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Educare ad un mondo futuro. Alleanze interculturali, dialoghi interreligiosi e sviluppo della cultura di pace.

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Academic year: 2021

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PEDAGOGIA SOCIALE

Direttori: Giuseppe Elia, Università di Bari; Antonio Genovese, Università

di Bologna; Maura Striano, Università Federico II di Napoli; Simonetta Ulivieri, Università di Firenze

Coordinamento: Simonetta Ulivieri

Cristina Allemann-Ghionda, Universität zu Köln; Massimo Baldacci, Università di Urbino; Gert Biesta, University of Stirling; Laura Clarizia, Università di Salerno; Enricomaria Corbi, Università S. O. Benincasa di Napoli; Liliana Dozza, Libera Università di Bolzano; Rita Fadda, Università di Cagliari; Massimiliano Fiorucci, Università di Roma Tre; José Gonzáles Monteagudo, Universidad de Sevilla; Maria Luisa Iavarone, Università Parthenope di Napoli; Ivo Lizzola, Università di Bergamo; Isabella Loiodice, Università di Foggia; Emiliano Macinai, Università di Firenze; Alessandro Tolomelli, Università di Bologna; Maria Tomarchio, Università di Catania

STORIA DELL’EDUCAZIONE E LETTERATURA PER L’INFANZIA Direttori: Emy Beseghi , Università di Bologna; Carmen Betti, Università di Firenze;

Carmela Covato, Università di Roma Tre; Saverio Santamaita, Università di Chieti

Coordinamento: Carmen Betti

María Esther Aguirre, UNAM Messico; Anna Ascenzi, Università di Macerata; Gianfranco Bandini, Università di Firenze; Milena Bernardi, Università di Bologna; Antonella Cagnolati, Università di Foggia; Luciano Caimi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Lorenzo Cantatore, Università Roma Tre; Rita Casale, Bergische Universität Wuppertal; José María Hernández Díaz, Universidad de Salamanca; Angela Giallongo, Università di Urbino; Tiziana Pironi, Università di Bologna; Simonetta Polenghi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Dario Ragazzini, Università di Firenze; Giuseppe Tognon, LUMSA di Roma;

COLLANA DI PEDAGOGIA SOCIALE

STORIA DELL’EDUCAZIONE

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La Collana di Pedagogia Sociale, Storia dell’Educazione e Letteratura per l’Infanzia, in sintonia con il nuovo assetto del corrispondente settore scientifico-disciplinare, si presenta divisa in due sezioni - una più attinente ai problemi attuali della pedagogia e l’altra alla sua tradizione storica – in modo da riflettere la molteplicità degli indirizzi di ricerca in esso compresi, in un’ottica però programmaticamente unitaria per evidenziarne l’intima connessione.

L’indirizzo di Pedagogia Sociale intende proporsi come uno strumento di analisi e di riflessione su una pluralità di tematiche di natura sociale - l’inclusione sociale; le pari opportunità; le questioni di genere; l’immigrazione; la devianza e la marginalità… -che richiedono di essere attentamente esplorate in chiave pedagogica, contenendo profonde implicazioni educative.

Particolare attenzione verrà rivolta ai processi formativi, in rapporto alla ricerca e alla produzione di studi di pedagogia della scuola, della comunicazione educativa, guardando all'identità di genere e ai nuovi modelli di inclusione.

L’indirizzo di Storia dell’Educazione e Letteratura per l’Infanzia intende muovere dalle importanti trasformazioni che hanno investito negli ultimi decenni la ricerca storiografica a livello tanto epistemologico e metodologico che tematico. Oltrepassando l’analisi delle idee e delle teorie pedagogiche, si propone di esplorare nuovi itinerari di ricerca, dando centralità tanto alla dimensione sociale dei fatti e dei modelli formativi, così in relazione alle politiche scolastiche e alla storia degli insegnanti a livello nazionale ed europeo, che a quella del costume, delle mentalità e dell’immaginario educativo, nonché alla dimensione di genere o a quella comparativa. L’indirizzo si apre anche alle nuove frontiere della Letteratura per l’Infanzia nelle sue diverse articolazioni, oggi al centro di un profondo rinnovamento negli studi.

L’intento è, infine, di offrire contributi critici non solo agli specialisti ma anche a tutti coloro che sono interessati a orientarsi in questi importanti campi di indagine. Il focus della proposta editoriale mira a costruire uno spaccato di studi composito e variegato, atto a restituire ai lettori la complessità del lavoro di indagine realizzato sulle tematiche sopra indicate in ambito nazionale ed internazionale, intercettando -sia sul piano empirico che su quello teorico - una varietà di campi di studio e ricerca oltre che di pratica educativa.

La Collana si indirizza ad un vasto pubblico di lettori (studiosi, studenti universitari, operatori impegnati sia nelle agenzie internazionali e nazionali di ricerca che nel campo dell’educazione e della formazione e in specie nei servizi di cura, di sostegno e promozione sociale) configurandosi come strumento di studio e, insieme, di sviluppo professionale, laddove può contribuire ad attivare un circuito virtuoso tra conoscenza ed azione, teoria e prassi nei contesti dell’educazione e della formazione, attraverso la proposta di contributi di forte impatto formativo oltre che di alta valenza scientifica.

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Silvia Guetta

EDUCARE

AD UN MONDO

FUTURO

Alleanze interculturali, dialoghi interreligiosi

e sviluppo della cultura di pace

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Grafica della copertina: Elena Pellegrini Copyright © 2013 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.

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Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica) e la comunicazione (ivi inclusi a titolo esemplificativo ma non esaustivo: la distribuzione, l’adattamento, la traduzione e la rielaborazione, anche a mezzo di canali digitali interattivi e con qualsiasi modalità attualmente nota od in

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Editoriali (www.clearedi.org; e-mail autorizzazioni@clearedi.org). Stampa: Global Print s.r.l., Via degli Abeti n. 17/1, 20064 Gorgonzola (MI)

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A mio padre, amante della pace tra i popoli Non sta a te terminare l’opera intrapresa, ma non perciò sei esonerato dall’iniziarla

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Indice

Prefazione, di Simonetta Ulivieri pag. 9

Introduzione » 15

1. Dall’integrazione all’alleanza interculturale: significati e

modelli » 19

1. Intercultura, integrazione, educazione inclusiva » 19 2. Costruire alleanze interculturali » 44 3. Pratiche interculturali e esperienze di progettazione » 57

»

2. Dialogo interreligioso come contributo alla reciproca

co-noscenza » 67

1. Dialogo interreligioso fuori dal religioso » 67 2. Società laica e pluralismo religioso » 80 3. Pratiche interreligiose ed esperienze di incontri » 97

3.Educare alla cultura di pace: nuovi paradigmi dell’

educa-zione sociale e proposte operative » 105 1. L’impegno internazionale per l’educazione alla pace » 105 2. I processi che portano alla cultura di pace » 111 3. Pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze

sociali » 130

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Prefazione

Il saggio di Silvia Guetta nasce dall’idea originale di coniugare l’ educa-zione alla pace. In un mondo contraddistinto da un livello conflittuale altis-simo, in una società che guarda con non curanza a violenze perpetrate sia all’interno della famiglia che nel rapporto di lavoro, risulta necessario edu-care i giovani ad una “cultura di pace”. La pace, come del resto purtroppo la guerra, è una modalità di stare nel mondo e in rapporto con l’altro, essa deve essere insegnata perché è vitale per la sopravvivenza del genere uma-no che venga appresa. Per questo motivo questo testo risulta significativo in un panorama di produzione pedagogica che molto spesso è dedicata a temi professionali e meramente disciplinari, dimenticando che il pensiero peda-gogico è anche contraddistinto da una vena utopica e di progettualità nel futuro.

Il testo di Silvia Guetta attraversa tre aspetti integrati della cultura di pa-ce: le progettualità interculturali, il dialogo interreligioso e le problematiche educative necessarie per apprendere a vivere. Esso è costruito su tre capito-li:

- Dall'integrazione all'alleanza interculturale: significati e modelli. - Dialogo interreligioso come contributo alla reciproca conoscenza.

- Educare alla cultura di pace: nuovi paradigmi dell'educazione sociale e proposte operative.

Nel volume ci si occupa di: intercultura, integrazione, educazione inclu-siva, costruzione di alleanze e pratiche interculturali ed esperienze di pro-gettazione. Aspetti molto dibattuti sono anche: il dialogo interreligioso, il rapporto tra società laica e pluralismo religioso, lo sviluppo umano e la

hu-man security. Infine si guarda all’impegno internazionale per l'educazione

alla pace, ai processi che portano alla “cultura di pace”, alle pratiche di educazione alla pace e costruzione di competenze sociali.

