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Diritto e guerra dall'eta preglobale ai conflitti mondiali del Novecento.

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INDICE

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INTRODUZIONE 4

PARTE PRIMA

I. IL DIRITTO INTERNAZIONALE PREGLOBALE.

1. Terra e diritto. 8

2. Ad ogni popolo la sua terra e il suo diritto. 9

3. Jus gentium est bella. 10

4. Il nomos medievale della terra. 10

5. Giusta causa e guerra nell’età preglobale. 12

6. La scoperta di un Nuovo Mondo e di un nuovo nomos. 14

7. Vitoria: guerra giusta al tempo delle scoperte geografiche. 15

8. Fra continuità e discontinuità. Verso lo «jus publicum europaeum». 22

II. LO «JUS PUBLICUM EUROPAEUM».

1. Lo Stato come entità portante del nuovo ordinamento spaziale. 24

2. Dalla justa causa al justus hostis: la guerra interstatale. 25

3. Giuristi contro teologi: dalla morale al diritto. 27

3.1 Gentili: Silete theologi in munere alieno! 27

3.2 Grozio e il bellum solemne. 31

4. Bellum, arcanum regni. 37

5. Il Settecento: fra dottrine dell’equilibrio e progetti di pace perpetua. 40

5.1 Vattel: la guerra in forma nel secolo dei Lumi. 41

5.2 Kant: progetti di pace perpetua. 45

6. La Rivoluzione francese e l’esperienza napoleonica. 49

7. Clausewitz e il Vom Kriege. 53

7.1 La sfida rivoluzionaria francese all’ancien régime prussiano. 54

7.2 Popolo in armi. 58

7.3 I freni clausewitziani. 61

8. Il nuovo paradigma della guerra industriale. 65

8.1 La guerra civile americana. 67

(2)

2

9. Il cammino del diritto umanitario internazionale. 72

9.1 Il Codice Lieber. 72

9.2 Le Convenzioni europee: da Ginevra all’Aja. 78

III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.

1. Da Westfalia alla Grande Guerra: ascesa e declino dello jus publicum europaeum. 81 2. Dallo jus publicum europaeum allo jus totius orbis terrarum. 81

3. L’industria della morte. 84

4. La democrazia della morte: “guerra ai civili”. 86

5. Dalla limitazione al divieto. 88

6. Ritorno alla justa causa. 90

6.1 Guerra-tribunale: criminalizzazione del Kaiser e Processo di Lipsia. 91

6.2 La resa dei conti: il Processo di Norimberga. 95

6.2.1 Il Patto di Londra e lo Statuto dell’International Military Tribunal. 95

6.2.2 Dalla responsabilità individuale all’ordine del superiore: l’esito del Processo di

Norimberga. 99

PARTE SECONDA

IV. L’ITALIA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE.

1. Dallo jus publicum europaeum alla guerra giusta: il percorso italiano. 105

1.1 Giorgio Del Vecchio: la pace attraverso il diritto di prendere le armi. 108

1.2 Vittorio Emanuele Orlando: l’uomo politico di fronte al «monumentale cimento». 113

1.2.1 Si vis pacem para bellum. 114

1.2.2 La guerra giusta e necessaria: fra rivendicazioni territoriali e difesa della civiltà.

1.2.3 Si vis libertatem et iustitiam para bellum. 118

1.2.4. «Da giurista a giurista»: esame del tentato processo al Kaiser. 121

2. Organismi sovranazionali ed eliminabilità della guerra: progettualità del primo

dopoguerra. 128

2.1 Luigi Sturzo: oltre la sovranità statale, verso la pace. 128

2.2 Giorgio Balladore Pallieri e il dogma della volontà statale. 135

3. Lo jus in bello fra le due guerre mondiali: l’analisi di Balladore Pallieri. 142

(3)

3 3.2 Princìpi di umanità e loro violazione: punizione dei belligeranti avversari. 148

4. Bilancio conclusivo. 152

V. L’ITALIA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE.

1. L’Italia e il dibattito sul Processo di Norimberga. 153

2. La «vexata quaestio» della responsabilità individuale nel diritto internazionale. 154

2.1 L’ammissibilità della responsabilità individuale nel diritto umano e internazionale:

Pietro Nuvolone e Giuliano Vassalli. 156

2.2 Gli Stati come unici soggetti del diritto internazionale: Giuseppe Vedovato e Carlo

Miglioli. 163

3. La questione dell’ordine superiore. 167

3.1 Fra responsabilità individuale, attenuanti ed esclusione della colpa. 170

4. Leggi ex post facto: grave violazione di diritto o necessità imprescindibile? 177

4.1 La punizione dei criminali di guerra e il principio nullum crimen, nulla poena sine

lege. 179

5. Verso una giustizia penale internazionale: evoluzione o regresso? 187

PARTE TERZA

VI. IL DIRITTO PENALE ITALIANO E I CRIMINALI DI GUERRA TEDESCHI.

1. Esame di sentenze. 195

2. Il processo per le Fosse Ardeatine. 196

2.1 Rappresaglia o repressione collettiva? 196

2.2 «Das Befehl ist Befehl». 202

3. Il processo contro Walter Reder. 205

3.1 L’articolo 13 c.p.m.g. come fondamento della competenza del giudice militare italiano

a giudicare Reder. 205

3.2 Rappresaglie e sanzioni collettive: i tentativi della difesa di giustificare le azioni

dell’imputato. 208

3.3 Verso una corretta impostazione del tema dell’obbedienza agli ordini. 210

CONCLUSIONE 214

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4 INTRODUZIONE

Con il presente lavoro si intende tracciare l’evoluzione del diritto internazionale, prestando

attenzione al tema specifico della guerra.

L’obiettivo sarà quello di evidenziare come ad ogni fase evolutiva del diritto internazionale corrisponda un determinato modo di interpretare il fenomeno bellico.

