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Adorno, Bloch, Jankélévitch e la musica novecentesca

Il Novecento musicale è prevalentemente un secolo di innovazioni e sperimentazioni: non solo nascono avanguardie musicali e stili radicali come l’atonalità o la dodecafonia, ma la musica inizia a fondersi pure con altre discipline che prendono campo durante l’epoca in questione, come la sociologia. Se, ad esempio, il sociologo statunitense Howard Becker compie uno dei più pionieristici studi sulla devianza – rivoluzionando i metodi della scuola di Chicago – intorno al rapporto fra jazzisti e non musicisti (Becker, 2017), addirittura Adorno, prendendo le mosse dalla filosofia marxista20, giunge ad elaborare un sistema compiuto di sociologia della musica, il quale, nondimeno, si affaccia a molte altre prospettive analitiche e teoretiche.

Adorno

Il binomio sul quale Adorno maggiormente si focalizza è composto da musica e da società: ancora più precisamente, il filosofo è interessato all’influenza che la società esercita intorno allo stile della musica, riscontrabile nell’indagine della struttura musicale soprattutto (Adorno, Filosofia della musica moderna, 1975). Questo peculiare metodo di elucubrazione, peraltro molto spesso criticato, deriva dalla duplice formazione di Adorno, sia filosofica che musicale – a differenza della grande maggioranza dei filosofi che, prima di lui, hanno trattato di musica – tant’è che il sociologo italiano Marco Santoro afferma che le opere adorniane si rivolgano al filosofo in termini musicali e al musicista in termini filosofici (Santoro, 2004). In sostanza, lo studio della struttura musicale delle composizioni, grazie ad Adorno, si rapporta direttamente con le condizioni economiche e sociali dell’occidente e si affaccia verso la nascente questione dell’industria musicale e delle nuove tecnologie di trasmissione musicale, come la radio. In altre parole, Adorno affronta il tema della

20 Invero, Adorno condivide l’idea di possedere una formazione marxista, nonché una metodologia filosofica di medesima matrice, nondimeno la sua concezione della musica – e dell’arte in genere – si distacca notevolmente da quella di Marx: Adorno, difatti, non condividere l’idea che la musica e l’arte tutta siano dei semplici riflessi sovrastrutturali dell’economia di una società. Altre correnti che influenzano il pensiero di Adorno, inoltre, sono la fenomenologia, l’hegelismo, la scuola postweberiana e, ancor più, la psicoanalisi.

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musica, o ancora meglio, della comunicazione e della fruizione di massa distaccandosi, tuttavia, dai metodi più diffusi al tempo – come statistiche ed esperimenti empirici, che egli ritiene ingenui e mistificatori –, ripiegando invece sulla meditazione e sulla deduzione razionale. Da questi presupposti, Adorno matura una concezione della musica piuttosto negativa giacché ritiene che essa, a causa della società industriale massificante – per dirla con Fubini – sia divenuta banale merce di scambio e non più forma originale di espressione creativa. È per questo che i compositori, nel XX secolo, si trovano difronte ad un crocicchio dialettico inevitabile: possono perpetuare la loro disciplina alla stregua di un feticcio, alla stregua di una lusinga verso la società che rispetti i canoni che sono stati imposti dalla medesima, oppure possono compiere un’operazione di ribaltamento dei dogmi stilistici. Adorno lascia intendere che entrambe le possibilità non conducano ad esiti positivi, giacché la prima delle due corroborerebbe il graduale processo di banalizzazione della musica – o meglio della popular music – in atto dalla fine del XIX secolo, mente la seconda delle due inaridirebbe, a lungo termine, l’estro dell’artista. In effetti, nel momento in cui un autore si aliena dalle norme stilistiche imposte da una società – secondo Adorno – questi compie un atto associabile al pessimismo titanico leopardiano poiché decide di andare incontro, giustappunto titanicamente, al dissenso e all’incomprensione del pubblico. Invero, il filosofo reputa l’arte autosufficiente, parimenti ai suoi predecessori tardoromantici, nondimeno non snatura la dimensione umana degli artisti ma comprende che costoro, in quanto animali sociali come tutti gli esseri umani, percepiscano il bisogno di ottenere dei riscontri da parte del pubblico che, difficilmente potranno manifestarsi dinnanzi a scelte stilistiche radicali o rivoluzionarie, dacché discordanti coi codici stilistici preesistenti – questo tema sarà approfondito ulteriormente, in senso estetico ed epistemologico, a partire dal terzo capitolo. Adorno auspica il concepimento di forme musicali in antitesi ai cardini stilistici della società industriale, siccome sostiene che in questa maniera tali forme musicali possano divenire coscienza oggettiva (Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, 2002), piuttosto che rimanere sul piano dell’ideologia e del mero prodotto commerciale, come quei brani architettati mediante gli standard sociali. Da questa prospettiva è facile cadere nell’errore che, analogamente ad alcuni dei suoi predecessori, Adorno reputi la musica del passato – e l’arte tutta – superiore a quella

