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Regole grammaticali mentali della musica

4.1 Definizione di musica

Generalmente, tento di stabilire la definizione precisa di un ente prima di procedere con la relativa trattazione, tuttavia ho ritenuto che, nel caso della musica, fosse necessario primariamente affrontare le contingenze meccaniche e biologiche

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della medesima, nonché le motivazioni per cui essa abbia rilevanza per gli esseri umani e, solo successivamente, formulare una definizione esatta.

A più riprese, Igor Stravinskij ha individuato nel tempo l’essenza stessa della musica, sicché l’ha chiamata arte cronologica (Stravinskij, Poetica della musica, 1942); il compositore, nelle sue conferenze alla Harvard University, infatti, ha sottolineato come la crononomia104 sia il fondamento imprescindibile di qualunque composizione. Invero, già Platone e Aristotele avevano inteso la musica come una sequela di note all’interno un hortus conclusus temporale, nondimeno occorre estendere il concetto ulteriormente, deprivandolo – provvisoriamente – di tutti quei correlativi sovrastrutturali come lo stilema, le liriche, le timbriche e simili, nonché spingere la considerazione un po’ più avanti.

Cos’è la musica? Essa è il fenomeno che si verifica quando rumori partecipi di frequenze e durate diverse, assumono un significato finito e non semantico. In altre parole, la musica esiste fra le note ma non è composta dalle note stesse: la musica è una scia. Questa scia, in aggiunta, esiste solo nel cervello, laddove la musica assume significato; al di fuori del cervello, contrariamente, essa è solo un agglomerato di vibrazioni aeree. Prendiamo come esempio un brano qualsiasi di musica leggera o classica: esso, senza dubbio, può essere espresso mediante esecuzione pratica oppure mediante uno spartito. In sostanza, una composizione musicale, apparentemente, equivale all’unione di diverse note, partecipi di timbriche e durate dissimili fra loro. Che si ascolti un’incisione o un concerto dal vivo, oppure che si legga una partitura, ciò che si percepisce è una successione di suoni diversi nel tempo. Avviene, tuttavia, un fenomeno alquanto curioso se, prendendo le singole note di quel brano, si incominciano a suonare queste ultime slegatamente dalle altre. La singola nota, difatti, a prescindere dalla timbrica, dall’ottava, dalla durata e così via, non assume alcuna rilevanza emotiva, o meglio, musicale; una sola nota, cioè, non può essere musica. Certamente, la nota può essere partecipe di caratteristiche musicali apprezzabili ed analizzabili – come una perfetta intonazione, un timbro particolare, un reverbero avvolgente e così via, cioè quelle sovrastrutture da accantonare temporaneamente – ma da sé, non è un fatto musicale. Basti

104 Neologismo utilizzato da Stravinskij per indicare l’intrinsecità della organizzazione del tempo nella musica stessa, a prescindere dal genere in cui essa può essere inscritta.

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immaginare di udire per alcuni minuti di fila la stessa nota musicale105 – partecipe di tutte le succitate caratteristiche positive – senza che essa subisca alcuna variazione: indiscutibilmente, oltre che a risultare fastidiosa, quella singola nota prolungata nel tempo non verrà compresa neurologicamente come musica, non diventerà mai un tarlo della mente, non sarà mai canticchiata sotto la doccia, non attiverà alcuna grammatica, tantomeno permetterà che se ne sviluppi una nuova e non susciterà alcuna emozione; quella singola nota, alla stregua di un’aspirapolvere accesa o dell’acufene, sarà elaborata come tutti gli altri suoni, ossia come del rumore qualsiasi106. La singola nota, pertanto, inizia ad assumere valore musicale quando viene posta in collegamento con un’altra nota e, conseguentemente, diviene partecipe di una – quantunque minima – connotazione ritmica. Certo, due note da sole non possono sostanziare precise sintassi musicali, ma senz’altro possono essere decodificate come musica, basti pensare alla celebre colonna sonora del film Jaws diretto da Steven Spielberg, composta dal direttore d’orchestra statunitense John Towner Williams – noto per aver ideato le soundtrack di innumerevoli pellicole di successo, fra cui la saga di Star Wars e quella di Indiana Jones (Miceli, 2009). Questo componimento può essere riconosciuto immediatamente grazie alle due gravi note107 che precedono la lunga pausa prima dell’effettiva partenza del brano, il quale, comunque, si basa ampiamente sulla ripetizione delle medesime, enfatizzate, a tratti, da accordi atonali; non a caso, la colonna sonora, via via, pare rimandare a Le sacre du printemps di Stravinskij oppure a La mer, trois esquisses symphoniques pour orchestre di Debussy. Le due note in collegamento fra loro, poi, continuano a permearsi di significato musicale quando viene aggiunta, seguitamente, un’altra nota – o ripetuta una delle medesime: la melodia si articola, il ritmo si accentua. In pratica,