La macro-periodizzazione da noi seguita prevederà grossomodo tre fasi: una prima, preglobale, che si diparte dall’antichità per giungere alla scoperta del Nuovo Mondo; una seconda fase, che prende avvio nel 1648 – con la Pace di Westfalia – e termina con lo scoppio della Grande Guerra; ed un’ultima, comprendente il periodo dei due conflitti mondiali novecenteschi.

Tale periodizzazione non è da intendersi in maniera rigida; vedremo come numerosi ed importanti saranno i periodi di transizione (come quello significativo che va dal 1492 al 1648); come degni di nota saranno quegli avvenimenti (come la Rivoluzione Francese e la Guerra civile americana) che, pur inserendosi in una determinata fase, presenteranno i segnali della successiva evoluzione.

Ciò che ci premerà mettere in evidenza sarà il progressivo mutamento dei rapporti intercorrenti fra le diverse organizzazioni politico-territoriali, le quali verranno interpretate come l’espressione più concreta dello stadio evolutivo vissuto dal diritto internazionale.

Il fenomeno bellico verrà indagato, quindi, come la forma più antica ed esemplificativa di questi rapporti intercorrenti tra le varie entità territoriali.

Oltre ad indagare i grandi avvenimenti che hanno segnato l’evoluzione dell’ordinamento internazionale – dalla scoperta delle Americhe alla nascita degli Stati moderni, dalle guerre di religione ai conflitti totali del Novecento –, faremo riferimento a quegli autori (teologi, giuristi, filosofi) che tali momenti storici hanno vissuto; attraverso le loro opere potremo apprezzare maggiormente la portata degli eventi, nonché evidenziare le sfumature, le continuità e le discrepanze insite nei loro giudizi.

Avvicinandoci alla seconda metà del XIX secolo, periodo in cui si cominciarono a fare i primi tentativi di codificare il diritto internazionale bellico, la nostra analisi si arricchirà di riferimenti a tali nuovi testi normativi. Attraverso la loro analisi, sarà possibile apprezzare l’evoluzione delle pratiche belliche, nonché i tentativi messi in atto per comprendere e regolamentare il fenomeno in generale. Non mancheranno riferimenti, un po’ in tutto il lavoro, all’evoluzione degli armamenti e delle tecniche militari, la quale, come vedremo, subirà una significativa accelerata proprio a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Sarà interessante notare le ripercussioni di un tale progresso materiale sui tentativi coevi di codificazione delle pratiche belliche.

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5

Notevole attenzione sarà prestata all’ultimo stadio evolutivo del diritto internazionale, riguardante la prima metà del XX secolo. Oltre a rappresentare il momento in cui le tendenze ravvisate nei decenni precedenti si sostanziano e trovano piena conferma, i due conflitti mondiali inaugureranno un nuovo modo di fare e giudicare la guerra; la nostra attenzione si focalizzerà, a questo proposito, sui tentativi di proseguire la guerra – una volta deposte le armi – sui banchi di tribunale. Il (tentato) processo al Kaiser tedesco e i (riusciti) processi di Norimberga e Tokyo verranno esaminati come la prova dell’avvenuto mutamento nei modi di condurre ed interpretare il fenomeno bellico.

La parte finale del lavoro sarà dedicata al dibattito italiano sui grandi temi del primo e secondo conflitto mondiale.

Il criterio utilizzato per la scelta degli autori, dei testi e degli argomenti esaminati è consistito, in parte, nello spoglio di alcune fra le più importanti riviste italiane di argomento giuridico (ma non solo)1. In questo modo, è stato possibile individuare le tematiche maggiormente discusse nel

periodo fra le due guerre mondiali, nonché ricavare i nomi degli autori che a vario titolo prendevano parte al dibattito.

Oltre alle opinioni degli autori circa la posizione e il ruolo concreto dell’Italia nei conflitti, molta attenzione sarà dedicata al loro approccio a tematiche di più ampio respiro: liceità dei conflitti, interpretazione delle norme internazionali dello jus in bello, opportunità di una giustizia penale internazionale, giudizio sull’esito del Processo di Norimberga, futuro della comunità internazionale etc.

La parte finale comprenderà anche l’esame di due importanti processi contro criminali di guerra tedeschi celebrati in Italia da Corti militari italiane. L’obiettivo sarà quello di valutare come le speculazioni teoriche sulle tematiche riguardanti il diritto bellico si applichino ai casi concreti. Valuteremo discrepanze e difficoltà nel giudizio.

Avvertiamo già come per quest’ultima parte si sia fatto ricorso quasi esclusivamente ai testi delle sentenze, non avendo potuto contare su un’ampia bibliografia sull’argomento o sul supporto di articoli delle riviste visionate trattanti i due casi in esame.

Consapevoli che per genesi, contenuto ed applicazione i codici penali militari dei singoli Stati siano differenti dal diritto internazionale, riteniamo comunque non priva di interesse un’analisi di singoli fatti giudiziari, che consenta di evidenziare come la magistratura militare di uno Stato determinato (nel nostro caso l’Italia) agì concretamente in relazione allo scottante tema dei crimini di guerra. Inoltre, i due processi scelti (oltre a rappresentare i procedimenti giudiziari contro militari

(6)

6

tedeschi di maggior rilievo della breve stagione processuale italiana) ci consentiranno di apprezzare i caratteri più significativi acquisiti dal fenomeno bellico nella svolta novecentesca.

In conclusione, possiamo affermare che lo scopo ultimo del presente lavoro è quello di tracciare l’evoluzione del fenomeno bellico, seguendo le tracce da esso lasciate sul più vasto percorso del diritto internazionale.

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7 PARTE PRIMA

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8 I. IL DIRITTO INTERNAZIONALE PREGLOBALE.

