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Cfr W B Gudykunst, Theorizing about intercultural communication, London, Sage

Publication, 2005.

crazia, dei diritti umani, della nonviolenza del diritto e della ricchezza che è propria di ogni essere umano. L’educazione non può fare a meno di rifarsi ad un collegamento stretto tra la dimensione etica, i valori e le pratiche che pongono in azione le condizioni per la realizzazione del benessere di tutti, come appartenenti alla stessa realtà planetaria e cosmica.

Il dialogo è volto a fare capire le differenti visioni del mondo, le abitu- dini e i rapporti con la natura, la cultura dell’agire come pratica quotidiana. Oggi che il modello della globalizzazione economica impera e schiaccia sia le diversità che le possibilità di azioni autonome e sostenibili, non è più possibile tacere ed ascoltare un’unica voce. Le tecnologie abituano ad una sola lingua, l’assenza di spessore e di profondità della rete, atrofizza le menti lasciandole agire soprattutto nel tempo del qui e ora.

Il dialogo interculturale ci porta invece sul piano della scambio della re- lazione possibile con la diversità, ma di quella diversità che è percepita co- me vicina, come espressione di una ricchezza comunitaria, che stando con gli altri è possibile respirare e vivere. «Concepire il pianeta come una gran- de comunità e come un bene comune inalienabile a tutte le forme di vita che lo popolano significa porre in correlazione il particolare e l’universale, le diversità specifiche e gli aspetti comuni, le dimensioni del locale e del globale, richiamandosi a quella che in India viene descritta coma vasudhai-

va kutumbkham, la «famiglia terrestre, l’insieme di tutti gli esseri viventi

che traggono sostentamento dal nostro pianeta»52.

La capacità di dialogare con l’altro ma nello stesso tempo di riconoscer- ci tutti appartenenti alla stessa comunità planetaria, è possibile se formiamo il pensare e il sentire dentro le trame della complessità e della relazione. Per tornare al pensiero di Morin, c’è bisogno di una riforma del pensiero, che possa permettere a tutti i cittadini di poter cogliere il contributo e il signifi- cato delle scienze che sempre più interessano gli aspetti del vivere quoti- diano e ne caratterizzano anche gli aspetti politici della quotidianità. Per avviare un nuovo modo di dialogare con le diversità e organizzare in modo etico e relazionale le conoscenze, «c’è bisogno di una struttura di pensiero, che è il pensiero complesso, non fosse altro come pensiero sistemico per rilegare insieme gli elementi che fanno parte di uno stesso sistema»53.

Il tema dell’educazione alla complessità e al pensiero complesso oltre- passa la dimensione del solo sapere e del solo conoscere. Esso guarda al fu- turo ponendosi la domanda del «destino comune». In questo contesto che è necessario oggi ripensare la democrazia, sganciarla dalla sola dimensione della partecipazione e della cittadinanza attiva. L’impegno sociale, politico,

52 V. Shiva, Il bene comune della terra, Milano, Feltrinelli editore, 2006, p. 7.

53 E. Morin, Educare gli educatori. Una riforma del pensiero per la Democrazia cogni-

scientifico, in altre parole umano, è per Morin, la formazione di una demo- crazia cognitiva, che faccia percepire alla stessa umanità, di essere una co- munità di destino54.

Non creare le condizioni per la costruzione e lo sviluppo del dialogo, come privare le persone e i gruppi di questa preziosa risorsa, creando sepa- razioni, emarginazioni, esclusioni e paure su diversità gestite al negativo, significa non difendere le persone, quando privarle di preziose possibilità di scambio, di crescita e di sviluppo. La negazione del dialogo fatta da coloro che paventano la difesa delle proprie radici culturali, è una mancanza di ri- spetto dei diritti umani. Negare il dialogo e l’incontro significa negare la formazione dell’identità planetaria. Il dialogo interculturale è lo strumento per il rispetto e la salvaguardia dell’ecologia, per la formazione di una co- scienza ecologica perché questa è oggi la questione planetaria55.

