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Drammaturgie femminili a confronto: Giuliana Musso (Sexmachine) e Marcela Serli (Variabili Umane)

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Questa tesi intende approfondire il tema del rispetto dell’altro, in particolare, il rispetto della sessualità e identità altrui, prendendo in esame due opere teatrali contemporanee: Sexmachine di Giuliana Musso e Variabili Umane di Marcela Serli. Le drammaturghe, attualmente attive nel panorama teatrale italiano, affrontano il tema in questione naturalmente in modi diversi: in primo luogo, perché si basano su differenti argomenti, infatti la Musso analizza, dopo aver svolto un’intensa ricerca durata due anni, il mondo del sesso a pagamento nella zona del Triveneto, attraverso le figure della prostituta e del cliente; mentre la Serli si concentra sulla figura del transessuale e come questa viene considerata all’interno della nostra società. In secondo luogo, perché hanno alle spalle due percorsi formativi, nel campo teatrale, diversi: la prima proviene dalla clownerie e dal teatro di narrazione (allieva dell’attore e autore Marco Paolini), invece la seconda ha studiato teatro-danza, ricollegandosi anche al teatro di Pina Bausch. Dunque, in riferimento al genere teatrale, Sexmachine si colloca all’interno del “teatro d’inchiesta”, mentre la Serli definisce Variabili Umane “teatro documentario”. Le due drammaturghe, entrambe attrici e autrici delle proprie opere, sono accomunate dall’urgenza di analizzare e discutere un problema, senza l’obbligo però di offrire, ad ogni costo, una soluzione, ma soltanto mettendo a nudo la questione, condividendola con gli altri, in modo da renderli consapevoli e critici allo stesso tempo. La Musso, attraverso il suo spettacolo, mette in evidenza la mancanza di rispetto nei confronti delle prostitute, in quanto donne, ma soprattutto in quanto persone, con una loro dignità. La Serli, invece, pone l’accento sul riconoscimento delle diversità di genere discriminate e derise da molti.

La tesi si apre con un breve paragrafo sulla drammaturgia femminile del novecento contemporanea in Italia, poi un primo capitolo dedicato a Giuliana Musso e alla sua opera e un secondo capitolo, invece, a Marcela Serli e alla sua pièce: le due autrici vengono presentate attraverso una breve biografia, riguardante la formazione, la carriera e i riconoscimenti ottenuti, mentre successivamente viene introdotta e esaminata la loro opera, attraverso una prima analisi del testo drammaturgico e una seconda della messa in scena. Segue poi un terzo capitolo, in cui si apre il confronto tra le due rappresentazioni, che mette in evidenza differenze e analogie di natura tematica ed esecutiva. A chiudere, infine, la tesi è la parte dedicata alle conclusioni, in cui vengono fatte alcune considerazioni finali, in merito alle due opere teatrali esaminate. Per quanto riguarda l’analisi drammaturgica delle due pièces ho preso in esame i testi Forme della drammaturgia. Definizioni ed esempi di Concetta D’Angeli e Teoria del dramma moderno 1880-1950 di Peter Szondi; mentre per l’analisi performativa ho studiato le dispense del corso di “Drammaturgia e Spettacolo” tenuto dalla Prof.ssa Anna Barsotti, docente dell’Università di Pisa, dove grazie ai codici dello spettacolo

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2 (scenografia, illuminazione, costume, gesto, mimica, coreografia e prossemica, parola, musica, rumori e sintassi), descritti e analizzati da Cesare Molinari e Valeria Ottolenghi in Leggere il teatro, secondo il modello del semiotico polacco Tadeus Kowzan, sono riuscita a distinguere soprattutto i linguaggi teatrali utilizzati dalle due drammaturghe: quello prevalentemente mimico e parlato della Musso e quello gestuale e coreografico della Serli. Inoltre, le registrazioni video dei due spettacoli si sono rivelate molto utili durante l’analisi performativa, dal momento che costituiscono una testimonianza della messa in scena. Infatti, per mezzo dei movimenti di camera e dei vari campi e piani dell’inquadratura, è stato possibile visualizzare più attentamente la mimica e la gestualità degli attori, cogliendo anche alcuni dettagli che non sempre possono essere percepiti durante la visione dal vivo dello spettacolo. A proposito di questo vorrei far presente che io ho assistito alla messinscena di Variabili Umane a “La Città del Teatro” di Cascina (Pi), il 28 marzo 2014, e mi sono servita della registrazione video di quella serata per la mia analisi; sempre nel 2014, per la precisione il 28 novembre, ho assistito allo spettacolo Sexmachine, mentre la videoregistrazione della rappresentazione da me esaminata risale al 2010. In più, ritengo opportuno sottolineare che le fonti, dalle quali questa tesi attinge, non sono solo cartacee, ma anche digitali, dal momento che molte informazioni, relative alle due autrici e alle loro opere teatrali, provengono da alcuni siti internet ufficiali: come notizie biografiche, interviste in formato testo e video, presentazioni e recensioni.

Uno dei motivi che mi ha spinta ad approfondire l’analisi di questi due spettacoli, e di conseguenza a studiare il metodo di lavoro utilizzato dalle drammaturghe che li hanno ideati, è stato il lato comico o, meglio, il lato giocoso di entrambe le rappresentazioni. Giuliana Musso, ad esempio, si diverte ad interagire sia con il pubblico sia con il chitarrista, dimostrando notevoli capacità di improvvisazione, mentre la Serli si avvicina al metateatro, soprattutto nella prima scena, attraverso la presentazione dei suoi attori, tra i quali spesso nascono estemporanei diverbi. Sono rimasta davvero colpita dal modo in cui entrambe le attrici-autrici hanno scelto di inserire, in modi diversi, la comicità nei loro spettacoli, riuscendo lo stesso ad affrontare tematiche drammatiche: infatti, in Sexmachine si parla di violenze sessuali sulle donne e di femminicidio, mentre in Variabili Umane le vittime di questi gesti atroci sono i transessuali. Dunque, due rappresentazioni tragicomiche volte anche a denunciare le atrocità e le ingiustizie, che si verificano nel nostro “bel” paese e non solo.

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La drammaturgia femminile contemporanea

In Italia, con la conquista del diritto di voto avvenuta nel 1946 e dal secondo dopoguerra in poi, le donne iniziano ad affermarsi all’interno dell’ambito culturale, che a poco a poco si stava risvegliando. Infatti, si riscontra una nuova partecipazione delle donne alla vita sociale e politica, grazie ad un’intensa produzione di testi teatrali da parte di autrici come Natalia Ginzburg, Dacia Maraini, Alba de Cespedas e Maricla Boggio1. Sicuramente la Ginzburg e la Maraini sono le due scrittrici che rappresentano meglio la drammaturgia femminile nel Novecento, anche se appartenenti a generazioni e a momenti storici diversi. Natalia Ginzburg (nata a Palermo nel 1916), più nota come romanziera e saggista, ha raccolto le sue opere teatrali in due volumi: Ti ho sposato per allegria e altre commedie del 1968 e Teatro del 1990. Più che ai personaggi, il versante comico la comicità delle sue commedie si deve soprattutto al linguaggio. Questa attenzione linguistica e l’invenzione di un italiano parlato musicalmente, inconsueto nel nostro teatro, la avvicinano a maestri europei del dialogo, come Beckett, Pinter e Compton-Burnett. In Ti ho sposato per allegria, come poi in altre commedie, la Ginzburg raggiunge la comicità giocando sui valori cari alla nostra società. La tipologia dei personaggi e le situazioni che l’autrice ripropone sono molto simili in tutte le sue commedie: infatti, ci sono spesso coppie relativamente giovani già stanche di stare insieme, in cui la moglie tradisce il marito con il suo migliore amico, perché si sente trascurata e annoiata, e uomini che tradiscono le mogli con donne molto più giovani, anche se poi non riescono a lasciare le loro consorti. Gli uomini, oltre ad essere bugiardi, vengono definiti spesso deboli e inetti, scappano di fronte alla prima difficoltà. Le donne sono viste ancora più negativamente, perché soccombono agli uomini e non riescono a trovare la forza di reagire: infatti, la Ginzburg non perdona i vizi delle sue protagoniste che non sono né angeli del focolare né delle eroine, ma piuttosto delle persone incapaci di affrontare la vita. Al contrario Dacia Maraini (nata a Fiesole nel 1936) dà corpo e voce alle sue protagoniste, soprattutto a quelle che hanno cercato di opporsi alla loro situazione, offrendo loro la parola che è stata tanto lungamente negata alle donne sulla scena pubblica. L’autrice parla di un “teatro di parola”, pur essendo consapevole di “quanto è infida, logora e incredibile la parola in teatro”2

. Dacia Maraini ha continuato a interrogarsi sulla scrittura drammaturgica, sulle qualità del monologo e del dialogo, come sulla natura poetica del teatro, legato al ritmo e al presente. L’autrice comincia ad occuparsi di teatro negli anni Sessanta fondando, insieme ad altri scrittori, il “Teatro del Porcospino” nel 1967, in cui si rappresentano solo novità italiane: Gadda, Moravia, Wilcock, Siciliano, Maraini e Parise. Nel 1973 a Roma fonda con Lù Leone, Francesca Pansa, Maricla

1 ww.donne.toscana.it/centri/teatrodonne/html/centro.htm 2

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4 Boggio e altre il “Teatro della Maddalena” per portare in scena le battaglie sociali e il “privato” delle donne. Durante questo periodo scrive molti testi teatrali, tra i quali Maria Stuarda, che ottiene un grande successo internazionale, viene tradotto e rappresentato in ventuno paesi e ancora si continua a rappresentare, Dialogo di una prostituta con un suo cliente del 1973, tradotto e rappresentato prima a Bruxelles, poi a Parigi e quindi a Londra e ancora in quattordici Paesi diversi; Veronica, meretrice e scrittora e Camille.

