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Neuroscienze della musica

2.1 Fisica dei suon

Eccetto che nel vuoto spinto, la maggior parte delle tipologie di moto genera suono: l’energia meccanica che si origina dal verificarsi di un fenomeno fisico si converte – in una condizione ambientale standard – in oscillazioni che comprimono e rarefanno l’aria contemporaneamente, sebbene in punti diversi. Tali compressioni e rarefazioni causano rispettivamente l’accelerazione ed il rallentamento – con conseguente arresto – delle molecole di cui il fluido è partecipe. Le compressioni provocate dal moto oscillatorio sono creste di molecole convergenti, molto simili alle onde avviate dal contatto di un sasso lanciato sulla superficie di uno stagno; tali creste vengono separate da aree di molecole rarefatte, cioè divergenti fra loro. La pressione accumulata in ogni cresta tende a spingere le molecole circostanti che, a loro volta, esercitano accelerazione o rallentamento rispettivamente sulle creste che, cronologicamente, stanno seguendo o hanno preceduto. In sostanza,

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l’accostamento del suono ad invisibili flussi sferici che si propagano nello spazio ingrandendosi, operato dell’architetto romano Marco Vitruvio Pollione durante la redazione del suo studio intorno all’acustica teatrale, non sembra del tutto scorretto, cionondimeno tale rappresentazione trascura la proprietà forse più distintiva del fenomeno fisico in questione: le onde sonore, difatti, restano indipendenti fra loro, similmente ai raggi di luce; esse, nonostante si muovano attraverso l’aria, non la perturbano trascinandosela dietro, sicché quest’ultima ne può trasportare molte allo stesso tempo senza alterarne la costituzione.

Le differenze qualitative di un suono dipendono dalla relativa frequenza e dalla relativa ampiezza. La frequenza corrisponde alla ripetizione di un dato fenomeno nel tempo; in questo caso, tale caratteristica viene determinata dalla vibrazione – o meglio, dal numero di spostamenti avanti ed indietro in un secondo – della sorgente. La frequenza, conseguentemente, definisce l’altezza tonale di una nota: se essa è elevata, la nota prodotta viene comunemente indicata come “alta”, contrariamente, se essa è partecipe di una ridotta ripetizione di cicli al secondo, la nota prodotta viene indicata come “bassa”. Tale designazione del linguaggio, che rimanda impropriamente ad una dimensione spaziale, potrebbe nascere da percezioni sensibili comuni agli individui: il musicologo e psicologo statunitense Carroll Cornelius Pratt, attraverso l’articolo intitolato “The spatial character of high and low tones”, redatto nel 1930 per il Journal of Experimental Psychology, descrisse un suo esperimento atto a raccogliere delle prove a favore di questa tesi. Pratt fece dividere una stanza a metà da una sottile parete che potesse essere attraversata dalle onde sonore ma che impedisse di vedere oltre, dopodiché istallò una sorgente sonora a postazione fissa in una delle due metà del vano e, uno per uno, fece accomodare i soggetti aderenti all’iniziativa – un campione di individui di diversa estrazione sociale, diverso sesso e diversa età – dall’altra parte. I volontari avevano il compito di indicare la collocazione della sorgente sonora dietro al pannello, non appena essa avesse incominciato ad emettere toni di varia frequenza, basando il giudizio esclusivamente sulle proprie impressioni uditive. Quasi unanimemente, i partecipanti credettero che i suoni più acuti provenissero da altoparlanti posti in alto, così come quelli più profondi da altoparlanti posti in basso. Questa osservazione fu poi, nel 1947, durante il XXXVI Congresso di elettrofisiologia dell’udito, perfezionata dai medici Leopoldo Fiori-Ratti e Angelo Manfredi della Società Italiana