1. Terra e diritto.

«Jus gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio […]»: così, intorno al 500 d.C., si espresse Isidoro da Siviglia nelle sue Etymologiae per definire la sostanza del diritto delle genti. Secondo tale definizione, l’occupazione di terra, di un sito (sedes), seguita dalla costruzione di edifici e fortificazioni, rappresenta il titolo giuridico che sta a fondamento dello jus gentium e, più in generale, del diritto stesso.

Il filosofo tedesco Carl Schmitt, nella sua opera fondamentale, Il nomos della terra2, indagando

sulle origini del diritto e sulla sua evoluzione, compie una sorta di scavo semantico della parola

terra, da lui ritenuta «madre del diritto»3. Essa costituisce per Schmitt l’elemento primordiale, sul

quale si innestano i concetti di diritto e giustizia.

La terra fertile serba infatti dentro di sé una misura interna; la fatica e il lavoro, la semina e la coltivazione che l’uomo dedica ad essa sono ricompensati con giustizia dalla terra stessa, mediante la crescita ed il raccolto.

A sua volta, le misure e le regole della coltivazione sono rese evidenti dalle tracce che l’uomo lascia sul terreno: linee delimitano campi, prati, boschi, come i solchi circoscrivono le varietà di colture e gli appezzamenti lasciati a maggese. Le recinzioni, le pietre di confine, le mura, le case e gli altri edifici rappresentano poi i segni evidenti, pubblicamente visibili, della convivenza umana.

«Così la terra risulta legata al diritto in un triplice modo. Essa lo serba dentro di sé, come ricompensa del lavoro; lo mostra in sé, come confine netto; infine lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento»4

.

Ritornando alla definizione isidoriana, vediamo come Schmitt possa trovare conferma delle sue speculazioni: la terra rappresenta l’elemento base sul quale l’uomo esercita la sua volontà (attraverso l’occupazione e la successiva costruzione di elementi, quali gli edifici e le fortificazioni, che rendono evidente il possesso) , e così facendo produce diritto.

Secondo il filosofo tedesco, specificando meglio, «un’occupazione di terra istituisce diritto secondo una duplice direzione: verso l’interno e verso l’esterno»5.

Nel primo caso, attraverso la divisione e ripartizione del suolo, si stabiliscono i rapporti di possesso e di proprietà; gli occupanti stabiliscono, cioè, la natura dei loro vincoli con la terra e, così facendo, determinano anche le forme di potere e dominio validi fra gli individui.

2 Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Adelphi, Milano, 1991. 3

Ibid., p. 19.

4 Ibid., p. 20. 5 Ibid., p. 23.

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9

Verso l’esterno, il gruppo occupante deve confrontarsi con altri gruppi, che possono essere stanziati sul terreno che si desidera sottrarre loro oppure, semplicemente – nel caso di uno spazio libero senza padroni – rappresentano coloro che riconoscono l’avvenuta occupazione.

In ogni caso l’occupazione di terra, sia sotto il profilo interno, sia sotto quello esterno, rappresenta il primo titolo giuridico che sta a fondamento dell’intero diritto seguente. Diritto territoriale e successione nel territorio, esercito e milizia territoriale presuppongono l’occupazione di terra. Quest’ultima precede anche la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Soltanto con essa si creano in generale le condizioni di tale distinzione. Per questo l’occupazione di terra ha, se così ci si vuole esprimere, un carattere categoriale dal punto di vista giuridico6.

2. Ad ogni popolo la sua terra e il suo diritto.

Per millenni l’umanità ha avuto un’immagine mitica della terra nella sua totalità, ma nessuna esperienza scientifica di essa. Non esisteva alcuna idea di un pianeta compreso in termini di umana misurazione e localizzazione, e comune a tutti gli uomini e popoli. Mancava ogni coscienza globale in questo senso, e quindi ogni fine politico orientato verso la medesima costellazione di valori7.

Lo jus gentium di cui parla Isidoro da Siviglia nella sua definizione dunque non sarà che un diritto internazionale incompleto ed indeterminato, perché tale era la visione dello spazio.

Nei tempi antichi tutto era al livello di organizzazione proprio delle condizioni di sviluppo della tecnica, dell’economia e delle comunicazioni; «tutto restò confinato – e questo è il punto decisivo – nel quadro e nell’orizzonte di una visione non complessiva e non globale dello spazio, e di una terra ancora non misurata scientificamente»8.

I grandi complessi di potere che sorsero in Oriente e in Occidente, dall’età antica fino al Medioevo, lungi dal non riconoscere l’esistenza di altre entità politiche, avevano comunque la tendenza, dice Schmitt, ad escludere la realtà esterna; i fossati di confine, le mura fortificate o i semplici limes – simboli evidenti della volontà di circoscrivere lo spazio – avevano la funzione specifica di separare nettamente il proprio territorio, inteso come cosmo, dal territorio circostante, concepito come un caos, estraneo e selvaggio.

Tali confini contenevano in sé una separazione giuridica-internazionale, «mentre invece, ad esempio nei secoli XVIII e XIX, i confini tra due Stati territoriali nel quadro del moderno diritto internazionale europeo non implicano un’esclusione, ma piuttosto un reciproco riconoscimento di diritto internazionale, soprattutto il riconoscimento del fatto che il suolo del vicino, al di là del confine, non è senza padroni»9.

6 Carl Schmitt, Il nomos della terra, pp. 24-25. 7

Ibid., p. 30.

8 Ibid., p. 34.

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10

Nell’antichità, i grandi imperi consideravano le loro terre come il fulcro del mondo, mentre i territori che si stendevano al di là dei loro confini rappresentavano nel loro immaginario degli spazi ‘altri’, da conquistare o da cui difendersi.