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del presente, ciononostante egli critica anche essa – tendenzialmente – in rapporto all’idea che, pure nei periodi più remoti, l’influenza della società e delle convenzioni abbia reso i componimenti prevedibili, proprio come in epoca industriale. In breve, qualunque sia il periodo storico di riferimento, per il filosofo della scuola di Francoforte, il centro della questione riguarda la valutazione estetica dell’ente musicale, il quale corrisponde ad un correlativo sociale in toto, per cui l’arte non può essere un sottoprodotto della struttura – intesa in senso marxista – bensì un fatto di cui la società è partecipe al di là di rapporti di causalità. Da ciò ne deriva che Adorno non ritenga la musica partecipe di una qualche intrinseca funzione metafisica, bensì che la ritenga partecipe di numerose funzioni sulla base dello stile, del periodo storico e del contesto culturale. Relativamente alla musica del tempo, Adorno celebra due autori in particolare, per differenti ragioni, ovverosia Stravinskij e Schönberg. La musica di Stravinskij – che raggiunge l’apice con l’opera Le sacre du printemps, ovvero la più ambiziosa delle derivazioni del gigantismo orchestrale postromantico (Salvetti, 1991) – influenzata da innumerevoli esperienze, quali correnti avanguardiste nonché ensemble jazzistici (Stravinskij, Cronache della mia vita, 1981), per Adorno corrisponde all’accettazione disillusa della realtà: il fatto che il compositore russo oggettivi il passato in una dimensione astorica, talvolta quasi onirica, è sintomo di una profonda dissociazione col mondo moderno, carico di angoscia e disumanizzazione. Diversamente, Schönberg, ideatore della dodecafonia, sistema compositivo tanto innovativo quanto labirintico – che sarà indagato nel terzo capitolo –, per Adorno, rappresenta l’ideale di artista che si ribella alla convenzione, nonostante la consapevolezza della solitudine che tale atto gli varrà, al fine di sradicare il carattere sadomasochistico della cultura di massa, all’interno della quale gli individui riescono ad apprezzare un unico stile musicale, proprio come il prigioniero che ama la sua cella perché non gli viene concesso di amare altro (Lanza, 1991). La conclusione della disamina musicale di Adorno risulta ancora più amara della sua concezione della società industriale: in un noto scritto di metà anni Cinquanta, intitolato Invecchiamento della nuova musica, infatti, il filosofo di Francoforte predice un’operazione di inglobamento da parte della società industriale delle correnti musicali più radicali, fintantoché esse non siano più motivo di scandalo bensì merce di scambio solamente (Adorno, Dissonanze, 1959).

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In linea con la poetica di Schönberg è anche la filosofia di Ernst Bloch e, più in particolare, l’opera intitolata Spirito dell’utopia. Se Adorno si focalizza specialmente intorno al valore radicale dell’estetica dodecafonica, infatti, Bloch tende di più ai miraggi espressionistici del compositore svizzero, individuando come riferimento l’opera incompiuta Mosè e Aronne, la quale, insieme a La mano felice, testimoniano la sconvolgente volontà rinnovatrice dell’autore: queste opere, giustappunto, uniscono alla musica di Schönberg alcuni elementi della tragedia classica, come il coro, ed alcuni elementi avanguardisti, come certune coreografie luminose e rumori elettronici. Senz’altro, poi, sono presenti elementi teatrali, come la recitazione, elementi operistici, come il canto, ed elementi biblici, come taluni personaggi e talune vicende.

Non appena la scena è stata illuminata, si scorge l’uomo risalire dal burrone. Sale senza fatica, benché l’ascesa appaia disagevole. È vestito come nel primo quadro, ma porta a mo’ di cintura un laccio intorno alla vita, dal quale penzolano due teste […] e tiene in mano una spada sguainata e insanguinata. Poco prima che l’uomo giunga in cima, una delle due grotte si illumina lentamente, mediante un passaggio piuttosto veloce dalla luce viola scuro, attraverso gradazioni di marrone, rosso, azzurro e verde, fino a un giallo chiaro, trasparente […]. Nella grotta, che rappresenta qualcosa di mezzo tra un’officina meccanica e un laboratorio di oreficeria, si vedono alcuni operai intenti a lavorare (Schönberg, Testi poetici e drammatici, 1995).

Bloch, in sostanza, interpreta il lavoro – soprattutto musicale – di Schönberg come una ricerca di soluzioni artistiche che possano superare la dimensione soggettiva per sfiorare l’aldilà metafisico, in un dicotomico gioco fra utopia e realtà. In altre parole, Bloch giunge a sostenere che la musica detenga una spiccata valenza utopica in virtù del fatto che possa preannunciare l’utopia, in qualità di linguaggio incompleto, cioè in virtù del fatto che essa possa alludere ad un’altra realtà senza poterla manifestare totalmente. L’interrogativo segnante della filosofia blochiana, dunque, si sofferma intorno alle motivazioni che spingono le persone a credere di

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comprendere la musica sebbene nessuno sappia realmente cosa essa significhi o quale sia il significato preciso di una melodia (Bloch, Spirito dell'utopia, 2010). La risposta che viene fornita, di conseguenza, corrisponde all’ipotesi che la musica possa essere una via d’accesso per l’utopia, propria dell’intimità di ciascun individuo. Pertanto, la musica sembrerebbe indugiare presso un limbo di comprensibilità soltanto parziale, benché sia, contemporaneamente, stimolo quasi ossessivo ad una – impossibile – totale comprensione di sé.

