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Correlazione tra segni radiografici di prossimità del terzo molare con il nervo alveolare inferiore ed insorgenza di disturbi neurosensoriali nel post-operatorio: studio prospettico

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Indice

INTRODUZIONE 4 CAPITOLO 1 5 1.1. L’ inclusione dentaria 5 1.2. Eziopatogenesi 6 1.2.1. Fattori locali 6 1.2.2. Fattori sistemici 8

1.3. Fattori eziologici nell’ inclusione del terzo molare 9

1.3.1. Condizioni embriologiche 9

1.3.2. Condizioni anatomiche 9

1.4. Inclusione e disodontiasi 10

1.5. Quadri di disodontiasi 10

1.5.1. Pericoronite (o pericoronarite) 12

1.5.2. Danni parodontali ai denti adiacenti 16

1.5.3. Carie 17

1.5.4. Riassorbimento radicolare (o rizolisi) 17

1.5.5. Nevralgie 18

1.5.6. Osteiti e osteomieliti mandibolari 18

1.5.7. Cisti odontogene 18

1.5.8. Tumori 19

1.5.9. Frattura dell’ angolo mandibolare 19

1.5.10. Presenza dell’ elemento incluso nella rima di frattura 19

1.5.11. Affollamento dentario 19

CAPITOLO 2 21

2.1 Radiologia odontoiatrica 21

2.1. Fisica e tecnologia della radiologia 22

2.1.1. Cosa sono i raggi x 22

2.1.2. Come si producono i raggi x 22

2.1.3. Come si forma l’ immagine radiografica 24

2.1.4. Creazione dell’ immagine radiografica visibile 25

2.1.5. Rivelatori su pellicola 25

2.1.6. Rivelatori digitali 25

2.2. Ortopantomografia 26

2.2.1. Modalità di esecuzione della ortopantomografia 27

2.2.2. Limiti ed artefatti della ortopantomografia 28

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2.3. Tomografia computerizzata 30

2.3.1. Tc fan beam (spirale) 30

2.3.2. Tc cone beam 33

2.3.3. Gestione delle immagini 35

2.3.4. Differenze tra tc spirale e tc cone beam 36

2.4. Indicazioni alla radiologia tridimensionale 37

2.4.1. Classificazione di Pell e Gregory 38

2.4.2. Classificazione di Winter 40

2.4.3. Segni di Rood e Shehab 40

2.5. La legislazione 43

2.5.1. Dose e unità di misura 44

2.5.2. Radioprotezione 44

CAPITOLO 3 46

3.1. La chirurgia dei terzi molari inferiori 46

3.2. Diagnosi preoperatoria e valutazione del livello di difficoltà 46

3.2.1. Valutazione clinica 46

3.2.2. Valutazione radiografica 47

3.3. Strumentario 48

3.4. Anestesia 49

3.5. Lembi di accesso 51

3.6. Scollamento e divaricazione del lembo 53

3.7. Ostectomia 54

3.8. Odontotomia 55

3.9. Avulsione 57

3.10. Revisione dell’ alveolo postestrattivo 57

3.11. Sutura 58

3.12. Complicanze 58

3.12.1. Complicanze chirurgiche maggiori 59

3.12.2. Complicanze chirurgiche minori 62

3.13. Chirurgia piezoelettrica 63

3.13.1. Applicazione della strumentazione ultrasonica nell’ estrazione dei terzi molari 64

CAPITOLO 4 65

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3

4.2. Materiali e metodi 66

4.2.1. Valutazione del dolore 68

4.2.2. Valutazione del trisma 68

4.2.3. Valutazione dell’ edema 68

4.2.4. Valutazione della funzionalità del nervo alveolare inferiore 70

4.3. Analisi dei dati 70

4.4. Risultati 72

4.4.1. Caratteristiche del campione 72

4.4.2. Studio radiologico degli elementi dentari 72

4.4.3. Dati clinici 77

4.5. Discussione 82

4.6. Conclusioni 85

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Introduzione

L’estrazione del terzo molare mandibolare è una delle procedure più frequentemente effettuate dal chirurgo orale. Questa pratica può essere relativamente facile o estremamente impegnativa in relazione a numerose variabili legate all’ elemento da estrarre (localizzazione, morfologia della corona dentale e delle radici, profondità e tipo di inclusione). Se da una parte la estrazione dentaria può essere considerata un intervento odontoiatrico di routine, l’ estrazione di denti inclusi richiede una grande preparazione tecnica, un’ approfondita conoscenza dell’ anatomia ed una maturata esperienza chirurgica. Come per tutte le procedure chirurgiche risulta di assoluta importanza eseguire una corretta pianificazione dell’ intervento che consenta, da una parte, di ridurre al minimo il rischio di complicanze e, dall’ altra, di poter gestire queste ultime in modo corretto, sempre con il minor costo biologico per il paziente.

Il nervo alveolare inferiore, che decorre all’interno del canale mandibolare, è spesso vicino agli apici del terzo molare e, se l’elemento dentario è incluso, questa relazione è ancora più stretta. Talvolta, durante la rimozione chirurgica del terzo molare mandibolare, il nervo alveolare inferiore può essere danneggiato, portando ad una alterazione della sensibilità a livello del labbro inferiore. È fondamentale, pertanto, condurre un adeguato accertamento radiografico preoperatorio nel tentativo di identificare la prossimità del dente incluso con il canale mandibolare.

Lo scopo di questo studio è quello di raccogliere ed analizzare i dati clinici e radiografici dei pazienti candidati ad avulsione chirurgica del terzo molare al fine di valutare se il contatto tra dente incluso e canale mandibolare, suggerito da segni osservabili all’ ortopantomografia, è confermato dalla TC; un altro obiettivo è quello di valutare gli effetti del trattamento chirurgico sulla funzionalità del nervo alveolare inferiore, indagando quali dei suddetti segni radiografici siano più frequentemente associati a disturbi neurosensoriali nel post-operatorio.

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Capitolo 1

1.1. L’ inclusione dentaria

L’ eruzione degli elementi dentari permanenti è la fase finale di una complessa serie di eventi controllati geneticamente. Attraverso questi fenomeni, un germe dentale si sviluppa nel contesto dei mascellari migrando in direzione coronale ed erompe in arcata nella sua posizione funzionale secondo tempi e percorsi prestabiliti. Durante questo processo evolutivo possono però verificarsi numerosi eventi che interferiscono con la eruzione del dente determinandone l’ inclusione, che rappresenta un quadro clinico di frequente riscontro, specie per i terzi molari.

Gli studi epidemiologici dimostrano un’ incidenza media dell’ inclusione dentale pari al 20% nelle popolazioni sviluppate, con una leggera prevalenza per il sesso femminile (Frank, 2000). In ordine di frequenza le inclusioni coinvolgono: il terzo molare inferiore; il terzo molare superiore; il canino superiore; il premolare inferiore; il premolare superiore; il canino inferiore (Grover et al., 1985). A seconda del numero degli elementi dentari compresi nell’ inclusione, questa si può classificare in unica o multipla. L’ inclusione inoltre può essere parziale o totale a seconda che l’ elemento erompa o meno in parte all’ interno del cavo orale, come ad esempio una sola cuspide. L’ inclusione è totale quando il dente radiograficamente è interamente circondato da una capsula ossea ed in tal caso si parlerà di inclusione ossea. L’ inclusione totale potrebbe anche essere osteomucosa, cioè è sempre totale perché l’ elemento non appare clinicamente in arcata, ma è coperto occlusalmente da mucosa senza interposizione di tessuto osseo. Infine l’ inclusione può essere distinta in tipica e atipica. È tipica quando l’ elemento incluso rimane segregato nel contesto alveolare in cui dovrebbe trovarsi; è atipica, invece, quando l’ elemento è da tutt’ altra parte.

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1.2. Eziopatogenesi

L’ eruzione dentaria è di norma un processo fisiologico che avviene attraverso stadi odontogenetici predeterminati. Un ostacolo al processo eruttivo può condurre a malposizionamento, inclusione parziale o inclusione totale degli elementi dentari (Santoro et al., 1996). Sono note alcune noxae che concorrono alla mancata eruzione dentaria; in particolare si distinguono fattori locali e fattori sistemici.