Ogni esperienza di dialogo che sia con gli altri o con il mondo naturale o con il mondo materiale della cultura, richiede un forte impegno ed un chia- ro percorso formativo per essere realizzato. Considerare il dialogo come una pratica di scambio, di ascolto, di cambiamento e trasformazione, per- mette di vedere le tante simbologie presenti nelle relazioni umane conte- stualizzate. L’aspetto affascinante e anche paradossale del dialogo è che es- so, se veramente autentico porta sì all’incontro, attraverso la possibilità di stare in ascolto e l’apertura nell’accogliere i messaggi che a più livelli le persone si scambiano, ma non implica mai una richiesta di cambiamento come adeguamento. Il cambiamento e la trasformazione avvengono dentro i saperi e le rappresentazioni delle persone che attraverso questa forma di comunicazione si mettono a disposizione di nuove costruzioni di conoscen- za. Il piacere del dialogo sta anche nella capacità di cogliere la percezione della trasformazione che si attiva e nell’incontro di possibili e diversi mon- di. Mondi tutti possibili, come possibili sono i futuri che possono essere creati e compresi nel dialogo e nella condivisione. Per la sua potenzialità di creare forme di relazioni, autentiche o meno, il dialogo è azione, movimen- to, capacità di saper stare con se stessi e con gli altri.

Il dialogo può aprire oltre alla condivisione degli altri e con gli altri, alla complessità delle situazioni in cui il nostro come l’altrui dialogo si situano, la natura degli oggetti simbolici e reali che stanno per incontrarsi, la possi- bilità o la difficoltà che viene sperimentata di potersi mettere in relazione e in sintonia con l’Altro e con gli Altri. Mondi paralleli, con percorsi e storie di vita ricchi di esperienze e significati che nel momento dell’incontro si possono presentare capaci di evolversi allontanandosi dalla rigidità del pro-

54 Cfr. E. Morin, C. Pasqualini, Io, Edgar Morin. Una storia di vita, Milano, FrancoAn-

geli, 2007.

prio punto di vista del modello etnocentrico del quale molti anche in modo inconsapevole si avvalgono. Stereotipi e pregiudizi sono dentro i compor- tamenti, le relazioni, i linguaggi, il pensare ed il sentire. Nessuno ne è im- mune, le culture alimentano anche le rappresentazioni parziali delle realtà, con miti leggende ed immaginari che spesso bloccano le menti dentro un sapere che vuole essere sicuro e chiuso. Sapere che ogni essere umano può essere bloccato in questa prospettiva può rendere comprensibile che l’orizzonte che è davanti a ciascuno rischia di essere un orizzonte ristretto. Quale racconto, come il mito della caverna, può spiegare meglio la perce- zione della prospettiva limitata, costretta e bloccata. Miti e leggende che passano attraverso la storia i simboli, le credenze e le usanze. Il dialogo in- terculturale ha come condizione di partenza la rinuncia all’etnocentrismo

occidentale, che è parte integrante della nostra storia e del nostro sistema

educativo. Basta pensare al modo in cui le società altre sono presentate nei testi scolastici, al modo con cui vengono sistematicamente occultati gli aspetti oppressivi delle guerre, delle rivoluzioni e delle imprese coloniali. Trovare nel dialogo il livello della relazione simmetrica senza essere colti dal bisogno di pensare di avere riferimenti moralmente, culturalmente o in- tellettualmente superiori significa cogliere anche la possibilità di decentrar- si, di uscire dal proprio ego per guardarsi da fuori, osservando i significati dei messaggi che nel dialogo vengono pensati ed agiti.

