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1. Il dialogo interreligioso fuori del religioso

1.1 Il dialogo interreligioso nelle strategie europee

Anche il contesto europeo ha condiviso le politiche e le strategie del dia- logo ritenendo opportuno e significativo promuovere studi, ricerche e dibat- titi oltre che principi programmatici che tuttavia devono trovare delle con- crete strade di applicazione. La controversia sui riferimenti religiosi, può essere importante ricordarlo, era stato un focus importante nel dibattito che doveva dare avvio al trattato costituzionale dell’Unione Europea. Il pro- blema nasceva dalla proposta di affermare la presenza di principi e di valori religiosi nel tessuto sociale e istituzionale europeo, e di collegare questo a delle comuni radici giudaico-cristiane10. Una questione che ha messo in

movimento sia le tradizioni religiose chiamate in causa, quella ebraica e quella cristiana, ma anche le voci del pluralismo e delle altre comunità di credenti che si sono viste negare il riconoscimento del contributo dato alla storia europea e alla sua crescita culturale, sociale ed economica. Un dibat- tito che sicuramente andava contro corrente rispetto ai processi di trasfor- mazione in atto nei vari Stati a seguito dei processi migratori e dell’incontro con altre esperienze di fede. La necessità di considerare la na- tura di tali radici sembra invece voler riaffermare una appartenenza comune che non riconosce con la presenza delle tradizioni religiosa di differente origine.11

10 Cfr. F. Arcelli (a cura di), Le radici giudaico-cristiane nella costituzione europea, So-

veria Mannelli (CZ), Rubbettino editore, 2004; G. Scibona , Il mondo delle idee. Dai greci

al nostro tempo. Le idee costruiscono il mondo e lo distruggono, Roma, Armando, 2010.

11 Il gruppo ebraico, ad esempio, ha rappresentato una presenza che non può essere cir-

coscritta al solo riferimento della tradizione religiosa. Essa ha avuto un percorso storico che risentiva di una serie di circostanze politiche economiche culturali sicuramente non riferibili alla sola dimensione religiosa. ‹‹Si può dire che nel corso dell’Ottocento e del Novecento, gli ebrei siano stati, almeno dal punto di vista geografico, una popolazione prevalentemente europea. Dal punto di vista culturale il problema è molto più complesso. Credo che sia me- glio affrontarlo partendo innanzi tutto da un dato oggettivo di semplice rilevazione: le lin-

Va notato come all’inizio del nuovo millennio, la complessità del feno- meno della convivenza tra più religioni avesse preso avvio nelle strategie dell’UNESCO e l’Europa, che ospita le sedi dell’UNESCO, rispondeva alle presenza della pluralità culturale e religiosa, con una prospettiva obsoleta e carica di pregiudizi. Il tema del dialogo tra le differenti tradizioni religiose, che lasciava comunque fuori tutto ciò che riguardasse la sfera della spiritua- lità non necessariamente legata ad un credo riconosciuto, è stato poi recu- perato in una Europa delle controversie con l’istituzione dell’Anno europeo

del dialogo interculturale12 facendo propria una prospettiva ampia del pro-

blema che chiamava a sé anche gli aspetti connessi alle diversità linguisti- che e religiose. A sostegno dell’impegno per la scoperta della ricchezza che l’Europa ha ereditato dalla storia riguardo a questo tema e di fronte alle questioni poste dalle guerre, non ultime quelle dei Balcani, dai processi mi- gratori, dalle forme di razzismo, antisemitismo e xenofobia, riproposte da alcuni gruppi contro la presenza delle persone immigrate, ma non solo, de- ve essere considerata la dichiarazione di Berlino sul dialogo interreligioso del marzo 2008. Una dichiarazione che risente della presenza dei leader delle comunità religiose chiamati a condividere il sostegno a iniziative co- muni per la diffusione e la sollecitazione del dialogo all’interno degli Stati membri dell’Unione.

La prospettiva con la quale viene visto il pluralismo religioso rimane, tuttavia ancora ristretta. Ancora una volta vengono coinvolti i soli leader delle comunità e nuovamente il dialogo viene limitato alle tre religioni monoteiste, affermando, riprendendo il riferimento alla costituzione euro- pea, che il cristianesimo, l’islam e l’ebraismo, in pratica le tre tradizioni di fede che appartengono al ceppo abramitico, le altre sembrano non en- trare nell’interesse della dichiarazione, sono parte della storia dell’Europa perché sono visibili attraverso i loro luoghi di culto distribuiti in tutto il continente13.

