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La comprensione della musica attraverso le regole grammaticali della mente

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Academic year: 2021

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Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

LA COMPRENSIONE DELLA MUSICA

ATTRAVERSO LE REGOLE GRAMMATICALI DELLA MENTE

RELATORE

PROF. MARIO PIRCHIO

CORRELATORE

PROF. ALBERTO LEOPOLDO SIANI

CANDIDATO

JACOPO BUCCIANTINI

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Sommario

p. 3 Introduzione

p. 8 Parte prima “Storia, filosofia e scienza della musica” p. 9 Capitolo 1 “Storia e filosofia della musica”

p. 9 1.1 Musica primitiva

p. 13 1.2 Scuola pitagorica, Platone, Aristotele e musica nell’antichità p. 24 1.3 Agostino, Boezio e musica tardoantica

p. 27 1.4 Musica medievale p. 34 1.5 Musica rinascimentale

p. 36 1.6 Cartesio, Leibniz e la musica barocca

p. 40 1.7 Evoluzioni musicali settecentesche e concezione illuministica della musica p. 43 1.8 Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche e musica ottocentesca

p. 48 1.9 Adorno, Bloch, Jankélévitch e la musica novecentesca p. 55 Capitolo 2 “Neuroscienze della musica”

p. 55 2.1 Fisica dei suoni p. 59 2.2 Udito

p. 64 2.3 Vie uditive primarie del cervello p. 72 2.4 Cervello ed abilità dei musicisti p. 86 2.5 Musica e genetica

p. 89 2.6 Musica e neuroni specchio

p. 104 Parte seconda “La comprensione della musica: un nuovo sistema filosofico” p. 105 Capitolo 3 “Musica ed emozioni”

p. 105 3.1 Basi neurologiche delle emozioni e teorie eziologiche della musica p. 116 3.2 Externality claim e arousal theory a confronto

p. 121 3.3 Frequentazione p. 126 3.4 Casi limite

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p. 134 Capitolo 4 “Regole grammaticali mentali della musica” p. 134 4.1 Definizione di musica

p. 144 4.2 Condizione pregrammaticale spinta p. 151 4.3 Rumore e grammatica

p. 160 4.4 Le grammatiche del timbro

p. 168 Capitolo 5 “Origine del ritmo binario”

p. 168 5.1 Sistema numerico decimale, battito cardiaco, mani e ritmo binario p. 187 5.2 Ritmo binario e condizione pregrammaticale spinta

p. 192 5.3 Musicalità del ritmo

p. 198 Capitolo 6 “Consonanza e dissonanza” p. 199 6.1 Fondamenti di consonanza e dissonanza p. 213 6.2 Le ottave

p. 218 Conclusione p. 222 Bibliografia

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Introduzione

Il presente lavoro è finalizzato alla analisi eziologica e alla analisi fenomenologica della musica. In altre parole, questo studio è volto alla indagine delle ragioni per cui la musica viene distinta dagli altri fenomeni acustici come il rumore o il linguaggio – quantunque tali fenomeni possano, talvolta, coesistere contemporaneamente o, addirittura, compenetrarsi – e, dunque, compresa in maniera singolare. Conseguentemente, la tesi è volta pure a fornire una definizione precisa di musica.

Inoltre, il presente lavoro è volto anche alla indagine delle cause che determinano la percezione di talune sequenze musicali come consonanti oppure come dissonanti, nonché alla indagine delle dinamiche che possono determinare mutamenti di percezione rispetto alla medesima sequenza musicale. È possibile che la stessa sequenza musicale possa risultare dissonante oppure consonante in momenti differenti? Se sì, perché avviene tale processo? E come avviene?

Successivamente, questo studio indaga i principali tempi musicali – focalizzandosi prevalentemente intorno a ritmi binari e ternari – onde fornire una spiegazione circa l’adozione globale del tempo in 4/4 nella maggior parte delle composizioni. Esistono motivi di natura biologica che possano spiegare questo fenomeno? Oppure si tratta di un fatto culturale?

In definitiva, l’obiettivo della tesi è quello di spiegare le cause di tutte quelle caratteristiche proprie della musica che consuetudinariamente vengono ritenute essere di per sé evidenti ma che, difatti, senza una ricerca mirata, risultano difficilmente spiegabili. Lo studio dei fenomeni della musica, giustappunto, è funzionale a ciò. In effetti, la maggior parte degli scritti relativi alla musica e ai suoi fenomeni fanno riferimento a questi argomenti alla stregua di presupposti. Sia Kivy, sia Jackendoff, ad esempio, talvolta prendono in analisi il fenomeno della dissonanza come ciò che si oppone alla consonanza ma non tentano di risalire alle cause di questa divergenza. Similmente, gli studi storici di Fubini e di Mila oppure gli studi teorici di Károlyi o di Jankélévitch non spiegano esplicitamente le ragioni per le quali il tempo musicale abbia assunto prevalentemente un andamento binario anziché quinario o settenario.

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L’interesse intorno a tale argomento nasce da una pluriennale esperienza in qualità di compositore, esecutore e formatore musicale che ha determinato l’insorgenza delle domande succitate, nonché la necessità di trovare delle risposte.

Il metodo di lavoro si basa su un duplice approccio alla questione, cioè sia di natura deduttiva, sia di natura empirica. In effetti, vengono confrontati i pensieri dei principali studiosi della questione sia per ottenere una panoramica generale, sia per mettere in risalto le eventuali criticità. Seguitamente, queste riflessioni vengono discusse attraverso l’analisi di ricerche scientifiche, di letteratura filosofica, nonché di personali esperimenti preliminari a campione, di deduzioni oppure di personali rilevazioni pratiche ed empiriche, al fine di formulare una nuova teoria che possa comprendere il più possibile le esperienze precedenti e, nondimeno, superare le criticità emerse.

Lo studio è articolato in due parti che comprendono complessivamente sei capitoli.

La prima parte, comprendente il primo e il secondo capitolo, è finalizzata ad una ricostruzione storica, filosofia e neuroscientifica della musica o dei processi che la riguardano.

Più specificamente, il primo capitolo corrisponde ad un sintetico compendio storico-filosofico della musica che ne analizza l’evoluzione a partire dalla preistoria fino al XX secolo. La necessità di questo capitolo emerge giacché, a più riprese, viene proposta un’analisi della musica in senso contemporaneo, che potrebbe essere messa in discussione attraverso esempi di musica del passato, soprattutto premoderna. Grazie a questo excursus, nondimeno, è possibile avere un riscontro del fatto che i significativi cambiamenti stilistici e concettuali della musica nel corso dei secoli non sono dipesi da fattori evolutivi o comunque biologici, bensì da fattori socioculturali e pratici, prevalentemente. Pertanto, le teorie proposte possono valere tanto per la musica contemporanea, quanto per la musica del passato.

Il secondo capitolo riguarda la disamina dei principali processi neurofisiologici coinvolti nella percezione e nella comprensione della musica da parte degli esseri umani. Poiché in svariate circostanze vengono proposte rilevazioni di natura

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neuroscientifica al fine di corroborare o di comprovare alcune ipotesi, è fondamentale poter disporre di un prontuario che esponga, almeno a grandi linee, i concetti di riferimento. In aggiunta, nel secondo capitolo sono pure discusse alcune delle teorie neuroscientifiche che potrebbero spiegare i fenomeni trattati nei capitoli successivi, mettendo in evidenza possibili punti di forza e possibili punti di debolezza, onde proseguire poi con la disamina. La maggior parte degli esperimenti e delle ricerche intorno ai fenomeni neurobiologici musicali – percezione della dissonanza, elaborazione delle informazioni sonore, rapporti fra ascolto ed esecuzione, ecc. – tentano di comprendere quali siano le condizioni in cui questi fenomeni si verificano ma non di risalire alle cause prime che hanno determinato l’emergenza degli stessi. Per esempio, gli studi di Tramo intorno alle armonie hanno evidenziato il fatto che, prevalentemente, la rilevazione della dissonanza fra due stimoli sonori simili in frequenza avviene in concomitanza con la stimolazione di fibre nervose auricolari vicine. Da questa osservazione, in linea di massima, è stato dedotto che il cervello tende a “preferire” stimoli ben distinti fra loro, tuttavia tale considerazione non è sufficiente a fornire una spiegazione esaustiva della ragione per cui, allora, esiste questa preferenza.

