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Sistemi agro-silvo-pastorali in un contesto dell’Etruria costiera. Aspetti conservativi del paesaggio in una prospettiva di lunga durata

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UNIVERSITÀ DI FOGGIA

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI

______________________________________________________________________

Scuola di Dottorato

Le culture dell’ambiente, del territorio e dei paesaggi

Corso di Dottorato

Storia e Archeologia Globale dei Paesaggi XXVI CICLO

Sistemi agro-silvo-pastorali in un contesto dell’Etruria costiera. Aspetti conservativi del paesaggio in una prospettiva di lunga durata

Coordinatore: Prof. Giuliano Volpe Tutor: Prof. Franco Cambi

Co-tutor: Prof. Graeme Barker

Dottorando: Dott. Edoardo Vanni

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Indice

Introduzione: istruzioni per l’uso p. I Parte I.

Capitolo I

1. Bosco, deforestazione e crisi ecologica p. 1

1. 1. La deforestazione nel quadro dello sfruttamento integrato delle risorse p. 1 1. 2. La deforestazione come problema storico-archeologico p. 2

1. 3. Continuità e discontinuità della copertura vegetale p. 9

1 4. Cartografare il pieno, percepire il vuoto: the busy countryside p. 11 1. 5. Fame di bosco: equilibri e demografia nel paesaggio p. 12

1. 6. Metallurgia, carbone e disboscamento p. 18 1.7. Penuria e commercio, bosco e disbosco p. 21 1. 8. Conflitti e contese p. 27

1.9. Gestire le risorse p. 29

1.10. Polline, clima, azione antropica ed erosione p. 30 1. 11. Regime della terra, regime dei boschi p. 35

1. 12. Resilienza e collasso: soluzioni teoriche all’interazione uomo-ambiente p. 38 Capitolo II

2. Bosco, vegetazione ed uso del suolo: indicatori eco-archeologici per la ricostruzione dei sistemi agro-silvo-pastorali p. 42

2. 1. Pascoli e spazi aperti: alcune riflessioni p. 46

2. 1. 1. Un esempio di ‘spazio aperto’(1): il prato/pascolo alberato p. 48 2. 1. 2. Un esempio di ‘spazio aperto’(2): la savannah p. 51

2. 2. Etnobotanica, ecologia storica e fitosociologia come approcci per l’uso del suolo p. 57 2. 2. 1. Specie indicatrici e tracce di pratiche pregresse p. 60

2. 2.1.2. Una particolare specie indicatrice: l’ontano (Alnus) e il sistema multiplo dell’‘alnocoltura’ p. 63

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2. 3. Corridoi floristici, corridoi di memoria e mobilità: le pecore transumanti come macchine da semina p. 69

Capitolo III

3. Il paesaggio vegetale nella Toscana meridionale. Un tentativo di ricostruzione di lunga durata p. 75

3. 1. Analisi polliniche, sedimenti e resti carpologici p. 75 3. 1. 1. Il lago dell’Accesa p. 78

3. 1. 1. 1. Cambiamenti climatici o azione antropica: gestione delle risorse intorno ad un lago p. 85

3. 1. 2. Populonia, la laguna, il sale, l’ambiente p. 87

3. 1. 2. 1. La coltivazione di Vicia faba come attivazione di pratiche integrate? p. 97

3. 1. 2. 2. Relitti di abetine sul monte Amiata come indizio di gestione storica integrata p. 101 3. 1. 2. 2. 1. L’abetina del Pigelleto nel più ampio contesto della mobilità transumante tra settecento e ottocento p. 108

3. 1. 3. Campiglia Marittima p. 116

3. 1. 3. 1. Il monastero di S. Pietro in Monteverdi come promotore di una gestione silvo-pastorale integrata? p. 120

3. 1. 4. Donoratico p. 128

3. 1. 4. 1. Scelte arboricole in un comprensorio dell’alta Maremma p. 134

3. 1. 5. Follonica/Rondelli, Pian d’Alma, Val Petraia. Tre siti per un comprensorio. Riflessioni di ecologia storica p. 135

3. 1. 6. Cinigiano p. 145

3. 1. 6. 1. NPP’s come indicatori di pascolo in particolari associazioni fitosociologiche p. 152 3. 1. 10. Il fiume ed il lago. Dati da un ambiente umido (Grosseto) p. 168

3. 1. 10. 1. Pascolo in pineta? p. 176

3. 1. 10. 2. Relitti di Quercus in Maremma e nascita dello sfruttamento intensivo di olivo. Alcune riflessioni p. 185

Parte II Capitolo IV

4. I resti faunistici provenienti da alcuni siti dell’Etruria per la ricostruzione delle pratiche agro-silvo-pastorali: il problema p. 198

4. 1. I contesti p. 201

4. 1. 1. L’Etruria settentrionale costiera: a) Populonia, b) Campiglia, c) Rocca S. Silvestro, d) Scarlino p. 205

4. 1. 2. La pianura e il fiume Ombrone: a) Grosseto, b) Roselle, c) Cinigiano p. 217 4. 1. 3. La val d’Orcia e la Val di Chiana: a) Chianciano, b) Torrita di Siena p. 224 4. 1. 4. La valle dell’Albegna: a) Cosa, b) Settefinestre p. 231

4. 1. 5. La Valle del Fiora: a) Pitigliano, b) Scarceta, c) Sorgenti della Nova, d) Sovana p. 237

4. 2. Comparazioni archeozoologiche e mutamenti ecologici: alcune riflessioni nel quadro dell’evoluzione dell’Etruria p. 247

4. 2.1. Tra età del Bronzo ed età romana: il ruolo dell’allevamento p. 247 4. 2.2. Tra medioevo ed età moderna: il ruolo dell’allevamento p. 254 Capitolo V

5. Il sale come attrattore di pratiche. Tra dieta degli uomini e degli animali.

5. 1. Introduzione p. 268 5. 1. 2. L’antichità p. 270

5.1.2.1. I contesti. Dal Bronzo all’età romana p. 271 5. 1. 3. Il Medioevo p. 282

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Capitolo VI

6. Spunti per una geografia del sacro. Culti, zone umide, mobilità e gestione delle risorse p. 310

6. 1. Culti e Dei per la ricostruzione delle pratiche agro-silvo-pastorali: una storia possibile? p. 3106. 1. 1. Il santuario come confine e luogo periferico p. 310

6. 1. 2. Il santuario come central place o luogo di aggregazione p. 318 6. 1. 3. Un particolare culto strutturante: Ercole, il sale e la mobilità p. 323

6. 2. Contesti ‘divini’. Diana, Ercole, e Silvano p. 328

6. 2. 1. Diana in Etruria, una dea ‘liquida’ p. 329 6. 2. 1. 1. Diana paralia, Diana costiera? p. 345 6. 2. 1. 1. 1. Diana a Cosa p. 345

6. 2. 1. 1. 2. Diana alla foce dell’Ombrone: Scoglietto p. 350 6. 2. 1. 1. 2. 1. Il contesto particolare p. 351

6. 2. 1. 1. 2. 2. Il contesto generale p. 353

6. 2. 1. 1. 2. 3. Lo scavo e la sequenza stratigrafica p. 355 6. 2. 1. 2. Riflessioni a margine su una dea liquida p. 363

5. 2. 1. 2. 1. I Poggetti Vecchi e le acque: terme o santuario? p. 372

6. 2. 1. 3. Sulla famiglia degli Haterii, e altre gentes in Etruria: lo sfruttamento delle risorse boschive p. 388

6. 2. 1. 4. Un intermezzo erudito: la dea Pales nella città di Cosa? (Au dossier des Palés) p. 403

6. 2. 2. Ercole in Etruria, Ercole dovunque p. 416 6.2.2.1. Ercole, il sale e la mobilità p. 417

6.2.2.2. Ercole dio di transizioni: empori, acque e zone umide p. 433

6. 2. 1. 2. Un intermezzo erudito parte seconda: Acca Larentia, Ercole e i culti del Velabro p. 445

6. 2. 3. Selvans/Silvanus: dio di spazi aperti e pratiche integrate p. 453 6.2.3. 1. Aspetti cultuali rivisitati in chiave silvo-pastorale p. 455 6. 2. 3. 2. Cultura materiale, paesaggio e divinità p. 460

Capitolo VII

7. Sistemi agro-silvo-pastorali nella maremma Toscana. Tra archeologia e trasformazioni ambientali del paesaggio p. 484

7. 1. Introduzione generale al tema: premesse epistemologiche, ermeneutiche e storiografiche p. 485

7. 1. 1. Questioni terminologiche p. 485

7. 1. 3. La barriera storiografica: ovvero epistemologia delle fonti p. 487 7. 2. Il contesto in esame: caratteristiche ragionate p. 489

7. 2. 1. Considerazioni generali per isolare condizioni ambientali particolari p. 490

7. 2. 2. Considerazioni ambientali calati in una sequenza storica: tra tardo antico e medioevo p. 493

7. 2. 3. Malattie, demografia e paludi p. 495 7. 2. 3.1 Malattie, zone umide e mobilità p. 496

7. 2. 5. Le zone umide come oggetto storico-archeologico p. 503 7. 3. Il popolamento nella pianura maremmana p. 514

7. 3. 1 Uno sguardo tra tardo antico e alto medioevo: una fase preparatoria? p. 514 7. 3. 2. Strategie insediative e pascoli: corridoi vs. tratturi p. 517

7. 3. 2. 1. Corridoio I p. 525 7. 3. 2. 2. Corridoio II p. 531 7. 3. 2. 3. Corridoio III p. 544 7. 3. 2. 4. Corridoio IV p. 557 7. 4. Concludere e ripartire p. 569

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7. 5.1. Di alcuni pastori nella pianura p. 576 7. 6. Appunti per una conclusione p. 588

Parte III. Appendici.