Nel considerare gli aspetti che caratterizzano i processi che attendono all'educazione interculturale, il testo mette in evidenza i passaggi teorici e metodologici in base ai quali si sta passando dal modello dell'integrazione e quello dell’inclusione, sottolineando come quest’ultimo apra ad una mag-giore e più articolata percezione della condivisione e del saper vivere nel

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rispetto reciproco dei diritti umani, della solidarietà e della partecipazione. Scrive Silvia Guetta: ‹‹Come esperienza di sviluppo di nuove forme di

qua-lità di vita, la tematica dell'intercultura trova la sua origine anche nella ri-cerca di solidarietà, uguaglianza e parità dei diritti che i processi di globa-lizzazione e di apertura ai saperi planetari, definitisi negli ultimi decenni dalle tecnologie e dai mezzi di trasporto, hanno sempre più richiamato. Dialogo, incontro e solidarietà diventano quindi, alla luce dei processi di globalizzazione che vedono le forme di sfruttamento economico, ambienta-le e umano, dei percorsi prioritari per lo sviluppo di progetti interculturali. Progetti che si rifanno anche ad una cultura maturata nell'impegno della società civile, a sostegno delle forme di convivenza pacifica, di attenzione per le fasce deboli della popolazione e della continua tensione che si gene-ra tgene-ra sviluppo, benessere/povertà e mondialità››(p.19) .

Da qui la proposta dell’Autrice di pensare alla tematica interculturale, individuando anche alcuni aspetti legati alla pedagogia di genere e agli in-terventi sulle pari opportunità. All'interno dei processi di inclusione edutiva e didattica, emergono sempre più scenari contraddittori e complessi ca-ratterizzati dalla diversità con la quale le bambine, le ragazze e le donne hanno compiuto e stanno ancora compiendo il loro processo di crescita e il loro pieno inserimento nel mondo culturale, sociale e professionale di ac-coglienza.

Vengono anche prese in esame le pratiche interculturali come esperienze di confronto e intervento in contesti di partenariato internazionale e di co-struzione di network di comunità di apprendimento per lo scambio e la condivisione di buone pratiche educative. Entrambe le esperienze mettono in evidenza come la formazione ad un pensare ed un sentire interculturale costituisca un bisogno formativo che comprende, oltre alle emergenze dell’accoglienza e dell’integrazione, anche la formazione di formae mentis.

L’Autrice considera il tema del religioso nel suo divenire storico-sociale e nella specificità del dialogo. Si sostiene, mettendo in evidenza i rapporti tra stato italiano e diverse comunità religiose, che solo attraverso il paritario riconoscimento delle differenti appartenenze religiose è possibile avviarsi verso una società veramente laica e capace di fare crescere in modo demo-cratico lo sviluppo dei saperi nel rispetto della specificità delle tradizioni.

Come evidenzia Silvia Guetta ‹‹Ogni riferimento alla libertà religiosa

mette quindi in evidenza sia la libera costruzione dell’identità dei credenti appartenenti alle molteplici tradizioni religiose che l’identità di chi creden-te non è e come persona acreden-tea, scettica, agnostica, o indifferencreden-te, segue esperienze di vita altre, ma ugualmente profondamente significative. Quello che unisce in un interesse comune non è tanto il ritrovarsi dentro una fede o un credo che indichi all’essere umano cosa fare e come comportarsi,

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co-sa credere e coco-sa pregare, quanto co-salvaguardare in ogni contesto sociale umano, sia le comunità religiose, sia i diritti umani, che lo sviluppo e il mi-glioramento della democrazia e la promozione dei valori fondamentali co-me pace, educazione alla libertà, dialogo e solidarietà. La pace tra le reli-gioni è quindi un preludio importante e fondamentale per la pace tra i po-poli›› (p.68).

Strumento di dialogo, ma anche di conflitto e di radicamenti di estremi-smi e intolleranze, il tema del religioso è anche uno strumento utilizzato dalle organizzazioni internazionali per rapportarsi alle comunità ed ai grup-pi, per avviare dall’interno processi di salvaguardia del patrimonio immate-riale della cultura e per sostenere l’alfabetizzazione delle bambine e dei bambini. Considerando il dibattito europeo sulle strategie e sulle politiche del dialogo interreligioso, vengono analizzati alcuni documenti fondamen-tali che meglio supportano le politiche e le pratiche del dialogo e della reci-proca conoscenza. Giustamente viene notato che: ‹‹Da lungo tempo, le

tra-dizioni religiose hanno creato separazione tra fedeli e non fedeli, tra cre-denti e atei, tra coloro che appartenevano ad una tradizione e coloro che non ne facevano parte. Pratiche di esclusione che tutt’oggi rischiano di en-trare implicitamente dentro le relazioni sociali e culturali delle collettività e di continuare a far percepire una sorta di ostilità e di intolleranza, di pregiudizio che porta a diffondere con facilità forme dii antisemitismo e di islamofobia›› (p. 74).

Il volume presenta anche, nella terza parte, due esperienze di dialogo in-terreligioso: la prima come esperienza educativa del learning to live

to-gether e la seconda come strumento per coinvolgere le comunità religiose

nei processi di pace nell’area israeliana e palestinese.

L’ ultimo capitolo affronta il tema dell’educazione alla pace partendo dall’impegno assunto dalle organizzazioni internazionali, ma per lungo tempo poco recepita dagli Stati membri, per focalizzarsi sugli studi e le ri-cerche hanno contribuito a fare emergere la necessità di ripensare alla scienza e all’educazione nella prospettiva del benessere planetario piuttosto che della distruzione del pianeta. È quindi necessario comprendere come l’educazione alla pace non si riferisca a particolari proposte di contenuti scolastici da svolgere nelle scuole o a problematiche che riguardano i paesi dove sono presenti conflitti armati. L’educazione alla pace considera che il dramma del conflitto e della violenza non risieda solo nelle azioni belliche, ma sia intrinseco in ogni società, in ogni gruppo come pure in una dimen-sione sia pubblica che privata. La manifestazione di questa violenza è visi-bile attraverso le forme di esclusione, di sfruttamento, di abuso e di manto rispetmanto dei diritti umani. Con il riferimenmanto alla pace, l’educazione si ca-rica di un nuovo significato, come impegno sociale, civile e culturale

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as-sumendosi la connotazione di un modello educativo alto, di fronte alle nuo-ve e future generazioni. In questo senso l’educazione alla pace dinuo-venta co-me una forma di resistenza gandhiana al conflitto e alla violenza diffusa.

L’educazione alla pace promuovere non solo il successo personale e forme di alfabetizzazione diffuse tra tutti i popoli, soprattutto in quelli ai margini del sistema economico occidentale, ma pone il problema di come rendere la formazione individuale un successo e una risorsa per l’ intera comunità umana. La necessità ad apprendere gli strumenti e le pratiche del-la convivenza pacifica, tema che ha attraversato tutto l’itinerario espressivo del volume, è una questione che pone interrogativi nuovi su come e quanto i contenuti delle discipline studiate a scuola, i metodi e le pratiche di ap-prendimento siano espressione di culture di guerra o di pace, di conflitto o di convivenza pacifica. Da qui la consapevolezza piena che l’educazione rappresenta uno dei principali aspetti che formano alla cultura della pace. Essa può evolversi ed affermarsi se vengono ugualmente e contempora-neamente attivati altri principi fondamentali come l’uguaglianza dei diritti e delle responsabilità tra donne e uomini, il rispetto dei diritti umani, il so-stegno alla partecipazione democratica e alla cittadinanza attiva, la promo-zione di sviluppi economici e sociali sostenibili, la libera circolapromo-zione dell’informazione e della conoscenza e la promozione della pace interna-zionale e della sicurezza per tutti i popoli

La Human Security, insieme allo sviluppo umano e allo sviluppo soste-nibile vengono analizzati nel saggio come alcuni dei processi considerati oggi sempre più significativi per affermare la cultura di pace.

Infine l’Autrice si focalizza sulle pratiche di costruzioni di competenze sociali come necessità priorità per il successo dell’educazione alla pace. Ri-flette l’Autrice: ‹‹L’osservazione che gli ambienti educativi, le strutture

scolastiche, i contenuti e le metodologie utilizzate possano essere catalizza-tori di conflitti violenti è diventata sempre più una preoccupazione della comunità internazionale. Un rapporto che per lungo tempo era stato letto ed interpretato in modo solo unidirezionale: la guerra causa l’analfabetismo perché distrugge le opportunità educative per la popola-zione. Tale interpretazione poneva l’educazione e il sistema di istruzione ad essa collegata, in una posizione di mancata responsabilità nei confronti dei conflitti e delle instabilità sociali›› (p. 131).