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di Laringologia, Otologia e Rinologia, i quali evidenziarono come certe tendenze, a loro volta, potessero scaturire dalle diversificate sedi fisiologiche di massima risonanza fonetica di cui l’essere umano è partecipe e di cui fa esperienza fin dall’infanzia, ovverosia le cavità presenti nelle parti più elevate del capo per le frequenze alte e quelle presenti in prossimità del diaframma per le frequenze basse, giustappunto. La frequenza viene misurata, per lo più, in hertz: in musica classica si prende come riferimento il La corista del pianoforte, accordato a 442 Hz, mentre in musica leggera la stessa nota è accordata a 440 Hz; comunemente tale differenza non viene colta se non da persone particolarmente sensibili sul piano uditivo, oppure da musicisti esperti21. Con l’aria a temperatura ambiente, in genere la velocità del suono è di 344 metri al secondo, tuttavia la percezione della tonalità può variare in base al mutamento del contesto: più caldo è il fluido attraversato da un suono, più esso lo percorre velocemente, analogamente, alla stessa temperatura, un suono viaggia più velocemente tramite un fluido di basso peso molecolare, come l’idrogeno o l’elio, piuttosto che tramite un fluido di peso molecolare superiore, come l’azoto o l’ossigeno; non è un caso, in effetti, che l’inalazione dell’elio renda la voce stridula e penetrante. Inoltre, le frequenze possono essere significativamente influenzate da oggetti che siano grandi rispetto alla loro lunghezza d’onda: è per questo che frequenze basse emesse da un amplificatore si diffondono uniformemente attorno ad esso, contrariamente al comportamento delle frequenze alte. Le frequenze basse, perciò, si diffondono uniformemente sia davanti che dietro ad un amplificatore mediamente potente22 e non sono, se non trascurabilmente, condizionate dalla sua mole; le frequenze alte, oppostamente, vengono schermate parzialmente dal medesimo amplificatore, sicché sono più intense frontalmente e meno intense posteriormente. L’ampiezza, detta anche intensità, invece, corrisponde alla massima variazione di grandezza in un’oscillazione periodica. La percezione sensibile

21 In ogni caso, la rilevazione della differenza di accordatura molto dipende pure dalla timbrica degli strumenti utilizzati: è molto più facile udire la discrepanza acustica rapportando fra loro due strumenti accordati difformemente e predisposti per suonare all’interno di un affine ventaglio di altezze – come due chitarre oppure un mandolino ed un violino – anziché rapportando fra loro strumenti assai dissimili nello stesso senso – come un contrabbasso ed un glockenspiel. Ciò accade siccome, al di là della

fondamentale – la frequenza di base –, sono le armoniche dei suoni – i multipli della fondamentale – a

corroborare la percezione della dissomiglianza di accordatura e, certamente, più sono lontane le ottave di risonanza di uno strumento, più lo sono le armoniche, riducendo, di conseguenza, i termini di paragone, già di per sé abbastanza esigui.

22 Il cui volume sia sufficientemente esteso per contenere almeno un cono da dodici pollici di grandezza.

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dell’ampiezza viene definita volume e misurata in decibel. Il volume o rumorosità, disugualmente agli altri attribuiti succitati, non è una grandezza fisica ma un’entità soggettiva di natura psicoacustica che non può essere misurata con assoluta esattezza dacché il processo di relativa stima non può prescindere dalle funzioni uditive e soprattutto cognitive umane, partecipi di troppe incognite – ancora. Nel corso del XIX secolo, sono stati effettuati innumerevoli tentativi di postulazione di una scala di intensità del volume su basi matematiche, specialmente per ragioni cliniche. La prima problematica, a tal proposito, è stata individuata da Carl Stumpf, filosofo e psicologo tedesco, fondatore della Scuola di Berlino, il quale ha sostenuto che le sensazioni si presentino quali unità indivisibili, sicché una non possa essere multiplo dell’altra. Stanley Smith Stevens, psicologo fondatore del laboratorio di psicoacustica della Harvard University, ha esteso la questione seguitamente, notando che la realizzazione di una scala di intensità possa al massimo mirare alla misurazione di un dato attributo della sensazione e non alla stessa nel suo complesso, essendo composta da troppe variabili, peraltro di quantità e qualità non determinabili precisamente. A tal proposito, è alquanto esplicativo il celebre esperimento dell’anatomista tedesco Ernst Heinrich Weber, il quale, nel 1860, riuscì ad osservare che la percezione dell’incremento del peso da parte di un individuo potesse essere facilmente influenzata da fattori soggettivi. Weber, in pratica, constatò che un grave da un chilogrammo sembrava piuttosto pesante ai volontari che stavano già reggendo un grave da cinque chilogrammi, mentre non sembrava poi così tanto pesante ai volontari che stavano già reggendo un grave da trenta chilogrammi.