La seconda parte, che comprende i capitoli dal terzo al sesto, è finalizzata alla esposizione vera e propria della analisi fenomenologica ed eziologica della musica, indi del mio pensiero intorno alla musica.

Il terzo capitolo, prendendo le mosse dalle dinamiche neurobiologiche che accompagnano le emozioni, estende la questione alla relazione che intercorre fra queste ultime e la musica: in particolare, externality claim e arousal theory vengono messe a confronto onde rilevare possibili problematiche. Questa comparazione solleva la questione delle origini della musica, sia sul piano filosofico, sia su quello biologico. Essendo tale argomento oggetto di dibattito – si pensi alle ipotesi che vanno da Darwin fino a Pinker –, mediante l’analisi delle ragioni che hanno determinato la formulazione delle teorie intorno all’origine della musica, viene proposta un’integrazione delle medesime che, in misura significativa, armonizzi le evidenze su cui esse si basano oppure che ne giustifichi l’esclusione. Invero, ogni teoria analizzata – sia per quanto riguarda il rapporto musica-emozioni, sia per

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quanto riguarda l’origine della musica – nasce da rilevazioni sostanzialmente cogenti, pertanto gli elementi di verità in esse contenuti devono poter coesistere all’interno di un unico sistema. In altre parole, vengono esaminati quei processi che rendono possibile l’emergenza di talune emozioni in rapporto alla decodificazione della musica.

Il quarto capitolo, in relazione ai concetti discussi in precedenza, definisce propriamente il concetto di musica e tratta, in maniera specifica, dei processi di comprensione che intercorrono fra fenomeno e cervello, nonché dei relativi processi di acquisizione e sviluppo. Nel capitolo Musica e percezione visiva del libro Linguaggio e natura umana di Jackendoff, ad esempio, l’autore propone la sua definizione di musica e la sua idea intorno alla questione della consonanza e della dissonanza lasciando in sospeso il problema della dodecafonia: egli ammette di non sapere come integrare con la sua riflessione questo preciso stile novecentesco. Considerando alquanto convincenti le argomentazioni di Jackendoff e a seguito dei consigli che egli stesso mi ha fornito quindi, ho tentato di risolvere il problema della dodecafonia, facendo riferimento alla definizione di musica formulata in precedenza. In questo capitolo, dunque, non soltanto vengono analizzati quei meccanismi rilevanti per la comprensione di sequenze musicali stilisticamente canoniche, ma vengono pure prese in esame le casistiche comunemente considerate eccezioni alla norma – quale la dodecafonia – dimostrando la ragione per cui esse possono essere incluse pienamente all’interno della teoria elaborata.

Il quinto capitolo è dedicato ai tempi e ai ritmi musicali. Prendendo le mosse dall’ipotesi intorno all’origine dell’utilizzo convenzionale del sistema numerico decimale di Dehaene, viene proposto un paragone con il concetto di ritmo atto alla indagine eziologica intorno alla – pressappoco universale – cadenza binaria. Giacché non esistono studi miratamente dedicati alla nascita del ritmo – che, effettivamente, è avvenuta più tardi di quanto si possa credere – non esistono teorie che possano davvero spiegare la pressappoco globale diffusione del ritmo binario. Perché il ritmo ha assunto – quantomeno in occidente – una significativa valenza musicale soltanto in epoca tardoantica? Perché, data l’importanza attribuita al ritmo ternario nel medioevo, il ritmo binario si è sviluppato maggiormente? Quali sono i fattori

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determinanti di questo processo? Oltre a ciò, vengono analizzati i processi di comprensione del ritmo e le proprietà che esso può alterare all’interno delle architetture musicali.

Infine, il sesto capitolo, quasi alla stregua di un’appendice, indaga le ragioni per cui taluni rapporti armonici fra le note – ergo proporzionalità spettrali e corrispondenze temporali – vengano considerati in genere consonanti, così come altri vengano considerati dissonanti, in rapporto alla trattazione precedente. Alcuni filosofi come Adorno o Bloch, in effetti, hanno compiuto delle indagini alquanto estese sul piano sociale dei fenomeni in questione, nondimeno, il loro lavoro si è concentrato quasi completamente sull’espressione artistica della musica in relazione agli autori e al clima politico-economico ma non sono state prese in esame le cause grammaticali per cui certe soluzioni armoniche o melodiche sono risultate rivoluzionarie all’ascolto. In altri termini, il capitolo finale è focalizzato su quei fenomeni per cui, tendenzialmente, sono state costituite delle regole – invero non sempre rispettate dai compositori, specialmente se innovatori – di teoria musicale.

Per mezzo di questa ricerca multidisciplinare è possibile coniugare la maggior parte delle rilevazioni intorno alla musica – sia di natura filosofica, sia di natura neuroscientifica – all’interno di un solo sistema che ne comprenda eziologia e fenomenologia, mantenendo un contatto diretto con l’esperienza musicale pratica.

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Parte prima

Storia, filosofia e scienza della musica

I prossimi capitoli sono finalizzati alla analisi delle basi culturali e biologiche che definiscono il concetto di musica. In sostanza, questa parte dell’opera approfondisce quegli aspetti relativi alla musica che sono fondamentali per una corretta lettura della parte successiva. Dapprima sarà indagata la musica sul piano storico e sul piano filosofico – facendo prevalentemente riferimento alla dimensione occidentale e taluni accenni alla dimensione orientale. Successivamente l’indagine si sposterà intorno agli aspetti fisici e neurobiologici della musica che ne determinano la forma e la meccanica oggettiva.

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Capitolo 1

Storia e filosofia della musica

Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui una divinità manifesta la volontà di dare vita a sé stesso o a un'altra divinità, di far apparire il cielo e la terra oppure l’essere umano, questa emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona oppure suona uno strumento musicale. In altri casi, la divinità si serve di un oggetto materiale che simboleggia la voce creatrice. La fonte dalla quale il mondo è emanato è sempre una fonte acustica. […] Questo suono, nato dal Vuoto, è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio. È un monologo il cui corpo sonoro costituisce la prima manifestazione percepibile dell’Invisibile. L’abisso primordiale è dunque un “fondo di risonanza”, e il suono che ne scaturisce deve essere considerato come la prima forza creatrice, che nella maggior parte delle mitologie è personificata negli dèi-cantori. Nei miti, la materializzazione di questi dèi, nella forma di un musicista, di una caverna nella roccia o di una testa (umana o animale) che grida è, evidentemente, soltanto una concessione fatta al linguaggio più concreto e immaginoso del mito (Schneider M. , 1960).

In altre parole, quantunque misteriosa, ineffabile o mistica, la musica ha caratterizzato la vita delle persone – e di alcuni ominidi – sin dalle prime forme di civiltà, in qualità di strumento ritualistico, di espressione creativa e di oggetto di studio, mantenendo un primato fra le declinazioni artistiche maggiormente apprezzate, nell’arco delle epoche.

1.1

Musica primitiva

Con il termine musica primitiva non viene inteso il concetto di musica durante la preistoria prettamente – il quale, comunque, verrà brevemente analizzato a seguito – bensì viene inteso quell’insieme di forme musicali arcaiche nate soprattutto in Asia e in Africa prima dell’avvento della grafia, le quali si sono protratte anche successivamente ad essa.