Ecco quindi delineato un impegno nuovo della scuola che dal 2007 lan-cia il programma “La pace si fa a scuola”, con l’obiettivo di promuovere il dialogo tra culture e religioni, di formare alla solidarietà tra i popoli e all’impegno per una cittadinanza attiva e partecipata.

Il volume rappresenta un valido strumento di interpretazione delle rela-zioni tra i popoli e indica le strade per superare i conflitti attraverso

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l’educazione alla pace. L’Autrice, sull’onda di un pensiero pedagogico che guarda ad una dimensione altra, oltre le ricette tecnologiche e le pratiche meramente didattiche, inquadra il suo lavoro in un percorso di “pedagogia alla libertà” che ha rappresentato e rappresenta uno degli aspetti più signifi-cativi del pensiero pedagogico italiano, che, da Lamberto Borghi ad Aldo Visalberghi, da Raffaele Laporta a Piero Bertolini, ha guardato alla costru-zione nel nostro Paese di una nuova democrazia più diffusa e partecipata.

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Introduzione

La volontà e il desiderio di riflettere sui continui possibili, e non sconta-ti, intrecci e soluzioni aperte tra i modelli di interculturalità, di dialogo in-terreligioso e di cultura di pace, si sono alimentati in questi anni in sintonia con lo sviluppo di ricerche, di progetti e di esperienze realizzate in differen-ti ambidifferen-ti nazionali e internazionali. È nella consapevolezza di sapere, con la meraviglia e la curiosità, che niente è come appare, fermo e stabile, ma piuttosto un continuo evolversi che si fa momentaneamente concreto e visi-bile dentro gli spazi degli incontri, degli scambi e della partecipazione esplorativa del conoscere, che sollecita a riflettere a un’educazione di quali-tà fondata sui principi dei diritti umani, scientificamente e spiritualmente scelta, come contributo imprescindibile alla costruzione di un futuro plane-tario migliore. Nell’educazione non è implicito il senso della pace: sono gli esseri umani che rendono l’educazione una educazione per, in e con la pace

Il bisogno di continuare ad esplorare quali possano essere le migliori pratiche che nelle relazioni umane facilitino il vivere e condividere il be-nessere e quali siano i contributi teorici e metodologici nazionali e interna-zionali che aprono alle scelte di educare alla cultura della convivenza paci-fica, è stato ciò che ha motivato la stesura di questo libro. Il libro è attraver-sato proprio da questa tensione che vuole, proponendo una lettura critica e contestualizzata, considerare il progettare, il fare e l’essere in educazione come un impegno per la pace.

I tre richiami, inter/intracultura, inter/intrareligioso e pace sono percorsi intrecciati, vissuti che si interrogano reciprocamente per trovare il punto di coerenza che li sostiene, li rende espliciti e li legittima. È la ricerca di in-trecci e integrazioni di coerenza che la relazione educativa stessa è in grado di mettere in discussione, decostruire, ma anche riproporre in prospettive nuove perché arricchite di interpretazioni della realtà sempre più profonde e inedite. Questo significa stare dentro la comprensione di ciò che porta alla costruzione dei significati che diamo alla realtà vissuta anche nel conflitto, gli strumenti necessari per decostruire quello che limita e ostacola la rela-zione e il dialogo. Ma significa anche ricercare come attivare quella

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flessi-bilità cognitiva, emotiva, affettiva e spirituale, e sicuramente inclusiva, che permette la ricomposizione dei saperi interculturali necessari allo sviluppo del dialogo tra tradizioni religiose diverse in prospettiva di nuove convi-venze pacifiche.

Come ogni progetto ed esperienza educativa, riconsiderata e valutata pedagogicamente, tutto questo si presenta come una sfida contro ogni for-ma di condizionamento e adattamento passivo alla realtà che spesso ci co-glie impreparati dentro un mondo che si fa sempre più complesso, globaliz-zato, conflittuale e autodistruttivo. Un mondo dentro il quale, come attori storici del presente condividiamo la quotidianità, viviamo anche le logiche della separazione, dell’annullamento delle categorie spazio-temporali. Mo-delli di significati semplici e lineari che collimano con la loro facile com-prensione a vedere nell’Altro il nemico, il diverso da escludere, colui che disturba perché ci coinvolge nel ripensamento di ciò che siamo.

Come è allora possibile dare spazio dentro e fuori di noi alle esperienze del dialogo. Come ricercare l’autenticità dell’Io e dell’Altro interagendo con le altre forme di comunicazione. Con il dialogo è possibile esplorare le innumerevoli sfumature del comunicare che ci pongono in relazione con il benessere che sta dentro la convivenza. È nell’educare a questa continua e profonda esplorazione di noi che porta, secondo Buber a comprendere i dif-ferenti tipi di dialogo, autentico, tecnico e monologo che sono poi “gli am-biti della vita dialogica e monologica [e] non sempre coincidono con quelli del dialogo e del monologo. […] C’è anche un dialogo che non è vitale, cioè ha l’apparenza del dialogo, ma non l’essenza. Talvolta sembra addirit-tura che esistono ormai solo di questo tipo”1.

Tre contesti di profonda problematicità che, percorsi dal fil rouge della relazione/opposizione dell’Altro e del Noi, intendono valorizzare la rifles-sione su cosa significhi educare alla complessità ed esplorare i valori, le at-titudini, i comportamenti e i modelli di vita che rigettano la violenza. Tre piste che si aprono come creative prevenzioni all’orientamento positivo dei conflitti.

Negli ultimi anni, a seguito del diffondersi degli studi e delle ricerche sulle tematiche relative alla pace e ai conflitti, è emerso, in modo sempre più chiaro, quanto sia necessario formare gli educatori e gli insegnati, alla conoscenza e alla progettazione di proposte educative che sappiano coglie-re, adattandoli a specifici contesti, la pluridimensionalità di queste temati-che. Da qui anche la riflessione sull’importanza del dialogo, considerato per la sua capacità e potenzialità di cambiamento/trasformazione del

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re, un dispositivo interessante per la disponibilità e l’apertura al confronto, all’ascolto e al decentramento intellettuale.

Il tema dell’intercultura si pone in questa riflessione come pratica ne-cessaria allo sviluppo dei possibili e molteplici dialoghi che si attualizzano e realizzano non solo in differenti abiti dell’agire umano, sia esso sociale, culturale o politico, ma anche nelle questioni che hanno un impatto planeta-rio e che riguardano il genere umano nella sua presenza attuale e futura. L’intercultura si rapporta alla educazione per lo sviluppo della cultura di pace quando si pone il problema di promuovere e sostenere la convivenza pacifica e costruire, partendo dal riconoscimento dei diritti umani, delle pa-ri opportunità e delle questioni di genere, una relazione con l’Altro finaliz-zata a decostruire gli stereotipi culturali responsabili di razzismi, marginali-tà e diseguaglianza.

L’intercultura diventa anche una riflessione sul conflitto e sui conflitti che, in primis dentro di noi, contribuiscono alla positività e all’autenticità della relazione con l’Altro e con il mondo. Comprendere con attenzione le risposte e le scelte personali che legano all’appartenenze culturali apre alla possibilità di costruire alleanze interculturali. Le alleanze intercultuali sono pensate nella logica del dialogo a pari livello e come condivisione delle molteplici risorse umane capaci di far fronte ai problemi e alle questioni che preoccupano il pianeta sia a livello globale che locale. Questa ipotesi relazionale, può essere pensata come un progetto da realizzare, dove gli obiettivi di questa alleanza sono compresi, pattuiti, partecipati e gestiti da tutti coloro che ne sono coinvolti.

È questa la nuova sfida di inclusione sociale e culturale che l’Europa ha davanti a sé. Una sfida aperta a riconsiderare ogni azione educativa guar-dando con le lenti della pace dentro la luce dei suoi valori fondamentali e, dall’altra, a dare all’educazione alla pace quella priorità sulla quale costrui-re i processi di costrui-reciproca conoscenza e di inclusione, ricompcostrui-rendendo den-tro di sé ogni tipo di differenza.

È quindi dentro questa sfida che il religioso, come esperienza educativa, viene ripensato e vissuto dentro gli spazi del laico che dialoga con quella spiritualità che porta gli esseri umani ad interrogarsi sulla natura e i misteri della vita. Un esserci critico e costantemente teso verso la ricerca di forme di pluralismo che si possono realizzare con l’impegno di un sentire comune capace di coinvolgere i punti di forza e di debolezza delle differenti tradi-zioni religiose, di coloro che ad esse appartengono, di coloro che in queste non si identificano e di coloro scelgono di stare fuori da ogni appartenenza. È come sostiene Sen la possibilità, che è anche ricchezza, di stare dentro identità multiple che assumiamo, costruiamo e valorizziamo lungo il

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cam-mino della nostra esistenza e in funzione delle relazioni implicite ed esplici-te che costruiamo2.