I suoni sono il materiale grezzo su cui si basa il sistema umano di comunicazione. Tutto quel che è linguaggio non è arbitrario: viene determinato in parte dalla struttura degli organi vocali, in parte dalle capacità e dalle limitazioni del senso dell’udito. L’acustica, tuttavia, pone dei limiti al linguaggio e ne determina la forma con le proprietà della frequenza e della velocità e coi fenomeni conseguenti, dell’interferenza e della risonanza, caratteristici del suono. Quindi anche la stessa anatomia e fisiologia del linguaggio e dell’udito devono uniformarsi a fattori acustici. Di conseguenza, per conoscere l’essere umano e i suoi suoni è indispensabile conoscere anche l’acustica (Van Bergeijk, Pierce, & David, 1961).

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2.2 Udito

Le onde di pressione originate da moti fisici possono essere percepite mediante il sistema uditivo. Tale sistema si è evoluto nel tempo onde specializzarsi in rapporto al tipo di vibrazione biologicamente rilevante per la sopravvivenza dell’animale. Da uno studio compiuto dall’antropologo statunitense Alexander Stoessel et al. nel 2016, atto ad analizzare l’orecchio dell’Homo neanderthalensis attraverso una tomografia computerizzata di ventidue ossicini dell’orecchio interno appartenenti a quattordici esemplari fossili, sono emerse cruciali differenze corporee in relazione all’Homo sapiens. In breve, i neandertaliani erano caratterizzati da un orecchio – sia interno che medio ed esterno – molto piccolo, da un’inclinazione del padiglione auricolare diversa da quella degli esseri umani, così come da una distanza minore fra il solco timpanico e la finestra ovale. Cionondimeno, le conclusioni dell’indagine lasciano intendere che, sul piano funzionale, poche possano essere le reali divergenze (Stoessel, et al., 2016). Diversa è la questione del linguaggio – che più avanti sarà approfondita – poiché grazie al ritrovamento del cosiddetto flauto preistorico di Divje Babe – un frammento di femore di orso partecipe di fori minuziosamente distanziati per lungo, realizzato da un ominide nel pleistocene superiore – l’archeologo sloveno Matija Turk et al. hanno potuto avanzare l’idea – successivamente corroborata dalla scoperta di un simile manufatto ricavato dalla zanna di un mammut – che, prima ancora di essere capace di parlare, l’Homo neanderthalensis sapesse cantare e, appunto, costruisse rudimentali strumenti musicali (Turk & Dimkaroski, 2011).

Anatomicamente, l’udito è un sistema fisiologico preposto alla trasduzione delle onde di pressione in attività nervosa, la cui struttura si divide in:

orecchio esterno, costituito da padiglioni auricolari e canale uditivo esterno;

• orecchio medio, costituito da membrana timpanica e ossicini, ossia martello, incudine e staffa;

orecchio interno, costituito da coclea e nervo vestibolo-cocleare.

La funzione primaria dei padiglioni auricolari – struttura cartilaginea propria dei mammiferi nonostante le forme, le dimensioni e le finalità secondarie più disparate23

23 La maggior parte dei mammiferi è capace di ruotare con destrezza le proprie orecchie per riuscire a localizzare una sorgente acustica. Tale disposizione è utile sia per dare la caccia alla preda, sia per

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– è quella di convogliare le onde sonore all’interno del canale uditivo esterno. Dentro tale condotto dalla conformazione irregolare – vi sono infatti numerose protuberanze e depressioni – alcune frequenze vengono amplificate mentre altre vengono affievolite: ad esempio, il range di frequenze delle parole che, grossomodo, oscilla fra i 2000 ed i 5000 Hz, viene naturalmente esaltato dall’anatomia dell’orifizio, data l’importanza per la specie umana di comunicare mediante il linguaggio. Una struttura composta da membrana timpanica – concretamente paragonabile alla pelle di un timpano orchestrale per funzionamento fisico –, muscolo tensore del timpano, muscolo stapedio, martello, incudine e staffa, forma una sorta di microfono biologico. Quando le onde di pressione rimbalzano sulla membrana timpanica, la quale sigilla il canale uditivo, essa vibra alla stessa frequenza del suono, stimolando i tre ossicini auricolari. Questi ultimi amplificano e, soprattutto, convogliano gli ondeggiamenti del timpano, ergo frequenza ed ampiezza, verso la finestra ovale, membrana posta sulla coclea dalle dimensioni nettamente inferiori a quelle della membrana timpanica. Il muscolo tensore del timpano si trova immediatamente dietro alla membrana timpanica, collegata al martello, mentre il muscolo stapedio si trova dietro alla staffa; essi sono principalmente dei regolatori di volume adibiti alla protezione da onde di pressione troppo elevate: nel caso in cui sia in arrivo un suono violento, il cervello provoca la contrazione di questi muscoli, circa duecento millisecondi prima, in modo da diminuire l’efficacia dell’azione degli ossicini – indi i loro movimenti – e, dunque, anche la pressione dell’onda diretta alla finestra ovale. In sostanza, questi muscoli si contraggono poco prima della effettiva ricezione di forti stimoli acustici, specialmente se a produrli è il medesimo soggetto, perciò normalmente essi non sono particolarmente fastidiosi24. La coclea corrisponde allo