I personaggi delle attrici-autrici Franca Valeri e Franca Rame, ricordano per alcuni aspetti, quelli della Ginzburg. La prima (nata a Milano nel 1920) delinea, attraverso le sue protagoniste, un tipo di donna autoritaria e forte, mentre il marito ne è succube, ma molto spesso è anche una donna vittima, perché costretta a rinunciare a molte cose per la famiglia. L’attrice cresce nella trasmissione radiofonica “Il rosso e il nero”, dove presenta per la prima volta il personaggio della “Signorina Cesira”, che passando successivamente dalla radio alla televisione diventa la “Signorina snob”, nevrotica signora milanese, ritratto delle ipocrisie della borghesia contemporanea. Il suo esordio teatrale risale al 1951, quando al “Teatro dei Gobbi” (fondato con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, diventato poi suo marito), recita negli spettacoli Carnet de notes n.1 e Carnet de notes n.2, che proponevano, senza ausilio di scene e costumi, una serie di sketch satirici sulla società contemporanea. La seconda, invece, (nata a Parabiago nel 1929) porta in scena mogli insoddisfatte e annoiate che tradiscono i mariti, ma anche donne coraggiose, e uomini inetti che non sono in grado di dare una svolta decisiva alla loro vita sentimentale. La Rame, discendente di una famiglia d’arte di antiche tradizioni teatrali soprattutto legate al teatro dei burattini e delle marionette, risalente al 1600, inizia la sua carriera artistica nel 1950, quando viene scritturata con la sorella nella compagnia di prosa di Tino Scotti per lo spettacolo di Marcello Marchesi Ghe pensi mi, in scena al Teatro Olimpia di Milano. In quegli anni conosce Dario Fo, che sposa nel 1954, e con il quale nel 1958 fonda la “Compagnia Dario Fo-Franca Rame”, in cui il marito è regista e drammaturgo, mentre lei è prima attrice e amministratrice: i due coniugi iniziano infatti a portare la drammaturgia nelle scuole e nelle fabbriche occupate. Questi sono gli anni del movimento femminista, che Franca abbraccia senza riserva alcuna, scrivendo ed interpretando testi di denuncia sociale come Tutta casa, letto e chiesa, Grasso è bello! e La madre. Si tratta di spettacoli comico-grotteschi, in cui viene messa in scena la vita della donna, avvilita, stufa, delusa e frustrata; con sottile ironia e vivida intelligenza si mostra così uno spaccato della storia dell'epoca, in cui la donna si divide fra le battaglie per il riconoscimento dei suoi diritti in campo lavorativo e civile e il suo ruolo di moglie e madre fra le quattro mura domestiche. Nel 1981 la Rame scrive ed interpreta il celebre monologo Lo stupro, in cui l'attrice ricorda i momenti tragici della violenza subita da un

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5 gruppo di neofascisti nel 1973, denunciando così anche la barbarie degli stupri e delle molestie sulle donne.

Alla fine degli anni Ottanta le drammaturghe crescono di numero, fenomeno rilevato dagli stessi annuari della SIAE: vincono premi per la drammaturgia contemporanea, si impongono sulle scene con testi nuovi e interessanti, con una ricerca che riguarda sia il linguaggio che i temi trattati. È qui che emerge la novità di una drammaturgia delle donne che affronta la scena da un'angolazione diversa, quella femminile appunto. I testi scritti dalle donne non appaiono diversi solo perché affrontano le problematiche femminili, come la maternità o la vita domestica, ma soprattutto perché affrontano argomenti sociali e di attualità dal proprio punto di vista: un punto di vista nuovo, che riscuote un meritato riscontro dalla critica e dagli organismi specializzati. Purtroppo restano le difficoltà di produzione e distribuzione, tipiche del nostro sistema teatrale, per quanto riguarda la drammaturgia contemporanea; per questo sarebbe necessario incentivare la produzione e la distribuzione di testi nuovi, promuovere la ricerca che in questa direzione le donne stanno conducendo da anni, dare spazio, anche istituzionale, alle attività di promozione della drammaturgia contemporanea.

Le attrici-autrici che hanno contribuito ad arricchire il repertorio teatrale italiano, affermandosi anche all’estero, non sono poche: basti pensare a Laura Curino (nata a Torino nel 1956), Mariella Fabbris (nata ad Alessandria nel 1956), Mariangela Gualtieri (nata a Cesena nel 1951), Ermanna Montanari (nata a Campiano nel 1956), Lella Costa (nata a Milano nel 1952) ed Emma Dante (nata a Palermo nel 1967). In quanto interpreti delle stesse opere drammaturgiche che scrivono, queste artiste hanno saputo ritagliarsi il loro spazio all’interno del teatro, seguendo linee e generi diversi: sul versante comico, ad esempio, troviamo la Curino, che si cuce addosso un ruolo di caratterista per aspetto fisico e temperamento, giocando sull’accento regionale o sulle posture fisiognomiche, e la Costa, che dimostra sempre più una crescente aggressività della one woman show, nei riguardi dell’istituzione teatrale, della melassa televisiva, del sesso maschile e della classe politica. La Gualtieri, cofondatrice insieme a Cesare Ronconi nel 1983 a Cesana della compagnia di ricerca teatrale “Teatro Valdoca”, invece, manifesta le sue doti scrivendo ed interpretando i suoi versi poetici, nei quali si scorge una continua ricerca interiore, mentre l’utilizzo del dialetto come linguaggio teatrale viene sperimentato sia dalla Montanari, con il romagnolo, sia dalla Dante, con il siciliano; infine, Mariella Fabbris si distingue per la sua caparbietà e il brio, orientandosi sempre più in interventi presso scuole e ambiti territoriali. Queste sei attrici-autrici appartengono alla stessa generazione, in quanto nate tutte negli anni Cinquanta, tranne Emma Dante, e, a parte la Gualtieri e la Montanari, hanno tutte lavorato con il regista Gabriele Vacis, a cominciare dalla Curino e dalla Fabbris, che insieme a lui, a Roberto Tarasco e ad Adriana Zamboni, nel 1981 fondano la

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6 compagnia di ricerca “Laboratorio Teatro Settimo”. Vacis nei suoi spettacoli offre una riscrittura scenica sia di testi classici e letterari sia di testi contemporanei, concertando recitazione, canzoni e musica, affabulazione ed epica, riflessione generazionale e richiami alla tradizione sia colta sia popolare; la sua ricerca artistica l’ha portato a indagare il linguaggio e la narrazione teatrale, contribuendo alla nascita del teatro di narrazione. Lella Costa, che esordisce con il suo primo monologo nel 1980 e nei primi anni di carriera si cimenta con autori contemporanei (tra cui Renzo Rosso e Mrozek), partecipando anche a trasmissioni radiofoniche e avvicinandosi sempre più al cabaret, incontra Gabriele Vacis nel 1995 e, dopo aver assistito alla sua messinscena di Novecento, gli chiede di lavorare con lei allo spettacolo Stanca di guerra. Il regista piemontese con il suo rigore e la sua severità riesce a contenere l’esuberanza della Costa, caratterizzata da un’ “identità monologante esplosiva”, e concorda con lei sul fatto che il teatro è musica e possiede una costante qualità metrica: in particolare i monologhi vengono visti da entrambi come delle vere e proprie partiture. Anche Emma Dante incontra Vacis nel 1995, in occasione del progetto Canto per Torino, diretto dal regista piemontese appunto, in cui parteciparono tutte le compagnie teatrali della città, compresa quella del Gruppo della Rocca, dove la Dante lavorava. Vacis si rivela un maestro importante per lei: le insegna ad “ascoltare il silenzio, a usare il rumore degli ingranaggi della scena e il rumore delle ossa degli attori che si scricchiolano”3