1.2.1. Fattori locali

Tra i fattori locali rientrano:

Estrazione precoce di denti decidui: l’ avulsione precoce dei denti decidui (oltre due anni prima dell’ epoca fisiologica di eruzione del corrispondente dente permanente), oltre a contrarre gli spazi fisiologici per l’ eruzione del permanente, può determinare la formazione di un osso più denso sul tragitto eruttivo del permanente, provocandone l’ inclusione (Litsas, 2011).

Lesioni cariose a carico degli elementi decidui: le lesioni cariose che coinvolgono i decidui possono essere responsabili dell’ alterazione dei processi eruttivi dei permanenti poiché agiscono attraverso meccanismi diversi sull’ attacco parodontale degli stessi. Per di più, processi infiammatori a livello dell’ apice dei decidui possono indurre fenomeni di osteolisi o di osteogenesi periapicale tali da determinare l’ eruzione ectopica dei permanenti.

Malposizione primaria del germe dentale: il germe dentario talvolta può presentarsi

in una posizione tale da non consentire l’ eruzione lungo l’ asse corretto. In particolari situazioni, inoltre, il germe del dente permanente, pur essendo fisiologicamente orientato, non possiede una spinta eruttiva sufficiente a colmare la distanza che lo separa dall’ arcata dentaria (Annibali et al., 2007).

Ridotto spazio in arcata per una corretta eruzione: la mancanza di spazio in arcata

crea sempre problematiche nell’ eruzione dei denti permanenti; l’ inclusione è, infatti, spesso legata alla discrepanza tra lo spazio a disposizione (le dimensioni dei mascellari) e quello necessario ad accogliere i denti permanenti. Inoltre, nell’ evoluzione della specie umana si è assistito ad un aumento volumetrico del neurocranio, mentre contemporaneamente si è verificata una contrazione con

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arretramento e abbassamento dello splancnocranio che ha determinato un aumento della discrepanza tra la componente ossea e quella dentale. La diminuzione degli spazi dovuta alla contrazione sia del mascellare superiore sia della mandibola, spesso condiziona la possibilità degli elementi dentari che erompono per ultimi (terzi molari e canini) di trovare spazio sufficiente in arcata (Richardson,1974).

Presenza di un ostacolo lungo il tragitto eruttivo: la presenza di neoformazioni

odontogene o di elementi sovrannumerari può determinare un ostacolo all’ eruzione, favorendo l’ inclusione dentaria (Figura 1.1.).

Figura 1.1.

Area di radiotrasparenza associata ad elemento dentario 4.8 incluso

Anchilosi di un elemento deciduo: un dente deciduo anchilosato può condizionare

negativamente l’ evoluzione del corrispettivo permanente arrestandone il processo eruttivo e determinando, di conseguenza, l’ inclusione parziale o totale. Statisticamente i canini superiori e i molari sono gli elementi della serie decidua che più frequentemente vanno incontro a fenomeni di anchilosi. Il dente permanente, arrestato nel suo fisiologico processo eruttivo, può andare incontro a sua volta ad anchilosi e non allinearsi in arcata.

Alterazioni del follicolo dentale: il deficit funzionale del follicolo dentale, caratteristico dell’ amelogenesi imperfetta, è spesso associato ad inclusione dentale.

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Anche l’ associazione tra denti inclusi e cisti follicolari è nota; l’ elemento dentario più colpito da cisti follicolare è il terzo molare inferiore, seguito dal terzo molare superiore, dal canino superiore e dal secondo premolare inferiore.

1.2.2. Fattori sistemici

Tra i fattori sistemici, abbiamo:

Fattori genetici: i gemelli monozigoti mostrano una concordanza del 90% per le caratteristiche eruttive degli elementi dentari. Le malattie genetiche che coinvolgono il catabolismo osseo ed in particolare la funzionalità osteoclastica, quali l’ osteoporosi e la displasia cleido-cranica, sono caratterizzate da gravi ritardi e difetti nei processi eruttivi.

Fattori endocrini: l’ipotiroidismo, l’ipoparatiroidismo e l’ipopituitarismo inducono tutti un ritardo marcato nell’ eruzione dentaria.

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1.3. Fattori eziologici nell’ inclusione del terzo molare

In particolar modo, per quanto riguarda i terzi molari, è opinione diffusa in letteratura che l’ eziologia della loro inclusione sia legata all’ evoluzione filogenetica che si accompagna alla riduzione dello splancnocranio (Richardson, 1974; Ricketts, 1979). Quindi, nella eziopatogenesi dell’ inclusione dei terzi molari mandibolari possiamo distinguere condizioni embriologiche e condizioni anatomiche.

1.3.1. Condizioni embriologiche

Nel corso del terzo mese di vita fetale dalla lamina dentaria prendono origine gli abbozzi dei denti decidui (10 per arcata). Verso il quinto mese di vita fetale, sul lato linguale degli abbozzi dei denti decidui si forma la lamina dentaria di sostituzione, che verso la 17° settimana dà origine agli abbozzi dei denti permanenti di rimpiazzo (incisivi, canini, premolari). All’ estremità posteriore, verso il quinto mese, la lamina dentaria protende indietro con un prolungamento che dà origine a tre clave, dalle quali si sviluppano i molari permanenti. Ciò favorisce il posizionamento del germe del terzo molare inferiore obliquamente a livello dell’ angolo mandibolare. Durante la sua calcificazione, che inizia già verso gli 8 anni, lo sviluppo della mandibola sia anteriormente che inferiormente è responsabile di un ulteriore incurvamento del germe dell’ ottavo.

Per erompere, quindi, il terzo molare mandibolare deve compiere una curva di raddrizzamento con concavità postero superiore, detta curva di Cap de Pont, che ripete in direzione opposta quello che si è verificato durante l’ accrescimento mandibolare (Phillips & White, 2012).

1.3.2. Condizioni anatomiche

Tra le condizioni anatomiche viste precedentemente che rappresentano un ostacolo alla normale eruzione del terzo molare mandibolare, ci sono:

Spazio retromolare insufficiente: dovuto alla progressiva riduzione dello sviluppo

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10

Rapporti anatomici con strutture contigue: in particolar modo con il secondo

molare adiacente.

1.4. Inclusione e disodontiasi

Si definisce incluso un elemento dentario che permane inglobato a livello osseo od osteomucoso oltre il normale periodo di eruzione, privo di tendenza alla fisiologica migrazione in direzione verticale (Richardson et al., 2000). L’ inclusione in quanto tale non configura un quadro necessariamente patologico (nei quadri sindromici è uno stato parafisiologico), per cui l’ inclusione in assenza di evidenziabili lesioni focali e di sintomatologia associata non necessita di trattamento, considerato anche l’ impegno correlato all’intervento chirurgico ed il decorso post- operatorio (Song et al. 2000; Bahrami et al. 2004).

Per disodontiasi si intendono tutte quelle alterazioni patologiche determinate dalla difficoltà di eruzione e caratterizzate da una sintomatologia variabile sia in relazione a fattori anatomo-topografici che a fenomeni di tipo infettivo (Welch & Graves 1979; British Standards Institution 1983). È, quindi, quel quadro in cui l’ inclusione dà un’ alterazione patologica. Essa si presenta assai frequentemente, sia a causa di problematiche eruttive, che di posizione dell’ elemento dentario. Talvolta, anche in caso di orientamento corretto dell’ elemento, può svilupparsi ugualmente un processo infiammatorio come conseguenza di un ostacolo alle corrette manovre di igiene orale.

1.5. Quadri di disodontiasi

I quadri patologici con cui la disodontiasi può manifestarsi sono molteplici; essi comprendono: pericoronite (o pericoronarite), danni parodontali ai denti vicini, patologia cariosa, riassorbimento radicolare (o rizolisi) a carico dei denti vicini, nevralgie, osteiti ed osteomieliti mandibolari, cisti follicolari, tumori, fratture dell’ angolo mandibolare, presenza dell’ elemento incluso nella rima di frattura e affollamento dentario (Knutsson et al. 1996; Punwutikorn J. et al. 1999).

C’ è stato molto dibattito su quali di questi quadri rappresentino effettivamente una valida indicazione all’ estrazione dei terzi molari inclusi. Ad oggi è possibile distinguere

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situazioni in cui l’ avulsione chirurgica del terzo molare è controindicata, consigliata o fortemente raccomandata (Scottish Intercollegiate Guidelines 1999).

