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2. La tregua di Primo Levi

2.3 Lavoro della memoria e credibilità

2.4.6 Il Moro

Il Moro è al centro di un ritratto cupo e intrigante – seppure non particolarmente esteso –, che si precisa nel corso del testo con gradualità e con un certo grado di mistero, schiudendo poi, nelle sequenze più avanzate della Tregua, un volto in certi termini inaspettato dell’uomo. Italo Calvino così sintetizza questo personaggio nel risvolto allegato alla prima edizione del racconto: «il Moro di Verona, il gran vecchio blasfemo che sembra uscito dalla Apocalisse»66. Infatti, come si vedrà a breve, dalla descrizione che fin dal suo ingresso sulla pagina il narratore conduce, emerge una figura tendenzialmente inquietante.

Il Moro è mostrato da Levi nel momento in cui, nel capitolo I sognatori, ricorda la sua permanenza nell’ospedale civile di Katowice, dov’è stato ricoverato a causa di una pleurite. Parlando dei suoi compagni di camerata introduce quindi il Moro di Verona, «il decano fra loro» [T 114], presentato innanzitutto mediante una precisazione sulla sua provenienza («Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani» [T 114]).

Segue una dettagliatissima descrizione fisica:

era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari come cani feroci in fondo alle loro tane. [T 114]

Da un aspetto esteriore così connotato traspare immediatamente una profonda cupezza, specchio del fatto che nel Moro «ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata» [T 114]: una rabbia atavica e sempre attuale, non meglio specificata se non «contro tutti e tutto».

65 LEVI 2016, II, p. 281. 66 CALVINO 1963b.

Successivamente Levi informa il lettore circa il mestiere del Moro; dice che è stato muratore in giro per l’Europa. Il dettaglio della sua professione fa anche da pretesto per introdurre il suo comportamento più ricorrente, quello che lo caratterizza: la bestemmia. Si legge:

ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie. Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia che non veniva. [T 115]

Levi asserisce quindi che una demenza senile «disperata» appartiene al Moro; «ma c’era una grandezza in questa sua demenza, e anche forza, e una barbarica dignità, la dignità calpestata delle belve in gabbia, la stessa che redime Capaneo e Calibano» [T 115]. Lo squilibrio del Moro è detto “grande”, “forte” e “degno” perché profondamente umano, originato proprio da ciò che della sua umanità è stato umiliato nel Lager, con un’intensità enfatizzata dalla duplice immagine letteraria che chiude il periodo.

Non troppo diversamente dal Kleine Kiepura, l’espressione del Moro si riduce al vituperio delirante, per cui l’invettiva sembra essere per lui l’unica forma comunicativa possibile, la sola modalità per rapportarsi agli altri. E, come nel caso di Kiepura, anche con il Moro i superstiti intrattengono una relazione non pacificata, intrisa di ossequio e timore: «Fra noi era rispettato, e temuto di un timore vagamente superstizioso» [T 115]. L’unico in grado di avvicinare il vecchio, con la sua proverbiale impertinenza, è, naturalmente, Cesare. E, anche il Moro, come il Kleine Kiepura, è «prigioniero di un sogno» [T 120], incatenato dall’incubo del Lager.

Più avanti, in Vecchie strade, si legge che Primo e Cesare, mandati dal gruppo in avanscoperta per cercare dei viveri, s’imbattono all’improvviso proprio nel Moro. Levi racconta che «si accingeva a sorpassar[li] come se non [li] vedesse o non [li] riconoscesse» [T 166]. Cesare prova allora a chiamare il vecchio; e «– Il disonor del mondo. Brutti porchi disumani, – rispose prontamente il Moro, dando voce alla litania blasfema che perpetua gli occupava la mente. Ci superò, e proseguì la sua mitica marcia verso l’orizzonte opposto a quello da cui era sorto» [T 166].

In questa circostanza, tuttavia, Primo e Cesare apprendono dal Signor Unverdorben – il quale conosce una parte di storia sul Moro che a Levi manca – qualcosa di

sorprendente: il Moro è un uomo ancora capace di amare. Infatti, si scopre che, vedovo da molto tempo, il vecchio ha una figlia paralizzata, in nome della quale ha sacrificato nella sua vita ogni cosa:

le scriveva ogni settimana lettere destinate a non pervenirle; per lei sola aveva lavorato tutta la vita, ed era diventato moro come il legno di noce e duro come la pietra. Per lei sola, in giro per il mondo da emigrante, il Moro insaccava tutto quanto gli capitava a tiro, qualunque oggetto che presentasse anche solo la minima possibilità di essere goduto o scambiato. [T 166]

Si tratta di poche informazioni (sapientemente inserite dal narratore in una brevissima sequenza dedicata al personaggio, molto isolata dalle altre), che pure offrono all’attenzione del lettore una sfumatura del tutto nuova del Moro, riscoperto ora nella sua più profonda umanità.

L’ultimo luogo testuale in cui compare il Moro è il capitolo che conclude il racconto, Il risveglio. I sopravvissuti giungono nel campo di Pescantina, nei pressi di Verona. Lì riconoscono i volti di alcuni ex compagni, fra i quali spicca proprio il Moro di Verona. Questi corre incontro a Primo e Leonardo, per salutarli. Non solo; Levi scrive: «ci benedisse, il vecchio bestemmiatore: levò due dita enormi e nodose e ci benedisse col gesto solenne dei pontefici, augurandoci un buon ritorno e ogni bene. L’augurio ci fu grato, poiché ne sentivamo il bisogno» [T 251-252].

È come se il sogno che ha tenuto il Moro prigioniero volgesse ormai al termine: quasi giunto a casa, dove forse rivedrà finalmente la figlia, il vecchio si ridesta, e l’incubo porta via con sé anche quella «collera gigantesca» che tutto maledice.

Dunque, il ritratto che Levi offre del Moro di Verona descrive una sorta di umanizzazione del vecchio, il quale ridiventa capace di accogliere ed esprimere la sua dimensione affettiva. Questa dinamica si riassume, emblematicamente, nel passaggio del Moro dalla pratica della bestemmia sfrenata e del linguaggio della maledizione al saluto e alla benedizione con cui congeda i suoi compagni alla fine del racconto. Inoltre, la trattazione del personaggio del Moro suggerisce in certa misura uno scarto rispetto alla tecnica descrittiva di Levi: il personaggio non si esaurisce intorno a quella caratteristica- chiave (qui, per esempio, la blasfemia) che lo presenta al lettore, ma la sua parabola nel testo sembra essere più ampia e aperta, meno rigidamente ancorata al concetto da cui ha preso le mosse.