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3. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia

3.3 Aldo Moro e il suo testo

3.4.3 I dirigenti democristiani

La responsabilità della morte di Aldo Moro non è da attribuirsi ai soli terroristi. Infatti, per Sciascia, sebbene siano state le Brigate Rosse a condannare a morte Moro, per mezzo di una «oscura, tenebrosa, nascosta parodia dell’assassinio legale» [AM 54], lo Stato ne è decisamente corresponsabile («Moro era stato condannato a morte direttamente dalle Brigate rosse e indirettamente dalla Democrazia Cristiana» [AM 87-88]).

Questa “corresponsabilità” dello Stato, lungi dal giocare un ruolo secondario nella vicenda, si configura per il narratore come determinante: i veri giudici di Moro, coloro che in ultima analisi avrebbero effettivamente potuto impedire la sua morte sono per Sciascia proprio gli uomini del suo partito, quelli con cui ha governato il Paese fino a poco tempo prima. Sono costoro ad abbandonarlo, scegliendo di arroccarsi su quella

linea della fermezza, cui aderiscono con unanimità pressoché totalitaria proprio quei democristiani ai quali, per la storia accidentata e ondivaga del loro partito, l’idea della fermezza pochissimo si addice. Presidente del consiglio, ministri, dirigenti di partito, parlamentari e semplici militanti: tutti nella DC rifiutano l’ipotesi di una trattativa con i brigatisti, in nome della Ragione di Stato.97

Così facendo, quindi, i democristiani da un lato danno prova di profonda incoerenza politica, e, dall’altro e ancor prima, di assoluta indifferenza verso le sorti dell’uomo Moro, cui antepongono meri interessi di potere.

Ricercando all’interno dell’Affaire Moro testimonianze della voce dei democristiani, il materiale da prendere in considerazione, in questo caso, non consta tanto di corposi testi di lettere da esaminare – dal momento che gli uomini del partito si sono espressi piuttosto poco –, quanto di semplici note in cui la Democrazia cristiana nega le richieste di Moro o quelle dei suoi familiari. Di conseguenza, ci si soffermerà sulle reazioni che questo disconoscimento ha innescato in Moro e sulla lettura che Sciascia dà di questo rifiuto.

96 BENVENUTI 2013, pp. 249-250. 97 Ivi, p. 222.

Nella lettera al segretario Zaccagnini del 4 aprile (cfr. 3.4.1), Moro chiamava, come testimone della necessità che lo Stato ceda agli scambi con le Brigate Rosse, l’onorevole DC Paolo Emilio Taviani. Questi risponde proprio respingendo la richiesta di Moro, il quale a sua volta fa recapitare un’altra lettera, carica di delusione. Sciascia ne trae occasione per riflettere su ciò che questa mancanza produce in Moro e, in particolare, sul linguaggio che lo induce a impiegare e sulle sue potenzialità strategiche. Si legge:

La smentita di Taviani gli ha dato amarezza, l’ha ancora di più sprofondato nella condizione di «uomo solo», ma al tempo stesso gli ha come amplificato il giuoco, gli ha offerto la possibilità di giuocare all’interno delle Brigate rosse: tra loro, senza parere, seminando il dubbio. [AM 77]

Sciascia evidenzia dunque due conseguenze, tra loro strettamente interconnesse, del rifiuto della Democrazia cristiana: da un lato Moro crolla in una condizione di solitudine e disperazione profonde, dall’altro proprio questo lo spinge a costruirsi un discorso per esprimere dal “dentro” in cui si trova una qualche forma di resistenza, volutamente equivoca, a quanto sta accadendo.

Più avanti nel racconto, Sciascia cita un comunicato che la famiglia Moro invia ai giornali; si tratta dell’ennesimo appello alla DC affinché «assuma con coraggio le proprie responsabilità per la liberazione del suo presidente» [AM 118]. La famiglia Moro si rivolge nominalmente a cinque esponenti democristiani: «Se questi cinque uomini non vogliono assumere la responsabilità di dichiararsi disponibili alla trattativa, convochino almeno il Consiglio nazionale della DC, come formalmente richiesto dal suo presidente» [AM 119].

La risposta del governo consiste in una breve nota che i giornali dicono scritta «di pugno» da Giulio Andreotti. Sciascia si sofferma su questo dettaglio, commentandolo come «un’immagine: di un uomo che scrive una sentenza» [AM 120]. Il contenuto del lapidario verdetto del governo è inequivocabile, e Sciascia lo traduce in termini altrettanto concisi: «ci sarà una ristretta riunione di ministri assolutamente inutile, poiché il governo ha già deciso di non trattare in nessun modo con le Brigate rosse, per il rispetto alle famiglie i cui congiunti sono stati uccisi dai brigatisti» [AM 120-121]. Sciascia rintraccia, ancora una volta annidata nei testi, la corresponsabilità determinante della DC in merito alla fine di Moro.

Proseguendo nella sua ricostruzione, Sciascia congettura, ancora immedesimandosi nell’«uomo solo», quella che per Moro deve essere stata la colpa degli «uomini del potere», ovvero

il non aver fatto quadrato intorno alla sua vita, il non essersi riconosciuta in lui prigioniero e imputato delle Brigate rosse. E nemmeno di tutta la Democrazia Cristiana, questa colpa; né della Democrazia Cristiana nella sua essenza, nella sua natura e nel suo destino: ma di quegli uomini del partito, di quegli uomini del potere, che si erano arrogato il diritto di decidere. [AM 128]

Alla base della responsabilità di questi pochi uomini, dunque, si pone un problema di identificazione: per i democristiani Moro non è più parte della loro identità (cfr. AM 63: «Moro, che continua a pensare come pensava, ne è ormai un corpo estraneo»). E questo disconoscimento viene, come Sciascia mette a fuoco nella sua relazione parlamentare, dalla ferma «decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva […] era stato fino alle 8,55 del 16 marzo» [AM 185].

Dunque, i dirigenti democristiani che dalla narrazione di Sciascia emergono come personaggi possono essere individuati essenzialmente in Zaccagnini, Taviani e Andreotti. Come si è potuto osservare, essi sono caratterizzati come politici deplorevoli e irresponsabili, oltre che come uomini vuoti, indolenti. Quello che dall’Affaire Moro si leva su questi personaggi è, quindi, un giudizio di profonda condanna: i più noti dirigenti della Democrazia cristiana sono apertamente screditati dal narratore. Un fatto simile ha una portata morale notevole se si considera l’oggettiva difficoltà, nel contesto in cui Sciascia si trova a scrivere, insita nel pronunciarsi su persone viventi e operanti.