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3. L’affaire Moro di Leonardo Sciascia

3.3 Aldo Moro e il suo testo

3.4.1 Aldo Moro

A proposito del tentativo, audacemente compiuto da Sciascia, di ricostruire il personaggio- Moro va detto innanzitutto che questa ricerca si inscrive, nell’Affaire, all’interno di una dinamica di costante oscillazione fra un Moro “uno” e un Moro “due”, quale si ritiene comunemente sia diventato il primo in seguito al suo rapimento da parte delle Brigate Rosse.

L’autore esplora minuziosamente le pieghe più riposte dell’uno e dell’altro Moro, mostrando al lettore che, se da un lato il Moro “due” è del tutto fittizio, poiché è infondata l’immagine che i Democristiani hanno creato di lui durante la sua prigionia, dall’altro, tuttavia, anche il supposto Moro “uno” si rivela essere stato il prodotto di una costruzione sociale, per niente conforme al vero Aldo Moro. Così, Sciascia cerca di pervenire, attraverso il suo testo, al ritratto di un Moro che si potrebbe dire “zero”, cioè di colui che è stato spogliato del proprio ruolo pubblico, «percorrendo la parabola che da personaggio lo conduce alla condizione di creatura»93.

92 MARCHESE 2019, p. 170. 93 BENVENUTI 2013, p. 215.

Ci si può soffermare ora sull’interpretazione di Sciascia di alcune delle lettere con cui Aldo Moro avrebbe continuato a comunicare durante i due mesi trascorsi nella «prigione del popolo».

La prima lettera che Moro scrive dal carcere reca la data del 29 marzo, è recapitata dai brigatisti, che la allegano al loro terzo comunicato per la trattativa, ed è indirizzata a Francesco Cossiga, ministro degli Interni. Si tratta di un’esortazione affinché il ministro, il Presidente del Consiglio e il loro entourage riflettano sulla mossa più opportuna da compiere. Moro non manca di sottolineare che la necessità di una scelta ponderata in merito al suo caso è, su tutto, sostenuta dal fatto che ci si trova in «circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona ma allo Stato» [AM 41-42].

In primo luogo, Sciascia individua nella scelta del destinatario l’elemento centrale di questo messaggio di Moro, che risiede nel fatto che

almeno nel momento in cui scriveva a Cossiga, e per il fatto stesso che scriveva al ministro degli Interni, Moro puntasse le proprie speranze su un’azione di forza (e di intelligenza) da parte della polizia: e che il raccomandato patteggiamento e scambio fosse per lui, grande temporeggiatore, il modo migliore, e il solo, per prender tempo – dandosi, se non la certezza, la speranza che la polizia non perdesse il proprio. Solo che la polizia lo perdeva, al di là di quanto Moro potesse immaginare. [AM 44-45]

Un altro aspetto messo a fuoco dal narratore riguarda la presenza nella lettera di un lapidario riferimento alla Santa Sede, da cui Moro dice di auspicare «un preventivo passo». Proprio l’assurdità di questo proponimento è, secondo Sciascia, spia di quel linguaggio del

non dire piegato alle esigenze del dire di Moro: egli non sa precisamente dove si trovi

recluso, ma forse in questo modo vuole incitare le forze di polizia a cercarlo in un «luogo insospettato e insospettabile» [AM 46]; in ultima analisi, a non cedere, finché possibile, al patteggiamento, ma a prendere tempo e a puntare sulla ricerca.

Il 4 aprile i brigatisti recapitano una lettera di Moro a Zaccagnini, il segretario della Democrazia cristiana. La ricezione di questo documento è accompagnata dall’usuale scetticismo sulla sua autenticità, come viene dichiarato su diversi giornali e come Sciascia ricorda: «… rivela ancora una volta le condizioni di assoluta coercizione nelle quali simili documenti vengono scritti e conferma che anche questa lettera non è “moralmente a lui

Per quanto riguarda i contenuti, la lettera a Zaccagnini sembra distinguersi da quella a Cossiga innanzitutto perché, dopo venti giorni di prigionia, emerge chiaramente che Moro non nutre più troppe speranze sull’ipotesi che la polizia lo possa trovare. Le sue parole, a questo punto, vanno espressamente nella direzione della trattativa. Inoltre, questa lettera sembra caratterizzarsi per un linguaggio tendenzialmente meno criptico rispetto a quello della precedente. Per esempio, Moro inserisce nel suo testo note come questa: «è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al di sotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui» [AM 60]. Ancora, nell’esortare la segreteria del partito al compromesso con i brigatisti, nel discorso di Moro non mancano punte di ironia verso il partito: «Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la DC, che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili» [AM 61].