3. Jus gentium est bella.

Se volessimo proseguire l’elenco degli elementi che secondo Isidoro da Siviglia danno vita allo

jus gentium, subito dopo quelli riguardanti l’occupazione della terra troveremmo bella, ossia le

guerre. Il vescovo spagnolo sembra suggerire che il conflitto armato, oltre a produrre diritto, rappresenti la forma principale di confronto fra le entità politiche10.

Schmitt precisa che, proprio la visione non complessiva e non globale dello spazio posseduta dagli imperi dell’antichità, che portava a considerare l’altro come estraneo ed ostile, era causa della radicale conflittualità dei rapporti intercorrenti fra le varie realtà politiche.

Tale radicamento dell’ostilità conduceva alla tipologia della guerra di annientamento, il cui unico scopo era il ristabilimento dell’ordine attraverso l’eliminazione dell’elemento di disturbo.

Schmitt afferma che, nonostante tutto, il diritto internazionale preglobale contenga qualche importante principio giuridico sulla guerra e sulla pace, sui modi di condurre la prima e di stipulare la seconda, ma

Nonostante tali accenni, [il diritto internazionale preglobale] non poteva […] colmare la mancanza di una visione globale della terra. Era destinato a rimanere rudimentale, pur avendo sviluppato forma salde e consuetudini riconosciute riguardo al diritto di legazione, alle alleanze e ai trattati di pace, al diritto degli stranieri e al diritto di asilo. Infatti, un diritto internazionale tra gli imperi non poteva pervenire con facilità a una limitazione della guerra, ovvero a un riconoscimento dell’altro impero come justus hostis. Pertanto, finché non fosse sorto un diverso criterio, le guerre tra tali imperi erano condotte come guerre di annientamento11.

4. Il nomos medievale della terra.

L’età medievale, pur appartenendo ancora alla fase preglobale del diritto internazionale, porta con sé un proprio e specifico ordinamento spaziale.

Come abbiamo tentato di suggerire nelle pagine precedenti, l’intera realtà storica si divide in due grandi fasi, alle quali corrispondono diversi ordinamenti spaziali: la prima viene definita preglobale, e si estende dall’antichità fino alla scoperta del Nuovo Mondo; la seconda ha inizio nel 1492, per terminare grossomodo (se vogliamo seguire la periodizzazione schmittiana) alla fine del XIX

10

La definizione per intero tratta dalle Etymologiae recita così: «Jus gentium est sedium occupatio, aedificatio, munitio, bella, captivitates, servitutes, postliminia, foedera pacis, induciae, legatorum non violandorum religio, connubia inter alienigenas prohibita». Come si nota, al commercium non si riserva alcun posto, quasi ad evidenziare la natura sempre conflittuale del rapporto fra le varie entità politiche. In altre importanti definizioni, invece, quale quella tratta dal Corpus Juris Justiniani, il commercio appare fra le attività fondanti il diritto internazionale.

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secolo. Il passaggio da una fase all’altra, che approfondiremo nel prosieguo del presente lavoro, è sempre dovuto a mutamenti sostanziali, riguardanti l’ampliamento degli orizzonti territoriali. Infatti, all’epoca delle scoperte geografiche, la terra fu per la prima volta compresa e misurata dalla coscienza globale dei popoli europei. Per dirla con i termini schmittiani, nacque il primo nomos della terra, fondato su un determinato rapporto tra l’ordinamento spaziale della terraferma e quello del mare libero e portatore di un diritto internazionale eurocentrico, lo jus publicum europaeum. All’incirca quattrocento anni dopo, si cominciarono ad avvertire i primi segni di cedimento di tale ordinamento: con l’ingresso degli Stati Uniti nello scacchiere politico mondiale, seguito da quello di altre potenze asiatiche, come il Giappone, il diritto internazionale perse il suo carattere distintivo di fenomeno specificamente europeo. Ha inizio così una nuova fase nella storia mondiale.

Tornando alle considerazioni di inizio capitolo, l’età medievale rappresenta un periodo fondamentale nell’evoluzione del diritto internazionale, in quanto spartiacque fra la fase preglobale e quella globale. Infatti, «il diritto interstatale europeo tra XVI e XX secolo, è sorto [proprio] dalla dissoluzione dell’ordinamento spaziale medievale […]»12.

Il nomos medievale della terra nacque in seguito alle migrazioni dei popoli germanici e alla conseguente occupazione di territorio da parte di essi: sia che essa avvenisse senza alcun riguardo per la situazione giuridica propria del mondo romano – dunque come semplice sottrazione di terra al padrone originario –, sia che l’occupazione avvenisse nel rispetto dell’ordinamento spaziale dell’impero – attraverso l’assegnazione da parte dell’imperatore romano di territori alle tribù nomadi –, tali occupazioni di terra sconvolsero il quadro dell’ordinamento fino a quel momento vigente.

Dal fatto che la terra veniva spartita tra il conquistatore germanico e il possessore romano del suolo nacquero, nel sistema di convivenza delle tribù e dei popoli, nuove nazioni e nuove unità politiche. Con esse sorse un nuovo diritto internazionale europeo.

L’unità complessiva di diritto internazionale del Medioevo europeo fu detta respublica christiana e populus christianus. Essa era dotata di chiare localizzazioni e di chiari ordinamenti13.

Come accennato in precedenza, anche nel caso della respublica christiana, proprio per il suo carattere di compagine territoriale ancora preglobale, valgono quelle suddivisioni territoriali che già abbiamo trovato in riferimento alle realtà politiche dell’antichità.

Infatti, al territorio della respublica christiana si contrappone il territorio degli imperi islamici o, più in generale, dei popoli non cristiani; questi, in quanto portatori di valori percepiti come

12 Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 38. 13 Ibid., p. 40.

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diametralmente opposti ed ostili, saranno il nemico per eccellenza, contro il quale ingaggiare guerre di conquista e di annientamento.