Luzzatto, Il posto degli ebrei,Torino, Giulio Einaudi Editore, 2003, p. 32.

12 Anno Europeo del Dialogo Interculturale2008, http://europa.eu/legislation_summaries/

culture/l29017_it.htm.

13 Berlin Declaration on Interreligious Dialogue, 5 March 2008,

http://www.rfp-europe.eu/index.cfm?id=216896 anche qui è possibile evidenziare un approccio limitato e poco aderente alla realtà quando nella dichiarazione viene affermato: Punto 1. Religion permeates Europe. Christianity, Islam and Judaism are part of European

history. Today other great religious traditions have also found a place in the continent. In every town or village in Europe there is at least one house of worship: a Church, a Mosque or a Synagogue. To ensure a prosperous and harmonious future for Europe, people of differ- ent faiths must live peacefully together. Un’ affermazione sicuramente poco attinente alla

realtà dei fatti perché, se solo viene considerata la parte ebraica, la presenza numericamente limitata, è da rintracciare nelle grandi città, non in tutti gli stati europei e comunque non equamente distribuiti sul territorio. Prendiamo il caso dell’Italia dove in gran parte del sud

Tuttavia la Dichiarazione sostiene inoltre14, che è attraverso il dialogo

interreligioso che ci si apre alla possibilità di vedere gli altri, come esseri umani con fedi diverse, con esperienze, bisogni e desideri che trovano ri- sposte interagendo tra tradizioni religiose e contesti sociali.

Da lungo tempo, le tradizioni religiose hanno creato separazione tra fe- deli e non fedeli, tra credenti e atei, tra coloro che appartenevano ad una tradizione e coloro che non ne facevano parte. Pratiche di esclusione che tutt’oggi rischiano di entrare implicitamente dentro le relazioni sociali e culturali delle collettività e di continuare a far percepire una sorta di ostilità e di intolleranza, di pregiudizio che porta a diffondere con facilità forme dii antisemitismo e di islamofobia15.

Stare nella diversità significa capire anche cosa nel profondo si muove, comprendere i sentimenti e le percezioni che i buoni discorsi e i migliori propositi in molti casi non riescono ad affrontare. Il dialogo è sentito come un impegno e una partecipazione di tutti. Valori e principi differenti devono incontrarsi per comprendere la ricchezza dei punti di vista con cui vengono affrontate questioni simili, ma ogni riferimento a ciò che viola i diritti delle persone, come il diritto alla vita, alla libertà di pensiero e di espressione e allo stato di diritto è nemico e oppositore del dialogo.

La Dichiarazione inserisce tra i suoi punti anche un veloce richiamo alla necessità di coinvolgere le donne e i giovani per le potenziali risorse di rin- novamento che possono dare al dialogo16.

C’è tuttavia la chiara consapevolezza che i rapporti tra tradizioni religio- se sono profondamente influenzati dalle dinamiche di potere e di controllo culturale e sociale dei territori. Differenti fattori entrano in azione nel crea- re squilibri e rapporti asimmetrici tra culture religiose differenti. Il sostegno politico e la legittimazione sociale si integrano, con il radicamento di una fede nella storia locale, o la forza economica o la capacità di coinvolgere un numero alto di persone. Non tutte le tradizioni religiose hanno quindi la stessa presenza o una garantita rappresentazione negli scenari del sociale. I processi avviati con il dialogo hanno lo scopo di porre in evidenza queste discordanze, non certo nasconderle nell’idea di una falsa accettazione, per poterle decostruire per ripartire con una prospettiva democratica e priva di privilegi, dove le conoscenze, i valori, le questioni e le interrogazioni pro-

della penisola e nelle isole non ci sono ebrei. Probabilmente questo non vale per la tradizio- ne cristiana che nelle sue varie forme riesce ad essere presente veramente in ogni città e in ogni paese. Ma così non è per le altre due religioni, e solamente a pensarlo ed affermarlo, rischia di offrire un contributo alla formazione dello stereotipo.

