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2. La tregua di Primo Levi

2.3 Lavoro della memoria e credibilità

2.4.5 Cesare

Ancor più del greco, il personaggio di Cesare costituisce una presenza stabile all’interno della Tregua: egli accompagna Primo lungo quasi tutto il viaggio verso l’Italia; con lui condivide le avventure più varie, narrate attraverso più capitoli del racconto. Inoltre, la sua è una figura di riferimento non solo per Primo, ma per l’intero gruppo dei superstiti che si trovano a vivere insieme alcune delle peripezie del ritorno. Di conseguenza, anche il coinvolgimento affettivo di Levi nella messa a fuoco del personaggio-Cesare è, come si vedrà, notevole.

Il narratore esordisce, nel capitolo a lui intitolato, raccontando di aver conosciuto Cesare negli ultimi giorni di Lager, mentre stava male. In quell’occasione, Cesare chiese a Levi acqua e cibo; lui glieli portò, ponendo così «le basi di una lunga e singolare amicizia» [T 82]. Dopo soli due mesi, Levi ritrova Cesare nel campo di Bogucice, non solo guarito, ma anche particolarmente in forma. Poi, giunti a Katowice, hanno luogo delle selezioni per operai che possano sbloccare le strade della città; scaltramente, Cesare prova a sottrarsi alla selezione, ma, alla fine, è preso fra i “sani” per andare a lavorare. Tuttavia, Cesare non desiste dal suo proposito, e trova comunque il modo per svignarsela:

Lavorò tre giorni; il quarto, barattò la pagnotta contro due sigari. Uno lo mangiò; l’altro, lo fece macerare nell’acqua e se lo tenne tutta notte sotto l’ascella. Il giorno dopo era pronto per marcare visita: aveva tutto quanto occorreva, una febbre da cavallo, coliche orrende, vertigini, vomito. Lo misero a letto, ci stette fino a che l’intossicazione fu smaltita, poi di notte se ne andò liscio come l’olio, e se ne tornò a Bogucice a piccole tappe, con la coscienza tranquilla. Trovai modo di farlo sistemare nella mia camera, e non ci separammo più fino al viaggio di ritorno. [T 85-86]

La prima delle tante avventure che Primo condivide con Cesare è una «spedizione» a Katowice. Inizialmente restio, Primo si risolve poi a fidarsi dell’amico, e parte con lui. La spregiudicata – ma, al fondo, raffinata e non malvagia – astuzia di Cesare è tematizzata attraverso il racconto dell’uscita dal campo, per cui i due si avvalgono del lasciapassare di Primo, benché possano uscire, più facilmente, dal buco del reticolato. Così commenta il narratore: «il nome corrispondeva nuovamente, e Cesare uscì in piena legalità. Non che

Cesare tenga molto ad agire legalmente: ma gli piacciono le eleganze, i virtuosismi, mettere il prossimo nel sacco senza farlo soffrire» [T 90].

I due si recano al mercato, contesto in cui emerge subito, di Cesare, «una preparazione merceologica sorprendente, paragonabile a quella del greco» [T 92]. Dopo questo accostamento, il narratore precisa che in realtà fra i due c’è una grande differenza; il paragone diventa così pretesto per dipingere, in antitesi col greco, un intenso ed entusiastico ritratto di Cesare, dal quale emerge nitidamente la sua solarità. Si legge, infatti: «Cesare era pieno di calore umano, sempre, in tutte le ore della sua vita; […] L’uno era libero, l’altro schiavo di sé; l’uno avaro e ragionevole, l’altro prodigo ed estroso» [T 92]. E ancora: «Cesare era un figlio del sole, un amico di tutto il mondo, non conosceva l’odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente e molto civile» [T 92]. E, subito dopo, Levi confessa che l’aver accettato di accompagnare Cesare al mercato è stato per lui profondamente edificante per lo spirito, così come ogni occasione per osservare Cesare in azione «costituiva una esperienza unica, uno spettacolo vivo e corroborante, che [lo] riconciliava col mondo, e riaccendeva in [lui] la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta» [T 93].

Fra le doti che Levi attribuisce a Cesare, e che può apprezzare al mercato di Katowice, spicca «l’arte del ciarlatano», da lui sapientemente declinata nella carta del romanesco: il dialetto, infatti, se da un lato è oggettivamente indecifrabile per i clienti, dall’altro gioca a favore di Cesare, perché li confonde e ostacola le controproposte.

All’inizio del capitolo successivo, Victory Day, il narratore verbalizza il senso di profonda noia che prova a Bogucice, al contrario, invece, della disinvoltura di Cesare, che gode ormai di prestigio indiscusso nel campo. Una sera Cesare sparisce, e non si hanno notizie di lui per alcuni giorni; si rifà vivo e racconta di essersi fidanzato con una polacca. Quindi chiede a Primo un supporto linguistico, su cui, però, il nostro ha delle riserve, che pure non manca di ammettere: «Facevo del sabotaggio, era chiaro: era tutta invidia» [T 100]. L’esperienza di Cesare con la ragazza polacca, tuttavia, non va per il meglio: Cesare la sorprende con un russo. Anche in questo caso, nel racconto di Levi, l’enfasi è posta principalmente su quanto il fatto produce nell’ambito della loro amicizia. Così, si dice che Cesare si dà alla fuga, sottraendo, però, al russo una bottiglia, che riesce a riportare con sé: «Aveva distrutto il recipiente originale per prudenza, ed insistette perché il contenuto fosse

immediatamente consumato fra noi suoi intimi. Fu una bevuta malinconica e taciturna» [T 104].