. Una parte del training del regista era costituito dalla “schiera”, ovvero una schiera di attori che dovevano muoversi avanti e indietro per ore, senza mai perdere il ritmo iniziale. La Dante riutilizza poi questo training con i suoi attori, consacrando il ritmo ad elemento principe del suo teatro unito all’uso del dialetto siciliano parlato o, meglio, “vomitato” dagli attori della sua compagnia, la “Sud Costa Occidentale”, fondata nel 1999. Inoltre, è giusto ricordare che la drammaturga siciliana inizia la sua carriera come autrice, e non solo come regista, affermandosi così nel panorama teatrale italiano e internazionale, con mPalermu, il primo spettacolo della “Trilogia della famiglia siciliana”, con Carnezzeria e Vita mia. Se in mPalermu la Dante “intrappola” i suoi personaggi, intenzionati a fuggire ma incapaci di farlo, nel palcoscenico, in Carnezzeria mette al centro l’incesto, creando una contrapposizione tra la purezza del vestito da sposa indossato dall’attrice e la “colpa” che nasconde sotto l’abito, ovvero la gravidanza, conseguenza della violenza subita dai fratelli; mentre in Vita mia presenta una veglia funebre sospesa in uno spazio onirico, in cui il dolore per la perdita di un figlio e di un fratello unito all’inaccettabilità della morte avvolge tutto quanto. In queste tre pièces la Dante narra l’ingiustizia del vivere, riproponendo il leitmotiv “del male e delle sue cause terribili”4 insieme al tema della morte presente nei tre spettacoli.

3 Cfr. Andrea Porcheddu, Palermo dentro. Il teatro di Emma Dante, Arezzo, Editrice ZONA, 2006, pp.36-37 4

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7 In merito all’uso del dialetto, come linguaggio teatrale, è bene ricordare anche Ermanna Montanari, cofondatrice, nel 1983, insieme a Marco Martinelli, Luigi Dadina e Marcella Nonni, della compagnia teatrale il “Teatro delle Albe” a Ravenna, contribuendo all’originale percorso del gruppo che unisce ricerca e tradizione, invenzione di linguaggi contemporanei e attenzione al proprio patrimonio etnico. In una fase iniziale della sua formazione, Ermanna Montanari, dopo aver studiato autori come Grotowski, Flaszen e Kaya del Roy Hart Theatre, sviluppa un notevole interesse per la voce e, superato un primo periodo di rigetto, si riappropria della sua “lingua d’origine”, come la chiama lei, riscoprendo le sue radici. Il dialetto romagnolo, infatti, viene da lei usato, già dalla metà degli anni Ottanta, in tre dei suoi spettacoli più importanti: Lus, L’isola di Alcina e Overture Alcina, del poeta Nevio Spadoni. Inoltre, la Montanari definisce il suo dialetto un “dialetto di ferro”, in quanto è caratterizzato da un forte rilievo delle consonanti.

E, dopo aver parlato delle attrici-autrici più importanti e significative del panorama teatrale contemporaneo, in ultimo mi sembra opportuno spendere qualche parola su quanto queste artiste, con il loro modo di fare teatro, abbiano influenzato le due attrici-autrici di cui andrò a parlare, ovvero Giuliana Musso e Marcela Serli. Sicuramente la prima, grazie all’incontro con Gabriele Vacis e al fatto di aver seguito un laboratorio teatrale tenuto da Laura Curino e Mariella Fabbris, ha acquisito e interiorizzato alcuni insegnamenti ed alcune tecniche interpretative: basti pensare alle sue doti da attrice trasformista, come la Curino, scoperte grazie allo studio della maschera e del linguaggio della Commedia dell’Arte, e alla sua adesione al teatro di narrazione, affrontato dallo stesso Vacis. La seconda, invece, pur avendo seguito un corso di specializzazione con il regista piemontese, si distacca nei suoi spettacoli dal teatro di narrazione degli anni Novanta, avvicinandosi più ad una narrazione “contemporanea”, come la definisce lei, ricollegandosi anche al teatro-danza di Pina Bausch e a Marina Abramovic, che esplora le relazioni tra artista e pubblico, i limiti del corpo e le possibilità della mente e della quale condivide il concetto di “verità nella performance” che l’artista serba spiega così:

Se il performer non è presente a sé stesso, e dunque non aderisce come un tutt’uno alla propria mente e al proprio corpo, in un determinato spazio e tempo, allora la performance non potrà essere valida. Il pubblico lo sentirà immediatamente, comincerà a perdere attenzione e poi ad andarsene. Quando lo spettatore sarà, con la propria mente e con il proprio corpo, nello stesso luogo e nello stesso tempo del performer, allora potrà avvenire una sorta di scambio di energie. E il tempo non esisterà più. Appena sussiste la giusta energia, l’audience entra nello spazio senza tempo del performer e finalmente l’esperienza trasforma la vita in verità.5

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I CAPITOLO

Giuliana Musso: biografia artistica

Giuliana Musso nasce il 30 marzo 1970 a Vicenza e fin da piccola è subito chiara la sua predisposizione al teatro. Durante l’adolescenza sceglie di frequentare corsi di teatro e laboratori scenici. Nel 1989, all’età di diciotto anni, ritorna a Vicenza, dopo un ciclo di studi trascorso negli Stati Uniti, più precisamente nel Wisconsin, dove incontra Stefano Rossi, attore vicentino; con Rossi, che aveva lavorato a lungo come assistente del pedagogo francese Philippe Gaulier, segue un laboratorio permanente incentrato sul percorso di studi di Gaulier, dove affronta il gioco, la clownerie e la rivalutazione delle tecniche di creazione estemporanea. Intanto la Musso si diploma al Liceo Scientifico di Thiene, nel 1990, e si iscrive alla Facoltà di Scienze dell’Educazione presso l’Università di Padova dove si trasferisce. Alla fine dell’anno di tirocinio del laboratorio di Rossi, nasce l’esperienza della Compagnia Teatro Schinca: i primi spettacoli sono montaggi di scene, lavori basati sull’improvvisazione e sull’auto-scrittura, su canovacci inventati da Stefano Rossi e sviluppati dagli attori. Il gruppo riscuote successo fin dall’inizio, grazie alla comicità poetica e all’originalità che lo caratterizza. Il Teatro Schinca, nel 1992, partecipa alla prima edizione del concorso “Il Sarchiapone d’oro”, il premio del Comune di Cervia intitolato a Walter Chiari e dedicato ai giovani talenti comici; il gruppo vince con una scena in otto minuti dal titolo Cuori Solitari, che ha come protagonisti Giuliana Musso e David Riganelli. Alla vincita del premio segue uno spettacolo comico più rifinito Si vede che era destino, che porta il gruppo sui palcoscenici di tutta Italia. Sempre in quello stesso anno la compagnia è invitata allo Zelig, il locale storico di Milano, dove si esibiscono anche altri personaggi famosi come Paolo Rossi, Gino e Michele, Aldo, Giovanni e Giacomo.

La Musso si iscrive alla scuola di teatro del Verdi di Padova, che però la lascia insoddisfatta dopo appena tre mesi. Preferisce frequentare seminari e laboratori con Lando Francini, Laura Curino e Mariella Fabbris, Jonathan Hart, Eugenio Barba, Frankie Anderson. Si reca a Londra per lavorare con Desmond Jones e per seguire alcuni laboratori per attori della compagnia internazionale Theatre of Complicity, dove ritrova contenuti e strumenti che aveva approfondito con Stefano Rossi. All’età di ventitre anni affronta il provino per l’ammissione alla “Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi” di Milano. Contemporaneamente sostiene un provino per lo spettacolo Il trionfo di Zanni prodotto

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9 dalla Compagnia Pantakin di Venezia; viene accettata proprio quando arriva anche la notizia dell’ammissione alla paolo Grassi di Milano, pertanto rinuncia allo spettacolo.