Il primo ominide integralmente bipede è stato, probabilmente, l’Homo ergaster: sebbene potessero sorreggersi in posizione eretta pure le specie di ominidi

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ad esso precedenti, gli studi sulla struttura auricolare di tali primati indicano che l’Homo ergaster sia stato il primo a sviluppare un labirinto auricolare estremamente simile a quello dell’Homo sapiens (Mithen, 2005), perciò sia stato pure il primo a muoversi in maniera analoga all’Homo sapiens, dacché ad un simile labirinto acustico corrispondono simili dinamiche di deambulazione e di equilibrio. Si suppone – oltretutto con una certa sicurezza in merito – che gli ominidi provassero emozioni alquanto affini a quelle umane, fra cui gioia, tristezza imbarazzo, vergogna, rabbia ecc. Tenuto conto di ciò, tenuto conto della superiorità in termini orofacciali rispetto alle scimmie – giacché questi ominidi erano dotati di laringe, dentatura e muscolatura senz’altro più articolata – e tenuto conto dei comportamenti sociali delle scimmie, nonché della parentela genetica, naturalmente emerge l’ipotesi che l’Homo ergaster comunicasse coi propri simili attraverso una serie di modulazioni vocali, costituenti un codice sonoro atto a manifestare determinati stati d’animo, intenzioni o richieste. In virtù di ciò, come verrà approfondito pure nei seguenti capitoli, parrebbero essere nate le ninnenanne: numerosi esperimenti, infatti, mostrano come i neonati siano in grado già poche ore dopo il parto di rilevare ritmi ed altezze tonali precise. Le ninnenanne, giustappunto, corrisponderebbero ad interazioni consolatorie da parte delle madri nei confronti della progenie. Come facilmente immaginabile, i bambini e le bambine provano sensazioni di disagio quando vengono separati fisicamente dalla madre – proprio come accade alle scimmie e quindi anche agli antenati dell’homo sapiens – dunque, per sopperire all’impossibilità di mantenere costantemente un contatto corporeo con i pargoli, le madri avrebbero iniziato a far uso di specifiche vocalizzazioni per ottenere un effetto tranquillizzante – nel terzo capitolo sarà approfondito questo argomento grazie alla trattazione di una serie di esperimenti a tal proposito. Altro aspetto fondamentale circa la nascita della musica è il concetto di ritmo – il quale sarà ampiamente indagato all’interno del quarto capitolo. Se infatti l’Homo ergaster è stato il primo ominide a muoversi – oltre che a udire – similmente all’Homo sapiens, è verosimile ritenere che abbia potuto acquisire un proto-senso del ritmo, altro elemento necessario allo sviluppo di fatti musicali. L’archeologo britannico Colin Renfrew ha ipotizzato che i vari ceppi linguistici indoeuropei siano il derivato di una protolingua precedente (Renfrew, 1989), pertanto è plausibile che pure i fondamenti della musica potrebbero essere scaturiti da una serie di disposizioni biologiche

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proprie degli ominidi. In effetti, sono molteplici le prove che dimostrerebbero l’utilizzo di vocalizzazioni per comunicare con i propri simili da parte dei neandertaliani; questo tema sarà trattato all’interno del terzo capitolo.

Quando infatti le madri vogliono addormentare i bambini inquieti, non li tengono fermi, anzi, al contrario li muovono dondolandoli continuamente fra le braccia, non tacciono ma cantano loro qualche canzoncina e direi, senz’altro incantano i piccoli […] (709 d) (Platone, Leggi, 2005).

In senso più tecnico, eccetto che per il caso del flauto di Divje Babe – di cui verrà discusso nel secondo capitolo – molti indizi sull’evoluzione della musica provengono dalla civiltà egizia: effettivamente, già nel V millennio prima dell’era volgare, sono stati introdotti degli strumenti musicali – soprattutto a percussione – atti all’accompagnamento di rituali totemici e propiziatori, come delle bacchette e delle nacchere. Circa due millenni dopo, sono stati introdotti strumenti più complessi, quali ideofoni; il sistro – nella sua prima strutturazione – è forse l’ideofono antico pià conosciuto. Una delle più antiche testimonianze occidentali a tal proposito è stata redatta da Apuleio, il quale, nelle Metamorfosi, difatti, descrive una processione in onore di Iside, durante la quale sembrerebbe essere scandito un tempo binario – mediante tre crome consecutive e una croma di pausa – a colpi di sistro (Apuleio, 2005). È probabile gli antichi egizi facessero uso di armonizzazioni, come indicherebbero i geroglifici all’interno della mastaba di Ptahhotep1, sita a

nord di Saqqara, ove è rappresentato un chironomo – cioè l’equivalente del kapellmeister occidentale. In particolare, il chironomo – come di consueto, seduto dinnanzi ai musicisti – segnalerebbe con il pollice e con l’indice della mano sinistra la nota fondamentale, mentre con le dita della mano destra – in base alla posizione che assumono – un unisono, un’ottava, una quarta oppure una quinta. L’idea che nell’antico Egitto fossero conosciute queste strutture armoniche nasce dall’osservazione delle rappresentazioni dei rapporti di lunghezza fra le corde delle sette tipologie di benet2 – piuttosto coerenti nelle numerose esemplificazioni

geroglifiche esistenti (Agrò, 2009).

1 Visir egiziano vissuto fra il XXV e il XXIV secolo prima dell’era volgare.

2 Arpe egiziane comparse intorno al XXV secolo prima dell’era volgare e successivamente sviluppate in varie maniere, distinguibili in: arpa a pala – nota per la forma a mezzaluna –, arpa a mestolo – più

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In Cina, invece, più recentemente – ossia sotto il dominio del sovrano mitico

Fu Xi, vissuto, secondo la tradizione, fra il XXIX e il XXIIX secolo prima dell’era

volgare, nonché descritto come un essere umano dotato di coda di serpente e di quattro occhi – la concezione della musica tende a rispecchiare la concezione del mondo fisico. La successione dei suoni nel sistema cinese corrisponde a Re, Do, La, Sol, Fa che a loro volta rappresentano rispettivamente il nord, il sud, l’est, l’ovest ed il centro. Tale disposizione deriva dal mito della creazione cinese. Quest’ultima determina anche i materiali degli strumenti musicali: cuoio, legno e pietra – di cui sono costituiti tamburi, flauti e litofoni – sono materiali di provenienza nordica e orientale; metallo e terracotta – di cui sono composte rispettivamente campane e ocarine – hanno provenienza settentrionale e occidentale. In aggiunta, gli strumenti musicali, secondo la prospettiva cinese, rappresentano uno specifico regno della natura, come quello animale o quello vegetale. La cetra cinese, infine, è emblema di tutto l’universo sia per la varietà di materie di cui è costituita, sia per la fattura stessa che la caratterizza.

Fu Xi, primo sovrano mitico e inventore di quello strumento [la cetra cinese], prese del legno di eleococco e costruì la tavola armonica convessa come il cielo, il fondo piatto come la terra. La lunghezza totale corrispondeva ai trecentosessantuno viali celesti; lo spessore era di due pollici, affinché fosse emblema del sole e della luna. La parte frontale era chiamata fronte del fagiano e il ponticello montagna. La rosa centrale era lo stagno del drago che, con i suoi otto pollici di larghezza, agiva sugli otto venti. La rosa posteriore, chiamata stagno del fagiano, misurava quattro pollici. Le cinque corde rappresentavano i cinque elementi; allorché i successori di Fu Xi aggiunsero altre due corde, esse corrisposero ai sette corpi celesti (Schneider M. , 1960).

Nella Cina antica, invece, la musica ha assunto una connotazione fortemente morale – perciò pure politica – oltre che ritualistica e cosmologica, soprattutto grazie alla dottrina di Confucio. In effetti, il pensiero di Confucio relativamente alla

pesante della precedente –, arpa djadjat – dotata di una cassa di risonanza simile ad un’imbarcazione –, arpa piccola – suonata similmente ad un violino pizzicato –, arpa djadja – di grande dimensione e forma arcuata –, arpa a luna crescente – simile all’arpa a pala ribaltata specularmente – ed arpa angolare – cosiddetta per via del telaio ad angolo retto.

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musica può essere facilmente messo a confronto con quello degli antichi pitagorici; si tratta di un argomento che verrà trattato di seguito.

1.2

Scuola pitagorica, Platone, Aristotele e musica nell’antichità

A Zenone si deve una delle più curiose rilevazioni introno alla musica. Il filosofo greco, infatti, si accorse che il suono di tanti chicchi di grano che cadono per terra, come rovesciati da un sacco, fosse diverso dal suono che emette un singolo chicco, se fatto cadere da un’altezza simile, non soltanto per volume, bensì per altezza pure. In sostanza, Zenone ritenne di essersi imbattuto in un paradosso musicale, dal momento che le due tipologie di rumore non paressero minimamente affini fra loro (Murray Schafer, Educazione al suono, 1998).