scampare ad una minaccia, ma può anche servire a spostarsi in condizione di scarsa luce, come nel caso dei pipistrelli che sfruttano gli ultrasuoni grazie ad un apparato estremamente sensibile. Non solo: alcuni animali – come il coniglio – riescono a disperdere gran parte del calore proprio attraverso una intricata rete circolatoria presente nelle orecchie.

24 Invero, possono verificarsi talune circostanze per cui l’orecchio è indotto a percepire i suoni generati da altri organi; non di rado tali esperienze hanno nettamente ripugnato le persone impressionabili che le hanno sperimentate. Ciò può avvenire all’interno delle camere anecoiche – ambienti laboratoriali strutturati in maniera da ridurre al massimo la riflessione dei segnali sulle pareti – come nel famoso caso di John Cage, compositore statunitense che, prima della metà del XX secolo, cercò di “ascoltare” il silenzio assoluto, ovvero raggiungere una condizione di totale assenza di fenomeni acustici. Entrato nella camera anecoica dell’università di Harvard, Cage, anziché trovarsi immerso in una asettica quiete come si sarebbe aspettato, udì alcuni rumori ora gravi, ora acuti, che un ingegnere del suono gli spiegò essere causati dai suoi apparati biologici, in particolare dal sistema cardiocircolatorio e da quello digerente. Praticamente, un essere umano, la cui percezione del suono e conseguentemente anche del silenzio è inscindibilmente legata al funzionamento di una serie di strutture fisiologiche, al fine di

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stadio evolutivo più avanzato della papilla basilare, organo primitivo dell’udito, del quale uccelli e rettili posseggono un’evoluzione intermedia; essa è presente in tutti i mammiferi. Lunga circa dai trentacinque ai trentasette millimetri, se srotolata, la coclea è divisa longitudinalmente dal condotto cocleare – a sua volta delimitato da due membrane, la membrana di Reissner e la membrana basilare e pieno di endolinfa – in due sezioni dette rampa superiore (o vestibolare) e rampa inferiore (o timpanica), colme di perilinfa. La rampa timpanica si collega all’orecchio medio attraverso la finestra rotonda, mentre la rampa vestibolare termina con la finestra ovale. La coclea viene eccitata dai movimenti della staffa, che funziona similmente ad un pistone e che causa gli spostamenti dei fluidi ivi presenti. Siccome incomprimibile, se spinta verso l’interno, la perilinfa giunge nei pressi dell’apice che presenta un’apertura, definita elicotrema, e dalla quale passa alla rampa timpanica fino alla finestra rotonda. La membrana basilare è saldamente agganciata ad una lamina ossea – estesa a partire dalla parete della coclea e presentante una svasatura nei pressi del timpano – e si inspessisce gradualmente avvicinandosi all’estremità interna. Prevedibilmente, un’onda di pressone graduale e debole deforma la membrana nella parte adiacente all’elicotrema, mentre un’onda di pressione improvvisa e violenta sortisce simili effetti nella zona opposta25. All’interno della coclea è presente l’organo del Corti26, formato da una serie di cellule cigliate e fibre nervose. Le cellule cigliate prendono il nome dalle stereociglia – estroflessioni della membrana plasmatica che formano un grosso microvillo rigido – di cui sono dotate e sono collocate fra la membrana basilare e la membrana tettoria. Le stereociglia sono partecipi di uno o due canali ionici non selettivi. Le fibre nervose, invece, sono chiamate collegamenti apicali e connettono i canali ionici non selettivi agli apici delle stereociglia.

ascoltare, emette paradossalmente del rumore e non può evidentemente assaporare il silenzio totale. Fu questa consapevolezza che ha ispirato l’opera musico-sperimentale di Cage dal titolo 4’33”.