14 Berlin Declaration, Punto 2.

15 Cfr. M. Massari, Islamofobia. La paura dell’islam, Roma-Bari, Edizioni Laterza.

2006.

fonde trovano un comune spazio di espressione e ascolto. La Dichiarazione raccomanda quindi che, attraverso il dialogo possano essere affrontate le preoccupazioni comuni, anche quelle che trovano spesso un disaccordo tra la posizione delle differenti tradizioni religiose e gli sviluppi in campo scientifico e tecnologico, come quello della biologia, della medicina e delle comunicazioni17. Pur rimanendo legata a certe letture distaccate, che

sembrano confermare il modello gerarchico delle tradizioni chiamate a dialogare, la Dichiarazione sollecita la necessità di modificare i paradigmi relazionali che hanno per lungo caratterizzato i rapporti tra poteri e con- trolli diversi.

La Commissione Europea ha anche considerato prioritario per lo svilup- po del dialogo, promuovere progetti per adolescenti e giovani18. Il coinvol-

gimento di questi target è una strategia che sicuramente ha un forte impatto sulla formazione e sull’acquisizione di competenze per coloro che vorranno essere di futuri leader laici e democratici del dialogo interreligioso e inter- culturale. I giovani sono coinvolti dentro forme di partecipazione attiva a meeting che prevedono non solo la conoscenza reciproca delle differenti appartenenze, ma anche la sperimentazione delle azioni del partenariato, ma soprattutto la comprensione delle differenti forme in cui si esprimono comportamenti di intolleranza e di discriminazione contro le religioni. Se formati attraverso un percorso capace di dare competenze di comunicazione per favorire il coinvolgimento e la comunicazione, i leader hanno una fun- zione nell’esperienza del dialogo, ma non ne soddisfano tutti gli aspetti. È vero che i leader hanno un’influenza morale sulla comunità e possono an- che essere coloro che ricevono la fiducia e la delega da parte dei membri comunitari. Chi ha esperienza in questo campo deve essere consapevole del ruolo che assume anche in relazione a come viene nominato. All’interno delle comunità religiose i leader sono incaricati del loro ruolo con modalità diverse che possono variare da una scelta democratica operata direttamente dai membri della comunità oppure per volontà e decisione stabilita dall’alto. Va anche considerato che i leader, per alcune comunità, possono essere rappresentati dal ministro di culto ma anche, se è presente, dal rap- presentante laico della comunità, eletto tra i membri, anche se la comunità è religiosa. I leader possono favorire la riuscita dello sviluppo della reciproca conoscenza e cooperazione, se operano un modellamento dei valori sociali in quella direzione, d’altra parte possono invece aumentare o fomentare le ostilità sostenendo la propria superiorità di fronte alla giustizia e alla verità uniche. Proprio perché si presentano come arricchenti e competenti comu-

17 Punti 7-8 della Dichiarazione di Berlino.

18 European Commission, Pluralism and religious diversity, social cohesion and integra-

nicatori, i leader devono essere ben formati su come poter gestire il proprio ruolo promuovendo il dialogo come processo e come risorsa per lo svilup- po umano. Essi, se non vengono escluse altre forme di incontro, sono un importante canale di comunicazione per il cambiamento sociale e la tra- sformazione.

L’educazione dei giovani insegnanti educatori e formatori al pluralismo religioso e culturale, sostenuto da un percorso interdisciplinare e innovati- vo, deve essere considerato un prioritario investimento formativo19. Il dia-

logo interreligioso, può essere avvicinato alle questioni relative all’intercultura, tuttavia come è già stato visto, ha le sue peculiarità e questo richiede una specifica prospettiva di analisi, progettazione ed intervento se l’obiettivo non è solo quello della conoscenza reciproca, ma piuttosto quel- lo di decostruire forme di ignoranza che conducono, spesso, all’ intolleran- za e alla discriminazione.

Oltre al tema della tolleranza e della coesione sociale, è importante con- siderare come, e se, all’interno degli Stati, la religione entra nel curriculum scolastico e a quale livello. Il caso italiano è esplicativo della mancata ap- plicazione delle indicazioni europee, perché all’interno del sistema scolasti- co la presenza della religione cattolica non solo genera forme di discrimi- nazione e di non parità dei diritti, sia per gli insegnanti che per gli alunni, ma produce confusione intellettuale e culturale quando, nell’intento di voler cogliere i processi di trasformazione in atto nella società multiculturale, tenta spesso di dare una conoscenza anche delle altre tradizioni religiose20.

