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2. La tregua di Primo Levi

2.3 Lavoro della memoria e credibilità

2.4.3 Kleine Kiepura

Hurbinek non è l’unico bambino fra i personaggi che popolano le pagine della Tregua: il narratore ne mette a fuoco diversi, fra i quali, per esempio, spicca la figura del Kleine Kiepura. Prima di osservarlo più da vicino, è utile soffermarsi sul punto in cui si colloca questo ritratto all’interno della Tregua. Secondo Barenghi, la storia di Hurbinek ha significato

l’espressione della massima autorità narrativa. Ma anziché costituire il punto d’arrivo del memoriale di Auschwitz (cioè di Se questo è un uomo) l’episodio viene dislocato, paradossalmente, sul limitare di una transizione: il passaggio dall’inferno del Lager alla picaresca epopea del sopravvissuto.58

Si tratterebbe, quindi, di un vero e proprio punto di snodo nella narrazione, che prosegue, nelle pagine rimanenti del Campo Grande, attraverso una varietà di ritratti dei

57 Ivi, p. 69. 58 Ivi, p. 73.

protagonisti dell’avventura del ritorno. In essa, «l’assurdo del Lager, gelido e mortifero, lascerà il campo al grottesco, nel rinnovarsi mutevole e falotico della vita»59.

Tornando al Kleine Kiepura, va detto che questi si distingue innanzitutto perché la sua conoscenza da parte del narratore è pregressa, si riaggancia a un suo vissuto precedente; questo elemento, peraltro, è quello che introduce la figura nel testo. Si legge, infatti: «vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz» [T 27]. E, come traspare chiaramente fin dalle prime battute di questo ritratto, il fatto che Levi lo ritrovi nel «Campo Grande» è qualcosa che suscita in lui e nei compagni – che allo stesso modo non possono non conoscerlo – un senso di disgusto.

La qualità che contraddistingue il Kleine Kiepura e che immediatamente il narratore evidenzia, sulla scorta del ricordo della sua presenza a Buna, è l’irregolarità. Era irregolare la sua presenza – aveva dodici anni – nel Lager, a proposito della quale pare che tutti ne conoscessero le ragioni, pur fingendo di ignorarle; era irregolare la sua posizione, dal momento che non era sottoposto ad alcun lavoro, ma viveva barricato nel Block insieme ai capi; e, sopra ogni cosa, «vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto» [T 27].

La fisionomia del Kleine Kiepura viene così presentata: «Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola, più prominente del naso» [T 27]. L’irregolarità risiede, oltre che nell’asprezza in sé dei dettagli focalizzati, anche nella loro contraddittorietà: sopravvive, infatti, qualcosa che pure richiama la grazia tipica dei bambini, ma sempre brutalmente mescolata ad altro.

La descrizione della deformità fisica del Kleine Kiepura anticipa anche la sua degradazione morale, sulla quale Levi si sofferma poco dopo. A tenere insieme, sul piano testuale, queste due facce del suo decadimento è l’esplicitazione della posizione effettiva del bambino: si tratta dell’attendente del Kapo del Lager, il suo assistente personale (era questo anche il ruolo del più noto Jean Samuel, il «Pikolo» di Se questo è un uomo).

Le informazioni sul versante della condotta morale del Kleine Kiepura sono incorniciate da alcune note sui sentimenti che gli altri nutrono nei suoi riguardi:

Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All’ombra dell’autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all’ultimo giorno un’esistenza

ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi più clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano. [T 27-28]

Odiato da tutti, eccetto che dal Kapo, Kiepura è anche una figura lasciata a debita distanza perché temuta a causa del suo passato. Più avanti si legge che Primo ed Henek provano per lui «diffidenza e una pietà ostile» [T 28]. Anche la fragile compassione che pure provano per Kiepura, quindi, risulta innervata da un’imprescindibile vena di ostilità. La relazione che i sopravvissuti si trovano a intessere con questo bambino è decisamente non conciliata.

La «pietà ostile» che il Kleine Kiepura ora suscita è innescata dal suo stesso trovarsi nell’ospedale del «Campo Grande» con gli ex deportati. Infatti, pure lui finisce per condividere lo stesso destino di coloro i quali, in precedenza, erano in certo modo anche le sue vittime: «Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino. Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo» [T 28].

Primo ed Henek rivolgono al ragazzino qualche parola, ma questi non risponde. Solo dopo alcuni giorni, il Kleine Kiepura comincia a parlare. Anche il suo eloquio, tuttavia, si configura come brutale e aggressivo, tanto che il narratore afferma di aver rimpianto il suo silenzio. Quello di Kiepura non è un discorso volto a incontrare l’ascolto o la parola degli altri, ma è un vero e proprio monologo, del tutto sragionante:

Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall’alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti. [T 28]

Il personaggio passa repentinamente dal silenzio all’espressione delirante: abbandona il mutismo iniziale per lasciarsi andare a un’allucinazione di potere, nella quale sogna di aver fatto carriera come Kapo. Ma il sogno non si esaurisce nel canticchiare le marce che scandivano le giornate di lavoro ad Auschwitz; prosegue, invece, in un crescendo martellante di ordini, minacce e offese che il bambino immagina di rivolgere ai prigionieri che vanno verso la morte. Il Kleine Kiepura si configura, così, come l’anti-

Hurbinek: se l’inferno del Lager ha sbarrato a Hurbinek l’accesso al mondo degli umani, Kiepura ha assorbito fino al midollo quella logica infernale, che oramai lo possiede.

Subito dopo, il narratore scioglie la concitazione dello sproloquio perverso enunciando lapidariamente il dileguarsi del ragazzino:

Il Kleine Kiepura sparì dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. [T 29]

Kiepura sembra sparire dal racconto quasi in modo aleatorio, così come poco prima è comparso nel «Campo Grande». Questo evento è, del resto, ragione di sollievo per Primo e i suoi compagni, dal momento che la sua presenza in mezzo a loro ferisce tanto quanto «quella di un cadavere».

In conclusione, il ritratto del Kleine Kiepura è così esaurito dal narratore: «Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l’infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada» [T 29]. Il Kleine Kiepura è un bambino irrimediabilmente contagiato: la sua coscienza innocente è stata corrotta fin nel profondo dal male. E, nel vortice di questa dinamica di annichilimento dell’umano, ciò che Levi lascia intuire è che il ragazzino stesso, seppure in una misura non quantificabile, è compartecipe di quell’offesa immane che, così, «pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti» [T 11].

Si può affermare che nel caso della descrizione del Kleine Kiepura la voce del narratore che commenta la figura in oggetto sia più vigorosa di altri casi. Infatti, oltre a offrire al lettore del materiale affinché egli possa giudicare, si è potuto constatare che il narratore stesso giudichi a più riprese Kiepura. Questo aspetto si configura come un esito tipico della posizione su cui spesso si attesta un narratore non finzionale come Levi, il quale «intrattiene con i suoi personaggi un rapporto duplice di distanza e prossimità: dice chi è l’altro per lui, ma deve anche dire chi è l’altro in sé»60. La linea di demarcazione fra questi due compiti che spettano al narratore risulta, in questo come in altri ritratti della

Tregua, molto fragile.