Appendice I. Appendice Cartografica p. 592

Appendice II. Principali siti italiani con analisi polliniche p. 637

Appendice III. Gli edifici per il ricovero degli animali attraverso le fonti antiche p. 646 Appendice IV. Agricoltura e allevamento. Alcuni spunti dalle fonti antiche p. 658

Bibliografia p. 671.

I. Bosco, deforestazione e crisi ecologica.

II. 1. La deforestazione nel quadro dello sfruttamento integrato delle risorse.

In una ricerca che intenda studiare il paesaggio come contenitore fisico e materiale di pratiche integrate, la deforestazione rappresenta un problema storiografico ed archeologico di altissimo interesse. Non solo perché la risorsa boschiva e lo sfruttamento forestale sono un’attività di sé di primaria importanza nel reperimento di una materia prima di ampio e vasto utilizzo, dal legno come materiale da costruzione o come combustibile, all’estrazione della pece, ma anche come pratica capacità di attivare tutta una serie di attività agro-pastorali direttamente connesse con il taglio del bosco. In questo quadro si possono distinguere una serie di gradi diversi di sfruttamento boschivo in una complessa rete di relazioni.

a. Il legno come risorsa in sé (materiale da costruzione, combustibile, per ricavare prodotti da esso derivati come la pece etc.).

b. Il taglio del bosco per l’ottenimento di spazi agricoli o a scopo di pascolo.

c. La risorsa boschiva controllata ed allevata per ottenere frutti di diverso tipo per l’alimentazione di uomini ed animali.

Il disboscamento è da sempre stato al centro di un intenso dibattito fra gli studiosi ma in una prospettiva totalmente catalizzata dal dibattito sull’intensità delle attività economiche nell’antichità. Se cioè, in particolare per l’epoca romana, le attività economiche avessero raggiunto un’intensità ed un volume quantitativo tale in termini di sfruttamento delle risorse naturali, da innescare fenomeni irreversibili nell’ambiente di ampia durata. Il disboscamento è dunque divenuto oggetto della contesa come prova a discarico o a carico di teorie e visioni economiche differenti riguardo all’antichità. La vitalità di questo dibattito che perdura tuttora1 è dovuta al fatto che il grado più o meno intenso e

duraturo dello sfruttamento delle risorse boschive è divenuta la cartina tornasole dell’annoso dibattito

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tra formalisti e sostantivisti2. Il dibattito cioè si è spostato dal quantificare i prodotti della

produzione, rappresentati indirettamente dai loro contenitori come le anfore o direttamente dal vasellame di importazione, alle conseguenze della produzione e il loro impatto sull’ambiente. Questo è stato reso possibile da uno ‘sconfinamento’ sempre più massivo delle discipline naturali e delle scienze dure in problematiche connesse la storia umana. A cominciare dagli studi sui carotaggi antartici e dalla presenza di CO2 , agli studi di ecologia storica e alle analisi polliniche3. In questo

senso si è creduto poter apportare al dibattito sulla natura delle economie antiche nuova linfa attraverso nuove questioni. La contesa continua, camuffata (ma non troppo), spostando il fuoco e la prospettiva, tenendo vive antiche e non risolte questioni. In questo paragrafo metteremo a fuoco la questione del disboscamento nell’antichità dapprima nelle sue implicazione storiche e storiografiche e successivamente mettendola in prospettiva rispetto alla chiave interpretativa del complesso sistema di sfruttamento agro-silvo-pastorale. Procederemo dal generale al particolare, indagando prima la problematica nel suo ampio contesto storiografico e disciplinare per poi scendere nel dettaglio del nostro areale di indagine tentando di dipingere un quadro alla luce dei dati disponibile secondo la nostra prospettiva, utilizzando come di consueto la comparazione con contesti simili e dissimili. In calce c’è Lucrezio V, 1370-1371 inque dies magis in montes succedere silvas/cogebant infraque locum concedere cultis.

1.2. La deforestazione come problema storico-archeologico.

L’obiettivo di Harris è quello di verificare se il mediterraneo antico è stato oggetto di disboscamenti a grande scala tra l’VIII secolo a.C e il VII d.C4 e testare la possibilità di scrivere una storia

ecologica per un periodo così ampio. Principalmente sono tre le ragioni a giustificare una simile indagine: una di carattere scientifico, legata ai carotaggi che testimoniano dei cambiamenti nei valori dell’aria tali da far pensare ad una intensa attività metallurgica e di disboscamento; le fonti letterarie, ed una di carattere storico-comparivo, infatti l’impero romano insieme ai quello Maya sono spesso chiamati in causa nei dibattiti contemporanei sullo sviluppo sostenibile5.

2 Ampolo 1982.

3 Sulle analisi polliniche, che restano uno degli strumenti più affidabili al momento per la ricostruzione della vegetazione

antica, pesano alcune incertezze metodologiche. Innanzitutto il valore del campione: l’areale di dispersione del polline non è mai stato stabilito in dettaglio, ma certamente non deve essere molto ampio, limitando il valore del campione (su questo problema Bork, Lang 2003: pp. 231-2); inoltre non vi è sempre concordanza tra la presenza di determinati taxa e l’azione antropica: questo problema è stato riscontrato da Ermolli, Di Pasquale 2002: p. 217, ‘The presence of cereal-type pollen alone cannot be considered to be sufficient evidence of agriculture due to the existence of wild grass species in this region’(campione raccolto nella baia di Salerno).

4 Harris 2011, p. 105; Sallares 2008, p. 21 definisce la questione della deforestazione, ‘the most controversial issue in

Mediterranean environmental’.

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A partire dall’VIII secolo a. C. fino al tardo antico una grande quantità di foreste furono abbattute allo scopo di ricavare terreno coltivabile e dappertutto nel mediterraneo grandi quantità di legname furono utilizzate per una serie di attività produttive condotte su grande scala: i cantieri navali, la costruzione di edifici pubblici e privati, lo sfruttamento delle miniere, il riscaldamento delle terme, la fabbricazione di mattoni e ceramica da mensa o anfore da trasporto etc. Gli indizi che possediamo suggeriscono che la domanda di legname sia come combustibile che come materiale da costruzione e da carpenteri crebbe particolarmente tra III secolo a. C. e inizi V secolo d. C., rendendo di conseguenza più intenso lo sfruttamento boschivo. Le ricerche che indagano il rapporto tra società e ambiente si occupano di solito di quelle attività connesse a questo tipo di sfruttamento, i cantieri navali, l’edilizia e lo sfruttamento del carbone, tendono ad investigarne gli aspetti più strettamente economici, legati dunque all’organizzazione dei mercati, la commercializzazione dei prodotti, il trasporto, la condizione giuridica e sociale degli attori coinvolti in questi traffici6. Dall’altro versante,

quello prettamente ecologico, lo sfruttamento boschivo rientra nel più ampio tema della gestione controllata di una risorsa così importante per l’uomo, in grado di rigenerarsi ma attraverso un suo utilizzo consapevole e sostenibile, temi che sono nella letteratura economica e sociale contemporanea di estrema attualità. Il bosco nella sua variante ecologica (per così dire) e non strettamente produttiva è stato generalmente trattato per spiegare il successo o il collasso di alcune civiltà del passato, proiettando con evidenti riverberi nel presente, un futuro altrettanto disatroso ed apocalitto7. Affermazioni radicali in merito hanno teso da una parte a considerare lo sfruttamento

boschivo durante l’antichità così intenso da condizionare in maniera irreversibile lo sviluppo delle foreste nel mediterraneo fino ai nostri giorni8 e dall’altro a ridimensionarne le conseguenze nel

tempo e nello spazio9. Per quel che ci concerne, l’approccio ecologico (quello del bosco come

bio-elemento che interagisce con altri organismi viventi compreso l’uomo)10 e produttivo (come materia

prima per le attività umane), possono illuminare l’oggetto del nostro studio. L’allevamento, la mobilità e lo sfruttamento agro-silvo-pastorale si intrecciano e si alimentano vicendevolmente. Non solo il taglio del bosco si connette in maniera connaturata al pascolo e alla richiesta di terreno coltivabile, ma innesca anche delle reti di mobilità, in cui spesso non vi è più differenza tra attività produttive differenti come il carbonaio o il pastore. I carotaggi effettuati nel corso degli anni novanta