5. Giusta causa e guerra nell’età preglobale.

Come abbiamo già evidenziato, il confronto fra entità politiche preglobali assumeva sempre il carattere di conflitto totale, conflitto fra valori e concezioni del mondo diametralmente opposti; è facile prevedere come guerre di questo tipo, che potremmo definire manichee, non prevedessero soluzioni di compromesso e che quindi puntassero all’annientamento del nemico.

Una tale tipologia di guerra può essere inserita a pieno titolo negli schemi interpretativi propri della

teoria della guerra giusta; quest’ultima, la cui elaborazione è fatta risalire a S. Agostino d’Ippona,

rappresenta un primo tentativo di comprendere il fenomeno bellico e di stabilirne le caratteristiche. Data la tendenza di tale teoria a mantenersi attuale, senza subire eccessivi mutamenti nel corso dei secoli, ma piuttosto adeguandosi alle varie realtà storiche che decidono ogni volta di riportarla in auge, sarà fruttuoso ritornare sull’argomento nel prosieguo del presente lavoro. Per il momento, sempre debitori dell’opera schmittiana, ci limiteremo ad utilizzare la dizione di «guerra giusta» come categoria esemplificativa del fenomeno bellico nell’età preglobale.

Innanzitutto, secondo tale teoria, una guerra, per esser tale, deve presupporre un’autorità superiore che la proclami. Tale autorità deterrà il potere politico all’interno dell’ordinamento spaziale di riferimento; per fare un esempio concreto, nel ordinamento medievale della terra, il Papato e l’Impero rappresentano i poteri centrali, ai quali, fra le altre prerogative, è delegata la facoltà di stabilire chi è il nemico. Nemico sarà sempre e solo colui che apparirà «portatore di una tavola di valori antropologici radicalmente alternativa»14

, contro il quale la violenza bellica può e deve scatenarsi senza limiti. La guerra giusta medievale è guerra di annientamento.

La giustezza della causa di guerra è dunque stabilita dall’autorità e resa operante e visibile dalla qualità e natura dell’avversario. Schmitt riassume il tutto con queste parole:

Le crociate e le guerre di missione autorizzate dalla Chiesa erano eo ipso guerre giuste, prescindendo dal fatto che fossero d’aggressione o di difesa. Principi e popoli che invece si sottraevano ostinatamente all’autorità della Chiesa, come Ebrei e Saraceni, erano eo ipso considerati hostes perpetui. Il presupposto di tutto ciò era l’autorità giuridica internazionale esercitata da una «potestas spiritualis». Mai nelle dottrine del Medioevo cristiano si può prescindere da tale autorità […]. Il punto di riferimento per la definizione della guerra giusta sotto l’aspetto formale consiste nell’autorità stabilizzata della Chiesa15.

Nonostante ciò che finora è stato detto, non si vuole negare che in questo periodo storico esistessero altre forme di conflittualità, ad esempio all’interno dello stesso territorio cristiano. Tale

14 Eugenio Di Rienzo, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Franco Angeli, Milano, 2005, p. 7. 15 Carl Schmitt, Il nomos della terra pp. 132-133 (corsivi nel testo).

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conflittualità era invece molto presente, ma le regole del gioco mutavano radicalmente, se paragonate a quelle del confronto con nemici esterni.

E’ essenziale il fatto che all’interno del territorio cristiano le guerre tra principi cristiani fossero guerre limitate, diverse cioè da quelle rivolte contro principi e popoli non cristiani. Le guerre interne, limitate, non distruggevano l’unità della respublica christiana, ma erano «faide» […] e avvenivano sempre nel quadro di un unico ordinamento complessivo, comprendente entrambe le parti in conflitto16.

La condivisione da parte dei contendenti della medesima tavola di valori rendeva i conflitti all’interno del territorio cristiano limitati dal punto di vista dell’aggressività: non nemici, ma

avversari, con cui si poteva contendere per un preciso casus belli, venuto meno il quale, la pace e la

tranquillità venivano ripristinate. Nessuna motivazione di tipo morale-ideologico accorreva ad acutizzare ed inasprire il confronto.

Anche lo studioso Michael Howard sottolinea l’esistenza, a fianco della guerra contro un nemico esterno, di una conflittualità tutta interna al mondo cristiano, mettendo in evidenza la loro differente natura.

Che cristiani si combattessero fra di loro era un fatto già di per sé deplorevole, e la Chiesa lo deplorava allora con la stessa assiduità e la stessa mancanza di risultati che continuarono a caratterizzare la sua azione nei secoli successivi. Tuttavia i teologi cristiani si trovarono d’accordo nel considerare «giuste» determinate guerre; tanto per intendersi, quelle intraprese da un’autorità superiore legalmente riconosciuta e per una giusta causa17.

E, aggiungiamo, contro nemici esterni.

Howard ritiene che la causa dei conflitti interni al mondo cristiano siano dovuti, sostanzialmente, all’educazione militare, perno sul quale ruotava l’intera società feudale; nel momento in cui viene a mancare un nemico esterno, è facile immaginare come uomini così avvezzi alle pratiche belliche finissero per combattere fra di loro. Inoltre, la stessa organizzazione della società medievale favoriva la nascita di tali conflitti:

La rete di diritti e di obblighi, di doveri e di impegni di fedeltà connessi con l’organizzazione feudale fu la causa di dispute senza fine, e in mancanza di un chiaro sistema di leggi e di un potere esecutivo, gli uomini erano inclini a reclamare i loro diritti combattendo18.

Secondo lo studioso britannico, la differenza netta fra guerra privata e guerra pubblica, pur essendo da sempre percepibile dalla diversa natura dei contendenti, si rese esplicita solo con il prevalere della seconda tipologia, ossia quella della guerra pubblica. Con la nascita dello Stato moderno, infatti, l’unica varietà di conflitto armato ad essere contemplata fu quella che vedeva schierarsi sul

16

Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 42.