L’educazione al dialogo interreligioso combatte ogni forma di fonda-mentalismo e di estremismo ed ha un importante ruolo per lo sviluppo dei diritti umani, della giustizia, della solidarietà, della diversità e della pace. È sempre più necessario fare in modo che i differenti mondi religiosi trovino come ripensarsi e riconoscersi attraverso il dialogo anche con ciò e con chi religioso non è, per poter crescere insieme, aprirsi a confronti autentici in grado di valorizzandosi nel reciproco rispetto. È sempre più urgente com-prendere come l’incontro tra le tradizioni religiose e l’educazione costitui-sca una riflessione pedagogica su come valori, prospettive, ricerche possa-no dialogare alla pari nell’educazione, su quali siapossa-no gli apporti significati-vi per lo ssignificati-viluppo di forme di sapere, ma anche riconoscere con chiarezza quali di questi valori limitano e condizionano il conoscere, il benessere e lo sviluppo degli esseri umani.

Come ogni modello e forma culturale, anche la cultura di pace si realiz-za da ciò che ogni essere umano creativamente sceglie, desidera e vuole.

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1.

Dall’integrazione all’alleanza interculturale:

si-gnificati e modelli

1. Intercultura, integrazione, educazione inclusiva

L’attenzione verso la tematica dell’intercultura si caratterizza e definisce in Italia in relazione e in risposta all’arrivo e alla presenza di persone im-migrate che provengono da contesti e zone di pericolo, di guerra, di care-stia, di persecuzioni. L’idea di intercultura è una risposta progettuale alla compresenza, ma non sempre una convivenza pacifica e costruttiva, di dif-ferenti gruppi culturali ed etnici all’interno di uno stesso territorio. L’intercultura non è una situazione dalla quale è possibile partire, quanto una meta alla quale è necessario giungere attraverso un condiviso impegno di negoziazione, rispetto dei diritti umani, cooperazione e dialogo. Il prefis-so inter rimanda a delle azioni che mettono in comunicazione attraverprefis-so lo scambio, l’incontro, l’interazione il confronto e il cambiamento reciproco. Come esperienza di sviluppo di nuove forme di qualità di vita, la tematica dell’intercultura trova la sua origine anche nella ricerca di solidarietà, uguaglianza e parità dei diritti che i processi di globalizzazione e di apertu-ra ai saperi planetari, definitisi negli ultimi decenni dalle tecnologie e dai mezzi di trasporto, hanno sempre più richiamato. Dialogo, incontro e soli-darietà diventano quindi, alla luce dei processi di globalizzazione che ve-dono le forme di sfruttamento economico, ambientale e umano, dei percorsi prioritari per lo sviluppo di progetti interculturali. Progetti che si rifanno anche ad una cultura maturata nell’impegno della società civile, a sostegno delle forme di convivenza pacifica, di attenzione per le fasce deboli della popolazione e della continua tensione che si genera tra sviluppo, benesse-re/povertà e mondialità1.

La questione interculturale si compone quindi soprattutto intorno ad un tipo di immigrazione che, per niente unitaria e composita, si presenta

tutta-1 Cfr. F. Cambi, Intercultura. Fondamenti pedagogici, Roma, Carocci, 2001; Incontro e

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via problematica e ricca di scenari complessi. Ciò che appare subito eviden-te è la novità dell’incontro che si comincia ad avviare tra saperi e pratiche culturali differenti. Lingue, religioni, modelli sociali, pratiche comunitarie, significati e valori, ma anche aspetti legati alla salute e all’educazione co-minciano ad entrare, dall’inizio degli anni Ottanta, prima in forma piuttosto graduale e poi, a partire dagli anni Novanta, con una accelerazione che ca-ratterizzerà il fenomeno come una situazione di continua emergenza. Ri-spetto agli Stati europei, come la Germania, il Belgio, la Svizzera che, a partire dal Secondo Dopo Guerra sono diventati poli di attrazione per lavo-ratori provenienti soprattutto dall’Europa mediterranea, l’Italia ha visto le prime presenze di immigrati quasi vent’anni più tardi. Una immigrazione, quella in Italia, caratterizzata da una provenienza asiatica, soprattutto india-na cinese e africaindia-na, in particolare magrebiindia-na e sub-sahariaindia-na portando uindia-na rapida crescita di nuovi potenziali cittadini che ha modificato l’assetto di molte realtà locali. Benché la distribuzione della persone immigrate non sia uniforme in tutta la penisola la loro presenza è pressoché distribuita su tutta la penisola. Differenti sono comunque le realtà di aggregazione dei gruppi e il modo di considerare e di vivere il processo migratorio, di mantenimento dei contatti con il contesto di provenienza, di disponibilità alla integrazione e alla convivenza con le realtà locali. Altrettanto differenti e varie sono sta-te le pratiche di accoglienza e insta-tegrazione promosse ed attivasta-te dalla popo-lazione e dalle istituzioni pubbliche e private, presenti sui territori interessa-ti al fenomeno.

La natura geografica della penisola italiana ha visto interessate diverse zone di confine come apertura ed entrata di persone in cerca di un nuovo posto dove vivere e garantire anche la sopravvivenza della propria famiglia. Zone di confine che sviluppando sistemi e pratiche di accoglienza hanno direttamente coinvolto la popolazione locale e seguito le direttive politiche che, nel corso degli anni, hanno cercato di rispondere al fenomeno.

Il mare è stato uno dei canali, che in moltissimi casi non ha permesso al-le persone di raggiungere ciò che desideravano, che ha comunque funziona-to da trasferimenfunziona-to di popolazioni da una sponda all’altra dell’Adriatico e del Mediterraneo. Poi sono stati il confine nord orientale della penisola e gli aeroporti ed ogni altra via di ingresso.

Le prime presenze straniere sono giunte dalla sponda africana del Medi-terraneo e sono soprattutto gli uomini che cercano un lavoro, una via di fu-ga verso l’Europa passando dall’Italia. Oggi si conta che le nazionalità di provenienza sono più di cento e nonostante siano presenti dei gruppi più numerosi come i romeni, i cinesi, i marocchini e gli albanesi, la distribuzio-ne dei gruppi fa un quadro della realtà italiana come policentrica, costituita cioè da vari gruppi nazionali ed etnici.

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La natura del fenomeno immigratorio si è negli anni modificata sia per l’aumento dell’arrivo dei gruppi, sia per la tipologia delle persone interessa-te, sia infine per gli scenari internazionali di conflitti armati e di emergenze naturali (carestie, terremoti, maremoti) che colpivano le differenti zone del pianeta.

Gradualmente sono apparse le donne e i minori sia insieme alle famiglie che da soli. I minori che giungono in Italia senza la famiglia sono la testi-monianza ancora più evidente e profonda della sofferenza che colpisce i bambini e gli adolescenti che vivono in contesti di conflitto e di grave crisi economica e umanitaria. In tali contesti le convenzioni internazionali, pri-ma tra tutti quella sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza vengono am-piamente disattese e calpestate e il pericolo per la sopravvivenza dei figli spinge spesso le famiglie ad allontanarli per inviarli in luogo sconosciuto e lontano, con la speranza che in qualche altro posto possano vivere un futuro migliore. La questione dei minori stranieri non accompagnati è un fenome-no che ha preso forma agli inizi degli anni Novanta ed è andato gradual-mente aumentando interessando un po’ tutta l’Europa. I minori stranieri non accompagnati sono soggetti fortemente vulnerabili e necessitano di una protezione e di una tutela che ne garantisca sia la protezione dai pericoli, ma anche lo sviluppo della persona come indicato nella Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La realtà mostra invece che in molti contesti dell’Europa democratica i bambini e gli adolescenti che vengono da lontano senza la famiglia, sono trattati con misure di sicurezza e control-lo, in linea a normative di politica migratoria, al pari degli adulti subendo-ne, in molti casi, le stesse restrizioni e sistemi di punizione ed espulsione2.

È indubbio che i ragazzi stranieri che arrivano in Italia senza la famiglia o il supporto di qualche parente che può prendersi cura di loro e che garan-tisca anche per il loro riconoscimento, nome, provenienza età, condizioni di salute, rappresenta una ulteriore sfida culturale e sociale sia per quanto ri-guarda le pratiche di assistenza e accoglienza presenti nelle comunità locali, che per l’impegno e l’investimento educativo che le istituzioni formali e non formali devono svolgere nel rispetto della persona.