105 Se questa operazione è impossibile con uno strumento acustico, dato che la relativa risonanza si esaurisce nell’arco di qualche secondo, nondimeno è perfettamente attuabile con un qualsiasi sintetizzatore.

106 Talvolta, in effetti, si verificano delle circostanze in cui il rumore assume una qualche valenza musicale. Questo argomento sarà trattato nelle seguenti pagine.

107 Queste due note in particolare, ossia Mi e Fa, sono talmente potenti sul piano emotivo – così come tutta la composizione in questione – che un insolito studio del 2016, compiuto su circa duemila partecipanti, ha mostrato quanto esse possano essere determinanti per la paura nei confronti degli squali. In particolare, i volontari sono stati divisi in due gruppi; ad uno dei due gruppi è stato mostrato un video di squali intenti a nuotare, della durata di un minuto, mentre all’altro gruppo è stato mostrato il medesimo video partecipe, però, della colonna sonora di Jaws. I membri del secondo gruppo, condizionati dalla musica inquietante, in risposta ad un’interrogazione successiva da parte dell’equipe di ricercatori, hanno – in percentuale significativamente maggiore rispetto al gruppo di controllo – dichiarato di immaginare il pescecane come un animale feroce e cattivo, connotandolo letteralmente mediante un attributo morale (Nosal, Keenan, & Hastings, 2016).

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più note si susseguono e più il fatto musicale prende forma, poiché viene delineata più precisamente una sintassi musicale e dunque le grammatiche la decodificano oppure incomincia una frequentazione.

Resta però il problema del valore della nota: precedentemente ho affermato che la nota da sé non è partecipe di rilevanza musicale ma solo di sovrastrutture estetiche e tecniche, dunque pensare la musica come una somma di note in successione cronologica sembra un errore. Se la singola nota, infatti, ha valore nullo musicalmente, non è corretto affermare che la somma di unità dal valore nullo risulti in un valore non nullo, ossia la musica: sarebbe come sostenere che la somma di molti addendi dal valore pari a zero, equivalga ad una cifra diversa da zero, verosimilmente, positiva. Cos’è, quindi, che permette a valori nulli di acquisire valore positivo? Cos’è che permette ai singoli suoni di divenire musica? Personalmente ritengo che la risposta, come anticipato, sia il concetto di scia musicale: la musica, cioè, non è nelle-note ma è fra-le-note. Più precisamente: una persona affetta da amusia, anziché musica, ascoltando l’ipotetico brano in questione, plausibilmente sente una sequenza di note staccate fra loro, ossia gli elementi di nullo valore musicale. Ma se questa persona è in grado di percepire le note – ossia la variazione di altezza e di durata – e le relative sovrastrutture – ossia la timbrica, i reverberi e così via – allora non dovrebbe essere capace di percepire anche la musica? Se la musica fosse nelle-note, senz’altro la risposta sarebbe affermativa. Ma la musica, ancora una volta, avviene solo nel cervello e non nelle-note ma fra-le-note. Per semplificare il ragionamento si può ricorrere al modus tollens: si ammetta che la musica sia una sequenza di note e si consideri pure il fatto che chi soffre di amusia possa percepire le note nella stessa maniera fisica di chi non è affetto dalla questa patologia; se la musica corrisponde alle note e chi è affetto da amusia sente le note ma non sente la musica, allora la premessa risulta errata e la musica non può essere considerata una sequenza di note ma qualcos’altro.