L’ avulsione del terzo molare è controindicata:

Nei pazienti in cui i terzi molari presentano un tragitto eruttivo favorevole ed hanno

un ruolo funzionale.

 Nei pazienti con una storia medica tale da rendere l’ intervento un rischio non accettabile e/o nelle situazioni in cui il rischio supera il beneficio.

Nei pazienti con terzi molari in inclusione profonda, in assenza di anamnesi o

evidenza di patologia correlata.

Nei pazienti in cui il rischio di complicanze chirurgiche è troppo elevato, come nel

caso del rischio di frattura mandibolare. L’ avulsione del terzo molare è consigliata:

Nei pazienti con anamnesi o evidenza di quadri infettivo-infiammatori rilevanti

associati al terzo molare.

Nei pazienti con condizioni mediche in cui è alto il rischio correlato al

mantenimento di foci infettivi (pazienti con necessità di sottoporsi a radioterapia o chemioterapia, pazienti con patologia valvolare o ad alto rischio di endocardite batterica, pazienti in attesa di trapianto) (Donoff 1992; AAOMS1994).

Nei pazienti destinati a procedure chirurgiche locali invasive, come ad esempio la

chirurgia ortognatica.

L’ avulsione del terzo molare è fortemente raccomandata:

Nei pazienti con anamnesi positiva per episodi acuti di pericoronite e formazione di

ascessi.

In pazienti affetti da patologia cariosa a carico del terzo molare o del secondo

molare, trattabile solo previa avulsione dell’ ottavo.

In pazienti affetti da malattia parodontale e/o riassorbimento della radice del

secondo molare.

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1.5.1. Pericoronite (o pericoronarite)

La pericoronite è l’ infiammazione dei tessuti molli che circondano gli elementi dentari totalmente o parzialmente inclusi, cioè quando una porzione dell’ elemento, come ad esempio una cuspide, riesce a erompere e si viene a creare quindi una comunicazione tra l’ambiente del cavo orale e l’ elemento dentario dentro l’ osso. In questo pertugio possono penetrare batteri orali e le manovre di igiene orale possono risultare difficoltose. Essa nel

95% dei casi è associata al terzo molare inferiore semincluso (Chiapasco et al., 1995) e circa il 30% dei terzi molari parzialmente inclusi viene estratto per pericoroniti ricorrenti

(Peterson et al., 2001). (Figura 1.2.)

Figura 1.2.

(a)

Quadro clinico di pericoronarite dell’elemento dentario 4.8:

(a) Ortopantomografia (b) Immagine clinica di pericoronarite del terzo molare

L’ eziopatogenesi vede concorrere la flora batterica del cavo orale, un calo delle difese dell’ ospite per febbre o stress vario, un accumulo di residui alimentari e placca sotto l’ opercolo dei tessuti molli e trauma masticatorio da parte dell’ ottavo superiore quando la zona diventa molto edematosa. Ciò porta ad un aumento del processo infiammatorio e crea il quadro di infezione tipico della pericoronite. È proprio il trauma masticatorio che provoca la maggior parte del dolore e infatti il paziente può trovare un apparente sollievo limando le cuspidi dell’ ottavo superiore. L’ edema dell’ opercolo porta ad un aumento del

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processo infettivo/infiammatorio, che con il tempo tende a cronicizzare con frequenza ed intensità crescenti. Dal punto di vista clinico è possibile distinguere due diverse forme di pericoronite, congestizia e suppurativa.

La pericoronite congestizia è caratterizzata fondamentalmente da arrossamento della zona del trigono retromolare per stasi ematica e dolore. La pericoronite prevede sempre il dolore; se assente, potrebbe trattarsi semplicemente di gengivite, cioè una flogosi della zona che può recedere a seguito della rimozione della placca batterica. La terapia può avvalersi di irrigazione di acqua ossigenata o clorexidina e rimozione della placca e del cibo dall’ opercolo con un curettage. Quando è presente una sintomatologia più significativa si può ricorrere alla terapia antibiotica e successivamente ad una opercolectomia quando la inclusione è osteomucosa o mucosa: l’ intervento consiste nella rimozione del cercine di tessuti molli che ricopre il dente, rendendo l’ elemento dentario più facilmente detergibile. Nei casi in cui la pericoronite è recidivante si può procedere alla avulsione; importante è non effettuare mai l’ estrazione quando è in atto il processo infettivo/infiammatorio acuto: primariamente l’ effetto anestetico è minoritario, perché le molecole dell’ anestetico, che sono basi deboli, si protonano nell’ ambiente acido infiammatorio, non riuscendo a raggiungere il loro sito d’ azione; in secondo luogo il materiale purulento entro cui si lavora provoca un ritardo di guarigione della ferita; infine c’ è il rischio che nel traumatizzare la zona chirurgica infetta si possa diffondere il processo ad altre zone adiacenti. In assenza di risoluzione, la forma congestizia evolve in pericoronite suppurativa.

La pericoronarite suppurativa è caratterizzata, oltre all’ edema, al rossore e al dolore, dalla formazione di materiale suppurativo. Il paziente, quindi, riferisce una sintomatologia algica importante; inoltre possono essere presenti trisma, ossia una contrattura spastica del massetere e dello pterigoideo interno, monolaterale, inizialmente antalgica (cioè protettiva), successivamente può evolvere in miosite; disfagia, soprattutto in caso di mesioversione dell’elemento, per diffusione del processo infiammatorio al pilastro anteriore del velo palatino ed alla tonsilla; fuoriuscita di pus alla compressione del cappuccio gengivale pericoronarico, ma in presenza di corticali ossee integre; linfoadenopatia satellite.

La migrazione delle raccolte ascessuali può sfruttare gli spazi virtuali che certi muscoli, come pterigoideo mediale, massetere, costrittore superiore della faringe, miloioideo o diaframma oris, buccinatore, creano con le loro fasce, il perimisio e le

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inserzioni (Topazian et al, 1994; Worthington et al., 1994). La suppurazione può diffondere a sedi vicine e le frequenti localizzazioni del materiale purulento sono:

Ascesso nello spazio latero-faringeo (o para-faringeo laterale): delimitato dal

costrittore superiore della faringe medialmente e dallo pterigoideo interno e dalla parte profonda della parotide lateralmente, e può proseguire nello spazio retro-faringeo e giungere a livello della base cranica.

Ascesso nello spazio tonsillare: quando il materiale suppurativo prende la via tra

lo pterigoideo interno e la tonsilla palatina.

Ascesso nello spazio pterigo-mandibolare: tra pterigoideo mediale e ramo

mandibolare sopra la spina dello spix.

Ascesso nello spazio masseterino: delimitato lateralmente dalla superficie esterna

della branca montante della mandibola; comunica anteriormente con lo spazio genieno, posteriormente con lo spazio parotideo, superiormente con lo spazio temporale superficiale e medialmente, attraverso l’ incisura sigmoidea, con lo spazio pterigo-mandibolare.

Ascesso migrante di Chompret e Hirondel (o “a canna di fucile”): quando si crea

una tumefazione lungo tutto il vestibolo, poiché l’ ascesso scivola sulla faccia interna del buccinatore e procede in avanti verso i premolari.

Ascesso dello spazio sublinguale (o del pavimento buccale): delimitato dalla

superficie interna della mandibola anterolateralmente, fra miloioideo inferiormente e genioioideo medialmente; se passa sotto il miloioideo entra nello spazio sottomandibolare che comunica posteriormente con gli spazi cervico-facciali profondi. Quando l’ infezione è molto diffusa nello spazio sublinguale e inizia a farsi controlaterale, si può avere un’ angina, cioè difficoltà respiratoria associata a dolore, detta angina di Ludwig o cellulite cervicale discendente.

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15

La topografia delle raccolte ascessuali è strettamente correlata alla posizione del dente in disodontiasi (Leone et al. 1986); in particolare distingueremo (Tabella 1.1.):

Tabella 1.1.