Un progetto interculturale, quello sollecitato dai bambini e dai ragazzi, che si caratterizza anche per ciò che viene considerato cultura e per come questa presenti potenziali strumenti per incontrarsi, comunicare, ricono-scersi e creare nuova cultura. Le giovani generazioni che sono cresciute nei contesti educativi della scuola per tutti e che hanno vissuto la costruzione dei saperi negli spazi sociali delle tante diversità testimoniano come

2 Cfr. G. Campani, O. Salimbeni, (a cura di), La fortezza e i ragazzini: la situazione dei

minori stranieri in Europa, Milano, Franco Angeli, 2006; O. Salimbeni, Storie minori. Real-tà ed accoglienza per i minori stranieri in Italia, Pisa, ETS, 2011.

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l’immigrazione sia stata anche un progetto per il futuro. Nuovi saperi inter-culturali si sono creati grazie a questi incontri e alle molteplici esperienze condivise nella quotidianità. Le esperienze delle nuove generazioni e di quelle che oggi vengono chiamate le seconde generazioni fanno pensare che il modello multiculturale, che considera la coesistenza di gruppi, delle culture, delle religioni, l’uno accanto all’altro, ma separati e senza necessità di riconoscimento reciproco, è stato superato da quello interculturale dove prevale l’interazione tra le persone portatrici di molteplici riferimenti cultu-rali e il riconoscimento-valorizzazione delle diversità. Le nuove generazio-ni, quelle che sono figlie dei processi migratori e quelle che hanno speri-mentato i giochi, le quotidianità, le difficoltà di una scuola che accoglieva altre lingue e tutto ciò che poteva sembrare diverso, sono entrambe porta-trici di saperi nuovi, di incontro e scambio

È quindi a partire dagli anni Novanta che nella scuola italiana comin-cia a delinearsi la tematica e poi il paradigma dell’intercultura che, per quanto in un primo momento sia impegnata a rispondere a specificità co-me l’eco-mergenza, l’accoglienza, le differenti madrelingue , la diversità e lo svantaggio, con gli anni si farà sempre più chiaro il riferimento alla diversi-tà come risorsa umana positiva, dell’educazione al dialogo, alla reciprocidiversi-tà e alla costruzione condivisa di convivenze sociali. Per diversi anni la perce-zione dello svantaggio si associava all’idea che i bambini, essendo privi di riferimenti linguistici e culturali richiesti dalla realtà di accoglienza, doves-sero conseguentemente trovarsi in una condizione di limitate possibilità di apprendimento. Ciò ha reso possibile il grande investimento, con altrettanta preoccupazione per i risultati, nei confronti dell’insegnamento dell’italiano, chiamata L23 come aspetto centrale della tematica interculturale. Solo dopo

il superamento di una visione prettamente assimilatoria che talvolta impe-diva di considerare realmente gli aspetti, i bisogni e le differenti potenziali-tà dei bambini appena giunti in Italia4 e che sottovalutando le differenze

culturali, ha portato ad alti tassi di insuccesso e abbandono scolastico, si è diffusa la cultura dell’accoglienza e della attenzione nei confronti della di-versità. Una diversità considerata e elaborata essenzialmente a livello etno-culturale che ha dato comunque modo di iniziare ad avviare un rapporto con l’Altro capace di passare attraverso gli aspetti relazionali e comunicati-vi della tolleranza e della solidarietà. Elementi, questi ultimi, considerati prioritari per combattere il ripresentarsi delle forme di razzismo, xenofobia

3 La lingua italiana è seconda rispetto alla prima appresa considerata come lingua

mater-na o linguamadre.

4 Cfr. D. Demetrio, G. Favaro, Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica

inter-culturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare, Firenze, La Nuova Italia,

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e antisemitismo. In pratica, almeno per alcuni anni, non solo l’idea dell’intercultura si costruiva su quella della presenza degli immigrati, ma si concentrava su una sola categoria di diversità senza riuscirne a cogliere le complessità che stanno dentro le stessediversità.

Questo approccio, costruito soprattutto in considerazione della diversità di tipo etnico ha generato, d’altra parte, una forma di separazione che può esprimersi nella forma noi e gli altri dove, nel contenitore degli altri vengono posti tutti coloro che non appartengono alla cultura occidentale, in senso ge-nerale, e italiana in particolare. In questo senso si definiscono dei confini cul-turali che contraddicono pienamente la natura stessa della cultura rendendola, il contrario di quella che è, rigida, circoscritta e limitata ai confini dei paesi di provenienza delle persone. D’altra parte è entrato in gioco un altro stereotipo rappresentativo: la considerazione che gli autoctoni fossero tutti uguali e che solo gli immigrati fossero carichi di diversità. Questo ha quindi generato dei falsi luoghi comuni e non ha dato modo di poter esplorare altre forme di di-versità che sono presenti e caratterizzano le realtà. Ci riferiamo alle didi-versità di genere, quelle socio-economiche, quelle ecologiche individuabili negli ambienti, biologiche, religiose ecc. ‹‹Inoltre anche i temi come la fame nel mondo, la povertà, la gestione dei rifiuti, le forme di inquinamento, la gestio-ne dell’acqua, non sono considerati come questioni culturali che possano trovare soluzioni di tipo interculturale. Infine, quando si osserva che la pre-senza di immigrati produce atteggiamenti xenofobi e discriminanti, la ri-flessione si concentra spesso quasi esclusivamente su aspetti riguardanti l’origine etnica e religiosa: altre forme di discriminazione, motivate dal ge-nere, dall’orientamento sessuale, dall’handicap, non sono considerate come problematiche interculturali e quindi non rientrano nell’orizzonte dell’educazione interculturale››5. Una tale miopia ha distorto anche la natura

stessa del discorso interculturale costruendo percorsi con questa tematica so-lo in presenza di bambini immigrati. Fortunatamente questa impostazione si è andata perdendo aprendo la strada all’educazione interculturale come educa-zione alla democrazia, ai diritti umani, alla solidarietà e alla tolleranza. Così in Italia come in altri contesti europei, l’educazione interculturale si caratte-rizza sempre più come una necessità più che una emergenza o una opzione.

Per quanto non sia possibile generalizzare, è possibile considerare che nella scuola italiana, a partire dagli anni Novanta si siano succedute tre ma-crofasi che caratterizzano il rapporto tra educazione e intercultura.

Queste si definiscono come: la scuola risponde all’emergenza e fa il po-sto agli alunni stranieri; la scuola si organizza attivandosi per l’integrazione

5 E. Elamé, J. David, Educazione interculturale per lo sviluppo sostenibile, Roma, EMI,

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degli alunni stranieri; la scuola elabora una nuova prospettiva interculturale nella prospettiva dell’inclusione e dello stare insieme.

La prima fase è stata quella di far fronte ad una situazione inaspettata e alla quale gli insegnanti e lo stesso sistema scolastico non erano preparati. In risposta alla presenza di nuovi volti, colori, linguaggi e storie di vita c’è stato, in gran parte dei casi, un immediato tentativo di cercare di compren-dere le problematiche e le difficoltà e di risponcompren-dere, talvolta con un grande spirito umanitario alle nuove richieste sociali. Dall’altro c’è stato un per-corso più elaborato e di investimento progettuale che è consistito nell’organizzare e ideare nuove sperimentazioni collegandosi direttamente alla ricerca pedagogica.

L’educazione interculturale viene riconosciuta come aspetto e impegno della scuola nel 1990 con la circolare ministeriale n. 2056 che fornisce

indica-zioni operative per l’inserimento degli alunni stranieri nelle scuole. Ma è a partire dagli anni che precedono l’Autonomia scolastica, che prende avvio dal 20007, che si guarda al dibattito interculturale come una interessante

pro-posta di rinnovamento che coinvolge in forma integrata il territorio, le asso-ciazioni, il mondo esterno e il mondo editoriale. Il Ministero dell’Istruzione si adopera per la creazione di una commissione sull’educazione interculturale che pur avendo vita breve, realizza anche la rete televisiva progettando un corso a distanza RAI-LAB sulla educazione interculturale8 ancora attivo e

aggiornato sulle normative e sui significati in trasformazione oltre che sulle problematiche da affrontare.

La scuola ha quindi dovuto rispondere, con i mezzi e le risorse che posse-deva, alla necessità di costruire gli spazi dell’integrazione e dell’accoglienza. Doveva quindi prepararsi alla novità dello scambio e della diversità che pas-sava attraverso le differenti lingue che gradualmente coloravano di nuovi suoni le aule e i giochi dei bambini. Esperienze importanti e significative per tutti. Esperienza di messa in discussione dei pregiudizi e degli stereotipi che spesso si infiltravano in modo silenzioso e sotterraneo, procurando un danno profondo, insidioso e duraturo nella relazione e nella formazione del-le persone. Stereotipi e pregiudizi che si scontrano con l’idea di apparte-nenza, ma meglio dire delle appartenenze, e che ne delimitano, molto spes-so il loro stesspes-so riconoscimento. Appartenere ad un gruppo, fosse esspes-so reli-gioso, etnico, nazionale, ha delimitato, per diverso tempo, almeno per i

6 Circolare n. 205, 26 luglio 1990, La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri.

L’educazione interculturale.