Iniziano gli anni di intenso lavoro e di incontri significativi: conosce Gabriele Vacis, Marco Paolini, Eugenio Allegri, Giampiero Solari, Luciana Mellis. Dal 1993 al 1999 lavora anche con la LIIT - Lega italiana di improvvisazione teatrale che, al tempo, aveva una base molto forte a Milano: la Musso inizia a seguire i seminari della compagnia e già alla terza lezione si ritrova sul “patinoire”, lo spazio scenico dove si giocano i match di improvvisazione nel locale milanese Rolling Stone. Il suo lavoro di improvvisatrice con la LIIT prosegue fino al 1998, parallelamente al percorso di formazione, consentendole di acquisire una notevole esperienza che la porta ai campionati nazionali (dal ’94 al ’97) e internazionali (a Graz, in Austria e a Helsinky in Finlandia). E proprio durante questo periodo, dopo aver conosciuto grandi artisti internazionali, comprende l’importanza della tecnica attoriale fondata sul gioco, sul divertimento e sul rapporto con il pubblico. Poco prima di concludere la “Paolo Grassi”, l’attrice fa una significativa esperienza con Marco Paolini, suo insegnante in un seminario di narrazione centrato sul tema dell’informazione e della trasmissione delle notizie. L’esito del percorso è uno spettacolo su Timişoara, la città da cui partirono le proteste che portarono alla caduta del regime di Ceausescu. Paolini nota subito la predisposizione alla narrazione dell’allieva Musso, riconoscendo in lei una naturale vocazione: non a caso nel 1995, dopo aver vinto il Premio Speciale Ubu per il Teatro Politico con Vajont, Paolini prende in considerazione la possibilità di passare il testimone dello spettacolo proprio alla Musso, per dimostrare che uno spettacolo di narrazione ha una vitalità testuale che può prescindere dall’interprete. L’attrice accetta, ma dopo il debutto decide di chiudere questa parentesi formativa. Nel 1997 consegue il diploma di attrice alla “Paolo Grassi” e inizia a lavorare con la Compagnia Pantakin di Venezia, dove approfondisce l’uso della maschera ed il linguaggio della Commedia dell’Arte. Nell’estate del 1998 , in occasione della prima edizione di Labirinto mare, evento per la regia di Marcello Chiarenza, conosce l’Accademia degli Sventati di Udine che la coinvolge in La Ballata dei due scrigni, un canovaccio originale di Commedia dell’Arte in cui la Musso ricopre il ruolo dell’antagonista: La Capitana, personaggio comico surreale. Il lavoro con gli Sventati diventa l’occasione per trasferirsi in Friuli, dove l’attrice conosce Massimo Somaglino che diventerà poi regista dei suoi spettacoli da solista. Sempre con gli Sventati, partecipa in coproduzioni con lo Stabile del Friuli Venezia Giulia: La crudel zobia grassa, per la regia di Eugenio Allegri, dove interpreta, tra i vari personaggi, anche Arlecchino; mentre con i Pantakin è Betia in Moscheta, diretto dal regista Virginio Zernit. La Musso entra in contatto soprattutto con il Css Teatro Stabile di Innovazione: nel 2000 è nel riallestimento de La resurrezione rossa e bianca di Giulietta e Romeo per la regia di Rita Maffei, e in Bigatis – storie di donne friulane in filanda di Gigi

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10 Dall’aglio, spettacolo che le è valso, assieme a tutto il cast femminile, il premio Adelaide Ristori; invece, l’anno successivo, partecipa al Katzelmacher della Maffei6

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Nel 2001 ha inizio il percorso solista e autorale di Giuliana Musso con il monologo Nati in casa: uno spettacolo scritto a quattro mani con Massimo Somaglino, incentrato, da una parte, sul rito del nascere e, dall’altra, sulla denuncia mossa contro l’eccesso di medicalizzazione della nascita. I due autori scelgono, però, due diversi ambiti di ricerca: Somaglino si indirizza più verso un percorso storico-antropologico, mentre la Musso verso quello sociologico e politico. Lo spettacolo debutta al San Leonardo Valcellina (PN) e da piccolo prodotto riservato al circuito territoriale diventa un’opera teatrale molto richiesta, grazie al clamoroso successo ottenuto. Ben accolto al festival di Castrovillari (CS), evento che dà visibilità nazionale alla messa in scena, Nati in casa ottiene due nomination al “Premio Ubu” del 2002. Le nomination sono di Rossella Battisti, critico dell’ «Unità», con la motivazione: «Giuliana Musso: novellatrice delicata, equilibrista tra parole e movimento, in grado di rendere spettacolo un monologo» e di Mariateresa Surianello, di «Il Manifesto», con le parole: «Un monologo denso di memorie – raccolte in giro per un Nord-Est contadino e scomparso – intorno alla figura della “levatrice”. Un pezzo di teatro che non risparmia aspre critiche alle “moderne” pratiche ospedaliere relative alla nascita», in Patalogo 2002, Ubulibri. A tredici anni dal debutto, la pièce ha superato le 250 repliche e continua ad essere in repertorio. Nel 2004 Nati in casa ha aperto una puntata della trasmissione Report di Milena Gabanelli, in onda su Rai 3, dedicata ad un’inchiesta sulla maternità assistita; mentre, nel 2007 il dvd dello spettacolo è stato pubblicato nella collana di “Teatro Incivile” dal quotidiano l’ «Unità». Nel 2009 Nati in casa è pubblicato dall’editore Minimum Fax nella raccolta “Senza Corpo” a cura di Debora Pietrobono. Nel 2010 l’opera è stata scelta per partecipare a Face à face Parole d’Italia per scene di Francia, progetto di promozione del teatro italiano, sostenuto dall’ETI e dall’Istituto Italiano di Cultura di Parigi: Giuliana Musso, insieme a Massimo Somaglino, è tra i sette autori italiani tradotti ad hoc per la mise en espace al Théâtre de la Ville di Parigi.

Grazie allo spettacolo successivo, Sexmachine, il profilo dell’attrice si delinea ancora di più: in questo caso, tutto nasce dall’urgenza personale di approfondire il tema della sessualità e del sesso a pagamento. La ricerca della Musso dura circa due anni e coinvolge anche Carla Corso, Presidente per il Comitato sui Diritti Civili delle prostitute, che le offre una visione, dall’interno, del fenomeno della prostituzione. Il risultato che ne scaturisce non è un’inchiesta sul sesso a pagamento, ma una riflessione sulla sessualità dal punto di vista storico, psicologico, sociologico, fisiologico. Sexmachine debutta ad Asolo il 29 gennaio del 2005 e rivela la versatilità ed il talento dell’attrice,

6 http://www.istitutointernazionaleperlaricercateatrale.it/venezia/archivio-attori-veneti/giuliana-musso/biografia/ a cura

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11 alle prese con sei diversi personaggi da portare in scena (quattro uomini e due donne), accompagnata dalla chitarra e dalle musiche di Gianluigi “Igi” Meggiorin. A maggio dello stesso anno riceve il premio dall’Associazione Nazionale Critici di teatro come miglior attrice emergente. La motivazione del premio è: «Un’analisi attenta delle problematiche femminili all’interno della società contemporanea caratterizza il lavoro di Giuliana Musso, autrice e attrice dei suoi testi, che nelle ultime stagioni si è imposta all’attenzione del pubblico con due pièce di incisivo impegno civile e sociale: Nati in casa, dove denuncia, ricorrendo a un registro garbatamente ironico e insieme intenso e tenero, un malcostume dei nostri tempi: l’”ipermedicalizzazione” all’atto della nascita, e Sexmachine un’acuta e spietata indagine sul fenomeno della prostituzione, inquadrato in un’ottica inedita. I suoi spettacoli nascono da capillari e rigorose ricerche, alle quali si unisce l’attitudine alla narrazione e la non comune capacità di dar vita sulla scena a personaggi diversi e prodigiosamente autentici»7.

Nel 2007 la Musso collabora con un gruppo di attori friulani ad un progetto basato su un episodio, realmente accaduto, di isteria collettiva che colpì, a metà dell’Ottocento, un certo numero di donne di Verzegnis, in Carnia, e che la Chiesa identificò come possessioni diaboliche, reprimendolo con l’internamento coatto. L’attrice firma la drammaturgia, insieme a Carlo Tolazzi, ideatore del progetto e dello spettacolo che ne deriva, intitolato, Indemoniate: diretto da Massimo Somaglino e prodotto dal teatro Club di Udine e dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Giuliana Musso per la prima volta veste i panni della drammaturga e sperimenta la scrittura testuale. Dopo questa parentesi, l’attrice riprende il suo percorso e, con il suo terzo lavoro Tanti saluti, chiude la trilogia sull’esistenza iniziata con Nati in casa e proseguita con Sexmachine: ha iniziato dalla nascita, prosegue con la sessualità e infine giunge al tema del morire. Oggi l’esperienza della morte è confinata all’interno di strutture ospedaliere sotto l’occhio vigile dei sanitari: è questo il mondo indagato dalla Musso che dedica tempo ed energie alla sua ricerca condotta sul campo, dove raccoglie le testimonianze dei professionisti, di medici, infermieri e anestesisti. Un tema così delicato da trattare non poteva non richiedere un linguaggio teatrale appropriato, ecco che l’attrice sceglie di utilizzare per la prima volta la clownerie. Tanti saluti debutta al Bassano Opera Festival nel settembre del 2008, con Beatrice Schiros e Gianluigi Meggiorin: collaborazioni di Massimo Somaglino e Maril Van De Broeke, con la produzione La Corte Ospitale, di Rubiera (RE). A maggio 2010 la Musso lavora con la danzatrice e coreografa Silvia Gribaudi a Dreams, uno spettacolo di teatro danza civile sulle nuove povertà; invece, a ottobre, di quell’anno, l’attrice è invitata dall’Università Cà Foscari di Venezia per presentare sotto forma di studio La città ha fondamenta sopra un misfatto, letture e riflessioni da Medea. Voci di Christa Wolf e Il calice e la

