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Il personaggio non finzionale. Tre casi: Natalia Ginzburg, Primo Levi, Leonardo Sciascia

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Il personaggio non finzionale. Tre casi: Natalia Ginzburg, Primo

Levi, Leonardo Sciascia

CANDIDATO

RELATORE

Melania Condò

Chiar.mo Prof. Raffaele Donnarumma

CONTRORELATORE

Chiar.mo Prof. Alberto Casadei

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Sommario

Introduzione ………... 4

1. Lessico famigliare di Natalia Ginzburg ………. 7

1.1 L’Avvertenza ……… 7

1.2 Un io che narra da molto vicino ………... 9

1.3 La voce della madre: una co-narratrice implicita? ………. 11

1.4 I personaggi ……… 13

1.4.1 Natalia ………... 15

1.4.2 Il padre ……….. 18

1.4.3 Il fratello Mario ………. 22

1.4.4 Leone Ginzburg ……… 26

1.4.5 Cesare Pavese ……… 29

1.4.6 Tra gli antifascisti: Filippo Turati e Adriano Olivetti ………... 33

1.5 Stile di presentazione dei personaggi: lo spazio della vita privata o

inverificabile ……….. 36

1.6 La verità nella narrazione non finzionale ……….. 38

2. La tregua di Primo Levi ……… 40

2.1 La Presentazione dell’edizione scolastica del 1965 ………... 40

2.2 Levi narratore: il superstes ………. 42

2.3 Lavoro della memoria e credibilità ……… 44

2.4 I personaggi ……… 46

2.4.1 Primo ………. 50

2.4.2 Hurbinek ………... 53

(4)

2.4.4 Mordo Nahum ………... 60

2.4.5 Cesare ……… 64

2.4.6 Il Moro ……….. 68

2.4.7 Vanda Maestro ……….. 71

2.5 La riduzione radiofonica della Tregua: il primato della parola in un

«documento necessario» ……… 72

3. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia ………... 75

3.1 Intorno al personaggio: un problema dichiarato ……… 75

3.2 La commistione dei generi e il montaggio dei documenti …………. 77

3.3 Aldo Moro e il suo testo ………. 80

3.4 I personaggi ……… 82

3.4.1 Aldo Moro ………. 84

3.4.2 I brigatisti ……….. 88

3.4.3 I dirigenti democristiani ……… 91

3.5 Una conclusione nel segno di Borges ……… 93

Conclusioni ………... 96

Bibliografia ……….. 99

Sitografia ……… 106

Ringraziamenti ……….. 107

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Introduzione

Nel suo tentativo di dare una prima definizione di ciò che è finzione, Dorrit Cohn in The

distinction of fiction parla di “narrazione letteraria non referenziale”: infatti, l’opera di

finzione crea essa stessa il mondo del quale racconta, sebbene questo non sia mai del tutto indipendente dal mondo reale. L’opera di non finzione, invece, mantiene la sua referenzialità proprio perché continua a denotare un mondo che esiste a prescindere da sé stessa. Di conseguenza, se la narrazione finzionale e non referenziale è inverificabile e – potenzialmente – completa, la narrazione non finzionale e referenziale può essere pensata mediante le caratteristiche opposte. Essa è verificabile, perché parla del mondo di fuori, e può quindi trovare riscontro o disconferma nella realtà e nei suoi documenti, ed è incompleta, perché, per statuto, non può avere accesso alla totalità dei fatti, ma sempre e solo a parti di essi.

Una delle manifestazioni del racconto in cui la finzione rompe con la non finzione è l’impianto dei personaggi. Infatti, i personaggi finzionali godono di una libertà preclusa ai personaggi di non finzione, i quali, al contrario, sono il prodotto del lavoro di un narratore che non può creare, ma che opera a partire dal dato reale, e a cui, soprattutto, è tenuto a essere fedele.

Così, nel tratteggiare un personaggio non finzionale, il narratore ha sicuramente accesso a quei dati che gli derivano dal suo incontro, diretto o indiretto, con la persona di cui espone: informazioni sull’aspetto fisiognomico, informazioni anagrafiche, orientamenti politici e culturali pubblicamente noti, e così via. Al centro della sua descrizione è quel bagaglio di notizie ricavabili dall’esperienza o documentate, e, quindi, dalla relazione che intercorre fra il narratore e il personaggio o fra il narratore e le fonti a disposizione.

Appena oltre quest’ordine di notizie inerenti la vita esteriore, si colloca la differenza più significativa tra il personaggio non finzionale e quello finzionale: la presentazione della vita interiore, e l’accesso a questa dimensione, possono avere effettivamente luogo solo nel caso del personaggio di finzione. In tal caso, il narratore può comunicare l’interiorità dei suoi personaggi tramite quella che Cohn definisce “psico-narrazione”, cioè «la citazione diretta del discorso interiore e la possibilità di riportarlo sulla pagina, mediato dal discorso autoriale o senza filtri, come nel caso del monologo

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interiore»1.

Questa tipologia di operazioni non è consentita, invece, al narratore non finzionale. Si tratta di un aspetto che è costitutivo della non fiction: in essa non c’è libertà d’invenzione, e chi racconta ha obblighi specifici – innanzitutto legali, nonché morali – nei confronti delle persone di cui parla. Per questa ragione, la tecnica del narratore non finzionale rimane ancorata al ritratto fondato su documenti, testimonianze, ricordi, a cui, come si è detto, è continuamente chiamato ad attenersi.

A meno di casi in cui chi scrive ha ricevuto questo tipo di notizie direttamente dalla persona di cui narra, per esempio tramite dichiarazioni, lettere, confessioni, pagine personali che può citare, il narratore di non fiction ha a disposizione due strumenti per comunicare l’interiorità di persone realmente esistite: la congettura e l’inferenza, sempre adoperate procedendo «per ipotesi caute a partire dai dati a disposizione»2.

Dunque, i doveri del narratore non finzionale verso i dati fattuali fanno sì che il personaggio di non fiction, al contrario di quello di fiction, viva in una condizione di libertà limitata: dal momento in cui è trasposto sulla pagina letteraria, la sua identità dipende strettamente dal concetto che lo descrive. Questa configurazione attribuisce ai personaggi non finzionali una parvenza da «flat characters» forsteriani: il loro ritratto è sempre parziale, incompleto, e spesso costruito intorno a una o a poche qualità che permettono di individuarli come fossero tasselli precisi di una fotografia.

Uno scarto nella presentazione dei personaggi di non fiction si rileva inoltre tra personaggi con forte caratterizzazione pubblica e personaggi poco noti. Per quanto riguarda i primi, si tende a presupporre che il lettore abbia già a disposizione abbondanti informazioni circa la loro dimensione pubblica; per questo motivo, è privilegiata la descrizione della dimensione privata di questi personaggi, che mette al centro una verità che la loro dimensione pubblica non può dire. Viceversa, nel caso di personaggi che non si distinguono per un particolare coinvolgimento in vicende pubbliche, accanto alla narrazione di aneddoti privati, si tende ad assegnare ampio spazio anche a dettagli minimi, se possono rimandare a vicende più note.

Per quello che concerne la posizione su cui si attesta il narratore di non fiction, va detto che la vocazione testimoniale è una componente sempre centrale della sua attività narrativa. Così, sia che chi scrive testimoni di fatti vissuti in prima persona, che di fatti ai

1 MARCHESE 2019, p. 170. 2 Ibidem.

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quali ha assistito da terzo o che conosce indirettamente, l’atto del raccontare assume una valenza morale insostituibile. Dunque, la scrittura non finzionale dimora nell’ambito della vita pratica, ragione per cui, come si vedrà, i suoi autori molto spesso sentono di dover rispondere anche al dovere del giudizio; questo aspetto è senz’altro estraneo alla scrittura finzionale.

Alla luce delle premesse teoriche su cui ci si è soffermati, questo lavoro si propone di prendere in esame le configurazioni dei personaggi di tre libri non finzionali del secondo Novecento italiano: Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (1963), La tregua di Primo Levi (1963) e L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (1978).

Si tratta di scritture molto diverse fra loro, accomunate tuttavia dalla presenza di sistemi di personaggi tratti dal vero, contemporanei e più o meno prossimi ai narratori che li rappresentano. Si osserverà come ciascuno dei tre narratori si attesti su un ruolo testimoniale specifico, da cui scaturiscono doveri differenti verso i loro personaggi, e, al contempo, anche una predisposizione adeguata da parte del lettore.