ORIENTAMENTO DEL TERZO MOLARE

MANIFESTAZIONE ASCESSUALE

NOTE

Disto-vestibolo versione Ascesso sottomasseterino  Tumefazione con asse verticale parallelo alle fibre del massetere  Trisma da contrattura antalgica del

massetere e miosite Disto-linguo versione  Ascesso peritonsillare di

Escat

 Ascesso sottotonsillare di Terracol

 Ascesso del pilastro anteriore e della faringe di Senator

 Tumefazione del velo pendulo  Disfagia

 Trisma per interessamento dello pterigoideo interno

Mesio-vestibolo versione Ascesso migrante di Chompret e Hirondel

 Migrazione del materiale purulento in avanti attraverso una doccia osteomuscolare delimitata da muscolo buccinatore e faccia esterna del corpo mandibolare;  Il limite anteriore è la zona

premolare per inserzione dei muscoli triangolare e quadrato del mento.

Mesio-linguo versione Angina di Ludwig  Interessamento di regione sottomiloioidea, linfonodi e spazi retrofaringei.

 Febbre elevata e difficoltà respiratorie.

Rappresentando tali ascessi dei focolai infettivi resistenti, il rischio correlato risulta legato alla diffusione del materiale purulento a distanza, con manifestazioni anche mortali (ascesso cerebrale, mediastinite, trombosi del seno cavernoso). La terapia exodontica sarà messa in atto nell’ottica di evitare la formazione cronica di manifestazioni ascessuali/ flemmonose, ma anche lo sviluppo delle più subdole forme subacute. La terapia primaria è comunque di tipo farmacologico, consistente in applicazione di antibatterici (collutori tra dente e cappuccio mucoso), somministrazione di antibiotici (penicilline come prima scelta – amoxicillina 1000mg o amoxicillina 750mg + acido clavulanico 250mg o, in caso di allergia, macrolidi -

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eritromicina 500mg, claritromicina 500mg, spiramicina ed eventualmente cortisone; in presenza di trisma si ricorre all’utilizzo di miorilassanti (Tiocolchicoside). Solo quando il processo acuto sarà in remissione, sarà possibile intervenire chirurgicamente.

1.5.2. Danni parodontali ai denti adiacenti

Gli elementi dentari che si trovano in prossimità di un dente semincluso sono maggiormente predisposti alla malattia parodontale, dal momento che lo spazio pericoronale rappresenta un ambiente ideale per lo sviluppo della flora batterica responsabile della parodontite. Più precisamente, tale condizione si crea quando i terzi molari inferiori in seminclusione, in posizione mesioinclinata od orizzontale, determinano i presupposti per la formazione di una tasca parodontale distalmente al secondo molare. Difatti, le lesioni di tipo parodontale si evidenziano, sia a livello clinico che radiografico, soprattutto a carico della superficie distale del secondo molare adiacente, favorendone il precoce interessamento della forcazione (Kugelberg 1990; Kugelberg et al. 1991; Kugelberg et al. 1991). (Figura 1.3.)

Figura 1.3.

L’ortopantomografia evidenzia difetto osseo in corrispondenza della radice distale dell’elemento dentario 3.7

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1.5.3. Carie

La patologia cariosa può manifestarsi a carico del terzo molare o a carico del secondo molare adiacente. Gli studi presenti in letteratura sulla carie nei denti inclusi o seminclusi riportano un’incidenza della patologia compresa tra il 3 e il 15%; essa si può manifestare anche in assenza di comunicazioni evidenti dell’ elemento con il cavo orale; in questi casi la colonizzazione deriva probabilmente dal solco gengivale degli elementi dentari contigui (Van der Linden et al., 1995). Nella maggior parte dei casi la ricostruzione conservativa di tali lesioni cariose è difficoltosa e spesso va incontro a precoci recidive; qualora vi sia anche una compromissione della polpa, l’ estrema variabilità dell’ anatomia canalare dei denti del giudizio e spesso l’ inaccessibilità strumentale ai canali rende controindicata la terapia endodontica e determina l’ indicazione all’ estrazione.

La presenza di un elemento semincluso ostacola generalmente le manovre di igiene orale, esponendo i denti vicini ad un maggiore rischio di sviluppare una lesione cariosa. Una volta che la lesione cariosa si è determinata, la sua eliminazione e l’ esecuzione di un adeguato restauro conservativo o protesico possono essere eseguiti solo dopo l’ avulsione dell’ elemento incluso.

1.5.4. Riassorbimento radicolare (o rizolisi)

In una percentuale di casi variabile tra il 2 ed il 5% (Nordenram et al., 1987; Lysell & Rohlin, 1988), la pressione esercitata dalla corona del dente incluso sulle radici dei denti attigui (generalmente la radice distale dei settimi) può dare luogo a riassorbimento del cemento e della dentina radicolare; tale condizione ha come indicazione assoluta la estrazione precoce dell’ elemento incluso. Nella maggior parte dei casi, una volta rimosso l’ elemento dentario causa della rizolisi, il dente si ripara autonomamente. Questo processo biologico avviene attraverso il deposito di cemento sulla superficie radicolare, al di sotto del quale si crea dentina secondaria. Di contro, talvolta la lesione raggiunge uno stadio così avanzato da non consentire il recupero dell’ elemento interessato che, quindi, andrà estratto contestualmente al dente incluso.

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1.5.5. Nevralgie

Le compressioni del fascio vascolo-nervoso da parte di elementi inclusi possono scatenare l’ insorgenza di dolori nevralgici lungo la II e III branca del trigemino. La letteratura sull’ argomento (Bassetti ed al., 1992) descrive inoltre emicranie emilaterali, talvolta persistenti, in pazienti con denti inclusi. Tale circostanza è statisticamente più presente quando l’ elemento ha sede nel mascellare superiore. Sono stati descritti, inoltre, (Thoma, 1963) disturbi di origine riflessa a carico di altri distretti che sono regrediti dopo l’estrazione di denti inclusi. In particolar modo, la stretta contiguità tra canale mandibolare e terzo molare può essere causa di sintomatologia neuropatica caratterizzata da un processo infiammatorio del nervo, con conseguente algia facciale (Wowern & Nielsen 1989; AAOMS 1994). La sintomatologia neuropatica può esplicarsi come

parestesia (primo sintomo che si ha per la compressione di un nervo sensitivo; è

caratterizzata da formicolio della zona di afferenza del nervo), ipoestesia (caso più grave in cui il soggetto perde certe afferenze sensitive) o anestesia (il soggetto perde completamente la sensibilità). L’ avulsione del terzo molare permette in questo caso l’eliminazione della noxa patogena sulla terza branca del trigemino.

1.5.6. Osteiti e osteomieliti mandibolari

Si tratta di processi infiammatori relativi rispettivamente alla corticale e alla midollare. I quadri di osteomielite si hanno in genere in quelle situazioni in cui il paziente è immunodepresso. All’ esame radiografico è possibile osservare zone di forte radiotrasparenza attorno al dente. La prevalenza di tali fenomeni infettivo-infiammatori è compresa tra il 4.7% (Stanley et al. 1988) ed il 5% (Eliasson et al. 1989).

1.5.7. Cisti odontogene

Il terzo molare incluso, spesso, può presentare quadri di rarefazione peridentale all’ esame radiografico, compatibili con la presenza di cisti odontogene, le quali possono rappresentare sia la causa che l’ effetto dell’ inclusione stessa (National Institute of Health, 1980; Stephens et al., 1989; Mercier & Precious, 1992). Nella maggior parte dei casi si tratta di cisti follicolari (Knights et al, 1991), ovvero cisti disembriogenetiche odontogene originate dalle cellule dell’ epitelio dell’ organo dello smalto che vanno

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incontro a degenerazione cistica dopo l’ istodifferenziazione del germe, con accumulo di liquido tra epitelio ridotto dell’ organo dello smalto e smalto della corona già formato (Patel et al.2013).

1.5.8. Tumori

Nell’82% dei casi, le forme tumorali possono originare da degenerazione neoplastica di cisti follicolari (Shear & Singh 1978; Araujo et al. 2014). Il tumore maggiormente riscontrato è l’ ameloblastoma, un tumore del cavo orale tipico delle ossa mascellari, benigno a livello sistemico, poiché non dà metastasi, ma maligno a livello locale, poiché si espande molto. Risulta necessaria la resezione chirurgica, spesso in blocco della mandibola interessata, a causa dell’ alto rischio di recidiva. Talvolta gli ameloblastomi sono associati ad inclusione di elementi dentari, che chiaramente devono essere estratti.

1.5.9. Frattura dell’ angolo mandibolare

Il dente del giudizio può costituire un locus minoris resistentiae (Boffano et al. 2013), favorendo lo sviluppo di fratture dell’angolo mandibolare spontanee o secondarie alle manovre di avulsione.