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12 spada di Riane Eisler. Giuliana Musso riscrive il romanzo della Wolf per un adattamento teatrale con sei interpreti. La laboriosità che tale progetto richiede costringe l’attrice a metterlo da parte temporaneamente, dopo la seconda presentazione. Contemporaneamente a questo lavoro, l’attrice dirige, su commissione della Fondazione Venezia, un laboratorio di formazione dal titolo La base, incentrato sulla base militare Dal Molin a Vicenza. Il percorso di “teatro d’indagine” dura nove mesi e si conclude il 13 maggio 2011, con una dimostrazione pubblica al Teatro Aurora di Marghera (VE), in occasione della quale i dieci partecipanti scandagliano la storia della base militare, quella dei comitati cittadini che per lunghi anni si sono battuti contro la sua costruzione, le dinamiche di potere collegate a tale progetto, le implicazioni sociali ed economiche, l’impatto ambientale e paesaggistico. Nel 2012 scrive ed interpreta il monologo La fabbrica dei preti, dove racconta la vita e l’educazione nei seminari italiani degli anni ’50 e ’60; realizzato grazie alla produzione di La Corte Ospitale e con le collaborazioni di Tiziana De Mario, Claudio Parrino e Massimo Somaglino. Nell’estate 2013 porta in scena Figure, una lettura di poesie di Andrea Zanzotto, a cura di Enio Sartori, con Patrizia Laquidara, Andrea Bressan e Saverio Tasca8.

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Sexmachine

Spettacolo teatrale

Ideazione e interpretazione: Giuliana Musso

Collaborazione al soggetto: Carla Corso

Musiche in scena: Gianluigi Meggiorin

Regia: Massimo Somaglino

Suono e luci: Claudio Parrino

Produzione: La Corte Ospitale

“Questo spettacolo non vuole essere moralista, porta in luce i paradossi, anzi, porta al centro l’umanità. Il testo nasce da una ricerca di due anni: non volevo fare uno spettacolo sulla prostituzione, ma indagare il discorso della sessualità, della cultura sessuale, dell’educazione sessuale: che cosa ci succede? Di che cosa abbiamo bisogno? Cosa stiamo cercando? E poi piano piano, il discorso della sessualità commerciale si è rivelato essere la punta dell’iceberg, l’epifenomeno: parlando di questa cosa si riusciva a parlare anche di noi. Non ci sono in scena delle prostitute, dei clienti, perché sono altro da noi; ho visto dei bei spettacoli su questi argomenti, ma alla fine tu uscivi dal teatro e dicevi: «Sì, ma non sono io, sono gli altri, la prostituta è altro, il cliente non sono io». In questo spettacolo, invece, un pochino da qualche parte ti ritrovi. Io faccio poche cose e le faccio solo se ho un interesse personale sull’argomento: avevo circa trentatre anni, un momento della vita in cui ho capito che non ne sapevo abbastanza, ero curiosa, avevo bisogno di sapere di più.9”

Giuliana Musso

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14 Sexmachine è il secondo anello della trilogia di spettacoli di “teatro d’inchiesta” (insieme a Nati in casa e Tanti saluti) firmata e interpretata dalla Musso, dove la sessualità viene indagata da più punti di vista. Lo spettacolo è incentrato sul racconto, o meglio, su sei racconti differenti, dei veri e propri monologhi sulla fruizione del sesso a pagamento: in scena si susseguono un pensionato nostalgico, un agente di commercio, una prostituta, una madre, un ventenne addetto all’assemblaggio e un piccolo imprenditore, tutti rappresentati dall’attrice. Il musicista Gianluigi Meggiorin, autore dei sei pezzi inediti che introducono i sei personaggi, oltre a suonare la chitarra, affianca la Musso come attore spalla. Sexmachine non si riferisce al tema della prostituzione, come ha più volte ribadito l’attrice-autrice, ma al contrario prende in esame la figura del cliente, anzi di tutti noi. Uomini e donne rivivono nelle varie interpretazioni della Musso e per entrambi i sessi la sessualità viene vissuta non come uno scambio emotivo, ma come uno scambio d’altro. I clienti non sono solo coloro che accostano l’auto al marciapiede per far salire una prostituta, ma lo è anche chi, da casa, accoglie favorevolmente alcuni messaggi televisivi o alcune pubblicità allusive. Sexmachine, ovvero, la “macchina del sesso” è un meccanismo perfetto, in cui c’è una domanda e un’offerta che ruotano intorno al sesso, unica merce di scambio. Riguardo al comportamento del maschio italiano (categoria alla quale la Musso si riferisce nel suo spettacolo attraverso un’analisi sociologica)10 di fronte al sesso, il bisogno costante è quello di reprimere il desiderio, una repressione che affonda le sue radici nel tipo di educazione ricevuta sin dall’infanzia, in cui a partire dall’insegnamento cattolico la pudicizia diveniva doverosa, mentre ogni riferimento al sesso e, soprattutto, all’autoerotismo era condannato categoricamente.

Alla domanda dell’intervistatrice, Claudia Malfitano: “Qual è allora l’origine di questo problema culturale italiano? Perché l’economia insegna che se c’è offerta è perché si manifesta anche una domanda? Quali sono le spiegazioni di questo bisogno sempre crescente?” la Musso risponde: “L’incapacità di superare quella consuetudine tipica italiana di doppia morale che promuove da un lato una sessualità ostentata – quella delle donne bellissime da copertina, delle modelle, delle veline che sembrano sempre disponibili – e dall’altro l’ideale della famiglia, della casa etc…con cui si scontra. Questo atteggiamento contraddittorio impedisce di guardare in faccia al vero problema, cioè al bisogno reale di questa società11”. L’attrice-autrice di Sexmachine svolge un’analisi accurata riguardo il mondo del sesso a pagamento nelle regioni del Nordest d’Italia, ricco territorio famoso anche per avere il maggior numero di locali notturni. La clientela è di qualsiasi estrazione sociale e culturale: uomini facoltosi, operai, uomini sposati, scapoli e padri di famiglia. La Musso continua: “Io personalmente sospendo il mio giudizio morale sulla prostituzione. Non giudico né i clienti né

10 http://www.istitutointernazionaleperlaricercateatrale.it/venezia/archivio-attori-veneti/giuliana-musso/biografia/ a cura

di Patrizia Baggio

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15 tanto meno le donne che fanno sesso a pagamento. Perché è proprio il giudizio stesso la causa dello sdoppiamento morale! É un cane che si morde la coda! [ … ] Dire ‘il cliente è un porco, punto’ è sbagliato e insufficiente. Bisognerebbe chiedersi il perché. Perché c’è domanda di sesso a pagamento? Perché c’è risposta di donne che si vendono?”12

Il testo drammaturgico

Il testo drammaturgico di Sexmachine non è mai stato pubblicato: è composto da ventiquattro pagine e dalle informazioni contenute nella prima pagina si apprende che l’opera è stata scritta da Giuliana Musso che la interpreta. Il testo inizia con un prologo, al termine del quale si susseguono, uno dopo l’altro, i monologhi dei sei personaggi. La struttura è costituita dalle battute dei personaggi e alcune di queste battute sono accompagnate da brevi didascalie, in corsivo, necessarie per comprendere a chi si rivolge ciascun personaggio, invece per accentuare l’enfasi di certe frasi viene usato il “grassetto”.

Prologo

Il Prologo è scritto in forma di canzone composta dal ritornello, “Sexmachine”, ripetuto sette volte in totale prima di ciascuna delle sei strofe, in cui le frasi sono brevi e spesso contraddistinte dal punto esclamativo finale. L’autrice talvolta ricerca la rima ma la usa con parsimonia. Inoltre, il prologo è interamente costruito su toni sarcastici.

La Musso si rivolge al pubblico con un caloroso benvenuto, poi elenca una serie di stereotipi riguardanti il popolo e la cultura italiani e infine, da abile venditore intento a promuovere e soprattutto a fare acquistare il suo prodotto, gioca la carta dei luoghi comuni. Esalta e compiace i presenti con moine varie: una bella apparecchiatura per servire la sua appetitosa pietanza che altri non è che sesso:

Sexmachine.

E’ la grande macchina del sesso. Benvenuti fratelli e sorelle, benvenuti Avanti, ci stiamo tutti,

uomini e donne,

basta sapersi riconoscere, ammettere di essere inclusi...

e niente paura che ci conosciamo tutti.