Infatti, la musica può essere definita, essenzialmente, come quella relazione fra i suoni che avviene nel cervello e che acquisisce significato sintattico e non semantico in virtù di determinate grammatiche acquisite. Ne deriva che la scia musicale sia quel correlativo mnemonico degli esseri umani che, tenendo presente il semitono precedente, ne consente la coniugazione col semitono successivo e così via. Si immagini una verdeggiante pianura attraversata da un interminabile

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complesso di tralicci dell’elettricità. Sopra alle zolle di terra, si erigono imponentemente slanciate torri di ferro e zinco, connesse fra loro tramite solidi cavi di rame. Alcuni di quei piloni sono più alti, altri più bassi, inoltre sono distaccati, l’uno dall’altro, in maniera difforme. Ecco, si potrebbero paragonare quei tralicci alle note musicali poiché entrambi sono partecipi di altezze differenti, giustappunto, e separati da differenti distanze – o durate. La musica, allora, sarebbe rappresentata da quei robusti cavi elettrici, dacché essa si appoggia alle note, come i cavi si adagiano sui piloni, ma, così come cavi e piloni sono oggetti differenti, musica e note sono enti differenti. Sicuramente, senza le note, mentali o fattuali che siano, la musica non può esistere, tuttavia esse restano una condizione necessaria ma non sufficiente al fatto musicale. Le note, pertanto, possono essere considerate come quelle espressioni sonore, opportunamente modulate nei rispetti della contingenza, che relazionandosi fra loro rendono possibile il fatto musicale. In altre parole, che siano soltanto immaginate o fattualmente riprodotte con uno strumento musicale, le note equivalgono alla materia grezza che il cervello adopera per percepire la musica.

Esiste, perciò, una precisa gerarchia fenomenica che incomincia dal puro stimolo sonoro – qualunque sia la forma in cui si presenta – e che, radicandosi nel concetto di note, raggiunge il concetto di estetica musicale. Le note, interposte a debita distanza fra loro ed alternate in altezza opportunamente, partecipi di svariate sovrastrutture, si fanno portatrici della scia musicale, la quale, in base alla volontà del compositore, si articola in una sintassi musicale di qualche tipo. La sintassi, allora, genera grammatiche nel fruitore, se sufficientemente frequentata, altrimenti viene decodificata dalla grammatica adatta, se già posseduta dal fruitore. La decodifica grammaticale della sintassi musicale, quindi, produce comprensione della musica. Non va dimenticato, tuttavia, che al di fuori del cervello umano, la musica non è altro che vibrazione priva di qualunque forma di significato.

Finora, ho discusso solo delle note separate temporalmente le une dalle altre, ma ciò non è abbastanza giacché questa prospettiva lascia spazio a qualche dubbio ancora. In primis, è indispensabile prendere in esame il concetto di accordo e il suo ruolo rispetto alla definizione di musica fra-le-note, infatti, l’accordo è la sovrapposizione armonica – ovvero verticale, cronologica – fra due o più note e si tratta di un costrutto molto comune in tutta la musica, a cui non ho fatto

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riferimento. Secondariamente, vale la pena di soffermarsi sui tempi entro cui la scia musicale si esaurisce o all’interno dei quali non avviene.