Si esploreranno, quindi, i luoghi testuali da cui emergono le tessere essenziali alla presentazione di questi personaggi; sarà possibile, così, riscontrare che i vari ritratti su cui ci si concentra, nella loro peculiarità, sono sempre contraddistinti dalle caratteristiche sopracitate della verificabilità e dell’incompletezza, cifra delle narrazioni di non fiction.

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1. Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

1.1 L’Avvertenza

Lessico famigliare fu finito di stampare il 22 marzo del 1963. Scritto di getto in pochi mesi

– dall’ottobre al dicembre del 1962, il libro ritrae la vita quotidiana della famiglia Levi, e lo fa osservandola dall’interno, attraverso lo sguardo di Natalia. Ci si soffermerà in seguito sulla natura di questo sguardo e sul grado di elaborazione dei ricordi che ne deriva. È interessante ora, innanzitutto, chiedersi di che tipo di narrazione si tratti e quale rapporto questa intrattenga con il dominio della finzione e con quello della non finzione. E, preliminarmente, andrà ricordato che la fonte documentale di Lessico famigliare è costituita unicamente dalla memoria personale di Natalia Ginzburg.

Viene in aiuto a questo proposito una testimonianza dell’autrice stessa, contenuta nel luogo paratestuale più significativo del Lessico, l’Avvertenza. Ginzburg esordisce proprio offrendo una garanzia di non invenzione: afferma che le persone, i luoghi e i fatti di cui ha narrato sono reali; e lo sono come conseguenza dell’insofferenza maturata nel tempo verso l’invenzione letteraria, che l’ha spinta ad abbandonare il suo «vecchio costume di romanziera». In nome di questa scelta dice di aver anche conservato i nomi veri delle persone che ha descritto.

Poco dopo la Ginzburg informa di aver narrato soltanto quanto ricordava: il Lessico non può essere propriamente inteso come una cronaca, dal momento che, essendosi affidata alla memoria – che è di per sé «labile», come si legge più avanti –, i vuoti, tanto su fatti pubblicamente noti quanto su fatti familiari, non mancheranno. Questa precisazione non può non situare il Lessico nell’ambito della narrazione non finzionale, che per statuto è verificabile e incompleta3. Infatti, come chiosa l’autrice nel finale dell’Avvertenza, «i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito».

Tuttavia, nonostante si sia detto che niente è stato inventato, proseguendo nell’Avvertenza la Ginzburg esorta a leggere il suo libro come se si trattasse di un romanzo. Sulla non finzione si innesta quindi un proposito dichiaratamente finzionale, mediante il quale l’autrice del testo può reimpossessarsi di un vissuto e raccontarlo così

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come lei, in prima persona, lo ha rielaborato. Così si legge in uno degli autocommenti della Ginzburg4: «[…] non mi sono proposta, scrivendo, di dare un quadro obiettivo e fedele della realtà, ma semplicemente di far rivivere la realtà a modo mio e come io volevo». Ancora più emblematico in questa direzione è quanto si legge in un brano apparso sul «Corriere della Sera» del 7 aprile 1963 con il titolo Una domanda a Natalia Ginzburg:

Perché come testimonianza o cronaca di una epoca passata il suo valore è dubbio: difatti io mi sono attenuta a rievocare soltanto quello che sapevo e ricordavo con assoluta certezza; e anche di quanto ricordavo, non ho detto tutto, ma soltanto ciò che era in qualche modo penetrato fra le mura di casa nostra, o nel mondo della mia famiglia.

Il lavoro della memoria personale – e di conseguenza anche la narrazione referenziale che su essa si appoggia – presenta quindi nel caso del Lessico anche un connotato di selettività: è l’autrice a scegliere da quali cassetti di ricordi attingere per il suo racconto e quali invece trascurare. E, all’interno di questa operazione creativa, il criterio della selezione privilegia tutto ciò che ha avuto a che fare con la vita della famiglia Levi negli anni Venti-Cinquanta: ogni ricordo, anche il più apparentemente opaco o irrelato, ma comunque inerente a questo microcosmo, acquisisce dignità ed entra a far parte della pagina letteraria.

Ma la scrittura della Ginzburg è selettiva anche per un’altra ragione: fra le cose che la narratrice pure ricordava ma che ha scelto di tralasciare rientrano anche quelle che la riguardavano direttamente. Questa scelta è motivata dal referente esplicito che Ginzburg ha voluto per il suo libro: la sua famiglia. Di conseguenza – almeno negli intenti – il Lessico non vuole essere autobiografico, ma raccontare, assecondando un desiderio che abitava Natalia fin da piccola, delle persone che le vivevano vicino. Queste figure sono il vero fulcro dell’opera, che non è il resoconto oggettivo delle vicende stereotipe di una famiglia media, ma la ricostruzione unica e irripetibile della vita di “una” famiglia attraverso la rievocazione del suo lessico peculiare, strumento d’espressione intimo e vivido di relazioni e sentimenti.

È proprio considerando la dimensione della relazionalità che si scopre quanto, di fatto, l’io di Natalia finisca per essere comunque presente nelle pagine del Lessico: sia perché la sua identità – che negli anni messi a fuoco nel libro era quella di una bambina, quindi in via di formazione – non sarebbe diventata la stessa senza quei rapporti

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sostanziali; sia perché, come si vedrà meglio in seguito, spesso il piano della voce dell’io e quello della voce di alcuni familiari si mescolano e si intersecano.

Dunque, se la priorità del progetto autoriale risiede nella focalizzazione della storia della famiglia Levi, al contempo non è sufficiente che l’autrice dichiari di aver messo da parte gli episodi che riguardavano lei per adombrare dal Lessico il personaggio di Natalia, che invece attraverso gli altri, in certo modo, si definisce e si afferma. Tuttavia, la traccia più profonda e inconfondibile della presenza di Natalia Ginzburg nel testo rimane al livello della regia: nel primato dell’esercizio libero del ricordare e in quella «capacità di registrazione visiva e auditiva che […] si rivela ora come un’infinita partecipazione d’affetto per le persone che esistono e che sono esistite»5.

1.2 Un io che narra da molto vicino

Passando a considerare lo sguardo della narratrice, ciò che colpisce immediatamente l’attenzione del lettore che si accosta al testo è senza dubbio la forte prossimità che esiste fra chi narra e ciò che è narrato. Si tratta di una vicinanza che, come si vedrà, non può non determinare conseguenze specifiche sulla resa di eventi e personaggi.

È possibile individuare almeno tre diversi piani sui quali si manifesta la vicinanza dell’io narrante al narrato: un piano che si direbbe “fisico”, un piano narratologico e quello del grado di maturità dello sguardo della Ginzburg, della sua elaborazione. In primo luogo, infatti, Natalia è stata fisicamente vicina ai protagonisti del suo racconto, ai quali è legata da vincoli di sangue: in alcuni casi è stata spettatrice appartata, in altri propriamente testimone, in altri ancora compartecipe, tanto di vicende strettamente domestiche quanto di legami con figure esterne alla famiglia ma che attorno a essa orbitavano (e, di qui, l’espansione dell’orizzonte del narrato al contesto politico dell’antifascismo torinese e dei suoi esponenti).

Questa contiguità traspare anche dall’analisi delle strutture narrative scelte6: la

narrazione è autodiegetica, sebbene tenda fortemente verso l’allodiegesi, dato che il narratore è sì personaggio della storia, ma un personaggio molto defilato; il narratore è, inoltre, di tipo intradiegetico-omodiegetico, collocandosi quindi nella posizione di minima distanza rispetto ai fatti. Ancora, il discorso è riferito in stile diretto, per cui il narratore

5 CALVINO 1963a.

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finge di cedere letteralmente la parola ai suoi personaggi. E questa è evidentemente la forma più mimetica, cioè quella che più direttamente riproduce lo pseudo-reale narrativo.

Indagando più a fondo sullo sguardo della narratrice, è interessante provare a definirne il grado di maturità, osservando le posture che l’io narrante tende ad assumere. È lo sguardo di Natalia bambina che osserva, registra, e quindi racconta? Oppure quello di Natalia adulta? Quale stadio di elaborazione dei ricordi ha scelto di adottare la narratrice? In via provvisoria si può affermare che nel suo racconto la Ginzburg sembri continuamente oscillare fra la posizione di chi, con la consapevolezza dell’adulto, guarda disincantato a una storia che si è già fatta e che è ormai lontana, in un certo senso superata e, insieme, il desiderio di adottare nuovamente lo sguardo fresco, come custodito e rimasto intatto, tipico del tempo della sua adolescenza nel quale quella stessa storia si faceva.