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Siamo noi, italiani:

figli mammoni e amanti focosi, con le donne più belle del mondo e il sacro vincolo del matrimonio e i figli che son pezz’ e core!!! Noi, italiani: popolo di santi, poeti,

navigatori e puttanieri

Da notare le contraddizioni elencate dall’autrice riguardo al popolo italiano: “figli mammoni” da una parte e “amanti focosi” dall’altra, sostenitori del vincolo coniugale e pure “puttanieri”. Il prologo è stato concepito dalla Musso come una esasperazione, ovviamente, dei meccanismi di compravendita legati al sesso, come il titolo dello spettacolo suggerisce. L’attrice esalta le qualità di un sistema, quello della “macchina del sesso”, che spinge ogni possibile cliente a comprare, ad osare, a provare il sesso, visto solo come mera merce esposta, svincolato dai sentimenti e, apparentemente, svincolato addirittura dalla figura umana sostituita dalla macchina appunto. Sexmachine è una sorta di inno sul quale si pone l’accento:

Sex machine.

E’ il nostro erotic magic store, amici! C’è il reparto soft-porno a canone rai per tutta la famiglia:

tanti culetti giovani e scoperti innocue tettine

ballerine

depilate profumate e fotospogliate! Un bel modello di ragazza di successo per le nostre adorate figlie

che hanno tutte la bulimia: due dita in gola sopra al cesso divento magra e scappo via!!

L’autrice evidenzia con spietato cinismo alcune caratteristiche che appartengono al mondo dello spettacolo e della prostituzione, due mondi a volte molto vicini, dove sono gli interessi economici a prevalere:

L’Istat ci dice

che su cento donne violentate in Italia 20 sono state violentate dai mariti, 17 dai fidanzati

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24 dagli amici

solo 3 donne e mezza da un maniaco sconosciuto. Vi spaventano queste cifre?

State tranquilli amici,

è sesso sicuro: il 90 per cento di queste donne, lo stupro, non lo denuncia…

L’accento cade poi sulla violenza fisica e psicologica subita dalle donne da parte degli uomini; questa volta sono i dati dell’Istat a parlare e a descrivere un paese che tutto ha, ma non la civiltà, non l’umanità, non il rispetto altrui ed è spontaneo chiedersi perché ancora oggi questi dati siano allarmanti, perché la violenza contro le donne non si sia ancora placata:

[ … ]

Sex machine.

E siamo arrivati al nostro fiore all’occhiello: sesso porco a pagamento,

dentro tutti è così bello!!

Nove milioni di rapporti sessuali a pagamento all’anno, settantamila donne sul mercato,

e l’ottanta per cento sono straniere.

Perché ci piace così: esotico, sottomesso e sottopagato.

Viene pure riportato il tema dello sfruttamento della prostituzione di ragazze straniere, spesso minorenni, schiave di un ricco mercato di cui sono soltanto pedine mosse da abili mani:

Sex machine.

E’ la macchina delle libertà!

Perché oggi siamo liberi di farlo di nascosto, ne abbiamo un maledetto bisogno.

E basta con la caccia all’orco cattivo,

ma chi è? No, noi siamo così, rendiamocene conto. Questo è “The real italian way of life”!!

E ogni cosa ha il suo prezzo, ogni cosa ha il suo posto: La mamma in salotto,

la morosa in pizzeria, la gnocca sullo schermo, e la nigeriana in tangenziale.

“Più liberi siamo più andiamo a farlo di nascosto, con donne che non conosciamo e che spesso libere non sono13” sostiene Giuliana Musso con un accostamento ossimorico. Quest’ultima strofa

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18 riassume le contraddittorietà che contraddistinguono il popolo italiano secondo la drammaturga vicentina: in primo luogo il bisogno, che certi uomini hanno, di pagare per soddisfare i propri bisogni sessuali pur non avendone bisogno e, soprattutto, senza una reale motivazione (“Oggi siamo liberi di farlo di nascosto”); questo comportamento è dovuto ad un modo di pensare e di relazionarsi tipicamente italiani, dove da un lato si tende a reprimere il desiderio, ma dall’altro si vede il rapporto sessuale come perverso e la prostituta come unica donna in grado di soddisfare completamente i bisogni animaleschi del maschio. A tale proposito la Musso afferma:

Mentre il mercato si espande e la domanda di sesso mercenario cresce, crescono gli abusi, i crimini, e si concretizza, sotto forma di leggi dello Stato, la voglia di ridurre la libertà delle donne e di limitare il loro diritto ad esercitare con dignità e sicurezza il loro mestiere. Sexmachine ci parla di sesso e potere. Nella grande macchina del sesso ci siamo tutti, e per tutti la potenza si misura in denaro, anche a letto. Lui è pulito: paga. Lei è sporca: guadagna. Lui si vanta con gli amici o con gli elettori. Lei si deve giustificare.14

In secondo luogo la visione della donna da parte dell’uomo: la donna vista solo e unicamente come madre per il figlio, come moglie per il marito e come prostituta per il cliente; a ciascuna il suo ruolo, il suo compito, la sua etichetta che la società le ha dato e a cui non può sottrarsi. Una visione maschilista che affonda le sue radici nel potere patriarcale, dove la donna è sempre stata soggetta all’uomo, a lui doveva rendere conto e da lui doveva essere giudicata. La fine del prologo segna l’inizio di sei quadri scenici, in cui trovano spazio gli assoli delle quattro figure maschili e delle due femminili.

Personaggi

Dino

Dino, pensionato nostalgico è il primo dei sei personaggi impersonati dalla Musso e inizia a parlare rivolgendosi al chitarrista:

Ma ti hanno cacciato fuori di casa? Capita sai: la figlia di mia sorella suona il sassofono, hanno cambiato casa tre volte. Una tragedia… ma la passione… come fai? Hai la passione tu? Si vede, bravo. E poi mi fa piacere incontrare qualcuno qua. Quando vengo io qua non c’è mai nessuno: passo tutte le mattine, faccio la camminatina. Vengo giù da Viale Roma, attraverso la piazzetta, il giardino, poi faccio la riva, salto il ponte e torno a casa. Lo faccio perché è la prima regola della salute: camminare tutti i giorni. E la seconda? A tavola con moderazione. Lo dicevano anche i nostri vecchi: ‘alzarsi da tavola sempre con la fame!’ (anche perché

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loro da mangiare non avevano)… E la terza regola? La compagnia delle donne! Quello è il segreto della salute!!

La scena sembra svolgersi all’aperto come suggeriscono le battute di Dino. Da queste prime frasi si intuisce il lato comico del personaggio la sua tendenza a scherzare e lo fa utilizzando un linguaggio semplice e colloquiale ma pulito. I periodi sono brevi e concisi e grazie alle limitate ma esaustive informazioni suggerite da Dino appare un quadro abbastanza chiaro delle sue abitudini e del suo modo di pensare. Il testo è sprovvisto di note didascaliche riferite al ritmo da usare per l’interpretazione delle battute scritte, ma per dividere due frasi, o meglio, due differenti concetti la Musso ricorre ai punti di sospensione identificabili anche come pause. Il pensionato cerca di stabilire una comunicazione con il chitarrista attraverso semplici domande alle quali Meggiorin sembra non rispondere, dal momento che nel testo non è previsto il suo intervento ( il testo qui differisce dalla rappresentazione). Le domande del pensionato sembrano scritte per rimanere sospese, anche perché è lo stesso Dino a rispondersi: un modo di scrivere tipico del monologo incentrato sulla riflessione ad alta voce del personaggio e anche un modo di raccontare, alquanto usuale, di alcune persone in età avanzata che sono solite parlare più con sé stesse che con chi hanno di fronte. Il pensionato rivela la sua passione per le donne, distinguendo però da questa generalizzazione la moglie, quest’ultima vista come figura sacrale della casa necessaria alla procreazione e indispensabile per la cura del marito durante la vecchiaia. La visione di Dino è verosimile per il personaggio che interpreta, infatti porta con sé alcuni modi di pensare riconducibili a cinquant’anni fa, ma ancora attualissimi. La visione della donna come angelo del focolare e allevatrice di progenie continua ad imperare nella mente dell’anziano che nel matrimonio credeva e ci crede ancora e stenta a capire le scelte dei giovani d’oggi, compresi i suoi stessi figli, a non volersi sposare, a convivere, o peggio dopo qualche anno di matrimonio a divorziare: “Ma non si sposano più questi giovani! Ma perché non vi sposate più? È così bello il matrimonio! Guarda me: come mi trovi? Dì la verità. A parte il ginocchio che oggi mi fa più male di ieri, come mi trovi? Un principe!! E sai perché? Perché ho mia moglie che mi cura: 46 anni di matrimonio e non ho mai alzato la voce una volta, mai litigato! Io con mia moglie ho fatto anche tre figli”.