6 Da ultimo si veda Diosono 2008a, 2008b. 7 biblio

8 Chew 2001, p. 93; Hughes 1994, pp. 89-90; Thirgood 1981; Perry et alii 2008, p. 5 pensano che l’intensa

deforestazione che oggi percepiamo nel mediterraneo sia la conseguenza diretta di quella massiva praticata nell’antichità. Wikander 2008 , p. 139 sostiene ‘que peu de doute que la Grèce et l’Italie furent sujettes à une importante déforestation au cours de la dernière moitié du millénaire avant J.-C.’. Si veda anche Harris 2011 , p. 106 n. 2.

9 Tainter 2000; 2006, p. 69, ‘Deforestation did not cause the Roman collapse. To the end, Roman mints consumed tons of

charcoal to produce millions of coins, even in places like North Africa. Builders fired millions of bricks to build the walls of Rome in the 270s. There is no evidence of wood shortages. Indeed, forests were regrowing in the late empire’

10 Secondo quest’approccio la capacità di rigenerazione delle foreste stesse farebbe si che là dove le condizioni

climatiche ne assicurano lo sviluppo, il manto boschivo raggiunga una copertura ideale a quel contesto nel momento in cui la pressione antropica viene meno, Rackham 1996, Grove, Rackham 2001, p. 174. Quest’ottica è condivisa anche da Blondel, Aronson 1999, p. 202 per i quali se è pur vero che una massiva deforestazione ci fu durante tutta l’antichità, è altrettanto vero che un rimboschimento a grande scala seguì inesorabilmente al declino di quelle grandi civiltà.

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in Groenlandia, nei depositi lacustri e nelle torbiere di alcune zone dell’Europa hanno rilevato enormi quantità di metalli pesanti, principalmente piombo e rame, derivanti dall’attività metallurgica, il che suggerisce indirettamente un alto grado di inquinamento atmosferico derivante dalla combustione di carbone11. Più nel dettaglio le analisi polliniche condotte in oramai quasi tutti gli

scavi archeologici dipingono un quadro dettagliato del popolamento boschivo in una data epoca. Ad arricchire le metodologie in grado di tracciare l’evoluzione delle foreste e dunque anche della presenza di pascoli o prati, sono state sperimentate recentemente delle campionature dei resti microscopici di certi tipi di coleotteri associati alla presenza di alberi12. Per le sequenze polliniche

datate in maniera dettagliata, ottenute da carotaggi mirati per investigare l’evoluzione della copertura boschiva sul lungo periodo, ancora molto resta da fare. A delle indagine non sistematiche, soprattutto per l’Italia, si aggiunge il problema dell’attendibilità di queste sequenze. Molte risultano non datate, ed altre risultano databili solo in maniera parziale13, con la conseguenza che solo poco sequenze

polliniche datate con certezza vengano utilizzate anche per tracciare a grandi linee l’evoluzione vegetale di contesti non pertinenti. Dal punto di vista disciplinare se oramai come ricorda Robert Sallares ‘environmental history has begun to be fully incorporated into the mainstream of ancient history’14, per l’archeologia la questione ecologica ha sin dall’inizio rappresentato uno dei grandi

temi da investigare in relazione all’evoluzione delle società del passato . Non tracceremo qui se non occasionalmente una storia esaustiva del rapporto tra archeologia e attenzione al contesto ambientale. Ci basti solo ricordare che per ovvie ragioni è stata l’archeologia preistorica a porre per prima ed in maniera prepotente il problema dell’interazione uomo-ambiente mettendolo al centro dell’agenda

11 Per i carotaggi effettuati in Groenlandia Hong et alii 1994; 1996; Renberg et alii 1994 per quelli effettuati in Svezia;

Shotyk et alii 1998 per la Svizzera; Martínez-Cortizas et alii 1999 per la Spagna.

12 Andrieu-Ponel et alii 2000.

13 Per il problema della datazione delle sequenze polliniche si veda Cevasco 2007, 138-59.

14 Sallares 2007, p. 17, n. 1. Per la storia antica si ricordano i pionieristici lavori di Huntington 1917 per la Grecia,

Semple 1932 che indaga nel più ampio contesto mediterraneo lo studio dell’ecologia e il problema epistemologico della sua relazione con la storia antica e Cary 1949 che traccia attraverso l’analisi delle fonti scritte il rapporto che gli antichi intratteneva con il mondo biologico. Più recentemente si vedano i lavori di Fedeli 1990; Traina 1990, 2002; Sallares 1991; Hughes 1994; Blondel, Aronson 1999; Horden, Purcell 2000; Grove, Rackham 2001. Un’attenzione particolare merita l’opera di Horden e Purcell per lo sforzo di sintesi circa l’evoluzione e gli approcci adottati dall’ecologia storica. Sarebbe ingiusto indicare un passo o delle pagine in dettaglio dal momento che tutta l’opera è intessuta su dei presupposti ecologici. Tuttavia si segnalano ugualmente le pp. 45-49 per un tentativo di definizione dell’ecologia storica, pp. 337-41 per la questione della deforestazione e del suo legame con la spiegazione catastrofista ed infine pp. 544-5 e 603-5 per la bibliografia e la storia della storiografia nella sezione dei Bibliographical Essays. Ovviamente tutti questi lavori che integrano storia dell’uomo e storia dell’ambiente trattandoli come un unico soggetto storico sono debitori dei lavori di Fernand Braudel (in particolare si veda Braudel 1979, p. 318 per l’incisività dell’azione dell’uomo tra XV e XVIII secolo considerati come decisivi), che per primo a posto il problema, se non direttamente dell’ecologia storica, certo quello ben più importante dell’interdisciplinarietà tra la storia e gli altri campi del sapere. Non solo con le scienze sociali ma con la grande tradizione della scuola francese della geografia storica e sociale, da cui egli stesso proveniva (su questa filiazione lo stesso Braudel ha scritto pagine inequivocabili, una sorta di piccola biografia intellettuale, Braudel 1972. Dello stesso tenore gli studi di geografia umana di Lucien Febvre che si rifà per certi versi alla scuola geografica francese di Vidal de La Blache (Fevbre 1922 [1970], pp. 73-83 per le differenze e le novità rispetto all’approccio di Vidal de La Blache) e poi Leroi Ladurie 1967 e la sua monumentale opera in tre volumi sulla storia del clima dopo l’anno mille. Dal punto di vista prettamente operativo a Braudel va attribuito il merito di aver introdotto il nuovo oggetto storico del Mediterraneo e della storia del Mediterraneo, contribuendo in maniera decisiva a definirne i tratti peculiari che sono soprattutto ambientali, con importanti ripercussioni in chiave di ecologia storica. La peculiarità ecologica del Mediterraneo si intrecciava ed alimentava quella rottura epistemologica crono topica che era l’attenzione di quella scuola di storici alla