Questo conto aperto con la dimensione della durata, tuttavia, finisce per risolversi in favore della seconda istanza: la strada scelta dalla Ginzburg è quella di assecondare la volontà di farsi contemporanea di quel mondo passato, e lo fa, come osserva De Tommaso, attraverso lo sforzo di «ricordare in relazione al modo di reagire della propria sensibilità al tempo in cui i fatti accadevano: cercando, in altri termini, di abolire la prospettiva temporale con le modificazioni di giudizio e di sentimento che questa comporta»7.

La notevole prossimità dell’io ai fatti narrati, ovvero il punto d’osservazione più che ravvicinato che caratterizza il Lessico si traduce, in ultima analisi, nell’appiattimento della prospettiva temporale delle vicende e dei personaggi messi a fuoco. La proverbiale semplicità spesso attribuita dalla critica a Natalia Ginzburg risiede forse proprio nel risultato di questo azzeramento prospettico: una voce narrante tutt’altro che imponente, ma ritratta e discreta, che si contraddistingue per la capacità di limitarsi a riprodurre e riconsegnare le voci degli altri. E anche l’espediente utilizzato per fare questo consiste in una strategia molto sottile, cioè quella di una «astuzia della chiacchiera femminile […] fondata sul semplice riporto “obiettivo” delle parole d’altri (l’aspetto di astuzia è, ovviamente, nella selezione)»8.

7 DE TOMMASO 1963, p. 337. 8 BERTONE 2015, p. 25.

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1.3 La voce della madre: una co-narratrice implicita?

Lo sguardo della narratrice, che si è detto essere simile a uno sguardo “contemporaneo” ai fatti raccontati, è reso possibile in buona parte da una figura che ha sicuramente una parte fondamentale nella costruzione di Lessico famigliare: Lidia Tanzi, la madre di Natalia. Infatti, nell’evocare episodi domestici e nel cedere direttamente la parola ad alcuni dei loro protagonisti, Natalia in diversi casi sembra ritagliare un piccolo spazio narrativo proprio alla madre, come se con lei condividesse la possibilità – e il privilegio – di accedere a quei contenuti della memoria.

Prima di osservare più nel dettaglio le possibili ingerenze della madre di Natalia sul piano diegetico del Lessico, non può non essere considerata la sua presenza all’interno del testo in qualità di personaggio. Il suo ritratto comincia a essere abbozzato fin dalle primissime sequenze della narrazione, pur prendendo forma gradualmente. Lidia è una donna piuttosto egocentrica, al fondo insicura, che probabilmente necessita di continue conferme dagli altri, specie da parte dei suoi familiari. Reclama spesso le attenzioni delle sue figlie, sulle quali – lo vogliano o no – esercita un forte ascendente, e si rabbuia profondamente quando una di loro la trascura per dedicarsi alle sue amiche; predilige l’amicizia di donne più giovani di lei e spesso socialmente inferiori, per poter influire, in certo modo, anche su di loro. Nel rapporto col marito, Lidia ha un approccio pacato, tende spesso a mitigare i conflitti con il suo fare leggero e apparentemente spensierato. Inoltre, come si vedrà, Lidia rappresenta l’antitesi del marito rispetto al tema del ricordare, centrale nell’impianto del racconto.

C’è un aspetto molto interessante del personaggio di Lidia Tanzi così come emerge dal ritratto che ne dà la figlia. Questo aspetto, nel rivelare l’esistenza di un punto di contatto particolarmente significativo fra madre e figlia fuori dalla pagina letteraria, fa luce anche sulla relazione fra le due figure al livello della narrazione. Infatti, nella 4a sequenza

del Lessico si legge: «Molti dei suoi [della madre] ricordi erano così: semplici frasi che aveva sentito» [LF 14-15].

Non diversamente sembrano configurarsi, nella loro forma, i ricordi che Natalia stessa riporta e consegna al lettore. E, più avanti:

Mia madre invece si rallegrava raccontando storie, perché amava il piacere di raccontare. Cominciava a raccontare a tavola, rivolgendosi a uno di noi: e sia che raccontasse della famiglia di mio padre, sia che raccontasse della sua, s’animava

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di gioia ed era sempre come se raccontasse quella storia per la prima volta, a orecchie che non ne sapevano nulla. [LF 19]

Natalia e la madre condividono dunque qualcosa di veramente emblematico: la vocazione narrativa. Entrambe coltivano la passione del raccontare, il gusto e il piacere che vengono dal ripescare e tenere in circolo, spesso ripetendole, delle storie. È l’esercizio continuo del ricordare e del parlare – e, così, del dare ordine – dell’esperienza l’inestimabile eredità materna che Natalia mette a frutto nel Lessico. Ecco che, rispetto a questo tratto specifico, l’io narrante appare quasi come il doppio della madre, che, invece, è dell’altra una specie di precorritrice (per quanto non sia così semplice decidere chi sia da intendersi come il doppio dell’altra).

Un altro ambito nel quale scorgere più microscopicamente l’interferenza vocale della madre di Natalia è quello del linguaggio della narratrice. A questo proposito, Nunzio La Fauci ha notato come nell’uso particolare dei nomi propri che la Ginzburg opera nel

Lessico si nasconda una traccia della lingua della madre. È stato riscontrato, infatti, che i

casi in cui si legge l’articolo determinativo prima del nome proprio sono attribuibili alla varietà linguistica milanese della madre di Natalia. La parola materna, quindi, ha originato uno – o più – tratti che sono entrati stabilmente a far parte del codice espressivo familiare, e che la narratrice ha inglobato fin dall’infanzia. Quindi, «nella grammatica del nome proprio, la scabra (se non rude) voce di Natalia Ginzburg rifrange quella di Lidia Tanzi o, riflettendola, se ne fa mimesi»9.

Tuttavia, è ancora da menzionare la ragione principale per cui si può parlare, a proposito della madre di Natalia, di co-narratrice implicita del testo. Esistono, infatti, delle vicende – pure raccontate, citate o alluse – alle quali Natalia non può aver preso parte o delle quali non può essersi formata un ricordo personale, perché non ancora nata o perché troppo piccola per averne memoria. Proprio a proposito di queste immancabili lacune temporali deve essere stata la voce della madre ad aver compensato, come sostiene Giacomo Magrini. E, con lui, si guardi a quello che è il fulcro autentico della collaborazione fra la narratrice e la madre: la concezione stessa del ricordo per la Ginzburg, il fatto che questo «non è proprietà del singolo, luogo geloso e oscuro, bensì un bene comune e razionale»10. Questo bene comunitario, che conferisce spontaneamente identità a

9 LA FAUCI 2018, p. 237. 10 MAGRINI 1996, p. 784.

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tutta la famiglia Levi e cementifica le relazioni dei suoi membri, si esprime proprio mediante quel lessico condiviso, il loro «latino», che dà il titolo all’opera.

1.4 I personaggi

Prima di procedere con la presa in esame di alcuni fra i personaggi principali di Lessico

famigliare, sarà utile dare uno sguardo alla tecnica descrittiva di cui la Ginzburg si avvale

per il suo lavoro. In generale, si può asserire che la poetica del personaggio che l’autrice fa propria si serve di poche pennellate, di tocchi basilari e piuttosto fissi, originando in questo modo una descrizione dei personaggi “per forza di levare”. Per far questo, l’autrice ricorre prevalentemente ai procedimenti tradizionali del genere cronachistico. Le persone, al loro apparire sulla pagina, tendono così a essere presentate al lettore: si parte da alcuni tratti dell’aspetto fisico, per poi passare a qualche nota comportamentale e a pochi cenni biografici, spesso soffermandosi non troppo minuziosamente sulla situazione economico-sociale di questo parente o di quell’amico, su qualche aneddoto che intercetta la relazione con i membri del nucleo familiare di Natalia, o sui loro problemi più manifesti.