7 D.P.R. 8.3.99 n. 275, Regolamento recante norme in materia di autonomia delle

istitu-zioni scolastiche.

8 RAI EDU LAB Educazione interculturale, http://www.educational.rai.it/corsiformazione/

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primi anni dell’inizio del fenomeno, una percezione complessa e dinamica delle relazioni tra le persone. Per semplicità gli immigrati venivano ricon-dotti ad una tipologia di diversità. Questo, che creava poi la base per la co-struzione di stereotipi, facilitava la comprensione e le caratteristiche dell’altro circoscrivendone l’identità e, nello stesso tempo permetteva di gestire meglio il rapporto con l’altro, alla luce della linearità e della sempli-cità. Pertanto i bambini marocchino, indiano o tunisino, non solo hanno rappresentato, agli occhi di molti insegnanti il Marocco, l’India, la Tunisia, ma sono stati anche investiti come ambasciatori culturali dei loro Paesi, quasi che in quei bambini potessero essere compresi i tanti mondi possibili delle loro storie e tradizioni e che loro ne fossero consapevoli ed in grado di esprimerle.

Viene così a definirsi un primo modello di integrazione che riaffermava lo stereotipo della diversità come opposizione, come appartenenza singola altra, comprensibile se semplificata e pertanto legittimata. E anche il mo-dello di integrazione proposto, risentiva in qualche modo di questo presup-posto mono-etno-autoreferenziale. Risultava sicuramente più facile e rea-lizzabile chiedere a chi era portatore di una appartenenza semplice, per come questa veniva rappresentata dal paese accogliente, di integrarsi ad una realtà più complessa, sicuramente più dinamica, ma soprattutto più ricca di saperi e più evoluta. La particolarità del rapporto della scuola italiana, uti-lizziamo qui un riferimento generale pur sapendo che importanti e signifi-cative azioni edusignifi-cative non possono essere inserite in questo quadro, è stato quindi quello di vivere in modo paradossale le esperienze e l’evolversi della multicultura e dei progetti per la costruzione di dinamiche interculturali. Da una parte una rappresentazione semplice e lineare delle appartenenze e dall’altra la disponibilità ad accogliere le diversità.

D’altra parte il modello di accoglienza, seguito da quello di integrazio-ne, che veniva proposto, risentiva di una tradizione culturale italiana poco abituata e disponibile ad accogliere il punto di vista, le esperienze, ma so-prattutto le tradizioni culturali e religiose. Questo è testimoniato dal fatto che i saperi storici non abbiamo considerato la presenza di minoranze, co-me quelle religiose, etniche, linguistiche un arricchico-mento dello stesso sce-nario culturale. Una scarsa attenzione che ha reso insensibile la popolazione italiana stessa anche di fronte agli spostamenti migratori interni alla stessa Italia avvenuti a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso con l’assorbimento nelle industrie e fabbriche del nord Italia della manodo-pera proveniente dal sud. Solo le minoranze linguistiche sono state tutelate

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con leggi9, senza tuttavia avviare politiche di incontro, riconoscimento

reci-proco e scambio culturale.

L’evolversi delle politiche e delle economie mondiali che hanno deter-minato tipologie differenti di movimenti migratori, dovuti ad un’ampia gamma di necessità, bisogni, attese e desideri, intrecciati ad una molteplici-tà di risorse umane specifiche ed originali di ogni singola persona, ma an-che del gruppo di riferimento, ha aperto la strada ad una visione nuova del problema, introducendo, almeno sul piano teorico, il bisogno di parlare di pluralismo, accoglienza, empatia, confronto e dialogo. Termini questi che nel corso degli anni hanno iniziato a colorarsi di significati specificamente orientati verso i differenti problemi e aspetti delle società multiculturali.

Già a partire dalla fine degli anni ‘90, anche il Consiglio d’Europa10 ha

focalizzato la propria attenzione sul problema dell’identità miste, del plura-lismo culturale e del métissage che sulla necessità di fare fronte agli episodi di razzismo e di antisemitismo ancora largamente diffusi sia nei comporta-menti delle persone che nei rifericomporta-menti a pratiche politiche degli Stati. Da allora si è andata sempre più affermando la nuova identità di cittadino eu-ropeo caratterizzata da una appartenenza fatta di molteplici appartenenze11

non necessariamente in conflitto tra loro, o causa di conflitti, ma anche ar-ricchimento reciproco di cittadinanze diverse e nuove sfide per la democra-zia. Su questa nuova idea di incontro tra le appartenenze e della loro possi-bile risorsa per nuove forme di democrazia, si costruisce, la necessità di ab-bandonare definitivamente il modello di assimilazione sociale e culturale delle minoranze, nonché, sicuramente simile a questo, quello dell’ integra-zione forte12.

Nella maggior parte dei casi l’integrazione è vista come un’azione com-piuta da coloro che, posti o considerati dalla società in una condizione di diversità (immigrazione, disabilità, religione ecc.), devono fare per

avvici-9 Legge 15 dicembre 1999, n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze

linguisti-che storilinguisti-che.

10 Consiglio di Europa, Libro bianco sul dialogo interculturale. Vivere insieme in pari

dignità, Strasburgo, 2008.

11 Il 1996 rappresenta per l’Unione Europea una prima tappa per l’avvio di un’

afferma-zione e attenafferma-zione continua nei confronti delle problematiche interculturali, interreligiose e di rispetto dei diritti umani. Durante questo quasi ventennio, gli stati membri sono stati più volte coinvolti a far fronte alle loro responsabilità innanzi a continui episodi di xenofobia, razzismo, antisemitismo ed esclusione. Il 2000 vede attivarsi, anche dopo il trattata di Am-sterdam del precedente anno, trattato che regolamenta le nuove entrate nell’Unione Europea e i rispettivi obblighi comunitari degli stati membri, la lotta contro le differenti forme di di-scriminazioni che colpiscono non solo le diversità etniche, culturali, di cittadinanza e reli-giose, ma anche di genere età e condizione fisica. CES/96/51 http://europa.eu/index_it.htm.

12 Cfr. G. Campani, Dalle minoranze agli immigrati. La questione del pluralismo

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narsi e inserirsi nelle norme e regole, allo scopo di essere finalmente sem-pre più simili alla maggioranza. Nel processo di integrazione non semsem-pre viene vista la complessità che sta dietro, se prendiamo di esempio l’immigrazione, tutte le fasi con la loro ricchezza di esperienze, che le per-sone ed i gruppi hanno vissuto. Una dinamica significativa che gioca su tre cardini, le caratteristiche di vita nella società di provenienza, l’esperienza del viaggio per immigrare e le caratteristiche della società di arrivo, che è comunque la società ospitante anche se non sempre l’unica. Condizioni di-verse sono proprie anche delle differenti condizioni o status degli immigrati (regolari, irregolari e clandestini), che sono coinvolti in modo differente dentro i processi di integrazione.

In riferimento al secondo punto sopra elencato, il tema dell’integrazione diventa sempre più centrale nelle pratiche scolastiche e nei riferimenti legi-slativi ministeriali. L’integrazione diventa l’obiettivo intermedio, ma so-prattutto finale del percorso scolastico dei bambini stranieri. Tutto ruota in-torno alla sua riuscita perché un eventuale fallimento potrebbe condurre a forme di disagio e di marginalità. Oggi questo aspetto viene visto con una prospettiva più ampia e complessa comprendendo le molteplici dinamiche relazionali e culturali che la scuola stimola sia tra pari che tra adulti e alun-ni e studenti.

Tuttavia rimane ancora forte il paradigma dell’integrazione unidirezio-nale, il bambino/a che si integra al gruppo classe, anche quando parliamo di bambini con bisogni speciali, con disturbi specifici di apprendimento, ap-partenenti a tradizioni religiose diverse e che vivono in condizione di esclu-sione sociale. Sicuramente la riflesesclu-sione posta dalla pedagogia intercultura-le sui bisogni che caratterizzano il processi di integrazione nella scuola, ha aperto nuove prospettive, sviluppato importanti indagini e costruito modelli e strumenti in grado di offrire ai bambini, ai loro genitori e agli insegnanti, lo sviluppo di momenti e esperienze di incontro e collaborazione capaci di coinvolgere senza la percezione del maggioritario e minoritario, tutte le dif-ferenze.