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teorica e pratica, riscuotendo i risultati più significativi, di cui l’archeologia classica e in minor misura quella medievale da sempre più attenta all’ecologia, hanno beneficiato con estremo ritardo. Questi ritardi sono dovuti più specificamente alla natura differente delle questioni poste ai contesti archeologici e ad un diverso utilizzo delle fonti per rispondere alle domande storiche. Dobbiamo comunque constatare con sollievo che la distanza va colmandosi rapidamente15. L’interpretazione

storica di questi dati resta tuttavia controversa per quel che concerne il tema della deforestazione durante l’antichità per il mediterraneo. Se Russell Meiggs dopo la sua dettagliata analisi sul commercio di legname nel Mediterraneo durante l’antichità, si è mostrato cauto circa la drastica diminuzione delle foreste alla fine dell’impero romano16, altri come J. V. Thirgood, specialista dei

paesaggi di Cipro, si sono pronunciati in maniera più definitiva a favore della deforestazione massiva durante l’antichità17. Per Donald Hughes, i cui lavori si sono concentrati sul consumo di legname

durante l’antichità classica, queste conclusioni sono portate alle estreme conseguenze. Per lui la deforestazione fu intensa per tutto il mondo Mediterraneo ma particolarmente distruttiva nel Sud e nell’Est del bacino, concentrata in maniera abbondante nei pressi dei centri urbani o produttivi, col tempo deve aver raggiunto un’intensità tale da provocare profondi sconvolgimenti economici e sociali18. Jacques Blondel e James Aronson condividono queste conclusioni ma con un

atteggiamento più critico nei confronti dell’irreversibilità del fenomeno19. Alfred Grove e Oliver

Rackham hanno escluso che se mai una deforestazione ci fu questa debba essere attribuita esclusivamente ai greci e ai romani, ma piuttosto come risultato del grande sfruttamento sopraggiunto successivamente nel medioevo e in età moderna20. Quest’ultima prospettiva ha avuto

certamente il merito di porre in maniera critica il rapporto tra sfruttamento intensivo delle risorse boschive e i conseguenti fenomeni di erosione del suolo con le pratiche di gestione di queste risorse e la capacità di rigenerazione e tendenza al riequilibrio di un ambiente sottoposto a forti pressioni antropiche. Gli argomenti addotti sono di duplice natura: da un lato il silenzio delle fonti e dall’altro la tendenza natura dell’ambiente al riequilibrio. Se da un lato si pone in maniera problematica la forte pressione antropica come causa di una eventuale diminuzione del popolamento vegetale, bisogna anche ricordare come anche quelle civiltà che hanno notoriamente prestato forte attenzione alla gestione delle risorse boschive, come i Maya dell’età classica tardiva del Tikal, hanno non di

15 Le difficoltà pratiche di valutare in maniera corretta ed indipendente da parte di un archeologo o di uno storico, dati

paleoambientali o botanici, auspica una più intensa collaborazione tra discipline. Butzer 2005 ponendo al centro della sua analisi le cross-diciplinary investigations al fine di tracciare un quadro più completo delle trasformazioni ambientali nel tempo e nello spazio, ricorda che pochi studiosi sono in grado di gestire i dati ottenuti da questi studi. Resta chiaro che la stessa precauzione e capacità di dialogo va adoperata da quelli studiosi delle scienze della natura che vogliano avventurarsi in una ricostruzione storica utilizzando dati di ricerche archeologiche o storiche.

16 Meiggs 1982, p. 379. 17 Thirgood 1981.

18 Hughes 1994, pp. 89-90.

19 Blondel, Aronson 1999, p. 202. Per questi due studiosi al declino seguì certamente una fase di rimboschimento. 20 Rackham 1996 richiama polemicamente l’utilizzo di una pseudo ecologia storica. Nel dettaglio Grove, Rackham 2001,

p. 174. Dello stesso avviso era già Braudel 1979, p. 318 che ravvisava tra XV e XVIII secolo il picco di sfruttamento boschivo. Così anche Horden, Purcell 2001, p. 338 che attribuiscono il declino boschivo decisivo agli ultimi 150 anni.

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meno conosciuto un fenomeno di intensa deforestazione21. L’esempio che Grove e Rackham portano

per giustificare la loro prospettiva è quello del contesto italiano. L’affermazione che in Italia si assisterebbe ad un’espansione della superficie boschiva pur essendo un paese che usa principalmente come risorsa energetica il legno, non è del tutto pertinente22. O meglio è pertinente solo per la prima

parte. Se infatti recenti indagini confermano l’espansione della superficie boschiva rispetto per lo meno a quella coltivabile negli ultimi cento anni23, è altrettanto vero che la società e l’economia

italiana hanno conosciuto un cambiamento di proporzioni enormi rispetto alle proprie abitudini energetiche, all’espansione urbana, alle politiche e alle importazioni a basso costo che concernono le proprie l’utilizzo delle medesime24. Il fenomeno si riscontra con percentuali significative anche in

Tunisia ed in Spagna, ma non ad esempio in Francia o negli Stati Uniti dove il consumo di legna procapite a fini energetici è molto superiore rispetto all’Italia25, differenze di cui si deve dar ragione storicamente e non solo ecologicamente. Alle stesse conclusioni sembrano pervenire anche Horden e Purcell che ritengono in generale che le popolazioni del Mediterraneo antico abbiamo gestito in maniera oculata le proprie risorse boschive senza danneggiarle in maniera irreversibile, pur esistendo casi isolati in alcune aree di sfruttamento massivo e devastante26. In un recente articolo William

Harris mette in guardia circa questa sottovalutazione27.

21 Lenz, Hockaday 2009. 22 Grove, Rackham 2001, p. 174.

23 Questi dati sono ora confermati ora da uno studio recente sulla conservazione dei paesaggi storici italiani, in cui la

foresta rappresenta un patrimonio storico da conservare, analizzare e valorizzare (Agnoletti 2010). Il volume è stato commissionato congiuntamente dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e dal Ministero per i Beni e le attività culturali. Il senso del volume è attraverso l’indagine sistematica dei paesaggi storici e residuali, mettere in luce lo stato di degrado di questo particolare patrimonio storico italiano. Il taglio dell’indagine risulta essere certamente quello orientato verso una concezione del paesaggio in senso produttivo. Il paesaggio storicamente trasformato ed utilizzato a fini produttivi. Rientrano in questa visione le concezioni del paesaggio come oggetto diretto delle pianificazioni territoriali al fine di produrre delle politiche sostenibili in cui il paesaggio storico si conserva vivendolo ed utilizzandolo secondo un equilibrio tra popolamento umano e paesaggio ecologico, raggiunto magistralmente da quelle comunità storiche che nel passato hanno saputo raggiungerlo. Un paesaggio non reificato, necessariamente monumentalizzato ed imbrigliato in una pretesa naturalità che escluda l’intervento antropico, ma conservato perché valorizzato e valorizzato perché reso attuale, vivo e vissuto dalle comunità che lo popolano e che con lui evolvono.

24 Per una critica a questa argomentazione già Harris 2011, p. 110. Da un punto di vista strettamente ecologico la capacità

di talune essenze tipiche delle foreste subtropicali di rigenerarsi riguarda solo alcune zone del mediterraneo, la Spagna, la Provenza, l’Italia, la Grecia, la Turchia e certe zone del Maghreb. Da un punto di vista storico però, quale che sia il senso che noi attribuiamo al Mediterraneo come soggetto storico, l’indagine deve tener conto di altre zone come la Siria, l’Egitto e l’Africa del Nord, e del grado di integrazione che questa zona del mondo raggiunse con fasi ed intensità diverse nel corso della sua storia.

25 All’incirca in Italia la copertura boschiva tra il 1990 e il 2010 è aumentata del 20 % per un totale di 1,559,000 ha, la

Francia ha visto un aumento del 9,7 % circa, mentre gli Stati Uniti del solo 2,6 %. Percentuali importanti si riscontrano in Grecia (intorno al 18%), in Spagna (31,5 %) e in Tunisia dove l’aumento tra il 1990 e il 2010 è stato del 56 %. Per i dati nel dettaglio http://rainforests.mongabay.com.

26 Horden, Purcell 2011, 184-5.

27 Harris 2013, 109. In riferimento all’ipotesi di lavoro di Horden e Purcell, Harris fa notare come ‘leur estimation de la

demande en bois est probablement trop faible, du moins pour ce qui est de la période centrale de l’histoire romaine, mais cela ne veut pas pour autant dire que leur point de vue sur la déforestation soit faux’. L’idea alla base è quella di un paesaggio razionale e di uno sfruttamento controllato delle risorse boschive, gli antichi conoscevano cioè molto bene e in maniera dettagliata l’ambiente e il paesaggio che sfruttavano, da dar vita a forme di sfruttamento ‘sostenibile’.