Un’impostazione simile, tuttavia, finisce quasi per congelare i personaggi, fotografandoli in un tempo e in uno spazio piuttosto statici e quindi inibendo immancabilmente ogni processo di crescita interiore: i personaggi del Lessico, infatti, sembrano qualificarsi più come dei «flat characters», costruiti spesso intorno a una qualità che ne rappresenta la più sicura tessera di riconoscimento11. Si tratta di una conseguenza scaturita, come chiarisce De Tommaso12, dalla scelta di Ginzburg di abolire la prospettiva temporale e di collocare sé stessa come narratrice ravvicinata (cfr. 1.2):

Era inevitabile che riproponendole [queste figure] nella luce di una guardatura ravvicinata, dovesse rinunciare a restituire il senso di un loro intimo sviluppo e dovesse appagarsi di farne delle figure di una certa fissità, di quella fissità, appunto, che è propria dei «caratteri». Figure ricche di rilievo, individuate con assai penetrazione, come abbiamo cercato di dire, ma piuttosto statiche così in riferimento all’evoluzione interiore come agli addentellati intrinseci con il più vasto panorama storico in cui s’inquadrano.

Per De Tommaso, però, questo non è da intendersi come un effetto imprevisto e indesiderato, né come una scelta sprovveduta, ma l’alternativa che la Ginzburg ha

11 FORSTER 1963, pp. 76 ss. 12 DE TOMMASO 1963, p. 340.

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consapevolmente preferito al «rischio che deve aver paventato, di poter concedere eccessivamente all’elegia»13.

L’esito della tipizzazione dei familiari di Natalia e degli amici dei Levi è ottenuto soprattutto mediante l’efficacia di un discorso narrativo che tende sempre a portare avvenimenti e comportamenti verso l’abitualità, a reiterarli e a renderli uguali a sé stessi anche laddove non lo sarebbero: è il registro della consuetudine a caratterizzare le vite dei personaggi del Lessico. Questo registro trae forza da alcune scelte stilistiche importanti. Spiccano, per esempio, l’uso abbondante dell’imperfetto con valore frequentativo, che ha la funzione di replicare non solo i fatti raccontati ma anche interi dialoghi, e la fitta introduzione di attributi connotativi che gli interlocutori principali dei personaggi presentati hanno nel tempo assegnato loro, e che ormai non solo li contraddistinguono, ma sono quasi parte delle loro identità.

Delle identità che, in qualche modo, sono tutte qui, e così si compiono: non c’è un accesso all’intimità dei familiari di Natalia, nessun varco d’eccezione che permetta al mondo interiore di queste persone di transitare all’interno di Lessico famigliare. Si tratta di un aspetto precipuo dello statuto della narrazione non finzionale, che trova ora riscontro a livello testuale: le scritture di non fiction, infatti, differiscono dalle scritture finzionali soprattutto perché in esse il narratore non può avere accesso all’interiorità dei personaggi in mancanza di loro esplicite dichiarazioni; queste informazioni, invece, laddove sono presenti, costituiscono proprio l’emblema della finzione.

Inoltre, sui suoi personaggi Ginzburg non esterna considerazioni personali particolari, che si addirebbero invece a uno sguardo adulto e sufficientemente distanziato, ma desidera riservare lo spazio della narrazione prevalentemente al discorso delle sue creature di carta (si ricordi l’intentio operis, che insisteva sul dare voce diretta ai membri della sua famiglia, enunciata nell’Avvertenza). Così, l’autrice «affida tutto alla maestria dello stile e al gioco degli accostamenti. Di qui la freschezza dell’evocazione e il tono fiabesco del racconto; […] di qui infine l’impianto comportamentistico, che privilegia atti e parole mettendo fra parentesi motivazioni e connessioni»14. I personaggi così come Ginzburg li tratteggia sono ciò che fanno e ciò che dicono.

Le presentazioni di alcuni dei personaggi che a breve si analizzeranno possono essere preventivamente suddivise in due tipologie: da una parte ci sono delle figure alle

13 Ibidem.

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quali è possibile accostare un segno “meno”, rispetto alle quali Natalia si attesta su una posizione di distanza maggiore, che quindi origina un ritratto più superficiale (è il caso, fra gli altri, delle presentazioni degli antifascisti torinesi); dall’altra, dei personaggi “più”, separati da una distanza minore dalla narratrice, e, perciò, contraddistinti talvolta da un ritratto più vivido, denso di specificazioni (per esempio quelli del padre e del fratello Mario e quello di Pavese), altre volte da un ritratto volutamente più sfocato ed ellittico, a causa del forte coinvolgimento affettivo (è il caso, su tutti, di Leone Ginzburg). Allo stesso modo, come si vedrà, l’ammissione al discorso diretto non è distribuita in modo omogeneo: i personaggi ai quali la Ginzburg dà voce diretta sono solitamente quelli che a lei sono stati più vicini, specie la madre e il padre, senza dubbio quelli più mimeticamente precisati, per i quali l’espressione tramite il discorso diretto meglio ne definisce le identità. Le parti che, invece, vengono più spesso parafrasate o condensate nel discorso indiretto sono o quelle di personaggi poco prossimi alla narratrice, oppure quelle degli antifascisti, i quali propositi sembrano voler essere protetti, forse per il desiderio dell’autrice di non allontanarsi troppo dalla Storia ufficiale e da ciò che per essa, in merito all’antifascismo, era degno di essere registrato.

1.4.1 Natalia

Natalia è il personaggio di Lessico famigliare a proposito del quale, più di ogni altro, prevale la reticenza. Infatti, la più evidente esclusione che l’autrice compie nel suo testo è proprio quella di sé stessa: la bambina, poi adolescente e infine donna che narra con grande sottigliezza vite, incontri e persone sceglie di non raccontarsi mai. Questo non significa che Ginzburg non esponga fatti che l’hanno riguardata, dei quali è stata partecipe o protagonista, ma la messa a fuoco su sé stessa, le modalità con cui ha vissuto quei fatti, ciò che in lei hanno messo in moto, e, quindi, la misura in cui hanno influito sulla sua persona e sulla sua formazione non sono detti.

Il silenzio sul personaggio di Natalia è tanto più severo quanto più i fatti narrati richiamano alla narratrice particolari momenti di sofferenza: si tratta quindi di un silenzio direttamente proporzionale al dolore. È questa una caratteristica topica non solo del personaggio, ma dell’intera poetica di Ginzburg: il dolore è puntualmente censurato dalla pagina letteraria, evitato e allontanato, perché, per la scrittrice, «la vita è una realtà felice, una fonte di felicità. La sofferenza è simile a una vergogna, non è fertile, non produce nulla

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di buono. Va tenuta nascosta, non va divisa con gli altri. Appartiene a noi e solo a noi, e deve morire con noi»15.

Un altro punto di reticenza consistente è quello dell’ebraismo. Sia i Levi che i Ginzburg sono famiglie ebraiche, colpite in anni non distanti dal tempo del racconto dalle leggi razziali. Tuttavia, nel Lessico non si legge niente di esplicito in merito. Questo dipende dal peso che Ginzburg dà all’ebraismo nella propria identità, e, ancor di più, dal suo personale modo d’intenderlo e di viverlo:

Nella Ginzburg l’ebraismo è un elemento così intimo e profondo da esprimersi ovunque e in nessun luogo, in un’intonazione e in una cadenza umoristica, e da non aver bisogno di appoggiarsi a una tradizione né tantomeno di esibirla. L’ebraismo della Ginzburg è cosa vissuta e saputa, che non ha bisogno di essere anche conosciuta e documentata […].16

Anche qui, dunque, la narratrice sceglie di non esporre tessere manifeste che dicano della tradizione ebraica, ma di lasciare questo elemento della sua identità appena accennato, nella forma discreta di un’intonazione, di un sorriso ironico verso la realtà.