1.5.10. Presenza dell’ elemento incluso nella rima di frattura

Qualora un elemento dentario incluso si trovi in corrispondenza di una linea di frattura, ci può essere un impedimento alla ricomposizione della stessa e al posizionamento di ferule e viti da osteosintesi (Alling & Osbon, 1988; Williams & Williams, 1994).

1.5.11. Affollamento dentario

È in realtà una questione abbastanza dibattuta (Van der Schoot et al. 1997; Hicks 1999; Mettes et al. 2012). Il verificarsi di un affollamento tardivo degli incisivi mandibolari è stato a lungo correlato alla presenza dei denti del giudizio inclusi,

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soprattutto se mesioinclinati. Gli ottavi, nel tentativo di trovare il proprio spazio di eruzione, genererebbero un’ azione propulsiva nei confronti dell’ intera arcata dentaria inferiore. Gli incisivi, non potendo subire una proiezione anteriore in quanto sbarrati dall’ arco incisale superiore, risponderebbero alla pressione con reciproci slittamenti e/o rotazioni. La diatriba è stata comunque risolta grazie alle evidenze scientifiche, che dimostrano l’ inesistenza di correlazioni tra l’ affollamento degli incisivi mandibolari e la presenza di ottavi in inclusione parziale o totale. Esiste, oggi, una sufficiente evidenza che la rimozione preventiva dei terzi molari inclusi asintomatici negli adolescenti, al fine di ridurre o prevenire l’ affollamento incisale tardivo, sia da considerarsi una manovra ingiustificata (Mettes et al., 2005).

La rimozione di denti inclusi può rendersi necessaria in previsione di una chirurgia ortognatodontica; in particolare, se questi elementi sono posizionati in una zona in cui è prevista una segmentazione ossea, l’ estrazione preventiva (circa 6-12 mesi prima) dei terzi molari può essere favorevole al fine di ottenere una rimineralizzazione dell’ osso laddove i segmenti andranno affrontati e fissati con osteosintesi.

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Capitolo 2

2.1 Radiologia odontoiatrica

L’ estrazione del terzo molare mandibolare è una delle procedure più frequentemente effettuate dal chirurgo orale. Questa pratica può essere relativamente facile o estremamente impegnativa in relazione a numerose variabili legate all’ elemento da estrarre (localizzazione, morfologia della corona dentale e delle radici, profondità e tipo di inclusione). Se da una parte l’ estrazione dentaria può essere considerata un intervento odontoiatrico di routine, l’ estrazione di denti inclusi richiede una grande preparazione tecnica, un’ approfondita conoscenza dell’ anatomia ed una maturata esperienza chirurgica. Come per tutte le procedure chirurgiche risulta di assoluta importanza eseguire una corretta pianificazione dell’ intervento che consenta, da una parte, di ridurre al minimo il rischio di complicanze e, dall’ altra, di poter gestire queste ultime in modo corretto, sempre con il minor costo biologico per il paziente.

La fase chirurgica vera e propria deve essere preceduta da un’ attenta anamnesi per valutare lo stato di salute generale del paziente, conditio sine qua non per eseguire o differire dall’ intervento. L’ esame clinico accurato consente di determinare il grado di accessibilità al sito operatorio; nell’ esame obiettivo del cavo orale, l’ ispezione e la palpazione possono aiutare ad avvertire protuberanze al di sotto della mucosa in grado di guidare l’ operatore verso la localizzazione dell’ elemento dentario incluso. L’ indagine radiografica, tradizionale o tridimensionale, è dirimente in quanto permette di acquisire informazioni dettagliate riguardo all’ area di interesse (Chiapasco, 2002).

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2.1. Fisica e tecnologia della radiologia

La diagnostica per immagini è la disciplina che utilizza la radiazione per formare immagini che riproducono le strutture del corpo umano e che sono utili a fini diagnostici e terapeutici (Gibilisco,1991; Nessi e Viganò,2004).

2.1.1. Cosa sono i raggi x

Per l’ esecuzione degli esami radiografici viene utilizzata l’ interazione del corpo umano con fasci di onde elettromagnetiche, dette “raggi x”. Da un punto di vista fisico i raggi x sono delle radiazioni analoghe alle onde radio, radar e luminose, dotate però di una lunghezza d’ onda molto minore (10 nanometri – 1 picometro). È importante ricordare che per tutte le onde elettromagnetiche, e quindi anche per i raggi x, l’ energia è inversamente proporzionale alla lunghezza d’ onda; per questo motivo, gli effetti fisici e biologici determinati dalle radiazioni aumentano di importanza con il diminuire della loro lunghezza d’ onda. Quindi, i raggi x sono radiazioni non dotate di massa, invisibili, che si propagano nel vuoto ed attraverso la materia a velocità costante. Nel caso dei raggi x, l’ energia è talmente elevata che le onde interagiscono con la materia determinandone la ionizzazione, cioè la separazione di un elettrone dall’ atomo con formazione di una coppia di ioni. Questo processo è alla base dei loro effetti fisici, chimici e biologici.

2.1.2. Come si producono i raggi x

I raggi x impiegati in medicina vengono prodotti in appositi apparecchi tramite un processo controllato dall’ uomo: si generano dal bombardamento di un metallo pesante da parte di un fascio di elettroni. Il tubo radiogeno è un’ ampolla di vetro a vuoto spinto nella quale una spiralina incandescente emette un fascio di elettroni che viene accelerato in un campo elettrico ad alto potenziale. Gli elettroni acquistano così energia cinetica e vengono diretti su una placca di metallo pesante (tungsteno) dalla quale, tramite fenomeni fisici assai complessi, hanno origine i raggi x. Fra la spriralina, che rappresenta il polo negativo, cioè il catodo, e la placca metallica, che rappresenta il polo positivo, cioè l’ anodo, è

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applicata una differenza di potenziale elettrico (d.d.p.) molto elevata, da 40 a 150kv, in modo tale che gli elettroni liberati dal catodo vadano ad impattare sull’ anodo. Quando gli elettroni vanno ad impattare sull’ anodo perdono la loro energia cinetica: circa il 99% di essa si disperde sotto forma di calore, mentre l’ 1% si trasforma in raggi x. Oltre a far passare la corrente determinando l’ emissione di raggi x, l’ operatore può regolare elettricamente alcuni parametri che determinano il tipo di radiografia eseguita. Si può variare la durata dell’ emissione dei raggi e l’ intensità della corrente che attraversa la spiralina.

Aumentando l’ intensità di corrente, aumenta in modo proporzionale la quantità di elettroni che vengono accelerati verso il metallo: si ottiene così un aumento dell’ intensità del fascio. Questo fattore di regolazione è espresso in ma (milliampère) e si combina con il tempo di accensione del tubo, poiché entrambi determinano la quantità complessiva di radiazioni emesse dall’ apparecchio. Si può anche modificare la d.d.p. del campo elettrico presente all’ interno del tubo: questo fattore di regolazione è espresso in kv (kilovolt). Variare i kv significa modificare l’ energia cinetica con cui gli elettroni colpiscono gli atomi del bersaglio. aumentando i kv, cresce la velocità degli elettroni e il potere di penetrazione dei raggi x: in questo modo cambia notevolmente l’ aspetto dell’ immagine radiografica finale. (Figura 2.1.).

Mentre il catodo, cioè la spiralina, è una parte fissa del tubo radiogeno, l’ anodo è costituito da un disco, collegato ad un rotore, che ruota continuamente, altrimenti gli elettroni colpirebbero sempre lo stesso punto e, a causa della loro elevata energia cinetica, il disco si bucherebbe in seguito alla fusione del materiale. Quando gli elettroni colpiscono l’ anodo, i raggi x prodotti si propagano in tutte le direzioni, tuttavia l’ ampolla di vetro che contiene il tubo radiogeno è ricoperta da un film di materiale protettivo (piombo) che assorbe i raggi; su questo involucro di piombo è presente un foro, la così detta macchia focale, attraverso cui vengono fatti passare i fotoni per indirizzarli verso il paziente.