Esperienze come queste possono quindi scontrarsi con i buoni propositi e le raccomandazioni europee perdendo così delle importanti opportunità di formazioni delle nuove generazioni al dialogo. L’imposizione di una sola religione dentro il panorama scolastico, può quindi essere un elemento di conflitto e non certo di sostegno alla pluralità e alla diversità.

Dentro l’esperienza del dialogo è anche opportuno e importante coin- volgere le comunità, non tanto come entità unitarie e compatte, ma proprio per la complessità che esprimono e che dall’esterno non sembra esistere. Stare dentro le comunità e dialogare con loro significa anche entrare dentro le dinamiche dei comportamenti, delle abitudini dei riti e dei significati che

19 Per l’UNICEF il 2011 è stato The International Year of Youth Interfaith and Mutual

Understanding¸ questo ha significato coinvolgere praticamente giovani e comunità a svilup-

pare azioni di incontro, di analisi, e di progettualità a livello locale e internazionale. UNICEF, Partnering with Religious Communities for Children, NY, UNICEF, 2012, https://www.youtube.com/watch?v=ZkaUMrHAmxw.

20 Cfr. C. Betti, La religione a scuola tra obbligo e facoltatività, Firenze, Manzuoli,

1989; A. Mannucci, I protestanti e la religione a scuola, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1994; A. M. Piussi (a cura di), E li insegnerai ai tuoi figli. Educazione ebraica in Italia dalle

hanno accompagnato la partecipazione individuale e collettiva alla tradi- zione. Spesso questa dimensione dell’agire e del fare viene esclusa anche dalla visibilità dell’ esperienza educativa. La mancata abitudine all’esercizio del fare, implica il formarsi di una debole curiosità per l’esperienza concreta di vita che sostiene le differenti appartenenze religio- se. Ogni tradizione, non solo spirituale e religiosa, è accompagnata da comportamenti, gesti, riti, simboli che mettono in comunicazione le perso- ne con la tradizione stessa. Se il dialogo interreligioso non comprende que- ste dimensioni, non le fa emergere, anche se talvolta si scontrano con le evoluzioni e i cambiamenti sociali, non può avvenire un autentico incontro tra esperienze di vita differenti.

L’impegno dell’UNICEF si caratterizza per due livelli: quello dei pro- getti in favore del miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e del- le famiglie e quello più operativo che presenta gli strumenti educativi e le proposte di materiali didattici utili allo sviluppo delle modalità più attive e interessanti per coinvolgere i bambini e progettare percorsi di inclusione, partecipazione e consapevolezza dei diritti. Le due macroaree di intervento creano quindi contesti e situazione differenti, ma entrambe sono strettamen- te collegate ai principi posti dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in particolare agli articoli che trattano gli aspetti dello svi- luppo spirituale del bambino come un aspetto che si integra pienamente agli altri.

Nelle Convenzione il riferimento al diritto dei bambini e degli adole- scenti di beneficiare e di promuovere lo sviluppo spirituale, si accompagna e si accorda con lo sviluppo cognitivo, affettivo, in funzione del raggiungi- mento di un benessere che comprenda la dimensione morale sociale e fisi- ca. Nell’art. 14 della Convenzione viene indicato l’impegno che gli Stati membri e le comunità locali devono avere nei riguardi delle differenti cre- denze e appartenenze religiose dei bambini e degli adolescenti. Gli Stati devono altresì rispettare i diritti e i doveri dei genitori, o di chi li rappresen- ta legalmente, ad accompagnare e guidare la crescita del bambino operando con rispetto e con ogni risorsa disponibile, per uno sviluppo armonico e in- tegrato di tutte le potenzialità. In particolare deve essere garantito lo svi- luppo delle ‹‹sue capacità, la libertà di manifestare la propria religione o convinzioni [che] può essere soggetta unicamente alle limitazione prescritte dalla legge necessarie ai fini del mantenimento della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità e della moralità pubbliche, oppure delle libertà e diritti fondamentali dell’uomo››21.

