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2. La tregua di Primo Levi

2.3 Lavoro della memoria e credibilità

2.4.2 Hurbinek

Hurbinek è sicuramente il personaggio della Tregua che più di ogni altro risalta all’occhio del lettore. La sua forza narrativa è tutta particolare: parla, per contrasto, nel silenzio, vive nella morte apparente, trae esistenza unicamente attraverso lo sguardo di chi lo circonda. Si tratta di una figura descrivibile sempre per antifrasi, e che si mostra, in certo modo, come emblema di quegli «esemplari umani scaleni» che agli occhi di Levi popolano il mondo in seguito al Lager.

La sua stessa introduzione nel racconto avviene in termini contrastivi. Infatti, Hurbinek subentra nella pagina letteraria d’improvviso, nel bel mezzo della descrizione di una situazione chiassosa proveniente dalle strade del «Campo Grande»:

Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Cionostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino, di Hurbinek. [T 22]

Hurbinek diventa un personaggio precisamente perché la sua presenza svilita risulta «ossessiva», non può essere ignorata: urla, paradossalmente, più forte del baccano fisico che circonda Levi e i suoi compagni.

Subito dopo, Hurbinek è definito «un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz» [T 22]. Il narratore enuncia a questo punto la caratteristica principale di Hurbinek, quella attorno alla quale si addensa tutta la sua figura: il bambino non sa parlare. Lo stesso nome con cui è designato gli è stato attribuito da altri; la sua identità è inesistente.

Segue una descrizione fisiognomica molto dettagliata, la cui funzione sembra essere quella di assolvere il tentativo di colmare l’irrimediabile vuoto di voce del personaggio. Ed ecco prorompere nel testo la parte inconfondibilmente più umana di Hurbinek: gli occhi. Si legge: «ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo» [T 22]. Di tutto ciò che Hurbinek non può comunicare verbalmente si conserva una traccia quanto mai eloquente nel suo sguardo. Il narratore si riaggancia presto, così, alla caratteristica-chiave del suo personaggio:

La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. [T 22]

Levi pone l’accento sulla responsabilità più aberrante che l’umanità dovrebbe rivendicare a sé stessa rispetto alla condizione di questo bambino. Non solo l’istituto sociale non gli ha assegnato un nome, privandolo della sua identità, ma, prima di tutto, non gli ha insegnato a esprimersi; meglio, non ha favorito in lui l’educazione al bisogno di esprimersi. Per questo motivo, tutti i sopravvissuti presenti, pure non colpevoli, faticano a sostenere lo sguardo di Hurbinek.

L’unico che non solo sostiene lo sguardo del bambino, ma se ne prende cura con costanza e dedizione profonde è il vicino di letto di Primo, Henek, quindicenne ungherese

che «passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno. È assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare» [T 23]. Il legame che si crea fra i due, la cura premurosa che Hurbinek, probabilmente per la prima volta nella sua vita, sperimenta, e l’ascolto della voce di Henek, fanno sì che accada una specie di miracolo:

Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. [T 23]

Pare che Hurbinek non pronunci una sola volta questa parola; nei giorni successivi la ripete ancora, così tutti si raccolgono in attento ascolto, sebbene il suono si modifichi, non rimanga sempre perfettamente identico. Comunque, la sua parola resta intraducibile, e, «laico e razionalista, Levi scarta senz’altro l’ipotesi che la parola di Hurbinek possa contenere alcunché di epifanico, di profetico, di numinoso»56.

L’aspetto che colpisce di più risiede nella ferma tenacia che il narratore mette in luce della figura di questo bambino: «Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati» [T 23]. È l’unica possibile apertura di questa creatura verso l’espressione di sé e verso la comunicazione con l’altro; un’apertura che, se è vero che non si realizza mai completamente, costituisce tuttavia un inequivocabile e prezioso atto di volontà di un individuo altrimenti dimenticato, e del quale, soprattutto, la testimonianza di terzi è l’unica possibile fonte documentale.

La centralità che il narratore vuole conferire a questo personaggio è sapientemente sottolineata anche sul piano grammaticale. Infatti, il nome di Hurbinek viene puntualmente omesso per tutto il passaggio in cui si descrive l’attesa per la sua parola. Questa ellissi del soggetto prepara alla conclusione del ritratto del personaggio, in cui, al contrario, il nome di Hurbinek è anaforicamente ripetuto per tutto il periodo che la compone:

Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senzanome, il cui minuscolo avambraccio

era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. [T 24]

Questa sintesi condensata e carica di pathos, con la funzione di sintetizzare e consegnare al lettore la vicenda di Hurbinek, marca e innalza la dignità del bambino, del quale si dice che, fino alla fine, «combatte come un uomo». Una dignità, quella di Hurbinek, in tutta la drammaticità eroica dei suoi slanci verso la vita, che non esisterebbe nemmeno se il superstes Primo Levi non la attestasse attraverso le proprie parole.

In questo caso, dunque, il ruolo del sopravvissuto diventa letteralmente insostituibile: la funzione testimoniale del narratore raggiunge un’acme assoluta di consapevolezza, data dal fatto che l’esistenza di questo essere umano può essere registrata nella storia solo ed esclusivamente per suo tramite. La consapevolezza del narratore è tutta racchiusa nell’ultima frase della sequenza dedicata a Hurbinek: «Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole» [T 24]. Come nota Barenghi, sono due «nulla» a fare da cornice alla narrazione della vicenda di Hurbinek: «Hurbinek era un nulla, nulla resta di lui. Nulla, se non la testimonianza del sopravvissuto, che a questo punto assume la pienezza delle sue funzioni»57.