Il dialogo è fondamentale per garantire, sostenere diversità circolanti, ma proprio per poterne avere i benefici è necessario anche ampliare i campi di implicazione investendo per esempio in progettualità politiche e sociali e dare respiro alla possibilità di favorire incontri complessi e non standardiz- zati da modelli interpretativi culturali stereotipati. La diversità culturale, senza assumere con questo riferimento, la categoria che utilizza il paradig- ma della diversità feconda delle culture, che spesso delimita le appartenen- ze culturali dentro i confini degli stati nazionali, ma piuttosto quella della diversità culturale come un risultato di costanti processi di cambiamento e di scambio tra i popoli, idee e creatività56, si arricchisce quindi nella possi-

bilità del dialogo e del confronto di buoni strumenti per esercitarsi e sco- prirsi come un percorso in cambiamento, trasformazione, o come direbbe Morin, di metamorfosi57. Il tema appare ancora di più interesse all’interno

delle complessità, degli incontri, delle esperienze virtuali, dei bisogni locali che circolano e cercano risposte nei tempi delle crisi globali. Il rapporto con il globale non permette e non facilita, per quanto possano sembrare più fa- cili i contatti, grazie alla tecnologia sempre più avanzata, costruttivi dialo-

56 UNESCO, A new cultural policy agenda for development and mutual understanding,

Paris, UNESCO, 2011.

ghi interculturali. La globalizzazione tende infatti a concentrare e modelliz- zare sotto categorie standard ciò che caratterizza le appartenenze. Niente si distingue dentro il processo di omologazione e quindi il contatto, più che essere un primo strumento di dialogo, diventa quello che introduce alla fa- cile omologazione. Un contesto dove le espressioni di identità culturali so- no talvolta fonti di frammentazione frustrazione e etnocentrismo. Da qui l’alimentazione di comportamenti xenofobi che escludono, di razzismi che stigmatizzano ed opprimono, di emarginazione di minoranze e di sfrutta- mento di chi è considerato debole e oggetto di potere. Situazioni difficili che producono insicurezza collettiva, indebolimento delle forme di garanzia sociale e legislativa, minando il sistema di costruzione di fiducia per la condivisione e la cooperazione

Dentro questo processo c’è il rischio di perdere innovazione e creatività, capacità di sentire empaticamente e di creare processi e forme di solidarie- tà. Sono gli esseri umani che nella loro specificità e originalità creano cul- tura, non sono le culture che definiscono i gruppi in modo univoco monoli- tico. Espressioni umane diverse si incontrano in modo originale grazie alle appartenenze nelle quali possono identificarsi, ma che non li limitano nella scelta e nella possibilità di scambio e crescita innovativa. Nel dialogo sta quindi la volontà e il desiderio di trovare delle connessioni, delle sintonie, delle condivisioni che non sono mai il tutto dell’incontro, non rappresenta- no la totalità disponibile delle risorse delle persone, ma sono punti luce di energie e forze talvolta anche irripetibili.

Il dialogo interculturale, come in parte anche quello religioso, sembra riprendere per certi aspetti il lavoro che il cervello umano compie quando fa circolare un’informazione e quando questa entra nel circuito della mente: attiva sinapsi di collegamento e di scambio. Sinapsi che permettono tipolo- gie differenti di informazioni e collegamenti grazie alle innumerevoli con- nessioni attivabili. Come l’esperienza del dialogo trova il suo miglioramen- to nella possibilità di sperimentare e esercitare le competenze e gli strumen- ti cognitivi, emotivi e comunicativi, così anche le comunicazioni i contatti e le connessioni del cervello umano richiedono interventi educativi di qualità per potersi sviluppare e diramare aprendo nuovi circuiti. Pur essendo questo un focus che compete ad altri settori scientifici, interessa solo considerare che un certo modello di studio del funzionamento del cervello, può essere considerato di riferimento ad una prassi che umana è ma, a differenza del cervello che si muove per leggi naturali, il dialogo è una importante costru- zione di competenze culturali.