Il problema dell’accordo è il seguente: se la musica è relazione fra le note che presentano specifiche distanze cronologiche le une dalle altre, come è possibile che l’accordo svolga una funzione musicale? Non dovrebbero, due o più note suonate contemporaneamente, essere prive di scia musicale? In questo caso entrano in gioco innumerevoli aspetti, sia fisici, sia teorici. Innanzitutto, l’accordo può essere eseguito in molteplici maniere, tant’è che, se estremamente dilatato, potrebbe quasi sembrare un arpeggio. Effettivamente, col pianoforte, con alcuni fiati, con particolari tecniche di tapping108 sugli strumenti a corde, o con l’ausilio di un software, un accordo può veramente consistere nell’esecuzione in perfetta contemporaneità di un insieme di note diverse, mentre con gli strumenti a corde suonati secondo canoni standard, l’accordo è praticamente una rapidissima successione di note. Un semplice Mi minore suonato con la chitarra, ad esempio, prevede che si lasci la corda più grave – cioè il Mi – libera di vibrare, che si prema il secondo tasto della corda del La – cioè il Si – e il secondo tasto della corda del Re – cioè l’ottava successiva del Mi precedente. Onde eseguire l’accordo in questione, il musicista dovrà plettrare almeno le tre corde interessate, principiando l’azione dall’alto verso il basso – ossia in downstroke – oppure dal basso verso l’alto – ossia in upstroke. Ciò significa che in downstroke la corda più grave incomincerà a suonare un po’ prima delle altre, mentre in upstroke sarà la più acuta a vibrare per prima. In pratica, l’accordo è condizionato da un significativo insieme di variabili: quando l’accordo indugia al confine con l’appoggiatura o con l’arpeggio, si potrebbe ritenere già possibile il verificarsi di scia musicale. Una coerente esemplificazione di ciò si può trovare nel brano Woman with parasol (Bucciantini, 2016) del progetto progressive rock Trauma Forward; nella variazione mediana del brano, infatti, un pianoforte riproduce accordi dal sapore orientale fortemente sfrangiati, tant’è che potrebbero verosimilmente sembrare dei veloci arpeggi.

108 Tecnica musicale propria degli strumenti a corde che consiste nella riproduzione delle note, schiacciando le corde con le dita, anziché pizzicandole. Il tapping, dunque, consente di utilizzare entrambe le mani per suonare delle note, così da coprire intervalli più lunghi oppure da eseguire pattern particolarmente complessi.

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Figura 7 – La sequenza di accordi della variazione mediana di Woman with parasol.

Nel caso di accordi le cui note siano suonate in perfetta sincronia invece, va presa in considerazione nuovamente la curva di Fletcher-Munson. Invero, come già discusso in precedenza, dal momento che note differenti, sebbene suonate con la stessa intensità, vengano – per ragioni biostrutturali – recepite, in base alla loro altezza, con rapporti di dominanza e subordinazione, gli accordi che esse costituiscono tendono verso una nota in particolare – che diviene la fondamentale, ossia il tono portante del costrutto sonoro – mentre le altre divengono le relative armoniche – ossia note secondarie che esaltano la fondamentale secondo una particolare sfumatura. Ciò significa che un accordo è simile alla commistione di alcune tempere su una tavolozza, da cui ha origine una nuance particolare: il rapporto di subordinazione a cui le armoniche sono soggette nei confronti della fondamentale, dunque, equivale ad una scia ancor più marcata di quella che si genera fra singole note in sequenza, non soltanto perché frequenze divergenti sono recepite dalla coclea in maniere divergenti, ma soprattutto perché, se suonate insieme, due note si influenzano reciprocamente ed immediatamente, causando – appunto come una gradazione cromatica intermedia – un fatto musicale specifico che poi, legato ad altre note o altri accordi, producono sintassi più organiche e scie più estese. In altri termini, il fatto che la scia musicale si trovi fra-le-note, non presuppone che si trovi fra le note soltanto in senso orizzontale, ma può trovarsi anche verticalmente. Un bicordo, perciò, è partecipe di maggiori informazioni musicali rispetto alle singole due note di cui è composto, poiché esse si relazionano verticalmente causando – per quanto basilare possa essere – un fatto musicale. Certamente, un accordo da solo – un po’ come l’esempio precedente della nota

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prolungata per alcuni minuti – non può essere considerato musica, ma soltanto fenomeno sonoro partecipe di una qualche correlazione musicale, il quale necessita uno sviluppo cronologico con altre unità sonore.