In effetti, molti studiosi di musica antica fanno riferimento ai testi degli autori greci per indagare questo argomento, nondimeno – per dirla con le parole del musicologo italiano Massimo Mila – quando si tratta di musica greca, più che alla musica in sé, della quale poco o nulla rimane, si accenna piuttosto alla concezione che della musica ebbero gli autori greci (Mila, 1993). La civiltà greca – come tutte quelle che la hanno preceduta – ha attribuito alla musica un ruolo fondamentale sia a livello sociale ed artistico, sia a livello religioso: basti pensare a tutti i miti e alle opere fioriti nella antica Grecia di cui la musica è chiave di volta. Marsia, sileno virtuoso di aulós, era tanto aggraziato da ammaliare interi popoli e da suscitare l’invidia di Apollo; Orfeo riusciva ad ammansire le bestie più feroci grazie al suo canto; Anfione poté erigere le mura di Tebe grazie al potere della cetra; Achille riuscì a mitigare la sua ira contro Agamennone grazie agli insegnamenti musicali di Chirone; il richiamo delle sirene era talmente soave da determinare la perdita della ragione da parte dei marinai e così via.

Benché secondo la cultura greca presocratica specialmente, la musica fosse partecipe di innumerevoli facoltà non soltanto estetiche ma addirittura mediche e metafisiche, da una prospettiva tecnica essa, a confronto coi sistemi più recenti, è considerabile estremamente rudimentale. Proprio come le popolazioni precolombiane conoscono la ruota per scopi ludici ma non ne fanno uso per applicazioni ingegneristiche, così nell’antica Grecia le esecuzioni musicali si basano quasi esclusivamente sul tetracordo, sebbene – come sarà approfondito all’interno

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del quinto capitolo – Pitagora avesse significativamente compreso la dinamica fisica dei principali rapporti armonici tra le altezze. Il tetracordo – che letteralmente significa “quattro corde”, espressione riferita alla struttura della lira – è un accordo partecipe di quattro note comprensive di due intervalli tonali e di un semitono, il quale può essere paragonato al concetto di ottava – approfondito all’interno del quinto capitolo – nella musica moderna. Tale forma di tetracordo, forse la più comune, era detta diatonica, nondimeno talvolta vengono utilizzate delle variazioni – cronologicamente più recenti del tetracordo diatonico in quanto derivate dal medesimo – ossia il tetracordo cromatico – i cui intervalli sono formati da semitoni adiacenti – ed il tetracordo enarmonico – essenzialmente un intervallo di terza maggiore insieme a due intervalli microtonali. La ragione per cui i tetracordi sono considerati il caposaldo della musica greca antica dipende dal fatto che generalmente essi venivano avvicendanti mantenendo inalterato il semitono, acciocché, insieme, divenissero sorgente di una soluzione melodica non lontana dalla più attuale concezione di scala discendente. Questo mantenimento stabile di una nota in particolare, mentre le altre vengono variate, può essere segno di incertezza da parte degli esecutori: in effetti, indugiare intorno ad una specifica altezza, alternandola alle altre ad essa vicine, è tipico dei musicisti principianti che non padroneggiano ancora pienamente le variazioni tonali, dunque temono di eseguire un passaggio errato. In ragione di ciò, in base al semitono utilizzato all’interno del tetracordo, vengono distinti nove modi musicali differenti, detti harmonìai, nominati secondo le regioni della Grecia antica in cui essi sono nati, stando alla credenza popolare, ovvero modo lidio, modo frigio e modo dorico – rispettivamente determinati dal semitono in prima, in seconda e in terza posizione all’interno dell’accordo – da cui sono derivati successivamente i seguenti modi: ipolidio, iperlidio, ipofrigio, iperfrigio, ipodorico e iperdorico. Nel medioevo, poi, vengono introdotti altri modi il cui nome si rifà alla tradizione classica, cioè modo frigio, modo ipofrigio, modo misolidio e modo ipomisolidio3. In aggiunta, il fatto che la musica venga accostata puntualmente ad altre discipline, quali la poesia, il teatro, la medicina, la magia la ginnastica, la danza, la pedagogia, ecc., in una certa misura ne può aver limitato lo sviluppo pratico.

3 Il modo ionico non è stato menzionato dacché corrisponde alla scala maggiore; questa nomenclatura è stata concepita da parte del teorico musicale svizzero Glareano fra il XV e il XVI secolo (Latham, 2002).

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Nietzsche, in particolare, ha affrontato l’argomento in questione discutendo, più che altro, della tragedia greca. Secondo il filosofo, infatti, la tragedia – commistura di recitazione, danza, poesia e musica – avrebbe origini religiose, alla stregua di un racconto mistico intonato secondo vocalizzi, definito ditirambo. Più precisamente, Nietzsche ha associato il ditirambo al racconto cantato di un sacerdote intorno al sacrificio di un caprone a favore di Dioniso; col tempo, quel tipo di racconto avrebbe perso il proprio legame con la divinità, divenendo una sorta di dialogo musicale fra personaggi e coro, giacché quest’ultimo sarebbe corrisposto ad una rappresentazione dell’ebbrezza orgiastica, dell’estro artistico, nonché delle danze ritualistiche. Tale riflessione, peraltro, verrebbe avvalorata dalla presenza del coro all’interno della scena – come un gruppo di personaggi caratterizzanti del contesto – anziché insieme agli altri musicisti, posti al di fuori della scena (Nietzsche, La nascita della tragedia, 1977).

Secondo la tradizione greca antica presa in esame – a partire da Omero sino ad Aristotele – la musica da sé ha valore etico e comportamentale poiché, essendo invenzione divina, per dirla con le parole dello Pseudo-Plutarco (Pseudo-Plutarco, 1991), agisce sull’anima e sulla volontà degli esseri umani. In altre parole, la musica, per la concezione greco-antica, può alterare le disposizioni volitive umane stesse oltre che le emozioni. Proprio in virtù di questa credenza è stata sviluppata la dottrina dell’ethos musicale, secondo cui la musica può influire sugli animi degli individui attraverso tre modalità, ovvero inducendo l’ascoltatore a compiere un’azione volontaria, impedendo all’ascoltatore di compiere un’azione volontaria oppure gettando l’ascoltatore in uno stato confusionale. Nel corso del tempo, questi poteri sono stati associati specificamente ai modi: effettivamente, Aristotele nella Politica, specialmente nell’ultimo libro, analizza quali siano le forme musicali virtuose e quali siano quelle empie; la questione sarà estesa più avanti. Invero, fra gli intellettuali che hanno trattato di musica, sia che fossero filosofi – come Aristosseno, Platone o Aristotele – sia che fossero artisti – come Aristofane, Laso di Ermione o Pindaro – o sia che fossero matematici – come Pitagora o come Filolao – sul piano etico non mancano insanabili divergenze, talvolta condite con vocaboli persino triviali. Ciò, plausibilmente, è un sintomo del fatto che – come accennato precedentemente – la teoria della musica non sia mai riuscita a cogliere pienamente il fenomeno musicale, forse per via della tendenza a subordinare questo ente ad altre

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discipline, anziché studiarlo da solo. Anche il concetto di armonia musicale, ergo solamente una parte specifica della disciplina della musica, è stata generalmente definita secondo principi metafisici anziché epistemologici, tant’è che, per la scuola pitagorica, l’armonia musicale potrebbe essere equiparata all’unificazione equilibrata di ciò che è discordante e, ancora, all’anima stessa (Maddalena, 1954). Invero, date le conoscenze dell’epoca, l’armonia musicale sarebbe potut< essere definita, verosimilmente, come un insieme di rapporti proporzionati fra i suoni, per esempio. Aristotele, inoltre, nella Metafisica, critica severamente queste idee affermando che l’armonia musicale non abbia nessuna relazione con l’anima e, più ampiamente, con le osservazioni empiriche in genere, tant’è che il dieci – il numero privilegiato che definisce il cosmo stesso secondo il pitagoricismo – non ha relazioni con gli intervalli degli harmonìai (Aristotele, Metafisica, 2009).