25 Esperimenti elettrofisiologici sulla coclea eseguiti sott’acqua, compiuti dal neurofisiologo ungherese Georg von Békésky, vincitore nel 1961 del premio Nobel per la medicina, hanno rivelato durante la metà del XX secolo, che se stimolata da certune onde sinusoidali, la vibrazione della membrana basilare è più forte in specifici punti anziché estendersi omogeneamente su tutto il pannicolo. Poiché indispensabile per giustificare l’osservazione, alla quale ne sono conseguite in seguito di simili, è stata formulata negli stessi anni la teoria del punto dell’udito che sostiene che la percezione psichica dell’altezza tonale sia strettamente relazionata con la coordinata di un punto esatto nella coclea e forse nel cervello. 26 In onore dell’anatomista italiano Alfonso Giacomo Gaspare Corti che, nel XIX secolo ha studiato il sistema uditivo dei mammiferi.

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Figura 1 – Una rappresentazione della coclea.

L’ondulazione della membrana basilare viene trasdotta in impulso nervoso tramite le cellule cigliate, siccome la flessione delle stereociglia, dovuta ad un impulso, esercita pressione sui collegamenti apicali che, conseguentemente, avviano l’apertura dei canali ionici non selettivi a cui sono connessi. Nelle cellule cigliate, quindi, penetrano ioni potassio e ioni calcio che le depolarizzano celermente; tale fenomeno, a sua volta, innesca il passaggio di altri ioni calcio alla base delle cellule cigliate, così le relative vescicole sinaptiche si combinano alle membrane presinaptiche e viene rilasciato del neurotrasmettitore che eccita i nervi.

Il matematico olandese Jan Arnoldus Schouten, vissuto nel XX secolo, ha scoperto che, in determinate condizioni, gli esseri umani odono un’altezza soggettiva corrispondente ad un’area della membrana basilare che non è comunque in vibrazione. Esaminando le note prodotte da un organo a canne, partecipi sia di una frequenza fondamentale, sia di molte armoniche, Schouten rilevò che l’ampiezza delle armoniche è pari a quella della fondamentale, perciò l’ascolto delle armoniche private della fondamentale è indistinguibile da quello compartecipe della medesima. Tale analisi – nominata come fenomeno residuo di Schouten – ha posto i fondamenti

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per una attuale prospettiva dell’udito che ammetta l’imprescindibilità dell’aspetto neuropsicologico nel processo in questione. Una prova empirica di ciò è riscontrabile nel caso di Jacob L., compositore e kapellmeister, seguito da Oliver Sacks et al., che dopo una graduale perdita dell’udito avvenuta nel corso degli anni, improvvisamente si accorse di avvertire le note come se esse fossero stonate, nonostante ciò non fosse possibile dato che non solo ciò accadeva suonando il pianoforte ma persino suonando il sintetizzatore che, salvo non si agisca scientemente sulle impostazioni di base o che sia difettoso, non può scordarsi. Dalle visite audiologiche effettuate sul paziente, emerse che soltanto alcune gamme di frequenza fossero interessate, mentre le altre risultarono ordinariamente operanti. Nello specifico, alcune note gli sembravano di poco crescenti mentre altre ad esse adiacenti risultassero molto più marcatamente distorte: il mi naturale dell’ottava successiva al do centrale – per altro fuori dall’intervallo acustico maggiormente compromesso del soggetto – risultava abbassato di circa un quarto di tono, a differenza di tutte le altre note ad esso prossime, musicalmente intatte. La presente disfunzione riconducibile ad un’usura della coclea in specifiche porzioni, era avvertita da Jacob L. soprattutto durante l’ascolto di brani eseguiti da pochi strumenti in armonizzazione tra loro, mentre tendeva ad affievolirsi durante l’ascolto di composizioni orchestrali. Tale circostanza comprova che in un contesto nel quale partecipano innumerevoli linee armoniche è più facile, per la mente, riuscire a sopperire alla patologia uditiva e da ciò consegue che l’effettiva elaborazione musicale avviene psicologicamente più che fisicamente: il direttore orchestrale infatti ha continuato la sua attività compositiva nonostante il deficit fisiologico, dal momento che il suo orecchio della mente27 – per dirla con Sacks – è

restato oggettivamente sano. Col passare degli anni, infine, Jacob L. ha sviluppato la capacità neuro-adattiva di rielaborare gli impulsi cocleari erronei in modo da percepire le note con un più alto livello di autenticità rispetto ai giorni nei quali si era presentata la patologia, analogamente agli individui che perdono la vista e che sviluppano un’elevatissima sensibilità tattile dovuta alla lettura dei caratteri braille.