A tal proposito si veda Strabo. Geog.14.6.5., dove Stabone riporta la notizia di Eratostene sul territorio della città di Tamasso a Cipro, rigoglioso di foreste e ricco di legname. L’utilizzo intensivo a scopo di combustile per le numerose miniere di rame ed argento nei dintorni della città, insieme al fabbisogno di legname per la flotta navale, aveva reso il

paesaggio completamente spoglio e la gestione controllata di tale risorse una

priorità (φησὶ δ᾽ Ἐρατοσθένης τὸ παλαιὸνὑλομανούντων τῶν πεδίων ὥστε κατέχεσθαι δρυμοῖς καὶ μὴ γεωργεῖσθαι, μικρ ὰμὲν ἐπωφελεῖν πρὸς τοῦτο τὰ μέταλλα δενδροτομούντων πρὸς τὴν καῦσιν τοῦ χαλκοῦ καὶ τοῦ ἀργύρου, προσγενέσθαι δ

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Per il presente lavoro ciò che interessa realmente non è una disamina delle fonti o delle tracce di deforestazione massiva per ricavare terre coltivabili o pascoli, tanto più che il termine incontra notevoli difficoltà di definizione28. Da un punto di vista quantitativo risulta infatti problematico

definire a larga scala un disboscamento esteso e irreversibile nel tempo29. Abitualmente il termine

richiama un’azione negativa che degrada l’ambiente30. Dal punto di vista strettamente teorico due

sono gli aspetti da isolare concernenti il disboscamento che qui ci interessano. Sorpassata la dicotomia tra terre boscate e terre nude è evidente che al centro della questione rimane l’interazione tra questi due tipi di paesaggio al livello qualitativo, ammettendo che nella gestione delle risorse boschive e arborate, pascolative ed agricole, tutti i tipi di paesaggio possiedono ad intensità ed estensioni diverse degli spazi aperti31. Immediatamente emerge la seconda questione teorica (e

storica) che ci induce ad indagare le ragioni della comparsa di questi spazi aperti che sono la vera caratteristica ecologica e storica del paesaggio mediterraneo32. Se da un lato bisogna resistere alla

tentazione di generalizzare ed estendere delle proprietà e delle caratteristiche ambientali da un contesto all’altro, sotto l’egida delle analisi polliniche33, è altrettanto vero il contrario per relegare il

fenomeno della deforestazione a pochi casi sporadici concentrati in zone limite da un punto di vista ecologico ed umano, ai margini del mediterraneo34. Se dunque resta difficile generalizzare non

bisogna però rinunciare ad investigare l’intensità di questi spazi aperti e indirettamente del grado di deforestazione35. La complessità del quadro risulta da alcuni casi studio. Nella valle del Biferno in

Molise le ricognizioni hanno messo in luce la stretta connessione tra sviluppo degli insediamenti e intensificazione dell’uso del suolo con conseguenti fenomeni di erosione e deposito di sedimento tra IV secolo a.C. e I secolo dopo, confermando l’idea di un’incisiva azione da parte dell’uomo

ὲ καὶ τὴν ναυπηγίαν τῶνστόλων ἤδη πλεομένης ἀδεῶς τῆς θαλάττης καὶ μετὰ δυνάμεων, ὡς δ᾽ οὐκἐξενίκων, ἐπιτρέψαι τ οῖς βουλομένοις καὶ δυναμένοις ἐκκόπτειν καὶ ἔχεινἰδιόκτητον καὶ ἀτελῆ τὴν διακαθαρθεῖσαν γῆν).

28 Per gli antichi l’abbattimento di alberi quale che ne fosse il motivo è sicuramente visto sotto una luce positiva, mentre

per gli studiosi contemporanei i termini usati sono connotati negativamente. Alcuni termini utilizzati sono invece più neutri (Abholzung, deboisement etc.). Per un’analisi ed una raccolta dettagliata delle fonti antiche sull’argomento si veda Hughes 1983, non sempre preciso nella traduzione.

29 Berglund 1994, p. 7, distingue sei tipi di paesaggio aperto a seconda della percentuale di copertura.

30 Perry et alii 2008. Come fa notare Harris 2013, p. 110 n. 19, in 600 pagine non ne definiscono la natura. Per Rackham

1996, p. 28, la deforestazione è un fenomeno vasto, rapido e definitivo di perdita della foresta originaria (‘Deforestation is tree-felling not balanced by regrowth’). Pur tuttavia lo stesso Rackham mette in guardia dal considerare alcune forme di vegetazione aperta come la savana, in relazione alla deforestazione (Rackham 1996, ‘In Mediterranean countries, trees do not necessarily occur in the form of forests, they can constitute maquis (trees reduced to the form of shrubs) or

savanna (grassland or undershrubs with scattered trees’). Sull’uso di termini distinti in riferimento a differenti situazioni

di copertura e associazione vegetale, Blondel, Aronson 1999,118-20. Phrygana in greco classico può significare legna da ardere o arbusto, mentre in latino non vi è differenza tra legno e foresta. Van der Leeuw et alii 2005 parla di degradation in riferimento al periodo romano nella bassa valle del Rodano. Più controversi sono i casi in cui un’essenza va a rimpiazzarne un’altra a causa dell’intervento umano (come l’impianto di ulivi o vigneti).

31 Berglund 1994. 32 Ancora Harris 2013.

33 Discusso in Mezier et alii 2008 e criticato in Horden, Purcell 2000, p. 337.

34 Rackham 1996, p. 3, lo considera un fenomeno concentrato in zone marginali del mediterraneo, al nord della Spagna a

sud delle Alpi e in certe zone della Grecia e della Bulgaria.

35 Sallares 2007, p. 23, afferma che ‘The most important point to emerge from the whole debate is that it is impossible to

generalize about the Mediterranean as a whole. The human impact varied from locality to locality. Consequently the Mediterranean countries as a whole cannot be described either as a ruined or as an unchanged landscape’.

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sull’ambiente36. I dati palinologici proveniente dalle vicinanze del Lago di Pergusa in Sicilia centrale

invece indicano una copertura boschiva stabile che perdura tuttora37. Le differenze che scaturiscono

dallo studio integrato di diversi contesti dove si facciano interagire cioè dati sul popolamento e particolari attività umane con forme di continuità o discontinuità o rigenerazione del manto boschivo, indicano una certa cautela nel trattare il tema dell’interazione uomo-ambiente, facendo sostenere da uno specialista di ecologia antica come Robert Sallares che ‘A balanced interpretation of the problem of environmental degradation in antiquity is that there were different outcomes in different areas; it is difficult to generalize’38. L’impressione generale e l’assunto che se ne ricava è che

indipendentemente dalla capacità di rigenerazione che taluni ambienti ed essenze dimostrano, il paesaggio sia irrimediabilmente frutto dell’azione più o meno incisiva dell’uomo, un paesaggio culturale dunque. La questione è di sapere l’intensità e la durata dell’eliminazione o della conservazione del manto boschivo.

1.3. Continuità e discontinuità della copertura vegetale.

36 Barker, Hunt 1995; Sallares 2007, p. 25.

37 Sadori, Narcisi 2001, senza però poter contare su dati dettagliati sull’evoluzione del popolamento provenienti da

ricognizioni sistematiche come per la valle del Biferno. Sui Monti Cimini descritti da Livio come una selva impenetrabile (Liv. 9.36.1–8), l’assenza pressoché totale nel paesaggio attuale di vegetazione ad alto fusto, ha indotto alcuni autori a ridimensionare le affermazioni delle fonti antiche (Grove, Rackham 2001, p. 172) e tal altri a veder confermato lo sfruttamento massivo nei secoli successivi al III secolo a.C. (Pratesi, Tassi 1977, p. 49).

38 Sallares 2007, p. 25. La presa di coscienza delle differenze evoluzioni nella copertura vegetale tra contesti diversi non

ha comunque impedito il tentativo analitico-riduttivo a scopo d’analisi. A tal proposito Horden e Purcell pur non considerando il Mediterraneo come un’entità storica monolitica, lo suddividono ai fini dell’interpretazione storica in quattro micro-regioni mettendo insieme caratteristiche ambientali e storiche, Horden, Purcell 2000, pp. 53-77. Reale, Shukla 2000, p. 186, tab. I-II, nel loro studio suddividono il Mediterraneo in 12 zone in base al tipo di vegetazione desumibile dalle analisi polliniche disponibili per il periodo romano e 5 zone in base alle variazioni in precipitazioni su lungo periodo, costruendo un complesso sistema di simulazione a variabili multiple mettendo in relazione la copertura vegetale, con le variazioni delle precipitazioni, le correnti atmosferiche d’alta quota, la ventosità e l’albedo che calcola la capacità da parte del suolo di riflette una parte dell’energia solare che non viene assorbita (La parte di radiazione solare ricevuta che non può essere assorbita dalla superficie della Terra ma che è riflessa verso lo spazio) con il conseguente aumento della temperatura dell’ambiente circostante, determinando una condizione di minore o maggiore umidità e calore ottimale per la crescita e lo sviluppo vegetale. Tutte queste considerazioni partono dall’assunto che all’incirca dal 3000 BP, la vegetazione abbia raggiunto una certa stabilità in termini di associazioni si specie, restando sostanzialmente invariata rispetto a quella contemporanea, Huntley 1988; 1990; Huntley, Birsk 1983. In questa prospettiva la questione diviene capire i cambiamenti della copertura vegetale la quale non si è modificata nella sua composizione relazionale fra