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Struttura del tubo radiogeno

2.1.3. Come si forma l’ immagine radiografica

I raggi x prodotti dal tubo radiogeno interagiscono con la materia secondo alcuni processi che ne determinano l’ assorbimento, completo o parziale. In questo modo giunge al rivelatore un fascio di raggi più o meno attenuato, in maniera diversa da punto a punto a seconda dello spessore e del contenuto fisico-chimico del corpo (più elevato è il peso atomico, maggiore è l’ assorbimento di fotoni). Questi fenomeni comportano alcune conseguenze fondamentali:

L’ interazione dei raggi x con la materia determina sempre la ionizzazione degli

atomi con formazione di radicali liberi, che sono i responsabili degli importanti effetti fisici, chimici e biologici delle radiazioni;

Nel corso della loro interazione con la materia, non tutti i fotoni di raggi x vengono

arrestati completamente; soprattutto in presenza di raggi di energia elevata, una parte viene solo attenuata dal corpo e prosegue il suo cammino con direzione deviata ed energia ridotta; questo fenomeno determina la formazione di una radiazione diffusa che causa una degradazione della qualità dell’ immagine finale, con formazione di un effetto nebbia. In questi casi, per ottenere delle immagini valide diviene indispensabile fare ricorso a sistemi per il contenimento della radiazione diffusa, presenti ad esempio nelle apparecchiature impiegate per le indagini radiografiche del cranio; inoltre la radiazione diffusa ha un orientamento casuale nello spazio e questo complica notevolmente i problemi di radioprotezione;

L’ immagine radiografica tradizionale (non la tomografia computerizzata) è sempre

il risultato della proiezione di un fascio di raggi x modificato dal suo passaggio attraverso il paziente: per questo motivo la radiologia tradizionale è detta “radiologia proiettiva” e la formazione dell’ immagine radiografica obbedisce alle leggi della geometria proiettiva; una conseguenza importantissima delle leggi della proiezione è che l’ immagine proiettata, e quindi anche la radiografia, è sempre più grande dell’ oggetto che l’ ha prodotta; questo ingrandimento proiettivo è tanto maggiore quanto più il fascio di raggi si origina vicino all’ oggetto ovvero quanto più l’ immagine viene formata a distanza dall’ oggetto.

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2.1.4. Creazione dell’ immagine radiografica visibile

Dopo aver attraversato il corpo del paziente, il fascio di raggi x deve essere rilevato, cioè convertito in un’ immagine visibile. I sistemi di rivelazione di impiego corrente in odontostomatologia sono di due tipi: pellicola radiografica e rivelatori digitali. A fianco di questi va poi ricordata la tomografia computerizzata.

2.1.5. Rivelatori su pellicola

L’ impiego della pellicola come rivelatore radiografico si basa sugli effetti fotochimici delle radiazioni, in particolare sulla loro azione sui cristalli dei sali d’ argento. Si utilizzano dei cristalli di bromuro di argento (brag) che vengono spalmati sulla pellicola all’ interno di una gelatina legante.

I cristalli di brag posti all’ interno della gelatina legante modificano la loro struttura per effetto dell’ interazione con le radiazioni ionizzanti. L’ immagine latente così ottenuta viene trasformata in immagine visibile con un processo fotochimico che utilizza un agente ossido-riduttore. Questo ne determina la riduzione ad argento metallico nei punti in cui i cristalli sono stati colpiti dai raggi. L’ argento metallico si raccoglie sotto forma di emulsione nera , determinando così l’ annerimento delle aree del film che hanno ricevuto luce o raggi. Successivamente un bagno di fissaggio contenente iposolfito di sodio provvede ad allontanare i cristalli che non sono stati ridotti ad argento metallico. Un bagno di lavaggio ed una asciugatura completano il processo.

2.1.6. Rivelatori digitali

La radiologia digitale è l’ applicazione delle tecniche informatiche all’ acquisizione, rielaborazione e archiviazione delle radiografie. Essa utilizza immagini diagnostiche gestite da un computer. In radiologia odontostomatologica hanno trovato applicazione le seguenti tecniche digitali: piastre di fosfori a memoria, sensori ad accoppiamento di cariche, oltre alla tomografia computerizzata.

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Piastre di fosfori a memoria: dette anche imaging plates (ip), sono lamine

contenenti particolari cristalli capaci di registrare le radiazioni ricevute nei vari punti. Questi dati vengono conservati nella loro struttura cristallina per un certo tempo e possono venire letti nelle ore successive ad opera di un apparecchio laser collegato al computer;

Sensori ad accoppiamento di cariche (ccd): sono collegati direttamente via cavo al

computer. Essi convertono punto per punto i raggi x in un segnale elettrico che viene letto ed analizzato dall’ elaboratore. L’ immagine viene fornita sul monitor del computer quasi in tempo reale, con vantaggio da un punto di vista diagnostico e clinico.

2.2. Ortopantomografia

L’ ortopantomografia (OPT) è un’ indagine apparentemente semplice, in realtà è basata su una tecnologia raffinata, e pertanto esposta a numerose possibilità di artefatti e di errori. Il termine “ortopantomografia” sta ad indicare:

Orto: il fascio di raggi x è orientato ortogonalmente rispetto all’ asse lungo degli elementi dentari;

Pan: si possono osservare le due arcate nella loro interezza, e non solo;

Tomografia: metodica con cui è possibile evidenziare solo la regione che ci interessa.

Scopo dell’ opt è fornire l’ immagine nitida e senza sovrapposizioni di uno strato curvilineo, cioè delle arcate dentarie e delle strutture accessorie adiacenti; ma le arcate non giacciono su un piano e si sviluppano secondo una forma a ferro di cavallo, e quindi fornire una proiezione nitida direttamente su un piano utilizzando una sorgente di raggi posta all’ esterno del corpo non è geometricamente possibile. Per ottenere un’ immagine nitida delle strutture contenute nel piano curvilineo delle arcate si fa ricorso all’ impiego combinato di due principi tecnici: tomografia rotatoria e radiografia a fessura.

La tomografia consiste in una ripresa radiografica eseguita durante movimento sincrono e opposto di tubo e sensore allo scopo di cancellare o comunque sfumare le immagini delle strutture poste in un piano diverso da quello in cui giace il centro di simmetria del movimento. Nella tomografia rotatoria, il movimento del tubo e del sensore

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avviene sotto forma di una rotazione attorno al cranio del paziente. ma la sola rotazione del tubo e rivelatore, impiegando un normale fascio di raggi x, non avrebbe affatto il risultato di creare una proiezione nitida delle arcate, anzi, essa darebbe origine alla formazione di un’ immagine “mossa” ed indistinta. La soluzione è costituita dall’ impiego di un fascio di raggi collimato assai sottile, che attraversa volta a volta una sola piccola porzione del corpo da esaminare: questo è il principio della radiografia a fessura.

Il tubo radiogeno ruota attorno al capo del paziente emettendo un sottile fascio di raggi. Contemporaneamente, il sensore ruota dal lato opposto del cranio del paziente. Nello stesso tempo, il sensore ruota o si sposta su se stesso, offrendo al fascio di raggi una incidenza ogni volta diversa. Per ogni posizione del complesso tubo-sensore si avrà quindi il passaggio del sottile fascio di raggi attraverso una sola porzione delle arcate e la sua immagine utile si proietterà su un’ unica porzione del rivelatore. (Figura 2.2.)

Figura 2.2.

Schema di funzionamento della ortopantomografia

2.2.1. Modalità di esecuzione della ortopantomografia

L’ opt è un esame semplice da eseguire, rapido, poco irradiante e non fastidioso per il paziente. La sua esecuzione corretta richiede tuttavia molta attenzione e precisione nel rispetto di alcune norme fondamentali, pena la formazione di immagini scadenti. L’ esame viene eseguito con il cranio in posizione verticale e con il paziente in stazione eretta o ben seduto; per l’ esecuzione dell’ opt è indispensabile che la parte da esaminare sia libera da elementi estranei, quali indumenti, copricapi, piercing, orecchini; il paziente così preparato

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viene posto all’ interno dell’ apparecchio con il piano di Francoforte in posizione orizzontale fissa, grazie all’ impiego di supporti di appoggio per il cranio, e viene invitato a mordere un bite di plastica solidale con l’ apparecchio; è importante che il paziente mantenga il collo esteso, con la testa arretrata (posizione dello sciatore d’acqua), affinchè le vertebre cervicali non diano artefatti a livello incisivo.