Tuttavia, ci sono delle eccezioni. È possibile, infatti, individuare nel Lessico dei casi in cui Natalia non rimane del tutto nell’ombra: questo succede per lo più nella seconda metà del libro, quando Natalia è ormai adulta. Si tratta di passaggi nei quali, a proposito delle varie fughe che lei e la sua famiglia dovettero affrontare per fuggire dai tedeschi che cercavano il marito Leone, la narratrice registra note di nostalgia per lui e anche per la madre; oppure di piccoli momenti di realizzazione personale in cui, nel rapporto con la madre, si rilevano delle evoluzioni. Per esempio, così accade quando Ginzburg rievoca il tempo in cui dovette prepararsi a lasciare il loro temporaneo rifugio in Abruzzo:

Ricevetti una lettera di mia madre. Era anche lei spaventata e non sapeva come aiutarmi. Pensai allora per la prima volta nella mia vita che non c’era per me protezione possibile, che dovevo sbrogliarmela da sola. Capii che c’era stata sempre in me, nel mio affetto per mia madre, la sensazione che lei m’avrebbe, nelle disgrazie, protetto e difeso. Ma ora restava in me l’affetto soltanto, e ogni richiesta e attesa di protezione era da quell’affetto scomparsa, e anzi pensavo che forse avrei dovuto io in avvenire proteggerla e difenderla, perché era ormai, mia madre, molto vecchia, avvilita e indifesa. [LF 143]

15 GARBOLI 1963, p. XVI. 16 SCARPA 1999, p. 218.

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E ancora, poco dopo, sul ricordo commosso della separazione dalla gente abruzzese, che aiutò Natalia e i suoi figli a fuggire a Roma:

Mi venne in aiuto la gente del paese. Si concertarono fra loro e mi aiutarono tutti. La proprietaria dell’albergo, che aveva tedeschi accampati nelle poche stanze e seduti in cucina attorno al fuoco, là dove tante volte eravamo stati seduti noi quietamente, raccontò a quei soldati che ero una sfollata di Napoli, sua parente, che avevo perduto le carte nei bombardamenti e che dovevo raggiungere Roma. Camion tedeschi andavano a Roma ogni giorno. Così salii su uno di quei camion una mattina, e la gente venne a baciare i miei bambini che aveva visto crescere, e ci disse addio. [LF 143-144]

Altre volte è il ricordo della gratitudine provata alla vista di una faccia amica – in questo caso del cognato, Adriano Olivetti – in una circostanza di grande solitudine a prorompere inaspettata:

Io ricorderò sempre, tutta la vita, il grande conforto che sentii nel vedermi davanti, quel mattino, la sua figura che mi era così familiare, che conoscevo dall'infanzia, dopo tante ore di solitudine e di paura, ore in cui avevo pensato ai miei che erano lontani, al Nord, e che non sapevo se avrei mai riveduto […]. [LF 150]

Giacomo Magrini riflette sul fatto che il nome di Natalia compaia molto tardi nel racconto. Il critico afferma che questa «apparizione lenta e calcolata del nome proprio è uno degli aspetti (dei meno trascurabili) della sapiente strategia costruttiva»17 del Lessico. Infatti, a seguito delle occorrenze di diversi nomignoli e perifrasi con cui Natalia era designata in casa, specie dal padre e dalla madre, si trova l’episodio del matrimonio con Leone: questo passaggio sembra sancire la comparsa nel testo del nome autentico “Natalia”, che si legge poco dopo nell’ambito della descrizione delle sue amiche. E, prosegue Magrini, «la scelta del luogo del testo non sembra davvero casuale, perché la sequenza 30a, dominata dalle tre amiche ebree e dal padre di due di loro, è quella che

mostra il più autentico e perlustrato spazio di autonomia della narratrice in quanto personaggio»18. Si tratta di una delle eccezioni – forse la più significativa – cui si

accennava sopra: lo sguardo di chi narra sembra qui sopravanzare la sua concomitanza con chi è narrato, quasi abrogando l’eclissi di Natalia-personaggio, che, altrove, come si è osservato, fatica a ritagliarsi uno spazio proprio. In altre parole, l’io narrante molto

17 MAGRINI 1996, p. 779. 18 Ivi, p. 780.

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ravvicinato (cfr. 1.2) cede ora il passo a un io più maturo e autonomo, non solo sul piano narrativo, ma anche su quello della realtà: Natalia è ora una donna. Se ne trova traccia in alcune delle riflessioni di questa sequenza: l’enunciazione del rapporto difficile di Natalia con il denaro, la condanna della «vita facile», borghese, che ha vissuto prima di sposarsi e il desiderio di uscirne, nonché l’attrazione per lo stile povero delle sue amiche. E la spia più eloquente di questo cambiamento nella prospettiva tenuta emerge nitidamente dalla considerazione con cui Natalia chiosa il fatto che, da sposata, è costretta a frequentare meno le sue amiche: «Tuttavia, vederle ogni tanto mi rallegrava, e mi restituiva per un attimo alla mia adolescenza, che sentivo fuggire alle mie spalle» [LF 118].

Riassumendo, si può affermare che l’interiorità di Natalia-personaggio è prevalentemente bandita dalla narrazione, salvo essere accennata nel testo non appena subentrano le relazioni fondamentali della sua esistenza e il ricordo di complicanze o peripezie che, in virtù di quegli affetti, Natalia si è trovata a vivere. Altre sfaccettature del personaggio, inoltre, si scorgono non appena si definisce il passaggio verso l’età adulta, che rende possibile una focalizzazione più libera della figura di Natalia. E, in ultima analisi, si può dire che la questione della possibilità di accedere alla vita interiore del personaggio non confligge, in questo caso, con la non finzione – o non si pone neanche – proprio perché chi narra e chi è narrato coincidono.

1.4.2 Il padre

Il padre di Natalia, Giuseppe Levi, è il primo personaggio che compare in Lessico

famigliare. Già questo primo dato, insieme all’incisività dello scorcio che lo presenta, dice

la grande rilevanza della figura del signor Levi, e all’interno del testo e nella vita della Ginzburg. Si legga allora il suo ingresso nel racconto, nonché l’incipit dello stesso:

Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: – Non fate malagrazie!

Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: – Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!

Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire.

Diceva: – Voialtri non sapete stare a tavola! Non siete gente da portare nei loghi! [LF 3]

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Come si può osservare, Giuseppe Levi è introdotto al lettore – e continua, allo stesso modo, a essere menzionato in tutto il testo – soprattutto attraverso il suo gergo, vero e proprio elemento distintivo. Esso indica la spiccata tendenza del padre di Natalia a infarcire il suo linguaggio di parole tipiche del suo dialetto, il triestino. Infatti, in poche e brevi proposizioni si legge una successione di termini triestini: malagrazie, sbrodeghezzi,

potacci, loghi. Gli stessi ricorrono in svariati punti del racconto, insieme a molti altri (per

esempio babe, fufignezzi, sgarabazzi, malignazzo, negrigura, sempio e sempiezzi, e così via). Questi lessemi hanno un valore centrale, perché da un lato «fungono da richiami a persone ed episodi; sono degli operatori mnestici»19, dall’altro, agiscono come indicatori identitari, che consolidano e ribadiscono la rete delle relazioni familiari.

La figura di Giuseppe Levi, abbondantemente presente nel testo del Lessico, acquisisce, gradualmente, consistenza di personaggio; essa, infatti, sembra a poco a poco venire fuori dall’ombra, dato che, ogni volta che compare, è arricchita di qualche pennellata che la specifica di più. Emerge, così, il personaggio di un affermato professore universitario di biologia, dall’indole piuttosto burbera in casa, dove è connotato come un

pater familias molto autoritario, collerico e tonante. Tuttavia, il suo autoritarismo è più

formale che sostanziale: è un uomo all’antica, con delle convinzioni da cui nessuno riuscirebbe ad allontanarlo, e in virtù delle quali prova a imporre ai suoi familiari una serie di divieti ricorrenti, ma risulta, nei fatti, tendenzialmente docile, se i figli finiscono sempre e comunque per agire e scegliere come meglio credono. Si pensi, per esempio, all’apparentemente ferreo controllo che Levi esercita sulle letture dei figli, che poi si rivela, però, del tutto vanificato, poiché ciascuno legge ciò che preferisce. È molto attento al fatto che in famiglia possano introdursi esempi poco educativi, che siano fuorvianti per la condotta dei figli, tanto da essere spesso vago, se non mendace o ellittico, davanti ad alcune loro domande. Così accade a proposito della continua curiosità suscitata nei suoi bambini dall’oscura relazione tra Filippo Turati e Anna Kuliscioff:

in casa nostra c’era anche un’altra cosa che veniva sempre velata di vago mistero, pur riguardando persone di cui si parlava continuamente: ed era il fatto che Turati e la Kuliscioff, non essendo marito e moglie, vivessero insieme. Anche in questa sorta di mistero riconosco soprattutto l’intenzione e i pudori di mio padre, perché mia madre forse, da sola, non ci avrebbe pensato. Sarebbe stato più semplice che ci mentissero, dicendoci che erano marito e moglie. Invece no; a noi, o almeno a