taxa:‘The RCP (Roman Classical Period) vegetation is different from the modern only in terms of reduction of areas of

vegetated land in favor of farmland or urban areas’, Reale, Shukla 2000, 187. Inoltre vi sono implicazioni metodologiche di notevole importanza. L’assunto che vi sia una sostanziale continuità ed affidabilità tra le percentuali di diffusione di una popolazione vegetale e le associazioni tra specie rilevate per un territorio omogeneo attuale e la situazione antica, permette attraverso un procedimento di ostensione, di sopperire alla mancanza o alla non omogenea distribuzione e qualità dei dati palinologici per la copertura vegetale antica. Questa visione continuista rispetto ai cambiamenti della copertura vegetale riduce al minimo l’impatto antropico. W. Harris in un recente articolo ha ripreso da parte sua questo metodo, dividendo il mediterraneo in sei zone (Europa continentale costiera- Iberia, Italia, Grecia; Europa peninsulare interiore; montagne dell’Europa peninsulare; le Alpi; i Balcani interni- ex Jugoslavia, Albania, Bulgaria; la catena montuosa dei Balcani; la costa settentrionale della Turchia; il plateau turco; la catena montuosa del Tauro; la costa siro-palestinese; le montagne del Libano; la basse valle del Nilo; la costa libica e tunisina e l’est del Marocco; la costa nord-ovest dell’Africa; le isole Mediterranee maggiori), tenendo conto delle variazioni climatiche, della densità insediativa e dunque della domanda ipotetica di legname legata a varie attività, distinguendo in maniera orientativa in terre ‘molto’, ‘parzialmente’ o ‘flebilmente’ coperte da boschi, Harris 2013, p. 114. Ai tanti fattori antropici e climatici che condizionano la riparazione delle essenze vegetali, va considerata anche l’orografia, l’idrografica e l’altitudine. Per gli effetti di quest’ultimo fattore sulla vegetazione mediterranea si veda Meiggs 1982, pp. 41-4, Blondel, Aronson 1999, pp. 90-8.

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Il problema dell’intensità diviene per partenogenesi naturale anche un problema di continuità e discontinuità rispetto alla superficie di copertura vegetale, con implicazioni epistemiche di notevole portata. Se si ammette infatti che la vegetazione contemporanea sia in qualche modo il risultato spontaneo e immodificato di cambiamenti climatici di vasta portata, l’osservazione della distribuzione delle essenze nel paesaggio attuale ci dice molto o quasi tutto su ciò che vogliamo sapere rispetto all’ambiente antico. Popolazioni sopravvissute agli sconvolgimenti dei secoli recenti rappresenterebbero il relitto di ciò che doveva essere l’ambiente circostante. Un’inferenza della stessa portata avviene nel momento in cui si applicano determinate osservazioni o relazioni socio-economiche alle società passate osservando quelle contemporanee. Un problema di comparazione dunque, di buona o cattiva comparazione.

Un accordo unanime sembra oramai esservi tra gli studiosi su un progressivo ridursi della superficie boschiva a partire dal Neolitico il relazione all’aumento e alla differente qualità degli abitati39, con

accelerazioni e differenze. Il momento in cui questo processo di intenso o parziale sfruttamento ha cominciato ad incidere in maniera significativa sulle popolazioni vegetali decretandone espansione o diminuzione è una questione non di poco conto e di difficile soluzione40. Alcuni tentativi sono stati

fatti per chiarire il legame tra il popolamento e lo sfruttamento di determinate risorse e l’effetto sulla superficie delle terre boschive41. Durante l’età del Bronzo in particolare la quantità di domanda di

legname per l’ottenimento del carbone, come materiale da costruzione per l’edilizia sacra e privata e per la cantieristica navale, sembra essere cresciuta in maniera significativa. All’incirca verso il 2600 a. C. in Egitto, durante il regno del faraone Snefru, la richiesta massiva di legname per la costruzione di imbarcazioni e come materiale edilizio proveniente dalle coste fenicie (soprattutto cedro del libano) e testimoniata dalle fonti scritte, corrisponda archeologicamente ad una quasi completa deforestazione del Monte Libano42. In questo quadro già di per sé complesso e articolato non va

dimenticata la metallurgia come fattore catalizzante riguardo al fabbisogno di legname da carbone. Il celebre relitto di Ulu Burun datato all’incirca al 1325 a. C., ha restituito una quantità enorme di lingotti di rame, circa sei tonnellate, assieme ad una tonnellata di legno di quercia e tronchi di bosso43. Questi esempi vanno tenuti nella giusta considerazione quando si afferma senza troppa

39 Berglund 1994, p. 6.

40 Thirgood 1981, pp. 11-13 definisce la vegetazione della Grecia pre-classica come ‘originale’.

41 Per l’Italia Delano Smith 1996, in particolare pp. 174-7; per la Spagna, Stevenson, Harris 1992; Butzer 2003, pp. 496-7

per commenti su quest’ultimo.

42 Per il testo in questione dove si menziona di questo traffico di legname dalle coste fenicie all’Egitto del faraone Snefru,

Gardiner 1961, p. 42, anche se incerta è la traduzione dell’essenza menzionata con cedro. Mikesell 1969, 12-3 sulle conseguenze di questa massiccia importazione e pp. 14-7 sulle importazione di legname dalla Mesopotamia con le medesime conseguenze sulla riduzione della superficie boschiva. Si veda anche Meiggs 1982, tutto il cap. III. Per Watson-Treumann 2000/2001, p. 75: ‘The pattern of Phoenician contacts and settlements that evolved in the 8th and 7th centuries B.C. owed probably as much to their exploitation of Mediterranean forests’.

43 Parker 1992, p. 439 ed anche Horden, Purcell 2000 , pp. 347-8 per la metallurgia e la richiesta di carbone prima del

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cautela che l’ambiente e la vegetazione del Mediterraneo alla fine dell’età del Bronzo erano pressoché incontaminati44.

Da un punto di vista climatico sembra che non vi siano stati cambiamenti rilevanti tali da giustificare significative transizioni da una popolazione vegetale all’altra o la scomparsa di una determinata essenza. Alcuni indagini polliniche condotte nella regione del Golan45 e nelle Alpi meridionali46

sembrano confermare questa invariante climatica che equipara la copertura vegetale antica a quella contemporanea. In generale gli studiosi sono abbastanza concordi nel considerare il periodo romano come un optimum climatico (il periodo romano caldo) favorevole alla crescita delle foreste47.

1.4. Cartografare il pieno, percepire il vuoto: the busy countryside.

Quando si affronta il problema della copertura vegetale reale o presunta, ci si scontra inevitabilmente con la cruda realtà dei dati. Le analisi polliniche ci danno l’idea di quali essenze erano presenti in un dato comprensorio in una data epoca, se i campioni sono tali da fornire una tale indicazione, ma difficoltosa risulta un’analisi dettagliata sulla superficie reale occupata dal bosco, sul suo utilizzo, sull’alternanza di una popolazione in luogo di un'altra. L’ideale sarebbe quello di poter cartografare in maniera indicativa una distribuzione dell’areale dell’uso del suolo e del paesaggio in tal senso. Ciò è possibile in parte ad esempio attraverso la distribuzione dei siti ricavabile da surveys secondo una logica di pieno/vuoto. Là dove vi è una densa occupazioni di siti (il pieno), si può ricavare la distribuzione invece della copertura boschiva (il vuoto). In un ribaltamento della prospettiva, il vuoto è là dove i siti e l’azione antropica ad essi connessa creano un paesaggio storico privo di copertura vegetale e il pieno dove essa è supposta essere lasciata svilupparsi. Questo schema semplificatorio è tuttavia fuorviante se si pensa che la gestione dei boschi (dunque taglio radicale, controllato o gestione integrata bosco-pascolo-coltura) e l’uso degli spazi non sia desumibile necessariamente

44 E il caso ad esempio di Grove, Rackham 2003, p. 166.

45 Neumann et alii 2007, p. 342 sostengono che non vi siano stati cambiamenti climatici negli ultimi 6000 anni. 46 Moe et alii 2007, p. 431.