La ripresa ortopantomografia richiede, a seconda degli apparecchi, da 12 a 18 secondi, nei quali avviene la rotazione di tubo e pellicola ed il passaggio dei raggi.

2.2.2. Limiti ed artefatti della ortopantomografia

Le arcate dentarie non sono poste su di un arco di cerchio, ma hanno una forma ogivale non regolare e i loro elementi costitutivi non hanno tutti lo stesso spessore e non giacciono tutti sul medesimo piano: vi sono, cioè, denti più o meno spostati in senso vestibolo-linguale.

L’ immagine ortopantomografica è il frutto della proiezione di strutture che sono più o meno distanti dal piano del sensore a seconda della posizione del paziente, della conformazione della bocca e della posizione dei diversi denti. La distanza incostante delle diverse strutture esaminate dal piano di rivelazione fa sì che la loro proiezione avvenga con un ingrandimento incostante ed imprevedibile. Tutte le tomografie contengono, oltre alle immagini dello strato nitido, anche le sovrapposizioni delle strutture poste al di fuori della zona focale, sotto forma di sfumature mal definite, dette ombre di trasporto. Le ombre di trasporto in una opt sono molteplici, a causa principalmente del rachide cervicale, della posizione centrale e della radiopacità elevata. Questa ombra del rachide cervicale si produce se il paziente non mantiene il collo in posizione corretta e può sovrapporsi alle immagini dei denti centrali. Se poi l’ immobilità non viene rispettata nel corso del tempo di rotazione dell’ apparecchio, l’ immagine viene viziata da artefatti da movimento. Questo problema si presenta in maniera importante nei soggetti incapaci di collaborare o comunque rimanere fermi per almeno 15 secondi, principalmente i bambini al di sotto dei cinque anni e disabili con problematiche neuropsichiche.

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2.2.3. Vantaggi e svantaggi della ortopantomografia

Tra i vantaggi della ortopantomografia ricordiamo:

 Possibilità di visualizzare le arcate dentarie e molteplici altre strutture del massiccio facciale (seni mascellari, condili mandibolari, cavità glenoidee, palato duro, branche montanti della mandibola, ecc.);

 Dose radioattiva relativamente bassa, soprattutto con le apparecchiature digitali;

 Facilità di esecuzione;

 Durata minima di pochi secondi;

 Possibilità di esecuzione dell’ esame in pazienti impossibilitati ad aprire il cavo orale.

Tra gli svantaggi della ortopantomografia ricordiamo:

 Mancanza di un fine dettaglio anatomico;

 Impossibilità di utilizzo nelle misurazioni, poiché l’ immagine non è reale;

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2.3. Tomografia computerizzata

Alla fine del 2009 c’ è stata la stesura di un documento congiunto da parte di un consensus conference tra varie società scientifiche tra cui ANDI (associazione nazionale dentisti italiani), SIRM (società italiana di radiologia medica) e AISI (accademia italiana di stomatologia implantoprotesica), con il quale si cercava di dettare delle linee guida, indipendentemente dalle normative, sull’ utilizzo di apparecchiature radiologiche. La classificazione delle apparecchiature viene effettuata in apparecchiature di primo e secondo livello, in base alla complessità di utilizzo, alle informazioni diagnostiche che forniscono e alla dose di radiazioni erogata al paziente.

Apparecchiature di primo livello: opt e radiografia endorale;

Apparecchiature di secondo livello: tc spirale e tc cone beam. Sono metodiche a cui si ricorre solo dopo che le indagini di primo livello non hanno fornito sufficienti informazioni e non hanno chiarito il quesito diagnostico.

2.3.1. Tc fan beam (spirale)

La tomografia computerizzata, indicata con l’ acronimo tc, è una tecnica radiologica che sfrutta radiazioni ionizzanti e consente di riprodurre sezioni o strati corporei del paziente (per questo è definita tomografia) ed effettuare elaborazioni tridimensionali; per la produzione delle immagini è necessario l’ intervento di un elaboratore di dati (per questo è definita computerizzata).

Una apparecchiatura tc è costituita da diverse componenti, rappresentate da un sistema di generazione di raggi x, ossia il tubo radiogeno, un sistema di rilevazione ed acquisizione dei dati (tubo radiogeno e sistema di rilevazione, insieme, costituiscono il gantry), un sistema di posizionamento ed avanzamento del paziente, cioè il lettino, ed infine un sistema di elaborazione e visualizzazione dei dati: l' emettitore del fascio di raggi x ruota attorno al paziente ed il rivelatore, al lato opposto, raccoglie l'immagine di una sezione del paziente; il lettino scorre in modo molto preciso all'interno di un tunnel di scansione, presentando a ogni giro una sezione diversa del corpo. Le sequenze di immagini sono elaborate da un computer, che presenta il risultato sul monitor. Tale risultato è costituito da una serie di sezioni non necessariamente contigue di spessore preimpostato: l'insieme delle sezioni ricostruite costituisce i dati inerenti al volume di scansione che

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possono essere ricostruiti. Per ottenere le immagini tomografiche del paziente a partire dai dati "grezzi" della scansione, il computer dedicato alla ricostruzione impiega complessi algoritmi matematici di ricostruzione dell'immagine.

La metodica circolare alla base della tc fu ideata dall’ ingegnere Godfrey Hounsfield e dal fisico Allan Cormack, che per le loro scoperte furono insigniti del premio Nobel per la medicina nel 1979. Negli anni sono state sviluppate diverse generazioni di apparecchiature a partire dalla tc convenzionale:

Tomografo di I generazione: si basava sull'emissione di un fascio lineare di raggi x emesso da un tubo radiogeno in movimento di traslazione e, successivamente, di parziale rotazione e rilevato da un rilevatore solidale nel movimento. Il tempo di esecuzione di una singola scansione era dell’ ordine di una decina di minuti; per l’ esecuzione di una tc del cranio serviva più di un’ ora;

Tomografo di II generazione: presentava un fascio di raggi x con una geometria a ventaglio di 20-30° ed era connesso ad un gruppo di 20-30 rilevatori che ruotavano intorno al paziente solidalmente con il tubo radiogeno; per l’ esecuzione di una singola scansione servivano decine di secondi;

Tomografo di III generazione: impiegava un fascio di raggi x a ventaglio di 30-50º che poteva comprendere tutta la sezione corporea in esame, attraverso centinaia di rilevatori contrapposti, che compiva una rotazione completa attorno al paziente in 1-4 secondi. Nei primi modelli, ad una rotazione ne seguiva un'altra nel senso inverso, in modo che i cavi di alimentazione ritornassero nella posizione di partenza, senza attorcigliarsi. tale metodica obbligava all'acquisizione di un solo strato per volta;

Tomografo di IV generazione: presentava sensori fissi disposti circolarmente su tutto l'anello del gantry ma è stato abbandonato.

I tomografi moderni derivano da quelli di terza generazione ma hanno una caratteristica fondamentale, quella di acquisire a spirale: nei tomografi a rotazione continua unidirezionale infatti il tubo radiogeno e i rilevatori sono montati su un anello rotante che si alimenta a "contatti striscianti" (slip ring), senza più il problema dei cavi che si attorcigliano. Questa metodica consente l'acquisizione delle immagini in modo continuo: mentre il tavolo che porta il paziente si muove su un piano di scorrimento, i piani di scansione descrivono un'elica attorno al paziente, ottenendo una scansione "a spirale". I

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tomografi spiroidei più comuni compiono una rotazione in più o meno un secondo e consentono un'acquisizione completa di un volume corporeo in 40-60 secondi: questa avviene in un'unica apnea, riducendo gli artefatti di movimento del paziente. I moderni tomografi multistrato possono impiegare anche solo pochi secondi, ottenendo decine di scansioni per ogni singola rotazione. Oltre a questa innovazione abbiamo anche un aumento del numero di file di detettori, che rappresentano lo strato di acquisizione.

La radiologia digitale utilizza una serie di numeri binari, ciascuno dei quali corrisponde al valore di assorbimento dei fotoni in quel punto: questo costituisce l’ elemento più piccolo dell’ immagine digitale, il pixel. L’ insieme dei pixel è detto matrice. Quindi, i detettori sono posizionati su una matrice in cui si trovano tante piccole cellette che assorbono i fotoni e generano un segnale elettrico per ogni punto. sostanzialmente, nella tc l’ immagine viene costruita tramite una procedura matematica (algoritmi di retroproiezione) dall’ insieme dei profili di attenuazione che si ottengono dall’ interazione del fascio di raggi x con i distretti corporei in esame: tutti i profili di attenuazione, cioè la attenuazione che il raggio ha subìto nel passaggio in un preciso punto del corpo umano, vengono registrati dal detettore.