Uno dei principali sostenitori del valore etico della musica in senso pitagorico è stato Damone, teorico del V secolo prima dell’era volgare, che, secondo quanto riportato da Platone – autore da cui si attinge il maggior quantitativo di informazioni a proposito – avrebbe pronunciato un appassionato discorso davanti all’areopago, in occasione del suo esilio da Atene, impostogli per aver sperperato denaro pubblico e per ragioni di tracotanza (Platone, La repubblica, 2013). Più specificamente, Damone avrebbe insistito sul valore pedagogico della musica e sugli stretti legami che avrebbero unito quest’ultima alla morale degli individui; in aggiunta, Damone avrebbe pure elogiato la tradizione musicale, contrapponendola alle innovazioni del tempo, reputate pericolose per la stabilità della polis: in effetti, ai vari modi musicali, talvolta, venivano attribuite anche le caratteristiche politiche proprie della area geografica di provenienza (Fubini, L'estetica musicale dall'antichità al settecento, 2002). Inoltre, i principali filosofi vissuti fra il V ed il IV secolo prima dell’era volgare, tendenzialmente, hanno assunto una posizione piuttosto conservatrice nei riguardi della musica, guardando con sospetto alle avanguardie. Anche Galeno, nel V libro della sua opera Pergameni De Hippocratis et Platonis decretis, riporta un aneddoto concernente Damone, il quale sarebbe intervenuto per salvare una donna, nella cui abitazione stavano per irrompere alcuni giovani in preda alla frenesia, poiché inebriati dai fumi del vino e dalla musica frigia eseguita da un flautista. Damone, assistendo al fatto, ordinò immediatamente al flautista di cambiare harmonìai, dunque quest’ultimo passò al modo dorico e gli animi degli uomini iniziarono a

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placarsi (Galeno, 1535). La spiegazione di questo fenomeno, secondo il pitagorismo, va ricercata nell’anima poiché essa corrisponderebbe ad una sorta di movimento armonico, non molto differente dal movimento delle corde di uno strumento, sicché la musica potrebbe suggestionare direttamente – quasi in modo fisico – l’essenza stessa delle persone. In ultima analisi, quindi, la musica avrebbe potuto agire direttamente sulle disposizioni umane, sia positivamente, cioè purificando gli animi dai vizi, qualora lo stile musicale avesse imitato la virtù, sia negativamente, cioè offuscando gli animi, qualora lo stile musicale avesse imitato il vizio.

Platone

Senz’altro Platone può essere reputato un continuatore di questa concezione della musica, quantunque, per certi versi, egli possa aver attinto pure dai filoni magici relativi alla musica, diffusi fra cerchie abbastanza ristrette di pensatori. Invero, non esiste un’opera di Platone che tratti specificamente di musica, nondimeno vi sono riferimenti ad essa nell’arco di tutta la florida produzione dell’autore. Platone – almeno ad un primo approccio – sembrerebbe oscillare ininterrottamente tra la strenua condanna della musica – accomunata alle altre arti spregevoli, in quanto imitazioni, e dunque capace di distogliere dalla vera bellezza – e l’elogio della stessa in qualità di bellezza suprema4, ossia, veicolo di verità. All’interno dell’opera Le leggi, Platone affronta il tema della musica relativamente alle funzioni educative di cui è partecipe, paragonandola alla ginnastica: la prima serve all’allenamento della mente e la seconda a quello del corpo. In altre parole, musica e ginnastica sono strumenti e non finalità, dunque possono essere utilizzate coerentemente solo se chi ne fa uso è stato precedentemente educato ad esse in quanto, come affermato dalla dottrina pitagorica, ne esisterebbero tipologie virtuose e tipologie empie, e queste ultime dovrebbero essere messe al bando. Platone ritiene negative le musiche polifoniche o suonate da strumenti a più corde e quelle che seguono un ritmo contorto: esse sono dotate dello scabroso potere di sedurre ed incantare5, mentre ritiene generalmente accettabili quelle monofoniche e dalla cadenza lineare.

4 La bellezza evocata da Platone, comunque, è oggetto di contemplazione filosofica e, certamente, non sensibile.

5 Platone non sembra essere il primo filosofo greco ad aver auspicato la proibizione di certune forme stilistico-musicali: Pitagora, de facto, avrebbe vietato l’utilizzo di terze e seste (Bloch, Il principio speranza, 2005).

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Non cercare ritmi variati né cadenze d’ogni specie, ma vedere quali sono i ritmi appropriati a una vita ordinata e virile; e quando si sono veduti, obbligare il piede e la melodia a adeguarsi alle parole proprie di un simile genere di vita, e non le parole al piede e alla melodia. Su questo punto ci consiglieremo con Damone, onde sapere quali siano le cadenze che si addicono alle bassezze dell’animo, alla violenza o alla follia e ad altro vizio, e quali ritmi si debbano riservare alle qualità opposte (III, 400 a-b) (Platone, La repubblica, 2013).

Platone mostra una certa avversione nei confronti della pratica musicale; ciò ha probabilmente origine nella profonda innovazione stilistica della sua epoca – come si può evincere dalla commedia Le rane di Aristofane – caratterizzata dall’introduzione di nuove scansioni ritmiche ed approcci enarmonici e cromatici, soprattutto in ambito teatrale, che il filosofo, da conservatore nonché sostenitore della tradizionale teoria musicale come scienza divina, non riesce ad accettare. Il fatto che Platone distingua nettamente – senza definire confini precisi – lo studio teorico dell’armonia musicale dalla pratica musicale, è avvalorato da alcuni passi, come quello riportato nel Fedone relativo all’ultimo giorno di vita di Socrate, durante il quale egli narra agli amici di un sogno ricorrente nel quale una voce gli suggerisce di comporre ed esercitare musica poiché la filosofia è musica altissima – tant’è che forse Socrate si è dedicato, per un certo periodo, all’esercizio della disciplina in questione – (Platone, Fedone, 1974). Anche nel Simposio vi è un passo all’interno del quale viene descritto l’effetto della musica, accostabile a quello del discorso filosofico socratico (Platone, Simposio, 1986). In sostanza, il concetto di musica inteso nei passi in questione non sembrerebbe corrispondere a quella musica “sdolcinata” descritta nella Repubblica, ma deve trattarsi di qualcosa di differente: credibilmente, Platone intende riferirsi allo studio di armonia e proporzioni, enti che non si odono ma che si contemplano intellettualmente. Tale prospettiva della musica, ancora una volta, si avvicina fortemente all’idea pitagorica, cionondimeno la supera grazie ad una maggiore dinamicità. Sciolta dalla dimensione acustica – siccome il senso dell’udito può corrompere la verace comprensione dell’ente – l’indagine musicale, secondo Platone, non può che concentrarsi sull’armonia autentica, misura della proporzione e massimo livello di elucubrazione, pertanto

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specchio dell’armonia dell’anima e al tempo stesso dell’armonia del mondo nella sua totalità; mediante di essa si quietano i turbinii dell’animo ed è raggiunta la conoscenza più squisita dell’universo, giacché l’armonia è l’ordine che regola il cosmo stesso: è unità divina compartecipe di anima e mondo.

Aristotele

La discrepanza fra teoria musicale e pratica musicale, nonché fra tradizione ed innovazione musicale, sia vissuta che argomentata da Platone, viene carpita successivamente da Aristotele, il quale, attuando uno spostamento dal piano puramente teoretico verso quello sociopsicologico, converte la medesima in una disgiunzione tra fruitori ed esecutori della musica, dacché i primi praticano un otium dignitoso per un individuo libero, al contrario degli altri che praticano un’attività essenzialmente lavorativa e perciò servile. Si evince, dall’ottavo libro della Politica di Aristotele, all’interno del quale viene discussa quale possa essere la migliore forma di educazione per uno stato privo di patologie, che l’autore sia incline ad una maggiore moderazione rispetto al suo mentore, tollerando anche quelle varietà di musica da quest’ultimo aborrite (Aristotele, Politica Vol. II, 2015). Aristotele, certo della necessità di un riposo decoroso per un cittadino attivo nel – per dirla con Catone il Vecchio – negotium, scorge nella musica – insieme alle lettere, al disegno e alla ginnastica – una sana distrazione, la quale abbisogna di una formazione a priori affinché possa rivelarsi veramente ricreativa e, pertanto, essa deve essere studiata moderatamente, ovvero abbastanza da poter riconoscere gli harmonìai senza però valicare tali nozioni basilari, al fine di non esporsi al virtuosismo. Effettivamente, Aristotele sembra attribuire, per motivazioni ora empiriche, ora metafisiche, all’interno del quinto libro della Politica, differenti valori morali ai vari modi musicali, così come agli strumenti musicali. Questi, difatti, suggerisce – come già Platone, nella Repubblica, narra che avesse stabilito Socrate – di bandire strumenti orgiastici quali l’aulòs, oltretutto associato alle cortigiane nel Teeteto (173 d), ossia alle classi inferiori, agli schiavi e al volgo (Platone, Teeteto, 2013) – mitologicamente gettato via da Atena dopo essersi specchiata sull’acqua con le guance gonfie, nell’atto di suonare, ed essendo per questo inorridita data la desueta visione – o di bandire strumenti difficili da suonare, quale la cetra. Orgiastica, secondo Aristotele, è pure

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l’armonia frigia, benché egli argomenti tale rilevamento soltanto con prove circostanziali.