17 Michael Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 1978, p. 16. 18 Ibid., p. 17.

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campo di battaglia entità politiche; i conflitti interni degradarono al rango di ribellioni, faide, rivolte, perdendo quindi anche la stessa definizione di ‘guerre’.

6. La scoperta di un Nuovo Mondo e di un nuovo nomos.

Come accennato in precedenza, le scoperte geografiche che presero avvio sul finire del XV secolo inaugurarono una nuova fase del diritto internazionale. A partire da tali avvenimenti, gli aggettivi internazionale e globale, in riferimento alla visione spaziale della terra, poterono essere utilizzati nel loro significato più pieno e corretto. In seguito alla circumnavigazione del globo e alle grandi scoperte, «la terra fu compresa nella forma di un globo reale, non solo miticamente, ma quale dato di fatto scientificamente esperibile e quale spazio praticamente misurabile […]»19.

Le terre appena scoperte si presentavano come uno spazio libero, un’area libera per l’occupazione e l’espansione. Si accese così la lotta fra gli Stati europei per il possesso di questo nuovo territorio, e da essa scaturì un nuovo ordinamento spaziale con nuove suddivisioni della terra. Le rayas ispano-portoghesi e le amity lines franco-inglesi furono i segni che le potenze europee tracciarono sul globo, al fine di rendere esplicite le rispettive aree di competenza.

Nel caso delle rayas, si procedeva a segnare i confini fra le aree appartenenti a prìncipi cristiani e quelle appartenenti a popoli non cristiani.

La raya presupponeva dunque che i principi e i popoli cristiani avessero il diritto di essere investiti dal papa di un incarico di missione, in forza del quale potevano evangelizzare i territori non cristiani e, nel proseguimento della missione, occuparli20.

Siamo ancora in una fase in cui il confine rappresenta lo strumento attraverso il quale riconoscere ed isolare l’altro, contro il quale ingaggiare guerre di evangelizzazione e di conquista (previa autorizzazione da parte delle autorità). Come è facile intuire, la percezione che le terre appena scoperte fossero uno spazio libero, privo di padroni, ma al contempo abitate da popoli non cristiani e tecnologicamente meno evoluti, fu la causa della spietatezza con cui l’occupazione venne condotta dagli europei. Tali guerre di conquista hanno ancora tutti i tratti caratteristici della guerra giusta.

Le amity lines franco-inglesi, pur presupponendo la diversità di rapporti fra le due potenze europee contraenti21, hanno la medesima funzione; le linee tracciate segnavano i confini dell’Europa

e delimitavano il nuovo mondo:

19

Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 81.

20 Ibid., p. 89.

21 Nel suo Il nomos della terra, Schmitt, pur considerando le rayas e le amity lines il frutto degli accordi fra le potenze

europee per regolamentare la spartizione delle nuove terre, attua una distinzione fra le due tipologie: nel caso della raya ispano-portoghese, «due principi che riconoscono la medesima autorità spirituale anche dal punto di vista del diritto internazionale si accordano al fine di acquisire territori appartenenti a principi e popoli di altra confessione. […]

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Qui cessava il diritto europeo, o perlomeno il vecchio «diritto pubblico europeo». Qui aveva fine dunque anche la limitazione della guerra operata dal diritto internazionale fino ad allora vigente, così che la lotta per la conquista territoriale diventava sfrenata. Al di là della linea iniziava una zona «d’oltremare» dove, a causa della mancanza di ogni limitazione giuridica della guerra, valeva solo il diritto del più forte22.

Pur avendo sottolineato il fatto che le scoperte geografiche abbiano segnato un punto di non ritorno nella storia mondiale, non dobbiamo tralasciare di ricordare come, nella prima fase della conquista dei nuovi territori, permanessero alcuni princìpi che abbiamo definito propri dell’età preglobale/medievale. Questo non deve stupirci: i mutamenti solo raramente sono radicali e il vecchio spesso permane con il nuovo.

Infatti, la conquista territoriale dell’America da parte della corona di Castiglia corrisponde, nel suo primo stadio, ancora interamente al diritto internazionale del Medioevo cristiano, basato su quell’ordinamento spaziale che permetteva ai prìncipi cristiani di portare guerra ai popoli e alle terre non cristiani. Dai mandati di missione nelle terre appena scoperte assegnati dal Papa, risultavano la giustezza della guerra dal punto di vista del diritto internazionale e, come conseguenza di ciò, il fondamento di una legittima acquisizione di territorio.

Secondo Schmitt,

Questo jus gentium medioevale venne meno solo con l’avvento dello Stato territoriale, sovrano e in sé chiuso, dello jus publicum Europaeum, che mise fine a tutti i concetti specifici del diritto internazionale medioevale, soprattutto alle idee della guerra giusta e dell’acquisizione legittima di territorio23

.

7. Vitoria: guerra giusta al tempo delle scoperte geografiche.

La figura di Francisco de Vitoria è emblematica della persistenza, accanto ai grandi rivolgimenti che segnarono il passaggio all’evo moderno, di categorie proprie del passato medievale: le scoperte geografiche ampliarono notevolmente gli orizzonti spaziali, ma furono interpretate attraverso strumenti culturali legati al periodo storico ormai trascorso (almeno cronologicamente).

Vitoria è un autore tipicamente di transizione, che si colloca in un momento di passaggio da un paradigma a un altro, o da una concettualità politica a un'altra. Egli usa il linguaggio antico, in una apparente fedeltà alla tradizione, per risolvere problemi nuovi: e in questo risiede l'ambivalenza del suo pensiero che dà adito a una molteplicità di

Pertanto, nel trattato di divisione e di ripartizione che seguiva a una conquista territoriale, si riconoscevano reciprocamente quali parti contraenti dotate di egual valore» [pp. 88-90]; invece, nel caso delle amity lines franco-inglesi, nate successivamente alla spaccatura segnata dalla Riforma protestante e da collocare nel più vasto quadro delle guerre di religione, «definiscono l’esistenza di uno spazio bellico tra le potenze contraenti, artefici della conquista, e ciò proprio perché ad esse manca ogni altro presupposto e ogni altra autorità comune» [p. 92]. Con questo, Schmitt non vuole comunque negare che entrambe le tipologie di ‘linea’ implichino una sostanziale demarcazione fra l’Europa e il resto del mondo.