21 Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 20 novembre 1989, UN, New

Un breve accenno allo sviluppo della dimensione spirituale viene solle- vato anche nell’art. 23 che considera prioritariamente gli aspetti di interesse per la progettazione educativa per i bambini con disabilità e nell’art. 27 nel quale viene sottolineata la garanzia del diritto ad avere una famiglia che tu- teli ed educhi il bambino secondo parametri di vita, al fine di garantire ogni suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale. Infine, l’ultimo richiamo che riguarda questo aspetto è per l’art. 32, dove è sottolineata la necessità di proteggere il bambini contro gli abusi, le violenze sessuali e gli sfruttamenti lavorativi allo scopo di salvaguardare il bambino e farlo cre- scere proteggendo la sua salute e lo sviluppo fisico, mentale spirituale, mo- rale e sociale.

L’UNICEF coglie i molteplici aspetti del dialogo mettendo in evidenza la differenza di interventi educativi tra bambini e adolescenti. La comples- sità e la multiculturalità diventano sempre più terreni di interesse di aspetti che riguardano l’esperienza spirituale piuttosto che quella necessariamente religiosa. Gli incontri con tradizioni diverse ha messo in evidenza che è possibile cogliere degli aspetti trasversali che stanno alla base delle creden- ze, ma che non necessariamente si devono identificare in nessuna di queste. È ancora difficile, in particolare sul piano educativo, comprendere e dialo- gare con i piani della spiritualità senza doverla necessariamente collegare a qualche fede. Rendere separate le due esperienze crea spazio anche per l’educazione alla pace: entrambe si incontrano sulla visione positiva e libe- ra dell’essere umano, sulla ricerca del bene comune e di positive forme di comportamento come esperienza di vita. Spiritualità quindi come esperien- za creativa capace di aiutare a sviluppare competenze importanti della men- te umana come l’immaginazione, la creatività e i sogni. Competenze che la cultura della guerra, presente nelle quotidiane esperienze del vivere sociale, vuole ricondurre alla violenza. Esperienze spirituali come esercizi spirituali per cogliere nel profondo il senso di unitarietà e appartenenza della specie umana. L’idea di avvicinare il bambino alla spiritualità, lo può aiutare a comprendere il mondo che lo circonda, ad interagire con questo imparando a rispettarlo. Il rispetto e la cura per l’ambiente possono essere considerati dei percorsi interessanti e ricchi di suggestioni per l’avvio di dialoghi tra religioni e tra queste e le culture. Quale rapporto c’è tra religione e natura o tra religioni, culture e natura; quali sono le indicazioni che le tradizioni danno per instaurare un buon rapporto con l’ambiente e con il mondo circo- stante, spazi di riflessione di interesse comune che facilitano la reciproca comprensione oltre che la crescita di nuovi saperi.

Benché vengano riconosciute alla spiritualità potenzialità significative per l’avvicinamento al dialogo ed alla convivenza pacifica, sono ancora le comunità religiose quelle che vengono considerate come i migliori alleati

per intervenire sulle condizioni di vita dei bambini e coinvolgere le popola- zioni più emarginate che vivono in condizioni di povertà e di esclusione soprattutto dai processi formativi. Le comunità di appartenenza sono spesso anche fonte di importanti informazioni su come rispettare le usanze e le consuetudini locali per sviluppare nuovi saperi rispetto reciproco e salva- guardia del benessere collettivo. Rappresenta sicuramente una sfida far in- contrare tradizioni delle comunità religiose con i programmi proposti a di- fesa della protezione dei bambini come quelli riguardanti la salute, l’istruzione, la nutrizione e la difesa dall’HIV/AIDS. Un impegno che non esclude la consapevolezza della difficoltà di tale rapporto dovuta spesso al- la presenza di pratiche associate a credenze religiose che danneggiano i bambini sia fisicamente che emotivamente. Pratiche che diventano ancora più nocive nei confronti delle bambine che vengono, in molti contesti, escluse fin da piccole ad ogni forma di partecipazione sociale e destinate a ruoli e compiti che non rispettano la crescita e lo sviluppo.

Il rapporto con le comunità locali risponde a una tradizione di lavoro sul