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me che ero ancora bambina, veniva nascosto che abitavano insieme; e io, sentendoli sempre nominare in coppia, domandavo perché, e se erano marito e moglie, o fratello e sorella, o cosa. Mi veniva risposto in modo confuso. [LF 37]

Il signor Levi è dipinto, inoltre, come un uomo particolarmente abitudinario; è un grande amante della montagna, che costituisce per lui non tanto o non solo una passione ma un vero e proprio culto, da preservare e tramandare ai figli con tutte le sue peculiari e insostituibili regole (che spaziano dall’attrezzatura all’alimentazione). Altrettanto rigido è il suo atteggiamento verso l’arte: a metà fra il disinteresse e la ripugnanza, si mostra al fondo, anche in questo ambito, profondamente conservatore, assoggettato al dominio della moda «universale»:

Mio padre invece usava gettare sulle cose nuove, che non conosceva, uno sguardo torvo e pieno di sospetto. […]

Quanto ai quadri di Casorati, di cui Terni ci portava le riproduzioni, mio padre non li poteva soffrire. – Sgarabazzi! sbrodeghezzi! – diceva. La pittura, del resto, non lo interessava affatto. Andava, con mia madre, nei musei di quadri, quand’erano in viaggio; accordando ai pittori «antichi», come Goya o Tiziano, per il fatto che erano ormai universalmente riconosciuti, giubilati, una certa legittimità. [LF 48-49]

È interessante soffermarsi sul rapporto che il signor Levi intrattiene con l’esercizio del raccontare, e, quindi, con il meccanismo del ricordo. Come si è osservato in 1.3, Natalia e la madre condividono il tratto fondamentale, centrale nell’impianto del Lessico, della vocazione narrativa, che si manifesta come profonda dedizione al piacere del racconto, che chiede di essere amato. Il padre di Natalia incarna esattamente l’istanza opposta: il suo raccontare è sempre disordinato; è interrotto e disturbato dal suo coinvolgimento rispetto ai fatti che prova a narrare; egli è come sopraffatto dai ricordi, per cui, al contrario della moglie, che invece li possiede proprio grazie al fatto che «amava il piacere di raccontare», non è capace di sistematizzarli:

La storia dell’uovo della nonna Dolcetta, e la storia della nostra Rosina, fu mia madre a raccontarcele per disteso; perché mio padre, lui, raccontava male, in modo confuso, e sempre inframmezzando il racconto di quelle sue tuonanti risate, perché i ricordi della sua famiglia e della sua infanzia lo rallegravano; per cui di quei racconti spezzati da lunghe risate, noi non capivamo gran cosa. [LF 19]

Ancora, il padre di Natalia si mostra piuttosto refrattario alla caratteristica che fa da perno al concetto di narrazione memoriale così come lo intendono la figlia e la moglie: la

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reiterazione e la ripetibilità dei ricordi già detti. In più luoghi del testo, infatti, il signor Levi esprime le sue lamentele a proposito dell’aver sentito più volte la stessa storia, criticando apertamente la moglie per ciò che lui percepisce come mero chiacchiericcio, mentre per lei è fonte di contentezza. Si tratta di un dato importante nell’economia del ritratto di questo personaggio, dato che proprio con uno di questi suoi reclami si conclude tutto il Lessico: «– Ah non cominciamo adesso col Barbison! – disse mio padre. – Quante volte l’ho sentita contare questa storia!» [LF 189].

Peraltro, il padre di Natalia detiene nel testo anche una specie di potere di nominazione o di definizione, in primo luogo nei confronti della figlia. Infatti, è attraverso le personali interpretazioni del padre che molti dei fatti più significativi che la riguardano vengono presentati. Così, è attraverso l’elaborazione operata dal signor Levi che nel racconto è sancita la notizia del matrimonio di Natalia con Leone:

Mi sposai; e immediatamente dopo che mi ero sposata, mio padre diceva, parlando di me con estranei: «mia figlia Ginzburg». Perché lui era sempre prontissimo a definire i cambiamenti di situazione, e usava dare subito il cognome del marito alle donne che si sposavano. Aveva due assistenti, un uomo e una donna, che si chiamavano, lui Olivo, e lei Porta. Olivo e la Porta poi si sposarono insieme. Noi continuammo tuttavia a chiamarli «Olivo e la Porta», e mio padre ogni volta s’arrabbiava: – Non è più la Porta! dite la Olivo! [LF 114]

Si potrebbe dire, anzi, che la portata dell’evento – tutt’altro che trascurabile – del proprio matrimonio è volutamente ridimensionata dalla narratrice, e, per fare questo, si serve proprio della scelta di lasciar ratificare il mutamento di status al padre, riducendolo così a mera esemplificazione di una delle sue stereotipe fisse retoriche.

Dunque, il personaggio del padre di Natalia, oltre a essere una delle figure dominanti di Lessico famigliare, può essere a buon diritto considerato uno di quei personaggi di cui viene offerto un ritratto particolarmente denso – se non il più denso. È inequivocabile, di conseguenza, la parte significativa che Giuseppe Levi ebbe nella vita della Ginzburg, specie nella sua educazione. E, come si è potuto notare, il personaggio, in accordo con la dimensione non finzionale dentro la quale si trova, viene tratteggiato senza alcun accenno al piano della sua interiorità: nessun particolare scandaglio psicologico; solo la descrizione di quella porzione limitata, incompleta ma potenzialmente verificabile, dell’uomo Giuseppe Levi, cioè di quanto, relazionandosi con lui nella vita concreta, la narratrice ha potuto conoscere. Infine, trattandosi di una relazione fondamentale quale

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quella paterna, il suo ritratto non può non risentire, probabilmente molto più di altri, della rielaborazione personale che ne fa la narratrice selezionando gli aspetti da pronunciare e quelli da tacere.

1.4.3 Il fratello Mario

Natalia era la più piccola di cinque fratelli: Gino, Paola, Alberto e Mario gli altri. Gino, il fratello maggiore, lavorò come ingegnere per Adriano Olivetti, il quale, a sua volta, sposò Paola; Alberto, invece, divenne un medico affermato. Infine, Mario, che fu un importante attivista antifascista.

Nella narrazione della Ginzburg, tra tutti i fratelli, spicca proprio il personaggio di Mario, della cui vita si seguono da vicino diverse tappe salienti. A lui, di conseguenza, sono dedicate ampie parti del Lessico. Non solo: «quando parla di lui Natalia diventa addirittura icastica, dimentica la deliberata umiliazione del tono e quasi scolpisce»20.

La prima immagine di Mario che il testo restituisce è collocata subito dopo l’accenno alla «precoce vocazione poetica» che era attribuita in famiglia a Natalia a causa della sua attitudine a comporre, fin da piccola, brevi poesie. La narratrice reagisce, al solito, ridimensionando la portata di questa supposizione, e dicendo che si trattava di un’abitudine diffusa tra lei e i suoi fratelli; così, sono citati anche dei versi di Mario:

Mio fratello Mario aveva una volta fatto una poesia su certi ragazzini Tosi, che giocavano con lui a Mondello, e che non poteva soffrire:

E quando arrivano i signori Tosi, Tutti antipatici, tutti noiosi. [LF 23]

A partire dalla sua prima apparizione nel racconto, dunque, Mario è connotato come un bambino insofferente, tendenzialmente aggressivo. È interessante che gli stessi versi sui Tosi siano citati nuovamente molto più avanti nel Lessico, quando Mario rompe con i gruppi di Giustizia e Libertà, che proprio ai bambini Tosi vengono accomunati21. Sembra quasi che il personaggio di Mario, a distanza di decenni, acquisti un di più di coerenza attraverso il ricordo di questo episodio infantile, che già aveva schiuso una faccia della sua personalità; quest’ultima risulta, così, confermata, del tutto immutata, anche quando Mario cresce. La strategia dell’inserzione dei versi, allora, viene ad assumere una

20 MONTALE 1996, p. 2594. 21 LF 96-97.

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funzione simile a quella dell’uso delle parole caratterizzanti e dei marcatori gergali: è anch’essa un espediente al servizio della precisazione del personaggio, del suo consolidamento e riconoscimento.