47 Sbaffi et alii 2004, p. 203. Per la Tunisia (tra 34° e 38° parallelo), risulta difficile conciliare l’intenso sviluppo

economico che conosciamo dalle fonti archeologiche e storiche per il periodo romano, con il clima arido attuale Wilson etc… Per certe regioni del Mediterraneo le analisi polliniche hanno permesso di datare la fine e l’inizio di questo periodo ottimale con una precisione sorprendente. È il caso dei carotaggi effettuati nel sito del parco naturale di Las Tablas de

Daimiel situato nella regione della Mancha in Spagna (Gil García et alii 2007). L’incrocio di sequenze polliniche

ottenute con carotaggi ripetuti nel tempo, calibrate ad analisi geochimiche e alle mutazioni idrogeologiche desumibili dalla flora presente nei campioni, hanno fornito con una precisione impressionante una sequenza di cinque significative variazioni climatiche, un periodo freddo subatlantico caratterizzato da basse temperature ed aridità (<150 a.C.); un periodo romano caldo (150 a.C.- 270 d.C.) più umido e con temperature elevate; un periodo freddo e secco (270-950 d.C.); un lungo periodo caldo (950- 1400 d.C.), infine la piccola era glaciale (> 1400 d.C.). Le anomalie registrate nella sequenza tra 1000-860 cal. B.P (950-1090 d.C.) sarebbero da imputare alle attività dell’uomo, ‘In terms of anthropic influence, the area was entered by Muslims in around the 8th century and was re-conquered by the Christians in late 11th century. The Muslims introduced water mills and herding (cosrsivo mio) so clearance for pasture is a possible explanation for the extremely low values of arboreal and shrub pollen, the increase in Plantago, Boraginaceae,

Brassicaceae and Lamiaceae and the presence of Oleaceae and Solanaceae. Also, the fighting that occurred towards the

end of this period can explain the "drop" in arboreal and pasture taxa and the relative increase in shrubs at the top of this zone’, Gil García et alii 2007, p. 247.

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dall’assenza di una rilevante densità insediativa. E qui ci deve entrare il busy landscapes di Barker (meno siti piccoli (fattorie) più terra a pascolo e a foresta ???? vero?48

Per l’alto medioevo sono stati compiuti tentativi significativi di ‘mappare’ l’estensione delle foreste nel bacino del Mediterraneo, come quello di Charles Higounet49 o quello effettuato da Maurice

Lombard per l’epoca immediatamente successiva alla conquista araba50. Per alcune zone dell’Italia,

come la valle del Po, la situazione tracciata per la copertura boschiva nell’alto medioevo si è rivelata molto più complessa rispetto a quella desunta dalla mappa di Higounet. Alcuni spazi considerati ‘vuoti’, privi cioè di copertura boschiva, si sono rivelati grazie a nuovi studi, intensamente boscosi, così come in altra prospettiva va vista la complessa dinamica fra insediamenti a lunga frequentazione e la presenza di piccoli boschi frammentati ed utilizzati in maniera integrata con altre pratiche51.

1.5. Fame di bosco: equilibri e demografia nel paesaggio.

L’approvvigionamento di legname ed il fabbisogno energico e costruttivo rappresentato dal mercato di Roma, costituisce un problema dalla cui precisa evoluzione dipende anche l’immagine che noi possiamo avere del paesaggio dell’Italia antica52. È stato proposto che l’annona imperiale fosse la

principale forza motrice nel traffico interprovinciale del legname, legata ai bisogni degli eserciti e a quelli della capitale. Questo è in parte falso, poiché di norma gli eserciti romani utilizzavano il legno delle foreste presenti nelle vicinanze53. Esso era fornito loro sia dall’annona militaris, a cui erano

sottoposti gli abitanti dei territori vicini agli accampamenti54, che da membri dell’esercito o dagli

stessi soldati, che probabilmente lo prelevavano dalle foreste pubbliche o circostanti55. Il legno

circola a diversi livelli nel mercato italico56: sia nel sistema di scambio locale dove lignum e

48 Small 1991 e Barker 1994, p. 93 in riferimento al survey condotto nei dintorni della villa di S. Giovanni di Ruoti.

Alastair Small suggerisce che l’importanza attribuita all’allevamento brado dei maiali desumibile dagli scavi della villa, deve aver contribuito alla contrazione delle fattorie di piccole dimensioni registrato per il periodo fra 300 e 600 d.C. con una conseguente conversione della terra coltivata a pascolo e bosco. La complessità di ricostruire un quadro storico-archeologico dettagliato che metta in relazione densità insediativa ed uso del suolo è espressa con una nota di scetticismo ma con una speranza per le ricerche future da Barker 1994, p. 99, ‘It is still impossibile in any region of Italy to correlate in any detail a changing sequence of sedimentation or vegetation during the Roman empire with the changing sequence of settlement, especially with the overall trend to increasingly extensive forms of farming. To measure the impact of Roman farming on the landscape will require much more use of “off-site” archaeology by regional survey projects to document changing of land use as well as changing densities of sites, integrated with detailed geomorphological and palynological studies at the same regional scale’.

49 Higounet 1966. Per un breve commento circa l’attendibilità della mappa si veda Wickham 1990, 499-500. 50 Lombard 1959.

51 Fumagalli 1978, pp. 51-62, Montanari 1979, pp. 34-70 per la pianura Padana. Per la complessa dinamica che coinvolge

il lungo processo di ri-conquista dell’incolto e sullo sfruttamento complementare del saltus e dell’ager si veda Fossier 1969, 2004 con bibliografia, pp. 1157-71.

52 Questo problema è stato affrontato in dettaglio da Diosono 2008a per il commercio di legname verso Roma

proveniente lungo la direttrice della valle del Tevere, soprattutto in chiave topografica nella definizione degli approdi e dei luoghi primari di questo particolare ma decisivo mercato. In generale si veda Diosono 2008b.

53 Hanson 1978, p. 305; Meiggs 1982, p. 178. 54 Meiggs 1982,p. 162.

55 Hanson 1978, p. 296.

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materia57 passano direttamente dal luogo di produzione verso i municipi o i centri di mercato periodico58, sia transitando dal commercio all’ingrosso interregionale, dove i proprietari fondiari ed i

mercanti convogliano la materia dalle aree di produzione verso le zone in cui c’è concentrazione della domanda59. Roma col crescere del proprio mercato costringe l’economia italica ad accentrarsi

attorno alle sue nuove esigenze60. Così i sistemi di mercato locali vengono col tempo integrati nel

circuito di rifornimento di Roma e grandi quantità di prodotto li oltrepassano per essere trasportate direttamente alla capitale61. Alcuni autori come Meiggs, hanno sostenuto con vigore, basandosi

essenzialmente sulle fonti scritte, che fino alla tarda età repubblicana, la domanda di legname fosse sufficientemente soddisfatta per Roma dai boschi posti nelle immediata vicinanze (Umbria, Etruria e Lazio)62. Sarebbe la frenetica attività edilizia pubblica promossa da Cesare e poi da Augusto ad aver

stimolato il commercio transmarino alla ricerca di alberi di grossa taglia come il pino e l’abete63. È

Vitruvio in particolar modo a rilevare le qualità dell’abete tra le tante essenze utilizzate come materiale da costruzione64, considerando migliore quello che cresce in Etruria e in Campania sul

57 La differenza tra lignum (legna da ardere e per uso quotidiano) e materia (legna destinata al mercato e alla carpenteria)

sembra avere seguire un criterio sia quantitativo che qualitativo. Dionigi di Alicarnasso (Dion. Hal. 20, 15, 2.) nel descrivere l’abbondanza e la qualità delle foreste nella Sila, sembra suggerire una distinzione tra legna da ardere e legna per attività di falegnameria. La distinzione sembra riflettersi anche in ambito professionale, là dove si distingue tra

lignarius e materiarius (su questo tema La Torre 1988, pp. 75-8 con bibliografia e da ultimo Diosono 2008a, pp. 252-3

con attestazioni epigrafiche e fonti). Tale distinzione è chiarita nel Digesto (Ulp. dig. XXXII 55.), che definisce lignum tutto il materiale legnoso apprestato comburendi causa, mentre materia è quae ad aedificandum […] necessaria est (Paul. dig. L 16, 168).