Infatti, tutto l’eccitamento bacchico e tutte le frenesie di tal sorta privilegiano il flauto rispetto agli altri strumenti: e fra le armonie attingono soprattutto dai canti frigi quello che più si addice loro. Così, ad esempio, è opinione concorde che il ditirambo sia di provenienza frigia. Gli esperti forniscono molti esempi di ciò, come, fra gli altri, il fatto che Filosseno, quando cercò di comporre il ditirambo I Misii in armonia dorica, non ne fu capace, e dovette ripiegare di nuovo sull’armonia frigia come fosse la più adatta per natura (1342b-2) (Aristotele, Politica Vol. II, 2015).

Una delle criticità più significative del modo frigio e dei relativi effetti eccitatori, tuttavia, è la somiglianza col modo dorico. Aristotele, infatti, oppone questi due modi in maniera netta in quanto a ripercussioni psicologiche, tant’è che nella Politica paragona i medesimi al vento del nord e al vento del sud, tanto sarebbe facile riconoscerne le differenze, cionondimeno, da una prospettiva tecnica, modo frigio e modo dorico sono essenzialmente identici siccome sono partecipi della stessa successione di intervalli, indi toni, quarti di tono e terze. La sola discrepanza fra i due modi è riconducibile al fatto che nel modo dorico l’ultimo intervallo ascendente corrisponde ad una terza e nel modo frigio ad un tono; in altre parole, il frigio non differisce dal dorico che per il grado superiore – Re anziché Mi (Chailley, 1960). Pertanto, rimarrebbe incerta la motivazione che avrebbe spinto Aristotele ad operare una così rilevante distinzione; forse una soluzione è formulabile grazie agli studi sulla musica contadina greco-antica compiuti dal musicologo svizzero Samuel Baud-Bovy. Lo studioso, difatti, ha teorizzato che la musica greco-primitiva non fosse diatonica, bensì anemitonica, ergo priva di semitoni, e che essa abbia continuato ad essere eseguita anche dopo l’avvento degli altri sistemi musicali, quasi esclusivamente da parte del ceto contadino per via del tipo di strumenti musicali tramandati di generazione in generazione. Tenendo ciò presente, allora, il dorico inteso da Aristotele – nella sua forma più grezza – potrebbe corrispondere ad un modo pentatonico anemitonico, sicché alquanto diverso dal frigio diatonico ed eptatonico (Baud-Bovy, 1978). Nonostante l’eventuale superamento di questa problematica, restano comunque criptiche le ragioni precise per le quali a taluni

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modi siano associate determinate proprietà morali, estatiche e magiche e ad altri modi proprietà dissimili. È comunque plausibile che Aristotele sottintenda il fatto che sia l’abitudine a conferire tratti viziosi alla musica, in quanto collegata al culto di Dioniso, alla stregua del ditirambo, anziché possedere le medesime caratteristiche sul piano fenomenologico. A sostegno di questa ipotesi è possibile fare riferimento all’attore Teodoro che – Aristotele racconta – non permetteva a nessun altro attore, anche scadente, di precederlo sulla scena, ritenendo che il pubblico si cattivasse con le prime battute. Aristotele aggiunge che ciò vale anche per le relazioni umane, conseguentemente è necessario rendere estranee ai giovani e alle giovani tutto ciò che può essere sorgente di cattiveria e malevolenza. In definitiva, la musica viene reputata una disciplina necessaria per il buon cittadino, cionondimeno deve essere praticata con attenzione ad esatte limitazioni: poiché esaltiamo il medio tra due eccessi e affermiamo che a esso dobbiamo tendere e poiché l’armonia dorica è in queste condizioni rispetto alle altre, è evidente che ai giovani bisogna insegnare preferibilmente i canti dorici (1342b-15) (Aristotele, Politica Vol. II, 2015).

Aristotele non mette in guardia da particolari pericoli per la morale insiti nelle musiche enarmoniche o aritmiche – corruttrici secondo Platone – nonostante si trovi difronte alla necessità di attuare anch’egli una scrematura tra il genere di musica adatto al riposo ed alla dottrina e quello prettamente edonistico. Quantunque caratterizzata da un’accezione dichiaratamente più emozionale rispetto all’ottica platonica, pure per Aristotele la musica è paragonabile, indicativamente, ad una medicina benefica per l’animo umano, dal momento che imita le passioni e i sentimenti che tormentano gli individui e dai quali costoro intendono mondarsi6. Invero, Aristotele apre un’acuta polemica nei confronti del precettore, difatti cerca di elencare possibili usi per tutte le poliritmie e le polifonie delle quali era stata auspicata antecedentemente la proibizione. Riesce a compiere questa operazione ipotizzando che la finalità della musica sia partecipe di molteplici interpretazioni a carico del fruitore, tra le quali, oltre il percepimento della musica come forma dottrinale, sono presenti la catarsi omeopatica7 e plausibilmente un’esigenza antropica. Tali esegesi si trovano in una condizione di intercambio tra

6 Nella filosofia aristotelica, la concezione dell’arte come disciplina volta all’imitazione non possiede la medesima negatività asserita da Platone.

7 La catarsi aristotelica è da considerarsi omeopatica giacché la correzione dei vizi avviene tramite l’imitazione del medesimo vizio dal quale l’animo vuole emanciparsi (Lasserre, 1955).

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loro e da ciò deriva che ogni tipo di armonia possa essere utilizzata per implementare l’esperienza ermeneutica; non solo: la prospettiva aristotelica ivi esposta – corroborata dall’accettazione del piacere come fattore intrinseco alla musica – suggerisce l’incominciare di un primitivo pensiero estetico. Conseguita la visione poc’anzi esposta, Aristotele conviene che la valenza didattica della musica si trovi nella cauta utilizzazione della medesima in quanto potenziale riflesso delle virtù umane, in diretto ed organico contatto con l’anima, costituita da genuina armonia, che da essa può essere mitigata. La speculazione intorno alla musica si protrae sino allo scritto aristotelico Problemi, nel quale sono esaminati i meccanismi attraverso cui i suoni riescono ad echeggiare le passioni umane. In evidente contrasto con la convinzione platonica secondo la quale l’udito è pressappoco inutile nella contemplazione dell’armonia, Aristotele pare attribuire ad esso superiorità sugli altri sensi: afferma che solo l’udito possa cogliere qualità sensibili provviste di ethos. Ciò è possibile dal momento che il suono si distingue dalle altre qualità sensibili per via del movimento – dinamicamente compatibile con quello (non) compiuto dalla freccia nel celebre paradosso di Zenone – che si rivela attraverso la successione dei suoni e che determina il legame indiretto tra fatto acustico ed ethos, siccome anche le emozioni sono ritenute una forma di movimento (Aristotele, Problemi, 2002). Da ciò derivano le idee di ordine e di misura, ergo di armonia, presenti nella musica, per altro già dissertate nella dottrina pitagorica, anche se partecipi di una valenza metafisica che Aristotele ha abbandonato a favore di una concezione psicologico-formale.

Aristosseno

Successivamente all’esperienza aristotelica, la prospettiva di Aristosseno – narrata prevalentemente dallo Pseudo-Plutarco – ha posto le basi per uno sviluppo della musica in senso indubbiamente più moderno rispetto ai predecessori. Aristosseno, difatti, pur ritenendo necessaria la tradizione etico-musicale dell’antica Grecia – quantunque la confini a mera convenzione storica –, si concentra sulla formazione del giudizio musicale, evolvendo dalle rilevazioni antropologiche di Aristotele. Nella fattispecie, Aristosseno rivolge l’attenzione verso le disposizioni sensibili degli esseri umani – come l’udito – e verso le disposizioni psicologiche – come l’aspetto soggettivo della fruizione. In altre parole, Aristosseno opera una

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energica cesura con i puri teorici della musica e ammette entusiasticamente che teoria e pratica musicale debbano compenetrarsi per una esperienza completa. Studio della armonia – di natura teoretica – e studio dell’esecuzione – di natura empirica – vengono perciò finalmente concepiti come due enti interdipendenti fra loro. Un’altra notevole intuizione di Aristosseno concerne il ruolo della memoria nelle dinamiche di comprensione della musica: egli, infatti, sostiene che essa sia imprescindibile dacché, essendo la musica una sequenza di note – definizione che verrà discussa e riformulata nel quarto capitolo – è necessario ricordarsi la nota precedente per poter apprezzare quella successiva. Per Aristosseno, nondimeno, il fine della musica si trova ugualmente al di là della sfera percettiva umana, poiché corrisponde alla contemplazione da parte dell’intelletto di ciò che è immutabile e permanente: le leggi pure dell’armonia.