Nella tc l’ unità elementare del volume è il voxel e a ciascun voxel corrisponde un volumetto del corpo del paziente. In quel volumetto sono rappresentati dei tessuti con proprie caratteristiche di attenuazione del fascio radiogeno e l’ attenuazione dipende dal numero atomico degli elementi che si trovano all’ interno del volumetto stesso.

I valori di attenuazione del fascio di raggi x, registrati dal detettore, vengono rapportati al valore di attenuazione dell’ acqua, che, per convenzione, è posto come 0. Tutto ciò che attenua il fascio più dell’ acqua ha un valore positivo, mentre tutto ciò che attenua meno dell’ acqua ha un valore negativo: è possibile ottenere quindi una scala, detta scala di hounsfield, o “scala dei grigi”, che va da -1000 hu (che corrisponde alla densità dell’ aria) a +1000 hu (che corrisponde alla densità dell’ osso compatto). L’ occhio umano, però, è in grado di riconoscere fino a 16 diverse tonalità di grigio, non 2000 come quelle ammesse dalla scala di hounsfield, per cui si applica il principio della finestra e dei livelli, con cui il tutto viene riportato ai 16 livelli di grigio che l’ occhio può riconoscere. (Figura 2.3.)

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Figura 2.3.

2.3.2. Tc cone beam

La cone beam computed tomography (cbct) è una tecnologia di imaging radiologico che impiega una sorgente a raggi x, di forma conica o piramidale (da qui il nome “cone beam”), che compie un unico giro completo di 360° gradi intorno all'oggetto da esaminare. I raggi che lo hanno attraversato vengono poi acquisiti da un detettore e quindi seguirà un processo di analisi e ricostruzione dei dati, al fine di ottenere una serie di immagini diagnosticamente valide su qualsiasi piano di osservazione. La sorgente può emettere una radiazione continua durante la scansione, oppure pulsata, come avviene nella maggior parte dei casi al fine di limitare la dose somministrata al paziente. La particolarità di avere un fascio conico, invece che a spirale come nei tomografi tc, permette ad ogni esposizione di coprire l'intero campo di vista (fov) e quindi in un unico giro acquisire una serie immagini bidimensionali complete della parte anatomica in esame, nelle diverse proiezioni. Questa serie di immagini prende il nome di projection data. Il numero di immagini è variabile e dipende dalle scelte dell'operatore e dalle caratteristiche del sistema: più immagini vengono acquisite, più si avrà una miglior qualità del risultato finale a scapito, tuttavia, di una maggior esposizione del paziente alle radiazioni ionizzanti. La serie di proiezioni acquisite verranno poi elaborate da un software che produrrà un set tridimensionale che servirà da base per successive rielaborazioni che porteranno alle ricostruzioni nei tre piani ortogonali (assiale, sagittale, coronale). Il risultato finale è un'immagine tridimensionale, composta da una serie di voxel la cui dimensione è

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corrispondente alla risoluzione spaziale ed è intrinsecamente correlata con la dimensione dei pixel del detettore.

La sorgente di raggi x in un sistema cbct è costituita da un tubo radiogeno in grado di compiere un giro di 360° intorno alla parte anatomica di interesse. Caratteristica peculiare del fascio prodotto è la sua forma: conica o piramidale, in grado di prendere istantaneamente tutta la parte anatomica di interesse in una proiezione. Si può pensare che l'erogazione del fascio sia continua per tutto il percorso di 360° dell'esposizione, tuttavia, per ragioni legate alla riduzione di dose al paziente, l'erogazione avviene in maniera pulsata: in questo modo la durata dell'esposizione è inferiore alla durata totale della scansione.

Come già ribadito, il fascio conico tipico della cbct è in grado di coprire tutto il fov, ovvero l'intera parte anatomica di interesse. È necessario però che quest'ultimo, per ragioni legate alla minor dose di radiazioni da somministrare al paziente, sia perfettamente collimato in base alle reali necessità cliniche del paziente in esame. Per questo motivo, la maggior parte delle apparecchiature cbct è in grado di operare con fov di dimensioni diverse, impostate dall'operatore; per esempio per un esame che necessiti solo di un'indagine di una singola regione dento-alveolare o dell'articolazione temporo-mandibolare sarà sufficiente un campo di vista inferiore ai 5 cm, per un mascellare o una mandibola tra i 5 cm e i 7 cm, mentre per l'intera regione cranio-facciale si dovrà avere un fov superiore ai 15 cm.

I modelli di cbct attualmente presenti sul mercato, possono essere divisi in due gruppi, a seconda della tecnologia su cui è basato il loro detettore: un tubo intensificatore di immagine accoppiato con un dispositivo ad accoppiamento di carica (iit/ccd), oppure a tecnologia flat panel; in quest’ ultimo caso si utilizzano delle pellicole radiografiche di tipo digitale che mantengono il segnale elettronico del fascio radiogeno. Queste pellicole vengono poi inserite nel computer, il quale decodifica il segnale, determinando la comparsa dell’ immagine radiologica. (Figura 2.4.)

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Figura 2.4.

2.3.3. Gestione delle immagini

Dopo l’ acquisizione delle arcate dentarie, esse devono essere valutate, ecco perché esistono dei software che rendono le immagini comprensibili per il clinico. Il dentascan (o dentalscan o tc dentale) è un software di ricostruzione dedicato allo studio delle arcate dentarie applicato ad un’acquisizione dei mascellari con tc. Il dentascan è la tecnica di primo approccio per la sua peculiarità nello studio delle strutture ossee e per la possibilità di valutare in maniera ottimale, anche grazie al post-processing (navigazione virtuale), procedure di preparazione all’impianto quali il rialzo del pavimento del seno mascellare e l’osteodistrazione. Il dentascan è inoltre da considerare, tra gli esami diagnostici dei mascellari, quello che consente la migliore definizione anatomica e la maggiore accuratezza nello studio dei processi espansivi ed infiammatori, in particolare a livello del canale mandibolare. Consente di avere informazioni sulla densità ossea e sulla distanza tra la cresta alveolare e il canale del nervo mandibolare a livello dell’arcata inferiore: questo contributo è fondamentale nell’ipotesi di estrazione dei terzi molari, di cui bisogna valutare la profondità delle radici, l’orientamento e la direzione di crescita, soprattutto quando l’eruzione è incompleta. riguardo all’arcata superiore si possono ottenere informazioni sulla distanza cresta alveolare-pavimento del seno mascellare e sulla distanza tra corticale vestibolare e linguale.

I dati acquisiti sono quindi elaborati, su indicazioni date dall’operatore, che può determinare la sede, il numero e la distanza tra le ricostruzioni, direttamente dal programma dell’apparecchiatura oppure possono essere trasferiti ad una stazione di lavoro

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per elaborazioni successive. L’ immagine assiale prescelta è posta, in genere, a livello delle radici dentarie e deve mostrare, nella loro interezza, i contorni della mascella o della mandibola; si può procedere alla ricostruzione di parte o di tutto il mascellare. Si procede poi all’elaborazione delle immagini in modo da ottenere ricostruzioni sui piani assiale e sagittale che comprende di solito 20-40 ricostruzioni secondo il piano assiale (transaxial), 40-100 ricostruzioni sagittali oblique (cross sectional) perpendicolari all’asse lungo dei mascellari e 5-9 immagini coronali similpanoramiche (panorex) su un piano curvilineo tracciato secondo l’asse lungo dei mascellari. (Figura 2.5.)

Figura 2.5.

2.3.4. Differenze tra tc spirale e tc cone beam

Le differenze tecniche consistono sostanzialmente nel fatto che la tc cone beam utilizza un fascio radiante conico ed un detettore di ampia area, acquisendo così un ampio volume di immagini in una sola rotazione. La tc tradizionale, invece, usa un fascio molto più sottile di raggi x che ruota più volte intorno alla testa del paziente e sensibilizza una serie di detettori, mentre il corpo del paziente viene fatto avanzare in continuazione.

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