22 Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 92. 23 Ibid., p. 121.

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interpretazioni. È un pensiero, che dietro l'apparente chiarezza, sicurezza e autorità dell'esposizione e del metodo scolastico, nasconde paradossi, aporie e questioni non risolte24.

Le Relectiones de Indis et de jure belli di Vitoria rappresentano una singolare opera nella quale la legittimità della conquista europea viene fatta oggetto di un’analisi morale e giuridica. Gli strumenti utilizzati dal domenicano spagnolo appartengono sempre al contesto del dibattito scolastico-teologico e più specificamente alla tarda Scolastica spagnola. Nonostante ciò, dall’analisi delle sue argomentazioni, risultano importanti particolarità ed è percepibile l’avanzare del nuovo in tematiche relative al diritto internazionale.

L’ambiente nel quale Vitoria si trova a vivere ha subìto radicali mutamenti: letteralmente un nuovo mondo è stato scoperto, ampliando le realtà territoriali con le quali la cristianità europea deve confrontarsi; al suo interno, la respublica christiana è lacerata dalle guerre di religione e non possiede più né un capo secolare né una guida spirituale universalmente riconosciuti. È in un siffatto contesto che il teologo spagnolo elabora la sua teoria della guerra giusta, adattandola all’evento più significativo dell’epoca, ossia la conquista delle Indie.

Innanzitutto, Vitoria, entrando nel merito della legittimità della conquista spagnola dell’America, sgombra il campo dagli argomenti fino a quel momento più accreditati: se per la coscienza dei secoli XVI-XVIII la scoperta costituiva il vero titolo giuridico della conquista, per il domenicano essa non è un titolo legittimo di acquisizione; nemmeno le bolle papali che assegnavano ai re cattolici la sovranità sulle nuove terre scoperte potevano essere utilizzate come giustificazione alla conquista. Qui è evidente come Vitoria avesse ormai registrato il declino delle autorità portanti della respublica christiana in questioni politico-giuridiche:

Né il papa, che ha potere solo in campo spirituale, né l’imperatore, che non è affatto signore del mondo, né un qualsiasi principe cristiano possono disporre dei popoli non cristiani e del loro territorio25.

Schmitt così registra la consapevolezza, da parte di Vitoria, che l’ordinamento spaziale della terra è ormai mutato: la scoperta di un mondo altro rispetto alla respublica christiana ha reso inadeguati i vecchi sistemi di potere e quindi le stesse ambizioni di dominio universale di Papato e Impero. Il primo non possiede più la plenitudo potestatis negli affari temporali; il secondo non è più dominus

totius orbis. Più avanti vedremo come in realtà all’epoca di Vitoria il processo di secolarizzazione è

ancora lontano dall’attuarsi.

Ritornando alla contestazione vitoriana, è significativo il fatto che il domenicano spagnolo rifiuti i titoli, a giustificazione della guerra di conquista, che si basano sulla tradizionale teoria aristotelica

24

Giuseppe Tosi, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista,

http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tosi.htm.

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della schiavitù naturale. L’utilizzo di quest’ultima ben si confaceva al desiderio dei conquistatori di ottenere un titolo giuridico per la sottomissione degli Indios e più in generale per la grande conquista, in quanto tale teoria permetteva di disconoscere agli Indios la qualità di uomini (perché incolti, idolatri, artefici di sacrifici umani, cannibali, criminali di ogni sorta…). L’attribuzione agli indigeni americani dell’appellativo di servus a natura, oltre a giustificare l’utilizzo della forza nei loro confronti, implicava il riconoscimento di una più alta qualità umana ai conquistatori.

Per Vitoria, viceversa, gli indios prima dell’arrivo degli spagnoli erano veri domini delle proprie terre: esercitavano il diritto di proprietà e governavano legittimamente: l’eventuale condizione di peccato mortale non inibisce il dominium; la condizione di infedeli o eretici non è impedimento a essere dominus; né sono esclusi dal dominium gli idioti o gli irragionevoli (le creature irrazionali non possono avere dominium, ma i fanciulli e gli amentes sì; e gli indios fanno uso della ragione pro suo modo) 26.

Per Vitoria, dunque, cristiani e non cristiani sono, da un punto di vista giuridico, sullo stesso piano.

Anche le profonde differenziazioni interne del concetto di «nemico», le conseguenti distinzioni elementari tra guerra regolata e non regolata, le limitazioni specifiche della guerra sorte all’interno dell’ordinamento spaziale del diritto internazionale e così forti nel diritto internazionale del Medioevo cristiano – tutte queste differenti realtà sembrano scomparire in Vitoria nell’affermazione dell’universale eguaglianza tra gli uomini. Gli Spagnoli sono e restano i «simili» dei barbari. Permane dunque anche in questo caso l’obbligo cristiano di amare il prossimo; giacché ogni uomo è nostro «prossimo». Da ciò segue, in concreto, moralmente e giuridicamente, che tutti i diritti degli Spagnoli nei confronti dei barbari valgono anche inversamente, sono reversibili negli jura contraria, in quanto diritti dei barbari nei confronti degli Spagnoli, in assoluta reciprocità e reversibilità.27

Dopo aver esaminato il contenuto delle argomentazioni vitoriane, verrebbe da pensare che il teologo condanni tout court la conquista spagnola. In realtà, proprio attraverso la costruzione della sua teoria della guerra giusta, Vitoria perviene ad una conclusione senz’altro positiva dell’intera vicenda.

