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3. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia

3.3 Aldo Moro e il suo testo

3.4.2 I brigatisti

Gli uomini delle Brigate Rosse, insieme ad altri gruppi di personaggi che si vedranno, rientrano nella ricostruzione che Sciascia opera degli scambi linguistici attorno ai quali si spiega il caso Moro.

Anche dei brigatisti, dunque, è possibile trovare nell’Affaire un ritratto che prende le mosse dai documenti che questi hanno prodotto durante la detenzione del prigioniero Moro. Si tratta principalmente di testi scritti in forma di comunicato stampa, recapitati alla segreteria della Democrazia cristiana oppure pubblicati sui giornali, mediante i quali i brigatisti informano di volta in volta sulle condizioni di Moro, nonché sul prezzo richiesto per la sua liberazione – che muta nel corso del tempo.

Evidentemente Sciascia reputa le Brigate Rosse i responsabili della morte di Aldo Moro: sono loro che lo hanno ucciso materialmente, ragione per cui vanno punite. Tuttavia, così come avviene a proposito di Moro, anche per questi personaggi il lavoro di Sciascia non si assesta su un livello d’indagine meramente giuridico-sociale: come si osserverà, nel dare sostanza al suo racconto, l’autore prova a calarsi anche nei panni dei terroristi, tentando di dar voce a ciò che li abita in qualità di uomini; tentando, come Sciascia stesso afferma, «di capire quelli di loro che stanno a guardia di Moro e che lo processano: in quella difficile, terribile familiarità quotidiana che inevitabilmente si stabilisce» [AM 98]. Ciò non significa che l’entità del reato venga ridimensionata; semplicemente, la narrazione dei fatti è corredata da un accesso – possibile sempre per congettura – alla dimensione umana di chi quel reato l’ha vissuto e compiuto.

L’attenzione di Sciascia si volge ai brigatisti fin dalle prime pagine dell’Affaire, dove lo scrittore comincia a riflettere sulla loro «etica che appunto si potrebbe dire carceraria» [AM 18]. Questa sembra caratterizzarsi per una specie di «esile vena libertaria»

in nome della quale i carcerieri tendono non a soffocare ma a preservare e, anzi, mostrare l’identità politica del prigioniero. In nome di questo principio, secondo Sciascia, i comportamenti dei brigatisti hanno lasciato ravvisare non poche contraddizioni. Su tutte: «il loro zelo diciamo postale, alquanto eccessivo ed eccessivamente rispettoso, da un certo punto in poi, della segretezza» [AM 19] nel recapitare i messaggi di Moro ai suoi interlocutori. Tuttavia, i brigatisti mostrano un simile scrupolo di discrezione solo «da un certo punto in poi»; prima, invece, hanno scelto di pubblicare tutte le lettere di Moro, argomentando che «niente deve essere nascosto al popolo» [AM 20].

L’ipotesi che Sciascia avanza è che

nell’etica carceraria delle Brigate rosse ci sia stato un prima e un dopo la condanna: e che Aldo Moro sia stato considerato uomo pubblico durante il processo, e quindi senza nessun diritto al segreto; e non più dopo la sentenza: condannato a morte che tra la sentenza e l’esecuzione vive in una sua sfera di sentimenti e risentimenti ormai assolutamente personali, assolutamente privati. [AM 21-22]

Da qui, poi, la tesi secondo la quale, per le Brigate Rosse, «Moro bisognava continuasse a essere se stesso nella “prigione del popolo”» [AM 23]; Moro pare non essersi fidato di questa etica o non averla individuata e, quindi, avrebbe continuato a esprimersi censurandosi.

Sciascia riscontra indizi dell’incoerenza dei brigatisti anche più avanti nel racconto, per esempio quando questi in un primo momento dicono che non ci sono informazioni da comunicare circa l’interrogatorio a Moro, e, subito dopo – e nello stesso comunicato, il numero sei –, scrivono: «l’interrogatorio ad Aldo Moro ha rivelato le turpi complicità del regime, ha additato con fatti e nomi i veri e nascosti responsabili» [AM 82]. Questa contraddittorietà sembra essere diventata un esercizio di comunicazione che i brigatisti attuano consapevolmente per confondere chi riceve i loro comunicati. Sciascia indica, a questo punto, quella che ritiene la «più grave contraddizione»:

che Moro vi appare, e proprio mentre lo si condanna a morte, come (ripetendo l’espressione di Pasolini) «il meno implicato di tutti»: il meno implicato nelle trame di potere, negli scandali, nelle corruttele. Più come un testimone vi appare, che come un imputato. E come un testimone d’accusa, per di più: di quelli coltivati e benvoluti dai pubblici ministeri. [AM 82]

E, più esplicitamente: «Non c’è un solo tratto, nel dispositivo, che lasci intravedere una sua colpevolezza attiva, una sua responsabilità specifica» [AM 82]. Proprio in questo aspetto si situa la paradossale irragionevolezza della morte di Aldo Moro.

Un’altra testimonianza significativa della voce dei brigatisti che Sciascia prende in esame nell’Affaire è il testo di una telefonata, con la quale le Brigate Rosse indicano a Franco Tritto, amico dei Moro, il luogo di ritrovamento della R4 con il cadavere dell’amico. Il narratore rileva che, se è vero che da un lato Tritto prende tempo, confidando in una mossa tempestiva della polizia, che tiene sotto controllo il suo telefono, dall’altro anche il brigatista

sa che il telefono di Tritto è sotto controllo, sa che l’attardarsi nella telefonata può essergli fatale; eppure è paziente, meticoloso, riguardoso persino. Ripete, si lascia andare a un «mi dispiace»; e insomma diluisce in più di tre minuti una comunicazione che avrebbe potuto dare in trenta secondi. [AM 132-133]

È evidente la volontà di Sciascia di sottolineare la presenza di una componente di prossimità nella maniera con cui il brigatista comunica la richiesta. Prossimità cui il narratore dà i nomi della pietà e del rispetto, intesi come sentimenti ai quali il dovere avrebbe ceduto il passo:

Che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell’umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. [AM 133]

Va precisato, tuttavia, che l’apertura del narratore verso l’umanità del brigatista non si configura come una forma di indulgenza verso coloro che hanno assassinato Moro. Così, infatti, Sciascia conclude il capitolo: «Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti» [AM 134].

Dunque, come rileva Giuliana Benvenuti, anche nello sforzo di Sciascia di «capire» gli uomini delle Brigate Rosse, c’è

un credito di pietà che di nuovo nasce dall’immedesimazione attraverso la quale Sciascia cerca di figurarsi cosa può essere accaduto nella ‘prigione del popolo’, i

sentimenti dell’uomo solo, e degli altri: a loro volta soli, spinti all’uccisione di Moro, rispetto alla quale condividono la responsabilità con chi ha rifiutato di trattare con loro.96