Le speculazioni intorno alla musica di Aristosseno sono state interpretate, prevalentemente, come una continuazione del pensiero aristotelico tant’è che esse sono divenute una sorta di paradigma per la prospettiva peripatetica stessa della musica. In contrapposizione a questa corrente è perdurata la filosofia platonica e, successivamente, neoplatonica intorno alla musica. Il principale continuatore del pensiero peripatetico della musica, stando al Commentario degli armonici di Tolomeo di Porfiro – allievo di Plotino, vissuto nel III secolo dell’era volgare – è Teofrasto, il quale ha aggiunto alle dissertazioni precedenti l’idea originale che l’armonia non sia indipendente dai fenomeni mediante cui essa viene percepita dagli esseri umani e dunque non possa essere eterna o prescindere da questi ultimi. Sono emerse, inoltre, anche prospettive epicuree circa la musica, come quella di Filodemo che, in polemica con il pensiero peripatetico e con il pensiero neoplatonico, ha sostenuto – similmente a Democrito – che la musica sia un fenomeno prettamente sensibile e dunque partecipe di irrazionalità e inerme nei confronti dell’anima. Porfiro, infine, in qualità di difensore della concezione neoplatonica – e similmente a Plotino – ha teorizzato che la musica abbia origine in un mondo superiore, pertanto possa essere strumento di ascesi. Tale concezione, affine alla dottrina cristiana, viene ampiamente adottata in virtù di ciò dai teorici della musica e dai musicisti medievali che operano, quasi esclusivamente, all’interno di contesti religiosi.

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La musica è la rappresentazione terrena della musica che vi è nel ritmo del regno ideale (V, 9.11) (Plotino, 2000).

1.3

Agostino, Boezio e musica tardoantica

Agostino

La musica è la scienza del movimento regolato (Agostino, 2017). Questa emblematica definizione, ideata da Agostino d’Ippona, può essere considerata come il fondamento della musica medievale. Effettivamente, la chiave di volta della musica che ha connotato il millennio in questione, al di là delle normali evoluzioni susseguitesi, concerne l’integrazione con la religione che, progressivamente, si diffonde in Europa a partire dal III secolo dell’era volgare, ossia il cristianesimo, per questo, i componimenti medievali hanno subito notevolmente l’influenza delle teorie dei padri della Chiesa tardo-antichi. Agostino ha redatto un ampio trattato intorno alla musica – invero si tratta prevalentemente di una dissertazione intorno alla metrica – all’interno del quale risulta evidente l’influenza platonica. L’aspetto più originale del pensiero di Agostino intorno alla musica, giustappunto, è l’associazione compiuta con la scienza – mai stata precedentemente così esplicita – e ciò collima fortemente col pensiero platonico. Come Platone, anche Agostino ritiene che la musica – in quanto scienza – debba prescindere da tutti gli elementi fattuali ci cui è partecipe per elevarsi a puro ragionamento, senza l’intervento dei sensi o delle emozioni. In altre parole, in linea con la concezione platonica e neoplatonica, il piacere della musica è collegato alla pura contemplazione razionale della medesima e si contrappone agli atti pratici che la riguardano come l’esecuzione o la composizione. A tal proposito, Agostino classifica gli atti relativi alla musica partendo da quelli più riprovevoli fino ad arrivare a quelli virtuosi. In particolare, il teorico suddivide questi atti nella seguente maniera:

• atti istintuali, ossia i canti degli animali;

• esecuzioni pratiche, ossia l’atto proprio dei suonatori;

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Secondo Agostino, la contemplazione razionale della musica avviene mediante la comprensione dei rapporti matematici dell’armonia, fino a sfociare in un complesso sistema metafisico difficilmente traducibile in dinamiche empiriche. Oltretutto, si deve ad Agostino – in grande misura – l’adozione del tempo ternario come scansione ritmica più comune nel medioevo. Nel De Musica, de facto, Agostino sottolinea l’importanza del concetto di trinità applicabile alla musica mediante tempus perfectum et prolatio perfecta – cioè il tempo in 9/8, ritmo ternario ulteriormente scomponibile in tre gruppi, di cui verrà discusso approfonditamente nel quinto capitolo. Ivi non è difficile notare pure l’influenza pitagorica di cui il pensiero musicale platonico è permeato. Come i filosofi greci da Omero ad Aristotele, anche Agostino pensa che la musica possa nascondere delle insidie, giacché fenomeno seducente, dunque ne limita l’utilizzo a fini di preghiera, tenendo comunque presente – come riscontrabile nelle Confessioni – che talvolta, onde proteggersi, convenga abbandonare le melodie del tutto, a favore di una preghiera pienamente semantica. Non è un caso, in effetti, che i teorici cristiani della musica, nel periodo tardoantico, abbiano sovente descritto la musica alquanto ambivalentemente, considerandola sia demoniaco strumento di corruzione delle anime, sia mezzo di elevazione spirituale potentissimo poiché imitazione di armonia divina.

La filosofia della musica platonica può essere riscontrata pure nel pensiero di Clemente, il quale, peraltro, riscostruisce il mito di Orfeo sull’impalcatura offerta dalla figura biblica del cantore Davide (Fubini, L'estetica musicale dall'antichità al settecento, 2002). San Basilio, invece, nell’Omelia intorno al primo salmo assume posizioni maggiormente pedagogiche, insistendo sull’efficacia liturgica del canto integrato con la preghiera, siccome capace di renderla più allettante attraverso la piacevolezza estetica. Anche questo tipo di riflessione, nondimeno, è assolutamente affine alla filosofia di Platone.

Boezio

Sulla scia del valore educativo della musica secondo i platonici e i neoplatonici, nonché sulle considerazioni agostiniane della musica come scienza, prende le mosse Boezio, quantunque resti sciolto dalla dimensione religiosa. Ad un secolo di distanza dalla redazione del De Musica di Agostino, Boezio scrive il De istitutione muscae, trattato che si concentra prevalentemente intorno al concetto di

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armonia. Boezio, in primis, tenta piuttosto approssimativamente di delineare un’eziologia della musica, per cui giunge ad affermare che essa sia una disposizione innata degli esseri umani poiché tutti gli animali possono udirla ma soltanto le persone possono comprenderla e, proprio per questo, come creduto dalla maggioranza dei teorici greco-antichi, i modi musicali possono sia abbrutire, sia mitigare gli animi. Successivamente e senza dubbio in maniera più minuziosa, Boezio indaga il valore pedagogico della musica, raggiungendo la conclusione – anche in questo caso metafisica – che essa possa suddividersi tre categorie: la categoria strumentale (originata dall’uso di strumenti musicali), quella umana (originata dalla poesia) e quella mondana (fondamento puro delle altre due categorie e relativo metro di giudizio). In modo perfettamente classico, Boezio svaluta la pratica musicale e la fruizione sensibile della musica, affermando che il valore educativo e virtuoso della medesima si trovi nella musica mundana, cioè una delle tre succitate categorie, corrispondente alla musica degli astri, ovverosia all’armonia in senso noumenico. Difatti, la figura dell’esecutore viene severamente svalutata siccome la mano – sostiene Boezio – necessita della ragione per eseguire un brano, ma la ragione può invece agire indipendentemente dalla pratica. In aggiunta, la facoltà di udire viene ritenuta ingannevole e imprecisa, nondimeno non viene totalmente squalificata, tant’è che potrebbe essere considerata come il punto di partenza per la successiva contemplazione della musica mundana. La musica delle sfere cosmiche, secondo il teorico romano, non è costituita da fatti acustici sensibili, giustappunto, ma può essere apprezzata soltanto attraverso l’intelletto, caratteristica che la rende massimamente perfetta. In altre parole, la musica delle sfere cosmiche – similmente all’Uno di Plotino – è l’unica forma musicale verace e viene imitata dalle forme sensibili di musica comprese nella categoria umana e in quella strumentale, le quali sono soltanto parzialmente partecipi dell’essenza della categoria mondana che, diversamente, è essenza stessa. L’associazione della musica alle sfere celesti, peraltro, affonda le proprie radici nella tradizione pitagorica, tant’è che la nomenclatura delle note tardoantiche – dette vocali ioniche – di cui è autore il matematico pitagorico Nicomaco di Gerasa, si basa sulla altezza tonale che – secondo la tradizione pitagorica – emetterebbero i corpi astrali: il Re corrisponderebbe alla nota prodotta dalla luna, il Do a quella di Mercurio, il Si a

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quella di Venere, il La a quella del sole, il Solo a quella di Marte, il Fa a quella di Giove e il Mi a quella di Saturno (Arnese, 1983).