La regola base per un matrimonio felice e duraturo è un sano equilibrio secondo Dino: con la moglie vivere la quotidianità, crescere i figli, assicurarsi una buona vecchiaia dunque e, invece di reprimere i propri bisogni fisici (dal momento che la moglie non sempre è disponibile per soddisfarli) con conseguenze disastrose per il rapporto di coppia, cercare in altre donne ciò che in casa non si trova:

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Di la verità, porco assassino. (al chitarrista) Tu la moglie la vuoi un pò maiala, come Cicciolina? Sì o sì? Ha detto di sì! Visto?! Sbagliatissimo! La moglie non si tocca: la moglie è un tabernacolo, è una perla, un santino!! Stai fermo con quelle zozze mani. Attenzione, sturatevi le orecchie. La moglie non si tradisce mai. Mai guardare la moglie di un altro. Lo dice anche Dio. Neanche al mare! Io lo posso dire forte: mia moglie non l’ho MAI tradita! (46 anni di matrimonio). Certo… se, e sottolineo se, hai proprio bisogno di sfogarti…perché il maschio obbedisce alla natura, deve portare avanti la specie, (al pubblico) vero dottore? E a volte è un’impellenza forte, hai l’animale che ti si arrampica dentro, e trattenersi troppo fa male alla la salute, lo dice anche Mirabella. …e la moglie può avere dei periodi anche lunghi di mal di testa… Allora, (al

musicista) cosa fai? Vai dove devi andare: da quelle signorine là che sono fatte apposta per quei momenti di

bisogno. Quelle sante donne che salvano le famiglie! E non facciamola tanto tragica che lo sanno tutti che il mondo va da sempre così e ci sarà un suo perché.

Talvolta le domande sono seguite da punti di sospensione e anche in questo caso l’uso della punteggiatura è rilevante, infatti essi mettono in evidenza il quesito stesso, con la speranza di suscitare una risposta non solo da parte del chitarrista ma anche da parte del pubblico. Altro dettaglio non trascurabile riguarda le sfumature di linguaggio attraverso parole più colorite: è il caso di “porco assassino” rivolto al chitarrista e di “maiala” in merito all’immagine della donna, ma entrambi i termini non hanno qui valore offensivo, bensì spiritoso e ironico. L’argomento successivo viene introdotto come una “storiella”, usando le parole di Dino, come se il personaggio si calasse nei panni di un cantastorie intento a raccontare al suo pubblico la novella del giorno ambientata in tempi remoti. Le “case chiuse” magicamente si riaprono nella memoria dell’anziano e si fanno largo i ricordi: dai giovani spinti dal bisogno di sfogare i primi impulsi sessuali agli adulti, invece, in fuga dalla routine domestica e in cerca di puro piacere. Il testo corre sul binario del tempo e ripercorre uno degli avvenimenti salienti della storia italiana: la chiusura delle case di tolleranza con l’attuazione della legge Merlin15

. Le conseguenze, dopo quel fatidico giorno di sfratto (il 20 Settembre 1958), furono varie e non si presentò solo il problema di cercare alloggio da un’altra parte per le ex prostitute, ma di trovare di che sfamarsi. La legge Merlin, chiudendo quei luoghi di piacere, non eliminò il problema, come forse ci si sarebbe aspettati, ma ne creò altri e più gravi: la prostituzione da quel momento divenne illegale, ma questo non la fermò, perché si riversò in strada o in pensioncine compiacenti, sfuggì al controllo statale finendo in mano alla malavita; da quel momento lo Stato non si curò più della salute delle prostitute (prima monitorata dal medico del luogo ogni settimana) e, contro il proprio interesse, neanche più delle tasse che le gentili signorine pagavano grazie al loro onesto lavoro16. Attraverso le parole di Dino appare subito chiaro cosa comportò quella legge:

15 http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2008/aprile/legge-75-1958.html 16

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Hanno chiuso contemporaneamente 717 case di tolleranza su tutto il territorio italiano. Una tragedia nazionale. Un trauma. Un senso di solitudine. E mi ricordo che era un lunedì. Ci siamo ritrovati, qua in piazzetta, in una decina di scapoli per vederle uscire, perché non potevamo crederci che era vero. E poi sono uscite. Era vero. Tutte eleganti con i gioielli, i cappellini, la valigia, sembravano delle signore che andavano a prendere il piroscafo per l’America. Invece erano disperate perché non volevano uscire, non avevano mica una casa dove andare. E chi se la prendeva adesso una così? Tu, te la saresti presa una così?... E non è mica vero che facevano tutti questi soldi… no, leggende. La sai la storia della marchetta? No. Lo sapevo. Te la spiego io: la marchetta era quel pezzo di bachilite che ti davano quando tu pagavi la quota per la ragazza. Di quei soldi la metà se li prendeva lo Stato. Monopolio! Hai capito? Lo stato... abbiamo ricostruito l’Italia con quelle marchette: altro che monopolio... MONApolio!! Con la metà che restava dovevano pagare l’affitto, il vitto, la biancheria e le visite mediche. Se una veniva scoperta che era malata le davano un bel calcio nel di dietro e la spedivano al sanatorio. C’era l’igiene a quei tempi! E così, di soldi in tasca ne restavano pochi. Io lo sapevo, e, quando potevo, lasciavo la mancia. Mi volevano tutte bene e si ricordavano di me quando tornavano.

Sempre interessata alla comicità la Musso si diverte anche con il suo dialetto di appartenenza, il veneto, dando spazio a giochi di parole con allusione prettamente sessuale: è il caso di “monapolio” invece di monopolio, dove “mona”, in dialetto veneto, è chiamato il sesso femminile. Naturalmente, anche all’epoca dei bordelli la vita di una prostituta non era tutta rose e fiori; non va dimenticato cosa spingeva giovani ragazze o donne adulte ad intraprendere quel tipo di mestiere: ad esempio la fame e la miseria caratteristiche purtroppo primarie nell’Italia del dopoguerra che, con fatica, si stava a poco a poco rialzando. Rispetto alla strada ovvio che la casa di tolleranza era preferibile, ma spesso la scelta di vendere il proprio corpo era l’unica via da percorrere per alcune donne17. Da quel 20 settembre 1958 ad oggi sono passati cinquantasette anni e anche se le circostanze sono cambiate le esigenze sono sempre le medesime è Dino a dimostrarlo:

Così adesso se proprio ho un bisogno… sai, quei momenti di impellenza… che hai l’animale che ti si arrampica dentro… (che animale hai tu? - La rana hai tu…) Sai cosa faccio? Uso la tecnologia: telefono. Alla Silvana. Massima riservatezza, ambiente raffinato, solo su appuntamento. Ci conosciamo da tanti anni. Io porto sempre fiori e cioccolatini, anche se lei non li può mangiare, è il pensiero che conta. Anche lei non è più una giovanotta perché io non sono come il cavaliere, a me piacciono le giuste proporzioni. E poi ridiamo come matti, perché è una donna allegra. Una volta le ho detto ‘Silvana, sei così bella che se mi aiuti ti distruggo!!’ E lei ride. Mi dispiace che ultimamente anche lei è piena di dolori. Ha detto che non ce la fa più, che vuole smettere, che va in pensione. Capisco. Le ho detto ‘Silvana, dai, resisti… Se resisti tu, resisto anch’io. Se tu smetti, questo affare mi va in cancrena, mi cade giù. Cosa vogliamo fare, una tragedia greca? Non si abbandona un povero vecchio così! Abbi un po’ di carità cristiana… Silvana’.

Dopo un attimo di pausa, Dino rammenta che è martedì, giorno in cui sua figlia pranza a casa con lui e la moglie: l’anziano la ritiene acida e la causa andrebbe cercata nella sua scelta di restare nubile. La figlia viene descritta dal padre con disprezzo e ricordando un litigio avvenuto pochi giorni prima sono queste le parole che usa per zittirla: “[ … ] mi devi portare rispetto!! Hai

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capito?! Che io a mio padre gli davo del Voi, hai capito?! Stai zitta. Stai muta. Giù con la testa. Giù con la testa!!… Puttana!”.

Il “grassetto” è importante, perché comunica un tono acceso avvalorato dai due punti esclamativi alla fine di alcune proposizioni o dal punto interrogativo seguito da quello esclamativo. Il termine “puttana” è un’offesa grave rivolta alla figlia e, dopo averla pronunciata, il personaggio appare sotto una luce diversa, nuova e meno bella di prima: quella di un padre che insulta la figlia e la denigra in quanto donna. Il personaggio da tranquillo, scherzoso e dai toni pacati ha un mutamento repentino che gli fa perdere il controllo come lui stesso ammette e dopo un saluto conclude il suo pezzo: “ (Al chitarrista) Ecco, ho perso il controllo... me ne stavo andando via senza salutarti eppure io la maleducazione proprio non la sopporto. Arrivederci caro ragazzo, grazie per la compagnia e complimenti per lo strumento. E mi raccomando però: sposati! Che il matrimonio è la cosa più bella che c’è! Forza giovanotti, fatevi coraggio. Arrivederci.”

Vittorio

Nel secondo quadro scenico si colloca Vittorio: per lui il sesso è un’ossessione, lo è sempre stata fin da quando era bambino e non riesce proprio a farne a meno, come se per lui fosse ossigeno, indispensabile per la sua esistenza e non lo nasconde: “Mi tira sempre. Perché mi piace quella cosa che hanno le donne tra le gambe. Ci penso sempre. Non dico che sia la prima cosa che penso al mattino quando mi sveglio, ma la seconda di sicuro Anche durante il giorno: guido la macchina, sono solo, penso e mi diventa duro.”