L’integrazione è un diritto che richiede, per essere realizzato, tempi e spazi, pratiche, azioni ed interventi. Come diritto è anche un dovere che de-ve essere assunto da tutte le parti coinvolte nel processo. Purtroppo questo secondo aspetto viene scarsamente riconosciuto e agito. L’integrazione non è il processo che si realizza partendo dal qui ed ora verso il futuro. Ogni persona coinvolta nel processo in atto è portatrice dei tanti vissuti e delle tante modalità relazionali e comunicative sviluppatesi in rapporto ai conte-sti culturali di provenienza. Ecco perché parlare di accoglienza significa considerare una complessità di elementi che entrano in azione simultanea-mente con una carica di problematicità e di potenzialità specifiche e

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origi-nali che si vanno ad incontrare con aspetti del contesto e del territorio: l’organizzazione scolastica, l’apprendimento della lingua italiana (L2), la disponibilità e l’apertura alla diversità alla novità e la curiosità per quello che la nuova esperienza può portare. Ogni aspetto deve essere libero da forme di giudizio e di valutazione, soprattutto se implicitamente vengono utilizzati parametri di riferimento non adatti alla situazione. Il rischio è in-fatti quello di costruire una rappresentazione del bambino come soggetto difficile, o portatore di difficoltà, senza che venga adeguatamente conside-rato che la difficoltà è spesso dovuta all’insegnante che deve ricercare strumenti e metodi differenti da quelli comunemente usati e il contesto ha bisogno di reinterpretare relazioni e modelli comportamentali.

Molti sono gli elementi di criticità che limitano il successo dei percorsi di integrazione. Tra questi possono essere considerati quelli relativi alla non corrispondenza tra classe di inserimento e età anagrafica, la mancata organiz-zazione di corsi di lingua italiana fuori dall’orario scolastico e soprattutto in periodi di sospensione delle attività didattiche, la scarsa fiducia nelle possibi-lità scolastiche dei bambini immigrati perché non ritenuti capaci di superare i

gap di inserimento, l’idea che la non conoscenza della lingua italiana

equi-valga ad una mancanza di apprendimento linguistico del bambino come se fosse tabula rasa. A questo proposito è talvolta presente ‹‹una incapacità del-la scuodel-la rispetto al compito dell’insegnamento deldel-la L2. Vengono sottolinea-ti, talvolta drammatizzasottolinea-ti, i bisogni comunicativi propri della prima fase dell’inserimento (non parla una parola di italiano) ma non vi è sufficiente consapevolezza sulla portata dello sforzo richiesto dall’apprendimento dell’italiano per lo studio: compiti richiesti all’apprendente, durata nel tempo, necessità di facilitazioni linguistiche protratte da parte di tutti i docenti cur-riculari››13.

Indubbiamente l’apprendimento della lingua italiana è un importante elemento facilitatore, forse il più importante per integrarsi nella scuola ed apprendere i contenuti, ma non è l’unico. I buoni risultati riguardo alla co-noscenza della L2 o anche la coco-noscenza pregressa della lingua, grazie all’aver ricevuto una educazione bilingue o plurilingue, non determina au-tomaticamente un adattamento positivo ed un successo scolastico. In alcuni casi i bambini che già parlano la lingua del paese ospitante, per il fatto che uno dei genitori proviene da quella realtà ed ha quindi insegnato ai figli la lingua del nuovo contesto, hanno comunque difficoltà ad inserirsi nel grup-po dei pari ed a comprendere le prassi, in gran parte implicite, che la vita e il sistema scolastico ed educativo richiedono. In questo caso si presenta il

13 G. Favaro, A piccoli passi. Osservare le dinamiche dell’integrazione a scuola, in G.

Favaro, L. Luatti (a cura di), L’intercultura dalla A alla Z, Milano, Franco Angeli, 2004, p. 101.

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paradosso che gli insegnanti, convinti che il bambino capisca ciò che loro dicono perché esiste una comprensione linguistica, non considerano che il bambino non riconoscendo le pratiche culturali e i significati impliciti attri-buiti dagli insegnanti, possa entrare in difficoltà e sentirsi disorientato. La conoscenza della lingua del luogo non dà garanzie sulla condizione di be-nessere dei bambini nella scuola o in qualsiasi altro luogo a loro non fami-liare. La conoscenza della lingua, soprattutto se insegnata all’interno del contesto familiare, come espressione calda di affetti, sentimenti emozioni e condivisioni, ha bisogno di tempo per maturarsi come esperienza di educa-zione formale. Può quindi succedere che i bambini che arrivano nella realtà scolastica, per loro completamente nuova, si trovino almeno come primo impatto, fortemente disorientati dalla richiesta di incarichi, anche semplici, che tuttavia richiedono una conoscenza e comprensione delle modalità cul-turali di riferimento. È sempre necessario accompagnare anche questi casi da specifici interventi di mediazione per favorire l’acquisizione di strumenti utili per comprendere cosa va oltre le parole ed è componente fondamentale del sistema sociale. Per i bambini bilingue o plurilingue si apre un nuovo mondo e l’impatto con questo mette a dura prova il bambino stesso che de-ve non solo essere sostenuto, accompagnato e orientato, ma dede-ve anche fare ricorso a tutte le sue risorse e potenzialità per comprendere ed individuare come relazionarsi con i pari e con gli adulti. Sono momenti molto delicati che possono generare nei bambini, a causa delle difficoltà relazionali e di reciproca comprensione, una percezione di sé negativa, non adatta e non competente di fronte alla nuova situazione. Sono momenti in cui può essere messa in gioco l’autostima, il senso di competenza o la stessa motivazione ad apprendere.

Ogni bambino utilizza le proprie risorse e le proprie potenzialità, i pro-pri sapere pregressi e abilità comunicative; talvolta i bambini e i ragazzi de-siderano, consapevoli delle differenze con le quali sono visti, far uso di queste e utilizzarle in modo positivo. Altri non hanno alcun piacere a sentir-si diversentir-si e amano essere consentir-siderati uguali agli altri ed annullare tutte le differenze. Dinamiche diverse che vengono vissute dai bambini e dai ra-gazzi, anche per l’esperienza familiare che vivono, in modo completamente personale. È possibile notare il modo differente con cui i fratelli si rappor-tano allo stesso contesto educativo.

Allo scopo di essere coerenti con un modello di educazione intercultura-le partecipata, capace di costruire differenti pratiche di alintercultura-leanze e di condi-visione degli obiettivi di benessere sociale e ambientale tra le persone, è necessario coinvolgere tutti gli interessati ai processi di cambiamento e mi-glioramento del contesto. Ogni membro della comunità coinvolta nel pro-cesso deve partecipare attivamente e in modo trasparente, senza che venga

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attuata alcuna forma di discriminazione. La partecipazione è essenziale in ogni fase del processo che l’organizzazione scolastica o educativa intende intraprendere. Si tratta quindi di seguire in modo partecipato i processi di analisi dei problemi, di progettazione degli interventi, di accompagnamento alla realizzazione delle fasi, di implementazione e valutazione. L’esperienza diventa la costruzione di una comunità inclusiva dove ogni persona parteci-pa indipendentemente dall’etnia, dall’età, dall’orientamento sessuale, dall’appartenenza religiosa o dalle condizioni fisiche. Per sostenere i lega-mi tra scuola, falega-miglia e comunità, non è quindi sufficiente creare solo de-gli spazi o dei tempi specifici dove potersi incontrare, è soprattutto necessa-rio adottare metodi di partecipazione e di inclusione che garantiscano a tutti di trovare spazi di ascolto, di comunicazione e di reciproco riconoscimento in grado di trasformare i problemi in progettualità condivise per la crescita dei saperi, della cultura e del benessere della comunità stessa.

1.1. Dall’integrazione all’inclusione

Per quanto ampiamente importanti e significative possano essere le pra-tiche dell’integrazione e i modelli a cui queste si riferiscono, è necessario porsi alcune domande: a quale scopo è pensata l’integrazione e quali sono i suoi obiettivi finali? L’integrazione è un processo continuo o limitato nel tempo?

La prima domanda può trovare una risposta negli aspetti che sono propri della società di riferimento di cui il sistema educativo ne è parte. Il modello di integrazione, per quanto carico di pratiche e di aspettative differenti da contesto a contesto, si collega al bisogno di rendere un po’ meno diversi immigrati. In pratica viene considerato che la diversità riconosciuta nei bambini stranieri può essere superata, o forse anche annullata, se il bambi-no straniero supera le difficoltà e gli ostacoli presenti nel nuovo contesto e diventa simile ai bambini autoctoni che vengono rappresentati come una unità separata ed indifferenziata. Per altri aspetti, l’integrazione parte dal considerare i bambini stranieri coloro che in qualche modo sono fuori dalla norma, intesa, quest’ultima, come una serie di pratiche, di condotte, di comportamenti accettati e condivisi implicitamente ed esplicitamente dal senso comune e nei contesti formali. Pertanto l’integrazione può permettere a coloro che la rappresentazione sociale pone fuori dalla norma e quindi emarginati perché lontani dal centro di trovare la strada per ritornare o arri-vare centro. Il riferimento a questo modello di integrazione, benché sia an-cora presente come pratica sociale, viene gradualmente superato da inter-venti che spostano l’attenzione dal recupero dei bambini stranieri e dei

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bambini immigrati considerati come bambini-problema ad un approccio che vede il coinvolgimento di tutta la classe e che mette a fuoco gli aspetti relazionali della classe.