Se ciò che ho affermato sin qui è vero, allora ad un certo punto la scia musicale si dovrebbe esaurire e la troppa distanza temporale fra una nota e l’altra, o fra un accordo e un altro accordo, dovrebbe impedire che i sintagmi acustici si connettano fra loro e dunque il fatto musicale non dovrebbe avrebbe luogo. Ma esattamente di quanto tempo si tratta? Ed è lo stesso per tutti gli individui? Ritengo che la risposta giaccia nel concetto di grammatiche musicali poiché, infondo, la comprensione della sintassi musicale dipende da queste. Il ritmo, de facto, è parte integrante della sintassi musicale, dunque una nota che disti, exempli gratia, un’ora esatta dalla nota successiva – per quanto sperimentale possa essere questa forma di concezione artistica – proietta una scia di un’ora esatta, ossia della durata della pausa che separa le due note. Il fatto che l’ascoltatore si sia dimenticato della prima nota al momento della seconda non significa che la scia musicale si sia esaurita, bensì che il fruitore si sia distratto poiché l’intervallo è stato immensamente lungo. In effetti, l’attenzione umana ha una durata limitata – sicuramente non superiore ad un’ora (Mackworth, 1948). Una persona con un’attenzione superiore alla norma e debitamente concentrata, probabilmente saprebbe riconoscere un brano tradizionale pur ascoltando una nota ogni ora.

Una proprietà comunemente associata alla musica è l’irriducibilità (Copland, 1970) – un po’ come il “sistema della ruota” di Searle – ovvero l’estensione temporale, già discussa, del fatto musicale, conditio sine qua non della relativa comprensione. La proprietà di irriducibilità musicale corrisponde all’esigenza di mantenere, non soltanto rapporti ritmici costanti fra le note, ma anche una velocità generale precisa. In altre parole, suonare tutte le note che compongono un brano allo stesso tempo, non equivale ad ascoltare quel brano secondo le disposizioni originali dell’autore. Ciò, in primis, parrebbe evidente proprio in virtù del fatto che l’opera è stata concepita in una certa maniera da qualcuno e dunque stravolgerla così radicalmente equivarrebbe a trasformarla in qualcos’altro, un po’ come la reinterpretazione di Duchamp – dal titolo L.H.O.O.Q. – della Gioconda di Leonardo Da Vinci. Ma, al di là delle concezioni artistiche, perché una canzone non può essere compresa nel caso in cui le note siano riprodotte con estrema rapidità – benché siano comunque

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partecipi di valore ritmico coerente – oppure tutte insieme contemporaneamente? Nel secondo dei casi si torna immediatamente al concetto di accordo e ai motivi per cui esso non possa essere musica. Tutti i colori della ipotetica tavolozza succitata, se mischiati insieme, risultano in una nuance intermedia ma non in un quadro: per realizzare il quadro essi vanno disposti sulla superficie della tela; allo stesso modo, le note necessitano di essere disposte per determinato lasso temporale altrimenti, tutte insieme, originano solamente un cacofonico accordo, ma non scia musicale. Al massimo, un po’ sfrangiate, queste note possono produrre una leggera scia, quasi fossero un celere arpeggio, ma si tratterebbe comunque di una sintassi musicale diversa dal brano originale da cui esse sono state tratte. Come è stato dimostrato nel secondo capitolo, l’ascolto di Happy Birthday to You, le cui prime dodici note fossero state riprodotte entro un secondo di tempo e le successive avessero mantenuto una velocita proporzionale a tale modificazione, ha prodotto comprensione musicale in quasi tutti i casi. Perciò fino a quanto può essere velocizzato un brano affinché sia intellegibile? La risposta non è fornita dal limite massimo di stimoli che il cervello può analizzare in un dato intervallo temporale dacché, come è stato notato da Liberman, tale limite è decisamente elevato, bensì è fornita dalla struttura fisiologica dell’orecchio. Similmente al potenziale d’azione neuronale, anche in musica può esistere una risposta o tutto o nulla, che – dato il contesto – può essere reinterpretata come o scia o accordo. In sostanza, esiste un discrimine cronologico per cui due o più note o sono interpretate come sequenza sonora o sono interpretate come accordo. Tornando alla metafora delle tempere, ciò equivale all’occhio del fruitore che discerne, in base al grado di mescolanza di due o più colori, se quel che vede è un passaggio da una tonalità all’altra – quale un turchese usato onde panneggiare il cielo che si mescola solo leggermente con l’ocra usata per il suolo – oppure è una commistione di gradazioni diverse finalizzata all’ottenimento di una nuance particolare – come il giallo e il blu che, mescolati, producono il viola. Ho compiuto un esperimento preliminare su un gruppo