Il personaggio inizia a parlare esponendo un concetto, rivelando un lato del suo essere senza neanche presentarsi. A differenza del linguaggio usato da Dino, più pudico e sicuramente meno esplicito, Vittorio adotta fin dalle prime battute un registro alquanto basso colmo di allusioni al sesso e in particolar modo sia ai genitali femminili che a quelli maschili. I periodi sono molto brevi e diretti ed esprimono concetti semplici ma volgari. Le esperienze sessuali per Vittorio sono molteplici e di ogni tipo:

Era un periodo che avevo un sacco di storie e in più conosco questa: bellissima, una statua. E transessuale. Non so se hai presente il tipo. Hai presente il tipo? Hai presente. Femmina, strafemmina, col cazzo! E quindi col potenziale erotico di un uomo. Non era mai sazia, ne voleva sempre, sempre! Io per un mese non ho dormito, non mangiavo, son dimagrito, mi son sentito male, mi hanno portato all’ospedale e su con la flebo: ‘deperimento fisiologico’ mi han detto. E’ venuto a prendermi Sandro il mio amico fuori dall’ospedale e mi ha detto ‘Vittorio…sei proprio una macchina sessuale ambulante!’.

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23 Il ritmo del monologo appare incalzante privo di pause un racconto fitto e dai contenuti quasi surreali. Il personaggio è vittima dei suoi stessi impulsi crede di placare il suo bisogno fruendo continuamente dell’atto sessuale, ma in realtà lo amplifica: una dipendenza che condanna Vittorio ad una sofferenza costante, poiché da una parte c’è il sollievo dopo aver soddisfatto l’appetito, anche se per poco, e dall’altra il tormento di una voglia che si ripresenta più violenta di prima. L’ossessione sembra attenuarsi con l’arrivo di Sabrina:

Io sono stato sposato. Dopo tre anni di fidanzamento con la Sabrina. Bella femmina, simpatica, spregiudicata, il tipo giusto per me. Dopo tre anni così, la Sabrina mi fa: Vittorio, e un domani? Vittorio, e i

figli? Vittorio, e il futuro? Voleva l’anello. Dico: sei sicura Sabrina? Mi conosci, no? sei sicura?... …Va

bene, sposiamoci. Ma che problema c’è? dai, sposiamoci! [ … ] Dopo sei mesi, sei mesi di matrimonio, la Sabrina mi fa Vittorio, voglio la separazione. Dico ‘Stai scherzando Sabrina, sei diventata matta?’ No, ti ho

visto che palpavi il culo a una bionda… Certo che le ho palpato il culo, certo. Ma mi ricordo solo quello,

Sabrina, non mi ricordo neanche che faccia abbia quella bionda, non so neanche come si chiami. Sabrina!

non fare scherzi. Sono cazzate queste. Lo sapevi com’ero fatto Cosa vuoi ancora da me? Ti ho dato tutto quello che hai voluto! Cosa vuoi ancora da me?!! Sabrina, lo sapevi com’ero!! Sabrina!! Dove vai? Vai via, che sennò ti prendo a calci.….

Vittorio imita il linguaggio della ex moglie e lo si capisce dal corsivo usato per le battute di Sabrina, mentre in grassetto si distinguono le frasi in cui Vittorio si anima. Ciò che traspare in questa prima parte del monologo è la completa assenza del lato umano del personaggio che non lascia intravedere alcun segno di affettività né passata né tantomeno attuale nei confronti della sua ex moglie o nei confronti delle tante donne che sostiene di aver frequentato. Vittorio ragiona come un macchina non esterna sentimenti o emozioni agisce d’istinto e sfrutta donne, e non, per i suoi scopi. Vittorio è un egoista, un narcisista, un anaffettivo e ne è consapevole: in più è menefreghista, maschilista e materialista, l’unico suo pregio sembra essere la sincerità; infatti egli ammette fin dall’inizio il suo “problema” e a primeggiare è la sua spontaneità e la sua chiarezza: “La mia filosofia è questa: nella vita non c’è niente di gratis. Allora mi domando e mi chiedo perché ci dovrebbe essere la figa gratis. Non c’è: la donna, anche quando dice di amarti, comunque vuole qualcosa in cambio, lo vuole e lo pretende, e tu, volente o nolente, glielo devi dare. Allora tanto vale pagarle. E poi le puttane sono tanto più sincere: vogliono i tuoi soldi e te lo dicono”.

Il personaggio non si risparmia le volgarità e la parola “figa” ne è un esempio, ma non è tutto: si sarebbero potuti usare altrettanti termini per definire la figura della prostituta, però Vittorio ne sceglie uno in particolare, “puttana” per esattezza, e non lo fa a caso: la sua è una scelta mirata atta a denigrare la donna in sé e a maggior ragione la donna che si vende per soldi. È come se oltre ad acquistare le prestazioni sessuali dalla prostituta il cliente acquistasse pure il diritto di insultarla. L’erotomane in quanto agente di commercio si intende di affari e il sesso lo considera innanzi tutto

(24)

24 come un dare e avere, sistema basilare del mercato, e proprio su questo scambio equo si incentra infatti la pièce della Musso, che riunisce in questo suo personaggio il tipo di cliente lavoratore e indipendente:

Io lavoro come una bestia. Mi sveglio tutte le mattine alle sette. Faccio quasi 100.000 Km. in un anno. Fatturo miliardi, cifre che se le vedi ti spaventi. Porto in macchina un campionario da 200.000 euro, che c’ho i colleghi che girano con la macchina blindata. Sì. Lavoro tanto, guadagno tanto. Ma se vai a vedere nel mio conto corrente ci saranno, si e no, 10.000 euro. Sai perché? Perché tutto quello che entra, esce. Spendo tutto. Subito. Io faccio girare l’economia! Alberghi, ristoranti, locali, viaggi, ho girato tutto il mondo, tutto il mondo!! E donne. Mi cavo tutte le voglie io. Spendo dai 20 euro per andare con le negre per strada ai 600, 800, 1000! Per andare con le escort, le accompagnatrici.

Il personaggio si sofferma ad elencare alcune cifre significative per lui e da qui è evidente come il suo modo di pensare si concentri solo ed esclusivamente sui numeri e pure le donne con cui è stato vengono considerate alla stregua di cifre numeriche. La Musso dipinge a chiare tinte il business del sesso, differenziandolo in quello di prima categoria, di cui fanno parte le accompagnatrici di alto bordo, e in quello di seconda, dove si collocano le prostitute da marciapiede, così da sottolineare il divario costante creato dalla ricchezza anche, o forse soprattutto, in questo tipo di settore. Al cliente lo sfruttamento sessuale non interessa, non importa se per strada ci sono delle minorenni straniere condotte con l’inganno nel nostro paese, illuse di trovare lavoro e condizioni di vita agiate, oppure vendute dalla famiglia d’appartenenza per pochi spiccioli, anzi spesso se le prostitute sono bambine attirano più clienti. Purtroppo il tema della prostituzione è ampio e complesso, dal momento che non si tratta solo di sesso a pagamento consenziente, ovvero, di individui (donne, uomini, trans ecc…) che decidono di intraprendere questo mestiere, ma soprattutto di ragazze obbligate, per vari motivi, a lasciare il proprio paese d’origine per un altro paese (in questo caso l’Italia) e una volta lì costrette, sotto minacce e torture, a prostituirsi per arricchire i propri protettori che su queste ragazze hanno il diritto di vita o di morte (nel monologo infatti il personaggio si riferisce a questo tema quando parla delle “negre per strada”). La Musso sospende il suo giudizio e lo fa per capire la causa o le cause di certi comportamenti umani: questa storia non si divide in buoni e cattivi, ma racconta di persone. Vittorio è un cliente di oggi, in un Italia del Nord-Est “invasa” da passeggiatrici straniere, in un mondo dove la globalizzazione ha colpito pure la prostituzione:

A Bangkok vai nel bar, prendi il caffè e la (solo labiale)…figa. Entri, sotto c’è il bancone con il barista, sopra una specie di terrazza con le ragazze che aspettano tutte nude, in fila, con un bel numero appeso al collo. Paghi al barista e te la porti via. Quanto vuoi? Un’ora? Due ore? Due giorni? Tre giorni! E quella lì per tre giorni è tua e fa tutto quello che vuoi tu, con te e con i tuoi amici. Quando è scaduto il tempo la riporti indietro. Eccola qua, la Thailandia! E sono tutte giovanissime che dici ‘questa mi fa finire in galera’. E invece no, perché lì una ragazza di quindici anni è una donna fatta e finita che se ti vede che sei un turista ti

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