In molti casi, tuttavia, nonostante sia presente la consapevolezza di quali problemi, conflitti, lacerazioni, ostacoli, paure e dilemmi i bambini affron-tano durante il processo migratorio, permane in alcuni contesti, il bisogno di garantire il mantenimento di una situazione di controllo e di equilibrio all’interno della classe. Le riflessioni sugli aspetti dell’integrazione a scuo-la, analizzati e ben presentati soprattutto attraverso il contributo della Fava-ro14, hanno sicuramente e concretamente aperto la riflessione sulla

delica-tezza delle questioni che queste pratiche richiedono e sulla necessità di at-tuare continui processi di decentramento cognitivo ed emotivo, oltre che percettivo e valoriale, per offrire ambienti accoglienti ai bambini e alle loro famiglie.

Benché questi riferimenti e attenzioni siano assolutamente raccomanda-bili e utilizzaraccomanda-bili come prassi necessarie, molto spesso l’integrazione rischia di rimanere obiettivo di una scuola che pensa a questa come necessaria al mantenimento dell’ordine e della normalizzazione scolastica. Richieste esterne, in primo luogo quella dei genitori dei bambini che hanno in classe bambini stranieri, le prove standardizzate che le scuole sottopongono a tutti i bambini, i ritmi e le modalità di apprendimento che si riferiscono ad uno specifico modello di educazione rivolta al pensare e poco al fare, caratteri-stico della scuola italiana, fanno pensare che alla fine chi può beneficiare dell’integrazione è soprattutto l’istituzione.

Riguardo agli obiettivi dell’integrazione la Favaro15individua alcuni

in-dicatori considerati basilari per monitorare l’apprendimento, le interazioni e le identità personali. Questi possono essere: l’inserimento e l’andamento del percorso scolastico, l’acquisizione in progress delle competenze della lingua italiana, la qualità delle relazioni in classe, gli ambienti, il tempo e gli spazi dell’extrascuola, il mantenimento all’uso e al riferimento alla lin-gua materna e infine, la continua attenzione agli aspetti motivazionali e di autostima.

L’integrazione è quindi uno scenario in trasformazione e tutti coloro che ne fanno parte e vi partecipano, sono portati ad agire insieme, mettendo in sintonia la stessa intensità di bisogni, aspettative e desideri, anche se con contenuti differenti, per il raggiungimento di obiettivi condivisi di benesse-re e sviluppo. L’integrazione deve coinvolgebenesse-re tutti i partecipanti al cam-biamento aprendo gli spazi per stare dentro il confronto, lo scambio, la

sco-14 Cfr. G. Favaro, L. Luatti, op. cit. 15 Ivi, p. 99.

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perta, la sorpresa e la reciproca conoscenza. Ma sta anche nella possibilità di sviluppare e migliorare le pratiche e le competenze cognitive ed emotive come rappresentazione della realtà flessibile e migrante16 e come

consape-vole conoscenza e uso delle proprie competenze per la trasformazione di questa.

Che percezione hanno i bambini delle loro potenzialità di trasformazio-ne della realtà, degli strumenti che già posseggono per natura e di quelli che possono costruire giorno per giorno scoprendo se stessi e nella relazione con gli altri? Quanto si rapportano integrazione e trasformazione? È impor-tante che sia fatta chiarezza riguardo ai processi e agli obiettivi posti per facilitare ed assicurare uguali opportunità ai bambini che vengono da lonta-no, a quelli che richiedono speciali attenzioni, a quelli che hanno fatto espe-rienza di vita in contesti di svantaggio culturale e sociale. Il processo di in-tegrazione non può essere considerato uguale per tutti. Ogni esperienza di relazione educativa è una nuova emozionante, creativa e irripetibile avven-tura nel mondo degli apprendimenti. Tutti i bambini e le bambine devono essere accolti dando spazio ai loro bisogni, aspettative e risorse in modo che possa essere vissuta un’ integrazione calda. Un’integrazione capace di collegare tra loro espressioni e contatti di piacere, curiosità, affetti e passio-ni per tutto ciò che già è conosciuto e di nuovo viene appreso.

A questo punto è necessario fare un salto ed andare oltre l’integrazione per entrare nella prospettiva dell’ inclusione. L’inclusione guarda con una prospettiva più ampia al processo di relazione scolastica, educativa e forma-tiva. Il principio che tutti i bambini hanno uguali diritti e devono avere uguali opportunità dentro ogni ambiente educativo, si integra con l’obiettivo di la-vorare anche per la trasformazione delle condizioni e delle soluzioni educati-ve al fine di poter andare educati-verso un miglioramento della qualità delle relazioni e una sostenibilità degli apprendimenti. Diventa quindi fondamentale indivi-duare le modalità migliori per coinvolgere i saperi di tutte le culture che en-trano nelle dinamiche dei contesti educativi. I differenti saperi culturali sono portatori di pratiche educative, di politiche e organizzazioni scolastiche, da quelle burocratiche a quelle delle norme che regolamentano le relazioni tra scuola e mondo esterno, di esperienze di incontro, scambio e dubbi, di rap-presentazioni del sapere e del suo uso in modo vario e articolato.

Con l’educazione inclusiva è possibile riportare l’attenzione sul fatto che ogni bambino in situazione di apprendimento è un soggetto modificabi-le, ma che il miglioramento delle capacità e competenze di apprendimento è dipendente dalla qualità della relazione educativa proposta. In linea con questo orientamento devono essere garantiti i metodi e le didattiche, così

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come le tecniche e gli strumenti che favoriscano l’ inclusione di tutti bam-bini. Fuori campo devono essere posti quelli che privilegiano il personali-smo, l’esibizionipersonali-smo, l’antagonismo e la competizione escludente.

Un approccio di educazione inclusiva non si crea sui sentimenti di ansia e di preoccupazioni che spesso disorientano e rendono difficili le relazioni. Esso si costruisce invece sulle domande che aprono alla relazione del tipo: con quali metodi e con quali strumenti è possibile facilitare la partecipazio-ne di tutti alla vita scolastica che stanno vivendo? Com’è possibile ricono-scere e rendere reciproco il riconoscimento delle risorse e delle potenzialità dei bambini che sono coinvolti nel gruppo classe? Com’è possibile conside-rare la specificità di ogni bambino e creare gruppi cooperativi capaci di fa-vorire l’apprendimento di competenze sociali sollecitando la motivazione ad apprendere? Come può essere compreso dai bambini il lavoro educativo svolto dagli adulti?

In primo luogo è necessario individuare quali sono le barriere che limi-tano o impediscono la partecipazione e l’apprendimento individuale e quel-lo cooperativo e quali sono i bambini o i ragazzi che per vari motivi hanno difficoltà a vivere queste esperienze di apprendimento. Quale natura hanno gli ostacoli e come è possibile dare ai bambini gli strumenti per costruire le strategie utili a superarli.

Non è necessario pensare agli ostacoli solo in senso negativo o limitan-te. Essi, è ben saputo, devono essere valutati ed utilizzati attentamente dagli insegnanti e dagli educatori con un approccio risolutivo piuttosto che limi-tativo. La loro presenza può essere dovuta a molti fattori e cause, che si presentano separatamente o singolarmente, in modo momentaneo o perma-nente. Essi possono derivare da fattori esogeni, che dipendono dalla rela-zione con l’ambiente di vita e altri che possono essere definiti come endo-geni, ma entrambi ‹‹possono determinare soglie di stimolazione e di reazio-ne diverse, diversi livelli di sensibilità agli stimoli e via dicendo. Questo è per esempio il caso di molti bambini tranquilli e apatici, con i quali è neces-saria una stimolazione di intensità, frequenza ampiezza elevate per rag-giungere la loro soglia di recettività››17.

I disturbi emotivi che possono derivare da rapporti problematici con i genitori o con i contesti affettivi primari di riferimento, sono, molto spesso, responsabili delle barriere che si frappongono tra il bambino e l’ambiente.

17 R. Feuerstein, R. Feuerstein, Y. Rand, L. Falik, Il Programma di Arricchimento

Stru-mentale di Feuerstein. Fondamenti teorici e applicazione pratiche, Trento, Erikson, 2008,

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