Anche nel caso di Mario non mancano nel testo tracce del suo linguaggio personale. L’espressione più denotativa e ricorrente si trova, per la prima volta, all’interno del lungo ritratto di Mario che la narratrice offre al lettore nella 9a sequenza:

Poi, una mattina, a Mario, la luna gli era passata. Entrava in salotto, si sedeva in poltrona, e si accarezzava le guance con un sorriso assorto, con gli occhi socchiusi. Cominciava a dire: – Il baco del calo del malo –. Era un suo scherzettino e gli piaceva molto, lo ripeteva insaziabilmente. – Il baco del calo del malo. Il beco del chelo del melo. Il bico del chilo del milo. – Mario! – urlava mio padre. – Non dir parolacce!

– Il baco del calo del malo, – riprendeva Mario, appena mio padre era uscito. [LF 34].

La frase di Mario, quindi, ha un primo significato esplicito, che è quello già deducibile dalla sua prima occorrenza: viene da lui pronunciata quando, dopo essersi imbronciato a seguito di una lite con uno dei fratelli, ha ritrovato la voglia di comunicare con i suoi familiari. Infatti, più avanti nel testo, si legge ancora:

– Il baco del calo del malo, – diceva Mario con un sorriso assorto, carezzandosi le mascelle. Era il suo modo di annunciare che non aveva il muso, e che avrebbe chiacchierato con mia madre, con mia sorella e con me. [LF 45]

Nell’occorrenza successiva, invece, il ricordo dell’espressione di Mario documenta un progressivo distacco del giovane da quel codice comunicativo tipico dell’infanzia, e marca, di conseguenza, la riduzione dei suoi dialoghi con genitori e fratelli. A questa altezza, infatti, Mario si è già trasferito per lavoro a Genova, e torna a casa solo di tanto in tanto il sabato:

Mario diceva ancora «il baco del calo del malo» sedendosi un momento con me e con mia madre in salotto, e carezzandosi le mascelle; ma poi subito andava al telefono, prendeva misteriosi appuntamenti parlando a voce bassa; – Addio mamma, – diceva dall’anticamera; e non lo vedevamo fino all’ora di cena. [LF 73].

Un secondo significato che l’uso dell’espressione «il baco del calo del malo» lascia implicitamente intuire riguarda il rapporto di Mario con il padre. Riprendendone la prima

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occorrenza, in LF 34, si riscontra che l’abitudine di Mario infastidisse il padre, che perciò era solito rimproverarlo. E, per tutta risposta, Mario ripeteva caparbiamente il suo gioco linguistico non appena il padre si allontanava. Questo informa di due cose: da un lato, il ritorno del motivo della ripetizione di frasi già dette è confermato topos della comunicazione della famiglia Levi; dall’altro, la reazione di Mario è spia di un rapporto padre-figlio non proprio pacifico.

Mario, infatti, si mostra fin da piccolo particolarmente ribelle alla figura del padre, sabotando spesso le sue iniziative e osteggiando le sue passioni, su tutte quella per la montagna. Eppure, c’è un aspetto che lo avvicina al padre: il fatto che entrambi sbottino in crisi di nervi improvvise, sempre innescate da motivazioni futili e superficiali. Si racconta, inoltre, delle continue liti fra Mario e il fratello Alberto, ulteriore frequente ragione di collera per il padre. Dall’insofferenza di Mario nei confronti del padre si passa poi a una generalizzata ostilità del padre verso i colpi di testa adolescenziali del figlio; ostilità che però, a un certo punto, agli occhi della narratrice, sembra mutare in un sentimento di velato orgoglio per l’attivismo politico di Mario:

Mio padre era però felice di avere un figlio cospiratore. Non se l’aspettava: e non aveva mai pensato a Mario come a un antifascista. Mario usava dargli sempre torto, quando discutevano, e usava parlar male dei socialisti di un tempo, cari a mio padre e a mia madre: usava dire che Turati era stato un grande ingenuo, e che aveva infilato sbagli su sbagli. E mio padre, che anche lui lo diceva, quando lo sentiva dire da Mario s’offendeva a morte.

– È fascista! – diceva a volte a mia madre. – In fondo è un fascista!

Ora non poteva più dire così. Ora Mario era diventato un famoso fuoruscito politico. [LF 91]

Tuttavia, anni e anni dopo, quando Mario è già stato arrestato dai fascisti, sull’orgoglio prevale comunque nel padre la preoccupazione che il fatto che Mario sia stato un cospiratore abbia danneggiato la fabbrica di Adriano Olivetti. Dunque, è l’eccessiva apprensione per il parere degli altri che finisce per governare l’agire del padre e le sue scelte nei confronti di Mario, segnando sempre un certo distacco fra i due:

Per cui alcuni anni dopo, quando morì Adriano, e Mario da Parigi mandò a mio padre un telegramma: «Dimmi se opportuna mia presenza funerali Adriano», mio padre gli rispose subito con quest’altro brusco telegramma: «Inopportuna tua presenza funerali». [LF 155]

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Inoltre, la notizia del coinvolgimento di Mario come cospiratore tra le fila di Giustizia e Libertà coincide, all’interno della narrazione, anche con il passaggio che presenta per la prima volta il personaggio di Leone Ginzburg. Questi è volutamente introdotto non secondo la prospettiva della narratrice, ma in modo del tutto tangenziale: attraverso l’estraneità e il sospetto del padre verso la nuova frequentazione di Mario22.

Un’altra relazione messa a fuoco nel Lessico che vede protagonista Mario è quella con la sorella Paola. Si legge di una loro particolare sintonia da ragazzi, a proposito della quale la narratrice si mostra perplessa e incuriosita:

e invece nei discorsi che facevano Terni, la Paola e Mario sul divano in salotto, c’era qualcosa di misterioso e d’impenetrabile, che esercitava su di me una mescolanza di fascino e di spavento. [LF 48]

Più avanti, Ginzburg specifica la natura di questa sintonia, definendola «malinconica»; la loro intesa si rivela poi essere un tentativo di fare fronte comune contro la rigidità del padre:

Mostravano, la Paola e Mario, perduti nella loro malinconia, una profonda insofferenza per il dispotismo di mio padre, e per i costumi di casa nostra, quanto mai semplici ed austeri: avevano l’aria di sentirsi, nella nostra casa, in esilio, sognando tutta un’altra casa, e tutt’altre abitudini. [LF 52]

La comunione fra Mario e Paola, tuttavia, entra completamente in crisi quando i due crescono, in particolare quando Mario – già cospiratore – si trasferisce a Parigi, e Paola, andando a trovarlo, lo scopre irrimediabilmente cambiato e distante. Successivamente, quasi alla fine del libro, è ancora una volta il padre a prendere la parola e a ripercorrere la storia della loro relazione, per sancirne ruvidamente il declino:

– Avevano fatto una gran lega loro due, Mario e la Paola, da ragazzi, – diceva mio padre. – Ti ricordi quando stavano sempre a ciuciottare, col povero Terni? Avevano la mania di Proust, non parlavano d’altro. Adesso, la Paola e Mario sono molto in freddo, non si guardano più nemmeno in faccia. Lui la trova borghese. Che asini! [LF 185]

Di Mario, quindi, la Ginzburg dispensa un ritratto particolarmente ricco, quasi mettendo da parte l’usuale cautela con cui, altrove, ha proceduto. Inoltre, il suo ritratto

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fornisce al lettore degli spaccati narrativi che gettano luce anche sui legami del fratello con gli altri membri della famiglia, aprendo degli spazi d’interazione nei quali i tratti essenziali di questi sembrano precisarsi più energicamente. Tuttavia, più di altri personaggi, il mondo dei pensieri di Mario appare particolarmente inaccessibile; non solo rimane nell’ombra, ma sembra di volta in volta complicarsi, acquistando solo in indeterminatezza. E, stabilire fino a che punto si tratti di una caratteristica propria del Mario di carne o del risultato della sua elaborazione letteraria compiuta da Ginzburg è quanto mai arduo. Si può però rilevare che, dietro questo indugiare del personaggio di Mario in una dimensione di vaghezza, vi sia sempre l’azione implicita dello sguardo di Natalia bambina, il suo ricordare come se avesse ancora la sensibilità di qualche decennio in meno.