Secondo alcuni modelli alla base di ogni possibilità di dialogo sta la promozione di una continua riflessività interiore e la capacità di esprimere

tale riflessione esplorativa attraverso la capacità di essere conviviali58, in-

sieme ad una predisposizione al cambiamento dei punti di riferimento e del- le pratiche di convivenza tramandate e non più capaci di sostenere la com- plessità delle relazioni umane. Per incoraggiare la riflessività interiore è ne- cessario progettare processi educativi e formativi transdisciplinari, capaci di allargare le prospettive di analisi dei problemi e delle questioni utilizzando non solo le risorse disciplinari, ma i metodi di analisi e di ricerca che le di- scipline utilizzano. La prospettiva del dialogo è quindi sostenuta da molte- plici fattori che ancora prima di essere utilizzati nella relazione con gli altri devono diventare esperienza interiore di dialogo, ricerca ed esercizio conti- nuo. Il dialogo non è una relazione che si improvvisa o si realizza perché ci sono dei contenuti da comunicare. Il dialogo richiede anche esercizi di de- centramento cognitivo, emotivo, spirituale e fisico. È necessario acquisire l’abitudine ad essere proattivi piuttosto che reattivi, per poter cogliere con attenzione e disponibilità, ciò che una reazione immediata taglia fuori dalla comunicazione e dallo scambio. Essere reattivi significa essere passivi, funzionare da effetto piuttosto che da causa-motore di scelte personali; si- gnifica non scegliere liberamente e non fare uso del libero arbitrio, ma ri- manere condizionati per l’incapacità di saper gestire la propria emotività ed impulsività. La reazione impedisce che il dialogo possa accedere a livelli più alti dove ciò che viene dato nella reciprocità della situazione, non è se- guito da qualcosa che viene ricevuto, ma dalla condivisione. La condivisio- ne può essere attiva e positiva non perché coloro che partecipano al dialogo hanno cambiato le proprie idee e convinzioni, ma perché percepisco l’apertura interiore, la sensazione di benessere, di disponibilità all’ascolto e all’accoglienza che l’esperienza dà. La riflessività interiore si muove sia sul piano degli esercizi di decentramento attivati dal pensiero flessibile e com- plesso, che su quello del continuo rapporto tra dialogo con se stessi e con gli altri. Per quanto possa sembrare che queste pratiche siano semplici e fa- cili da realizzare, in realtà ognuno dei passaggi menzionati richiede molta volontà, autocontrollo e capacità di resistenza. Stare e so-stare nella diver- sità apre alla ricerca interiore delle strategie e risorse possedute ed utilizzate per l’incontro.

Come la riflessione interiore anche la competenza di convivialità può essere acquisita grazie ad un percorso formativo che fornisca i metodi e gli strumenti capaci di incoraggiare e alimentare queste azioni. La convivialità non richiede che nelle relazioni interpersonali, per andare d’accordo con una persona o con un gruppo, sia necessaria l’accettazione completa della

58 UNESCO, A new cultural policy agenda for development and mutual understand-

loro visione del mondo. Se questo dovesse avvenire, dovremmo parlare di un fondamentalismo culturale che vuole riportare i modi di essere, le cre- denze, il sentire, il pensare e l’agire, ad un’unica visione del mondo.

Infine anche la disponibilità al cambiamento all’apertura dei propri oriz- zonti richiede volontà e un forte impegno di adattamento creativo che non si accontenta di ciò che viene passato attraverso le strutture non formali del sapere. L’adattamento creativo viene in realtà sempre più minacciato dalla tecnologia digitale e dalla saturazione che i mass media fanno della vita quotidiana. Questa crescita esponenziale delle conoscenze apparenti e su- perficiali, contrassegnata anche dai flussi della globalizzazione, non porta al cambiamento vissuto scelto e agito. Forme di comunicazione che posso- no generare situazioni di passività e dipendenza, di restringimento e irrigi- dimento di prospettiva e di analisi critica e assunzioni di modelli sociali semplici, ma di facile comprensione, per appartenere a gruppi gerarchica- mente e violentemente organizzati.

L’adattamento creativo è quindi una competenza culturale che fa propria la capacità di aprire esperienze di dialogo, incontro e trasformazione a più livelli e su più campi59.

Questo porta a riflettere sulla necessità di creare nuovi approcci per il dialogo interculturale, approcci che vanno oltre i limiti del dialogo tra i pa- radigmi delle civilizzazioni.

3. Pratiche interculturali e esperienze di progettazione