Riflettendo su questo messaggio, Sciascia pone l’accento su una «insospettata e immane fiamma statolatrica» [AM 63], quale sarebbe l’istanza che, a suo avviso, si è impossessata dei democristiani. Moro, invece, rimane fedele a sé stesso – al vero sé stesso; non all’astratto Moro “uno”, al supposto «grande statista». Ecco perché, rispetto alla Democrazia cristiana,

Moro, che continua a pensare come pensava, ne è ormai un corpo estraneo: una specie di doloroso calcolo biliare da estrarre – con l’ardore statolatrico come anestetico – da un organismo che, quasi toccato dal miracolo, ha acquistato il movimento e l’uso del «senso dello Stato». [AM 63]

Il 20 aprile Aldo Moro rivolge un nuovo appello a Zaccagnini. Anche in questo caso, dal suo discorso prorompe, accresciuto, un profondo sentimento di solitudine e sconforto, che si traduce nel tacciare la Democrazia cristiana di «facilità», «indifferenza» e «cinismo» [AM 91]. Il culmine di questa lettera si raggiunge nel passaggio in cui, pure per antifrasi, Moro sostiene che la riluttanza alla trattativa per la sua liberazione equivale, di fatto, a far sì che si reintroduca la pena di morte nella costituzione italiana: «Dissipate subito l’impressione di un partito unito per una decisione di morte. Ricordate, e lo ricordino tutte le forze politiche, che la Costituzione repubblicana, come primo segno di novità, ha cancellato la pena di morte. Che la condanna sia eseguita dipende da voi» [AM 93].

Si può osservare, alla luce di queste considerazioni, anche tenendo presente la progressione temporale delle lettere prese in analisi, la gradualità della trasformazione del Moro-personaggio politico nel Moro-creatura cui si accennava sopra.

L’ultimo documento della voce di Moro è la sua lettera del 29 aprile. Il suo sgomento è, a questa altezza, quanto mai pesante e, al contempo, lucido. Fra gli aspetti su cui Sciascia si sofferma va indicata innanzitutto la sapiente intuizione per la quale, partendo dall’analisi dell’uso del pronome “taluno” da parte di Moro, lo scrittore inferisce l’estrema richiesta dei brigatisti per la liberazione di Moro. Si legge:

Moro vuol richiamare l’attenzione dei destinatari della lettera, e che vi si fermi, sulla qualità dell’una o più persone che lo Stato dovrebbe cedere: e che dunque si può trattare sul numero, e cioè andare al di sotto dei tredici di cui le Brigate hanno domandato la liberazione. [AM 114]

E ancora:

Le Brigate rosse, dunque, o almeno la cellula che lo detiene, lo hanno eletto a mediatore di una possibile trattativa e gli hanno confidato il prezzo ultimo – simbolico o per loro effettivamente importante – che vogliono sia pagato dallo Stato. Moro ne fa una avance abbastanza esplicita: ma non viene intesa da chi dovrebbe intenderla. [AM 114]

Dunque, l’ultimo messaggio che Moro riesce a far recapitare prima del suo assassinio è tutto qui. E, specifica Sciascia al lettore, questo messaggio rimane inascoltato.

Infine, Sciascia si sofferma sulla parola «potere», che Moro utilizza – adesso per la prima volta – per designare le autorità dello Stato. Lo scrittore così chiosa: «è soltanto ora che è arrivato alla denominazione giusta, alla spaventosa parola» [AM 116].

Riassumendo, si può affermare che, mediante un puntuale processo d’immedesimazione, Sciascia può congetturare i pensieri e le emozioni che Aldo Moro ha provato durante la sua agonia, dalla quale emerge la sua più autentica componente “creaturale”. Il ritratto che Sciascia consegna al lettore mette in luce, in particolare, che

la sacralizzazione del Moro-statista è meramente funzionale alla creazione del ‘personaggio’ – eguale e contrario a quello che proprio Sciascia tratteggia – del Moro-prigioniero non più in sé, non più statista, forse drogato, forse torturato, privato delle proprie facoltà e così costretto ad aderire alle pretese delle BR.94

L’esercizio compiuto da Sciascia, dunque, è teso a smascherare un personaggio fittizio già costruito, prima dai democristiani e poi dall’opinione pubblica. Da qui l’esigenza dell’autore di mettere al centro l’uomo, precisamente «l’opposizione tra questo uomo solo e l’intera società, tra le ragioni del singolo e l’intera società»95; è, in ultima analisi, la volontà di Sciascia di evidenziare la transizione dal Moro personaggio, pirandellianamente inteso, al Moro maschera nuda, «uomo solo».