1.4.4 Leone Ginzburg

Giacomo Magrini ha individuato una caratteristica inconfondibile della scrittura di Natalia Ginzburg in quella che ha definito «l’oltranza del riserbo», «saggiamente considerandolo non tanto come un valore morale – anche se lo è – ma come il principio formale che presiede alla costruzione stessa del libro»23. Infatti, come si è già notato, sono tanti gli eventi in Lessico famigliare che la narratrice, troppo intensamente coinvolta, è solita raccontare quasi lasciandoli passare in silenzio, mediante sottrazioni, selezioni o spostamenti: quasi, si direbbe, non propriamente raccontando. Questa caparbia reticenza contraddistingue, soprattutto, l’atteggiamento della Ginzburg nel narrare della persona alla quale fu più legata in assoluto: cioè nel trasporre nel testo, sempre procedendo “per forza di levare”, il personaggio di Leone Ginzburg, il suo primo marito.

Come si è osservato nel paragrafo precedente, l’ingresso di Leone nel racconto è segnato dal suo incontro con Mario, nell’ambito delle amicizie connesse ai gruppi torinesi di Giustizia e Libertà. Da qui in poi, per diverse sequenze, Leone è nominato nel testo, ma solo con il suo cognome, mai per nome. La posizione su cui si colloca, in questa fase, la narratrice è quella di colei che riferisce notizie di Leone Ginzburg limitatamente al suo impegno antifascista e, quindi, in qualità di compagno del fratello. La nominazione muta quando Leone torna a Torino dopo aver scontato una pena detentiva a Civitavecchia: di qui in avanti la narratrice comincia a dire “Leone”; di qui in avanti questi è focalizzato in quanto figura progressivamente sempre più legata a Natalia.

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A questo punto, viene introdotta più da vicino la vita di Leone una volta tornato a Torino, dove ora vive, da sorvegliato speciale, con la madre e la sorella. Riceve ogni sera le visite di Cesare Pavese, suo amico di lunga data, che era solito confidarsi con lui. Rispetto a questa relazione, Ginzburg lascia intravedere, con rara enfasi – pure smorzata dall’anacoluto, che dà una sfumatura colloquiale – un pregio notevole che attribuisce a Leone:

Leone, la sua capacità d’ascoltare era incommensurabile e infinita; e sapeva ascoltare i fatti degli altri con profonda attenzione, anche quando era profondamente assorto a pensare a se stesso. [LF 111]

Si narra, poi, dell’inizio della collaborazione di Leone con un suo amico editore, che altri non è che Giulio Einaudi. Questa informazione devia immediatamente, ancora una volta, su Pavese, il quale, dopo diversi dubbi, si dice abbia scelto di lavorare al fianco di Leone nella casa editrice. Segue un altro spaccato su Leone, introdotto, come nel passo precedente, dall’anacoluto:

Leone, la sua passione vera era la politica. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia. [LF 113]

Poco dopo, ex abrupto, una proposizione lapidaria che informa delle nozze fra Natalia e Leone: «Ci sposammo, Leone ed io; e andammo a vivere nella casa di via Pallamaglio» [LF 113]. Si tratta sicuramente di uno degli esempi più lampanti di «oltranza del riserbo» all’interno del Lessico. Infatti, non si trova nessun’altra aggiunta su questa notizia, né un minimo commento da parte della narratrice, che invece prosegue aggiungendo il parere del padre, contrariato dalla posizione sociale incerta di Leone, e, per converso, l’ottimismo della madre, che auspica la grande affermazione politica di Leone alla caduta del regime fascista. La tendenza di Ginzburg ad aprire spazi in cui affiorino, una dopo l’altra, le voci degli altri anziché la propria si scorge anche più avanti, nel momento in cui una smodata speranza in merito al futuro di Leone, affine a quella della madre di Natalia e volta anzi a confermarla, è espressa da Adriano Olivetti:

Adriano, infatti, usava pronosticare per noi tutto il più alto e fortunato destino. Leone sarebbe diventato, diceva, un grandissimo uomo di governo. – Che bellezza! – diceva mia madre giungendo le mani, e come se la cosa fosse già avvenuta. – Diventerà Presidente del Consiglio! [LF 123]

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Proseguendo, si giunge al passo in cui è registrata la morte di Leone. Questa ha già avuto luogo, ma la sua enunciazione è stata finora tralasciata. A questo episodio si giunge in modo indiretto e del tutto inatteso, quasi accidentalmente. Così, dall’invasione del Belgio ci si sposta nell’immediato dopoguerra, e la narratrice racconta che anche la casa editrice rinasce e s’ingrandisce, divenendo rinomata. Dopo aver fornito qualche scorcio che vede al centro vita e lavoratori della casa editrice, subito si legge:

L’editore aveva appeso alla parete, nella sua stanza, un ritrattino di Leone, col capo un po’ chino, gli occhiali bassi sul naso, la folta capigliatura nera, la profonda fossetta nella guancia, la mano femminea. Leone era morto in carcere, nel braccio tedesco delle carceri di Regina Coeli, a Roma durante l’occupazione tedesca, un gelido febbraio. [LF 137]

Mai come in questo caso la Ginzburg risulta più laconica, e, al contempo, trasparente nella scelta della sua modalità narrativa. Il ritratto di Leone tracciato a

posteriori si configura come «la descrizione di una foto, la sua morte è la registrazione di

una data e di un luogo. Il trauma personale è incorniciato e letteralmente contenuto nel racconto di modo che non possa contaminare col suo contenuto soggettivo il proseguo della storia»24.

Poco più avanti si legge della reazione di Pavese in rapporto all’elaborazione del lutto di Leone. E, a differenza di Natalia, che, pur non parlando delle sue reazioni emotive, comunque racconta di Leone, Pavese tace del tutto:

Pavese non parlava quasi mai di Leone. Non amava parlare degli assenti, e dei morti. Lo diceva. Diceva: – Quando uno se ne va via, o muore, io cerco di non pensarci, perché non mi piace soffrire.

Tuttavia forse, a volte, soffriva per averlo perduto. Era stato il suo migliore amico. Forse annoverava quella perdita fra le cose che lo straziavano. [LF 138]

Dopo questo distanziamento, la narrazione riprende, nella sequenza successiva, da dove era stata interrotta, cioè dall’invasione tedesca del Belgio; in seguito, Ginzburg inframmezza un flashback sul periodo trascorso in Abruzzo. Così, «quando il racconto

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delle vicende successive alla morte di Leone viene ripreso, il trauma è riassorbito nell’eterna ripetizione del quotidiano»25:

Mi ritrovai con mia madre a Firenze. Aveva sempre, nelle disgrazie, un gran freddo; e si ravviluppava nel suo scialle. Non scambiammo, sulla morte di Leone, molte parole. Lei gli aveva voluto molto bene; ma non amava parlare dei morti, e la sua costante preoccupazione era sempre lavare, pettinare e tenere ben caldi i bambini. [LF 144]

È evidente che, nel caso di Leone Ginzburg, «l’oltranza del riserbo» è la conseguenza diretta del profondo dolore che Natalia Ginzburg ha vissuto per la perdita del marito. Ed è l’autrice stessa ad argomentarlo, in un’intervista di poco successiva alla pubblicazione di Lessico famigliare, nella quale si trova a rispondere alla Fallaci26, che le

chiede perché sia ancora tanto «refrattaria» a parlare di Leone, dopo quasi vent’anni dalla sua morte:

I dolori non guariscono mai: però a un certo punto si guardano con distacco. Io non riesco ancora a guardarvi con distacco: ecco. Ma come, dicono tutti, non hai raccontato la storia di Ginzburg, la morte di Ginzburg nel tuo libro? Perché? Perché non posso. Perché è troppo attaccata alla mia storia, perché è troppo vicina. Verrà un momento in cui la racconterò, questa storia, ma tra dieci, quindici, o due anni. Su Leone ho scritto solo una poesia.

Dunque per la Ginzburg non esiste ancora, a questa altezza, alcun distacco possibile rispetto alla vicenda, e, in generale, rispetto alla persona di Leone Ginzburg. Questa mancanza si traduce, sul piano testuale, nella resa del personaggio di Leone mediante le sottrazioni, i silenzi e gli slittamenti presi in analisi.

1.4.5 Cesare Pavese

Quello di Cesare Pavese è sicuramente uno dei ritratti più estesi e particolareggiati di

Lessico famigliare. Infatti, come si vedrà, in questo caso la narratrice si pronuncia più

esplicitamente, costruisce analisi, esterna interpretazioni o supposizioni personali in merito alla figura di Pavese e a eventi che lo coinvolgono. La scelta non è casuale: infatti, va tenuto in considerazione che, alle spalle di questa rappresentazione che Ginzburg fa di

25 Ibidem.

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