. Già da questa prima e importante variazione elaborata da Munday si può ipotizzare quale caratteristica renderà utile il personaggio ai movimenti sociali in Italia: Robin è un bandito addomesticato dalla letteratura nobiliare che trasporta il suo status di fuorilegge in un contesto di accettabilità sociale.

Questa fondazione di una tradizione moderna del mito, dove Robin è un bandito gentiluomo avverso al clero e al suo potere terreno, si deve in ottima parte alla politica di Enrico VIII:

Le spoliazioni e le redistribuzioni operate dall’arciere sono infatti in strettissima sintonia con alcuni aspetti della riforma anglicana. Le imprese del fuorilegge prefigurano il sequestro delle proprietà ecclesiastiche e mostrano come il re e i suoi uomini abbiano compiuto quello che il popolo e l’aristocrazia inglese chiedevano da secoli. 87

Probabilmente la datazione di Major al periodo di Riccardo Cuor di Leone si deve sempre a un uso politico della leggenda: far diventare Robin il fedele suddito di un re assente che lotta contro un falso re nobilita la sua causa e, per analogia, quella dei Tudor. Per lo stesso motivo, e per agevolare la circolazione della leggenda nel mondo di

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