58 Morley 2000, p. 221; Ziccardi 2000, p. 134.

59 È stato evidenziato da Descat 2000, pp. 26-7, come la forte domanda di legna da ardere a Delo nella prima metà del III

a.C., fu dovuta alla mancanza cronica di legno e carbone sull’isola, innescando un’importazione a lungo raggio che conduceva a Delo sia venditori esterni che mercanti per acquistare attirati dalla domanda e dalla disponibilità. Questa concentrazione di domanda aveva fatto aumentare i prezzi del legno vertiginosamente, tanto da costringere le autorità di Delo, per mantenere un approvvigionamento corretto ad un prezzo ragionevole, a promulgare una legge (ID 509 - SIG³ 975,1.2-4) volta a unificare il mercato del legno di modo che non ci fossero più differenze tra il prezzo di transito ed il prezzo finale proposto al momento della vendita nell’agorà. Si veda su questo tema anche Gauthier 1977, p. 203.

60 Gabba 1988, p. 197. 61 Morley 2000, p. 220. 62 Meiggs 1980, p. 190.

63 Il pino e l’abete non erano le uniche essenze utilizzate per la costruzione d’imponenti trabeazioni e per la cantieristica

navale, tra le altre si ricordano il pioppo, la quercia, il castagno, il cipresso e soprattutto il faggio (Vitr. 2, 9, 5: Hae autem

inter se discrepantes et dissimiles habent virtutes, uti robur, ulmus, populus, cupressus, abies ceteraque, quae maxime in aedificiis sunt idonea. Namque non potest id robur quod abies, nec cupressus quod ulmus, nec cetera easdem habent inter se natura rerum similitates, sed singula genera principiorum proprietatibus conparata alios alii generis praestant in operibus effectus e 8-9.). Sulle specie arboree per gli usi di carpenteria presenti nei dintorni di Roma e loro

caratteristiche, da ultimo, Ulrich 2007, pp. 263-8 con bibliografia e fonti. Il faggio può raggiungere un’altezza di 30-35 ed eccezionalmente arrivare fino ai 40 m circa di altezza, con diametro di oltre 1,5 m. Abbastanza longevo, può raggiungere normalmente età intorno ai 150 anni, anche se, in circostanze eccezionali, arriva anche a 300- 400 anni. Si veda Minelli 2006 per la distribuzione e le caratteristiche delle faggete appenniniche contemporanee. Su questo punto ci soffermeremo altrove in riferimento al nostro contesto di studio. Basti qui accennare corsivamente che un faggio di non eccezionali dimensioni poteva benissimo essere sfruttato per ricavare le travi dell’intercolumnio centrale del tempio di Giove Capitolino a Roma (sulle dimensioni delle trabeazioni del tempio di Giove Capitolino, Cifani 2008, pp. 104-5). Sull’architettura di Roma arcaica in generale Cifani 2008 che fa un’analisi soprattutto dei tipi architettonici soffermandosi sulle dimensioni planimetriche ed i materiali da costruzione non deperibili degli alzati, sull’organizzazione dei cantieri, sulle committenze, per pervenire a conclusioni di tipo socioeconomico.

64 Vitr. 9,6: Et primum abies aeris habens plurimum et ignis minimumque umoris et terreni, levioribus rerum naturae

potestatibus conparata non est ponderata. Itaque rigore naturali contenta non cito flectitur ab onere, sed directa permanet in contignatione. Sed ea, quod habet in se plus caloris, procreat et alit cariem ab eaque vitiatur, etiamque ideo celeriter accenditur, quod quae inest in eo corpore aeris raritas et est patens, accipit ignem et ita vehementem ex se mittit flammam, Meiggs 1980, p. 188 sull’importanza eccezionale data da Vitruvio all’abies alba rispetto alle altre

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versante appenninico tirrenico, poiché maggiormente soleggiato rispetto a quello adriatico, umido e ombroso65. La richiesta di alberi ad alto fusto di eccezionali dimensioni era dettata dalla portata

colossale dei progetti costruttivi che prevedevano edifici di dimensioni tali da dover reperire alberi così alti da poterne ricavare le lunghe travi necessarie a sostenere soffitti come quello della Basilica

Fulvia66. Sappiamo ad esempio che la navata centrale della Basilica di Traiano era larga circa 25

metri, a riprova delle dimensioni effettive dei tronchi necessari alla sua costruzione. Dal canto suo Plinio (Plin. n.h. XVI 32.) ci informa che la trave portante del Diribitorium di Agrippa era lunga 30 m e spessa circa 45 cm e che quando nel 180 d.C. si rese necessario ricostruire il tetto dell’edificio, fu impossibile, secondo Dione Cassio (Dio LV 8, 4), trovare tronchi di tali dimensioni67. Questa

notizia nasconde d’altronde implicazioni di una certa importanza circa il tema della presenza o meno di boschi naturali sul suolo italico.

La questione dell’approvvigionamento di legname interessa dunque direttamente il quadro ambientale della penisola, da una prospettiva non focalizzata sul centro di arrivo di questo prodotto, ma secondo un movimento centrifugo, rivolta alla periferia, dove questo legname e questi boschi venivano gestiti per il mercato. Le indicazioni che suggeriscono un commercio a lunga distanza di legname, può non essere dovuto necessariamente alla penuria di alberi ad alto fusto nella penisola conseguenti ad uno sfruttamento massivo. L’ipotesi di Meiggs prima ricordata non fa riferimento infatti a tale penuria, ma piuttosto ad una logica competitiva dei prezzi, legata alla ricerca di essenze particolari come il cedro in Nord Africa68. Come si vuole interpretare lo sviluppo del commercio di

legname transmarino, con la nascita di vere e proprie figure professionali preposte a questa attività, si può comunque supporre che la sempre più crescente domanda di legname per svariate attività, deve aver innescato una forte competizione tra i soggetti che volevano sfruttare questo mercato. Se inizialmente (prima del III secolo a.C.?) i boschi da cui ci si riforniva il mercato della città doveva probabilmente trovarsi nelle immediate vicinanze (Lazio, Umbria ed Etruria), successivamente

65 Vitr. 2,10,1: Montis Appennini primae radices ab Tyrrenico mari in Alpis et in extremas Etruriae regiones oriuntur.

Eius vero montis iugum se circumagens et media curvatura prope tangens oras maris Hadriani pertingit circumitionibus contra fretum. Itaque citerior eius curvatura quae vergit ad Etruriae Campaniaque regiones, apricis est potestatibus; namque impetus habet perpetuos ad solis cursum. Ulterior autem, quae est proclinata ad superum mare, septentrionali regioni subiecta continetur umbrosisi et opacis perpetuitatibus. Itaque quae in ea parte nascuntur arbores, umida potestate nutritae non solum ipsae augentur amplissimis magnitudinibus, sed earum quoque venae umoris copia repletae urgentis liquoris abundantia saturantur. Cum autem excisae et dolatae vitalem potestatem amiserunt, venarum rigore permanente siccescendo propter raritatem fiunt inanes et evanidae, ideoque in aedificiis non possunt habere diuturnitatem.

66 Meiggs 1982, pp. 226-7; Diosono 2008a, p. 256.

67 Colonna 1987, p. 64, n. 65 con bibliografia sull’uso del legname per i templi etruschi. Plinio (N.H., XVI, 200) ricorda

una trave di larice lunga 120 piedi con uno spessore uniforme di 2 piedi, che venne trasferito a Roma all’epoca di Tiberio e lasciato in vista proprio per le sue eccezionali dimensioni, nella Naumachia in Campo Marzio fino a quando Nerone non lo impiegò per costruire il suo anfiteatro ligneo (Suet., Nero, 12). Ancora Plinio (N.H., XXXVI, 102) ricorda un’altra trave lunga 100 piedi e alto 1 piede e mezzo, avanzato dalla costruzione del tetto del Diribitorium di Agrippa ed esposto nei portici dei Saepta; su entrambi i passi, Giuliani 2006, p. 243. Come semplice raffronto tecnico, possiamo ricordare che travi di quercia lunghe fino a 12 metri, benchè considerate superiori alla media, sono ben attestate nella manualistica dell’edilizia pre-industriale, ad esempio Rondelet 1831 (lib. I), 255.

68 Meiggs 1980, p. 190, ‘It is reasonable to argue that in the late Republic Rome could have got all the timber that she

required from Latium, Etruria and Umbria, apart from such unnecessary luxuries as citrus wood from North Africa, but the demand for fir and pine may have been large enough to encourage merchants to look further afield to supplement her resources provided that the prices were competitive’.

Figura

Fig. 7. Alcuni tipi di paesaggio pastorale nel contesto preso in esame.
Fig. il sistema della Dehesa-Montado.
Fig. Potenzialità di trasporto del vello di una pecora in relazione all’altezza della pianta (modificato  da Fischer et alii 1996: p

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