Un altro episodio in cui ha larga parte l’efficacia della comunicazione, come attitudine che appartiene a Primo, è contenuto nel capitolo Una curizetta. Si racconta del desiderio di Cesare di reperire una gallina da cucinare e condividere con i compagni; Primo gli accorda la sua topica condiscendenza, «non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo a lavoro» [T 156]. I due si mettono in cammino verso un villaggio, sapientemente individuato da Cesare; giunti a destinazione, Cesare considera esaurito il suo compito, che consiste nella parte strategica, e così si rivolge a Primo: «– Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire» [T 158]. Così, dopo alcuni tentativi frustrati messi a punto da entrambi per esprimere il concetto “gallina” agli abitanti del villaggio, Primo riesce a sciogliere l’enigma, disegnando per terra una gallina, e dicendo: «– Voi piatti. Noi mangiare» [T 160]. Ecco, quindi, che una vecchina porge loro una gallina, in cambio di sei piatti; i due possono tornare nella baracca e far festa insieme ai compagni.

In Vecchie strade Levi racconta che, a fronte della scarsezza di cibo, decidono di rivendere il pesce che viene loro distribuito. Il nuovo commercio è naturalmente gestito da Cesare, «che in breve lo portò a un alto grado di perfezione tecnica» [T 170]. Senonché un giorno Cesare fa rientro nella baracca profondamente intristito: «era senza pesce, senza soldi e senza merce» [T 172]. Per un po’ di tempo neanche Primo riesce a farsi raccontare quanto accaduto; poi Cesare sceglie di confidare l’avventura all’amico, intimandogli di tenerla per sé, pena la perdita della sua rispettabilità commerciale. Si scopre, allora, che

il pesce non gli era stato strappato con la violenza da un russo ferocissimo, come in un primo tempo aveva cercato di lasciare intendere: la verità era un’altra. Il pesce lo aveva regalato, mi confessò, pieno di vergogna.

[…] i bambini lo avevano guardato con degli occhi tali, che Cesare aveva buttato giù il pesce ed era scappato come un ladro. [T 173]

Risalta, ancor più in questo episodio, l’aspetto della profonda bontà d’animo di Cesare, che Levi porta impressa nella memoria e che, più di ogni altra cosa, desidera mettere in luce nel suo ritratto del romano.

La solidale e avventurosa amicizia fra Primo e Cesare cresce e dà colore al tragitto verso casa dei superstiti, fino all’arrivo in Romania. Nel penultimo capitolo, Da Iasi alla

Linea, il narratore racconta che a un certo punto Cesare, stremato, decide di staccarsi dal

gruppo e di «correre dei rischi» [T 239]pur di mettere da parte qualche soldo e poter fare ritorno a Roma in aeroplano. Cesare propone anche ai suoi compagni di unirsi, ma

nessuno di noi si sentì di seguirlo, e Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un’altra storia, una storia «de haulte graisse», che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso [T 239].

Così si esaurisce la figura di Cesare, almeno nella Tregua. La storia «de haulte graisse» che lo riguarda e alla quale qui Levi accenna la si troverà, alcuni decenni dopo, in

Lilít. La clausola sopra citata, che Levi avverte il bisogno di inserire nella Tregua, ha a che

fare con la dimensione non finzionale dei suoi personaggi, precisamente con il dovere del rispetto con cui il superstes deve fare i conti. Infatti,

chiunque abbia lavorato con personaggi ‘veri’, o meglio con figure anagraficamente esistenti, che possono protestare la loro autenticità presso il narratore, conosce la responsabilità che questo vincolo impone. I personaggi ‘veri’ di Levi rilasciano talvolta quasi una liberatoria ad essere narrati, oppure chiedono un rinvio.64

Dunque, l’epilogo del personaggio-Cesare defluisce espressamente in quello dell’uomo-Cesare: il racconto della sua vita dopo e oltre la pagina letteraria costituisce l’ultimo atto della storia così com’è consegnata al lettore, diventando, quindi, nuovamente pagina letteraria. Così lo si legge nel capitolo Il ritorno di Cesare, in Lilít e altri racconti (1981):

era rientrato a Roma e nell’ordine, si era costruita intorno una famiglia, aveva un impiego rispettabile, una decorosa casa borghese, e non si riconosceva volentieri nel picaro ingegnoso che ho descritto in La tregua. Oggi però Cesare non è più il reduce estroso, cencioso ed indomabile della Bielorussia 1945, e neppure il funzionario senza macchia della Roma 1965; incredibilmente, è un pensionato sessantenne, abbastanza tranquillo, abbastanza saggio, provato duramente dal

destino, e mi ha sciolto dal divieto, autorizzandomi a scrivere «prima che te passi la vojja».65