Il fatto che in assoluto la musica esista, quale cammino o via d’uscita che null’altro, in un nessun luogo, prefigura, illumina e oltrepassa già i contenuti cui essa si applica (Bloch, Il principio speranza, 2005).

La musica dunque, secondo Bloch, assume una ambivalenza poiché può essere categorizzata in musica sensibile – quella che può essere udita – e musica ideale – quella immateriale e flebilmente intuibile per mezzo dell’ascolto dei capolavori storico-musicali.

Jankélévitch

La concezione blochiana della parziale comprensibilità della musica viene pure ripresa da Jankélévitch, il quale, nondimeno, elabora una filosofia asistematica e divagatoria che lascia spazio ad una serie pressappoco incalcolabile di ulteriori considerazioni. In effetti, nel suo saggio dal titolo La musica e l’ineffabile, il filosofo francese opera una distinzione fra il concetto di indicibilità e di ineffabilità, lasciando intendere che la musica – differentemente dal pensiero di Bloch – sia ineffabile poiché non comunica nulla – avendo fin troppo da dire – piuttosto che indicibile, aggettivo che sarebbe proprio nel caso in cui essa comunicasse qualcosa che non potesse essere carpito nella sua interezza (Jankélévitch, La musica e l'ineffabile, 2007). Ricostruendo sinteticamente lo sviluppo storico della musica, Jankélévitch ripensa la musica secondo un attributo di doppiezza, giacché essa può essere considerata sia come una disciplina leggera, giocosa e sensuale, sia come una disciplina rivolta all’intelletto o alla morale. In altre parole, l’autore cerca di riportare in superficie specialmente quelle caratteristiche proto-magiche che sono state collegate nel corso del tempo alla musica, rendendola – erratamente – sorgente di morbosità ed incantamento estatico, da dover mitigare con l’uso della censura e

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della razionalità. Con ciò, Jankélévitch intende sottolineare come, in effetti, il vero problema della musica non sia il potere di cui essa è partecipe – dacché non esiste – bensì la tendenza umana plurisecolare di voler assoggettare il fatto musicale alla semantica. Di qui incomincia una variegata analisi della musica in relazione al tempo che tiene conto, principalmente, della nozione di ripetizione musicale, dalla quale deriva l’osservazione che la ripetizione nella musica – ammesso che davvero di ripetizione si possa discutere – assuma un valore evidentemente superiore a quello semantico, allontanando ancor di più i due piani in questione. In prospettiva stilistica, invece, Jankélévitch – considerando palesemente la musica del Novecento – opera una divisione fra musica impressionista e musica oggettivista, ovverosia fra musica antiromantica che si serve di soluzioni armoniche e strutturali quasi incomprensibili al fine di precludere la possibilità all’ascoltatore di compiere associazioni semantiche con taluni concetti e fra musica così tanto esplicita da precludere all’ascoltatore di compiere operazioni interpretative; tali tendenze artistiche, chiaramente, sono gli estremi di una tavolozza stilistica molto ampia. In conclusione, la filosofia di Jankélévitch ammette la possibilità che la musica possa pure essere descrittiva, ma a grandi linee, e soltanto perché esiste una coscienza in grado di compiere una serie di associazioni che escludano taluni significati a favore di altri; diversamente la musica corrisponderebbe semplicemente ad un fenomeno talmente ricco di possibilità da non determinarne nessuna. Sebbene la filosofia di Jankélévitch possa essere facilmente criticata per numerose contraddizioni e problematiche epistemologiche, le quali dipendono sicuramente dalla sua volontà di non applicare metodi sistematici alla trattazione, essa ha aperto le porte ad una concezione assai cogente della musica, in qualità di fenomeno privo di significato, se non all’interno del cervello degli esseri umani. Questa concezione, per certi versi, sarà ripresa nella seconda parte del presente lavoro al fine di ricostruire una fenomenologia della musica che comprenda pure quei casi limiti che, generalmente, sono stati squalificati alla stregua di eccezioni di poco conto, benché potessero invece mettere in crisi interi sistemi filosofici della musica.

Dopo Jankélévitch

Il dibattito filosofico-musicale certamente si protrae fino ai giorni nostri, nondimeno la concezione della musica – soprattutto in senso formale e popolare –

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non ha subito negli ultimi decenni sostanziali cambiamenti. Pertanto, le principali teorie relative alla musica di natura filosofica e di natura neurobiologica verranno prese in analisi a partire dai prossimi capitoli.

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Capitolo 2