Il pensiero di Boezio viene condiviso quasi pienamente da un altro filosofo ad egli contemporaneo, ovvero Cassiodoro, il quale, nondimeno, integra la concezione musicale pitagorico-boeziana con la dimensione escatologica per via del suo significativo avvicinamento alla fede cristiana. Per Cassiodoro, la musica mundana corrisponde – in quanto musica delle sfere celesti – a ritmo ed armonia divini, di cui l’anima è, dunque, compartecipe. In sostanza, obbedire ai comandamenti della religione equivale alla realizzazione pratica dell’armonia perfetta: la concezione classica della musica, perciò, viene ulteriormente spinta in direzione dei dogmi cristiani e, conseguentemente, medievalizzata.

1.4

Musica medievale

Più che di musica, in linea di massima, si dovrebbe parlare di melurgia se il periodo storico di riferimento è il medioevo. La melurgia, infatti, è definibile come quell’influenza positiva che la musica esercita sull’animo umano, il quale è capace di una contemplazione pienamente razionale del fenomeno musicale: in gran parte, difatti, sia la produzione musicale che gli studi musicali del medioevo hanno avuto origine a partire da questa concezione in particolare, ossia hanno preso le mosse dalla tradizione pitagorico-neoplatonica. Sono davvero poche le eccezioni in tal senso, una delle quali è contenuta del trattato Musica Enchiriadis di Oddone di Cluny8, significativa poiché proposta da un teorico cristiano. Oddone ha proposto, infatti, una visione pedagogica della musica che avvicina di molto musica mundana e musica humana: quest’ultima, infatti, corrisponderebbe alla forma sensibile dell’altra, sicché la pratica musicale, unita alla preghiera, sarebbe una via d’accesso alla beatitudine e non un pericolo in quanto seduzione o distrazione tecnica, come suggerito, fra gli altri, da Guido d’Arezzo.

Sul piano tecnico, se musica greco-antica e musica romano-antica sono pressappoco identiche9, la musica medievale subisce un rilevante cambiamento in

8 Tradizionalmente questo testo è stato attribuito a Hucbald di Saint-Amand.

9 Invero, in età tardoromanica specialmente, sono molte le influenze culturali che determinano cambiamenti musicali – si pensi alla cosiddetta asiatica luxuria o ai culti misterici e alle conseguenti introduzioni di nuovi strumenti musicali o alla realizzazione di varianti degli strumenti musicali classici

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quanto, con l’avvento del cristianesimo, l’Europa viene raggiunta dalla liricità ebraica e dalla relativa struttura melodica – o meglio, monodica, in quanto fortemente incentrata su recitazioni e vocalizzi debolmente modulati e cadenze assai libere – che si fonde con il sistema armonico pitagorico – perpetrato dai neoplatonici fin in età tardoantica ed accettato dai teorici cristiani – dando origine ad un nuovo sistema musicale e liturgico, costituito essenzialmente da salmodia e innodia.

La musica salmodica è funzionale alle tre tipologie di salmo, pertanto ne esistono tre tipologie. Al psalmus directus corrisponde l’esecuzione musicale di un solista che vocalizza i salmi senza interruzioni di alcun tipo. Al psalmus responsorius corrisponde l’esecuzione musicale responsoriale – di derivazione sinagogale –, cosiddetta poiché un solista intona i salmi che vengono scanditi dalla ripetizione di un medesimo ritornello da parte di un coro. Al psalmus antiphonicus, infine, corrisponde l’esecuzione musicale antifonica, giustappunto, poiché un coro intona tutti i salmi. Questa ultima tipologia prende piede velocemente giacché la forma responsoriale si adatta bene a gruppi di preghiera ristretti ma non a grandi assemblee all’interno delle basiliche, ove il brusio può raggiungere intensità tali da coprire il solista. In prospettiva pratica, tutti i canti salmodici sono di tipologia sillabica, al tempo detta accentus; questa forma di canto prevede che ad ogni sillaba corrisponda un intervallo ritmico sviluppato su una esigua quantità di note – o sempre sulla stessa nota – che viene risolta dalla cadenza ritmico-tonale conclusiva (generalmente si tratta di una nota più bassa).

La musica innodica, anch’essa di origini palestinesi, come suggerisce la

Peregrinatio Aetheriae, viene utilizzata per la celebrazione delle messe come

intervento attivo da parte dell’assemblea, perdendo progressivamente il carattere di provvisorietà che sembrerebbe aver mantenuto fino al IV secolo dell’era volgare. In effetti, il papa Gregorio Magno sembrerebbe aver contribuito alla composizione di numerosi canti, nonché all’organizzazione dei rituali liturgici, in maniera da rendere prassi l’utilizzo di certune espressioni musicali. La musica innodica segue la maniera canora detta concentus, la quale si contrappone all’accentus poiché si concentra più sull’aria melodica che sulla ritmica e sulle liriche. Proprio da questa forma di musica ha origine l’inno ambrosiano, destinato ad essere lo stilema musicale più in uso

– nondimeno da una prospettiva sistemico-strutturale non avvengono cambiamenti realmente significativi.

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prima dell’introduzione del canto gregoriano. Gli inni ambrosiani si distaccano stilisticamente da quelli precedenti di origine romanica, in quanto terminano, di regola, con un intervallo di quarta, mentre quelli romanici terminano con un intervallo di quinta discendente. La maniera ambrosiana, peraltro, insiste soprattutto sulle tonalità di Fa maggiore o di Mi minore. A livello armonico, invece, i canti ambrosiani – a differenza delle esperienze liturgico-musicali precedenti – operano una netta distinzione fra voci basse e voci alte, infatti le prime vengono affidate alla direzione del cosiddetto primicerius minor, accompagnato dal coro – i

lectores – mentre le seconde vengono guidate dal cosiddetto magister scholarum,

accompagnato dal coro di clerici (Arnese, 1983).

Non inebriatevi di vino che fomenta la lussuria, ma riempitevi di Spirito Santo, dialogando tra voi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando in cuor vostro, al Signore (Paolo di Tarso, Lettera ai Colossesi, III 16).

I canti ambrosiani hanno gettato le fondamenta per lo sviluppo del canto

gregoriano. Questo stile musicale non si allontana molto dal psalmus antiphonicus giacché, a livello fattuale, risponde al bisogno di una forma di canto di facile esecuzione – come testimoniato dai timidi intervalli e dalle variazioni tonali e ritmiche di cui il canto gregoriano è partecipe – da parte di ingenti assemblee di credenti inesperti. Gli aspetti più innovativi del canto gregoriano, nondimeno, corrispondono alla mescolanza di due o più modi all’interno dello stesso componimento. I teorici cristiani, a causa di una serie di fraintendimenti occorsi nello studio della tradizione greco-antica, hanno alterato la distinzione dei modi classici – tant’è che questi ultimi vengono sostituiti da modi autentici e modi plagali – fintantoché il tetracordo discendente stesso – ossia l’anima della musica greco-antica – viene sostituito con l’ottava ascendente diatonica (Mila, 1993).

Dallo stilema ambrosiano e da quello gregoriano, intorno al secolo XI inizia diffondersi una nuova forma musicale, ossa la polifonia. A differenza di molte altre innovazioni tecniche, la polifonia si sviluppa pressappoco spontaneamente dacché gli unisoni – propri dei canti ambrosiani e di quelli gregoriani – non sono facilmente eseguibili da parte di tutte le persone insieme: ad esempio, una certa linea melodica, tonalmente piuttosto alta, si adatta bene all’intervallo spettrale che possono coprire

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