Il domenicano, nell’elaborazione della teoria che giustifica la conquista spagnola, parte dal principio dell’universalizzazione dei diritti.

La parola gens della definizione vitoriana di jus gentium ha il preciso significato di entità politica riconosciuta e dunque, con jus gentium si fa riferimento ad una serie di iura validi nel rapporto fra queste entità. Gli iura più importanti contemplati dal diritto delle genti secondo Vitoria sono: lo ius

peregrinandi et degendi, lo jus commercii, lo jus communicationis e lo jus praedicandi et annuntiandi Evangelium.

26

Luca Baccelli, Ritorno a Vitoria? La parabola della “guerra giusta” in Luca Baldissara (a cura di), La guerra giusta. Concetti e forme storiche di legittimazione dei conflitti, 900, Modena, 2009, p. 41.

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È in questo contesto di un diritto delle genti avente come soggetti non gli individui ma i popoli28 che devono mantenere fra loro relazioni di scambio di beni, di persone e di idee, che trovano il loro fondamento nella naturale amicizia e nell'interesse reciproco, che Vitoria introduce il tema della guerra giusta29.

Infatti, qualora tali diritti ci vengano negati e nessun tentativo di mediazione abbia avuto successo, si è giustificati e legittimati a fare ricorso alla guerra; e se non sono disponibili altri mezzi, sono consentiti l’occupazione di città, la deposizione dei sovrani, i saccheggi e la riduzione in cattività delle popolazioni. Nel caso concreto, la guerra di conquista spagnola si presenta come una guerra giusta, in quanto essa rappresenta la risposta della violazione da parte degli Indios dei diritti costituenti lo jus gentium. L’iniuria, con il suo preciso significato di violazione di uno jus, è l’unica causa di guerra giusta.

Dunque, secondo Vitoria

la legittimità della conquista si fonda non più sulla naturale servitù degli indios, conseguenza della loro inferiorità naturale, bensì sull’eguaglianza degli uomini in quanto titolari di diritti naturali30

.

Carl Schmitt fa risalire più specificamente allo jus praedicandi et annuntiandi Evangelium la legittimità della conquista spagnola; «l’argomentazione [vitoriana] sulla guerra giusta, apparentemente così generale e neutrale, riceve solo dall’incarico di missione il suo indirizzo concreto e decisivo»31: se gli Spagnoli hanno il diritto di predicare e diffondere il Vangelo,

l’incarico di missione affidato loro dal Papa rappresenta la conferma e il fondamento giuridico di un tale diritto. A questo punto notiamo, insieme a Schmitt, come l’intera argomentazione del teologo spagnolo si muova ancora interamente all’interno dell’ordinamento spaziale internazionale della

respublica christiana. La Chiesa, pur avendo imboccato la via del declino, che si consumerà

definitivamente con la nascita del diritto interstatale, rappresenta ancora, all’epoca di Vitoria, l’autorità alla quale far ricorso per ottenere riconoscimento e legittimità.

28 È doveroso specificare che Vitoria, pur intendendo nel caso dello jus gentium un diritto valido unicamente fra entità

politiche, non nega al privato cittadino, nella sua più generale trattazione dello jus belli, il diritto di condurre una guerra. L’unica distinzione che egli attua fra le due tipologie di conflitto – guerra pubblica e guerra privata – riguarda il fine da raggiungere: il privato può condurre una guerra difensiva, per proteggere la propria persona e i propri beni (anche in questo caso si parla di guerra giusta), ma non ha il diritto di vendicare le offese; l’autorità politica ha l’autorità non solo di difendersi, ma anche di vendicare sé e i propri cittadini e di perseguire le offese. È comunque chiaro come Vitoria, anticipando i tempi dell’ordinamento statale, affidi alle sole comunità politiche la prerogativa di dichiarare e condurre una guerra: «Quindi è una comunità politica, o una comunità perfetta, quella che è in se stessa una totalità, ossia che non è parte di un’altra comunità politica ma ha invece proprie leggi, un proprio consiglio e proprie magistrature […]. Solo a siffatte comunità politiche, o ai loro principi, spetta l’autorità di dichiarare guerra». Non siamo però ancora al vero e proprio declassamento delle guerre private. Vedi Vitoria, De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros, relectio posterior in Carlo Galli (a cura di), Guerra, pp. 42-43.

29 Giuseppe Tosi, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista, http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tosi.htm.

30

Luca Baccelli, Ritorno a Vitoria? La parabola della “guerra giusta” in Luca Baldissara (a cura di), La guerra giusta. Concetti e forme storiche di legittimazione dei conflitti, p. 41.

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Sempre Schmitt ci fa notare come “l’umanità” dimostrata da Vitoria nei confronti degli Indios abbia anch’essa i suoi limiti e che non arrivi

affatto fino al punto di ignorare realmente la differenza tra fedeli cristiani e non cristiani e di considerarla inesistente. Al contrario: il risultato pratico è interamente fondato sulla convinzione cristiana di Vitoria, che rinviene nella missione cristiana la vera e propria giustificazione. Giacché al monaco spagnolo non passa proprio per la testa che i non cristiani possano rivendicare per la loro idolatria e per il loro errori religiosi il medesimo diritto alla libera propaganda e al libero intervento di cui gli Spagnoli disponevano per la loro missione cristiana. Qui sta dunque il limite tanto della sua assoluta neutralità quanto della generale reciprocità e reversibilità dei suoi concetti32.

Vitoria, nonostante alcune aperture, è ancora un uomo della respublica christiana: il suo diritto internazionale è ancora impregnato di giustificazioni teologico-morali e basato sulla netta distinzione (e discriminazione) fra popoli cristiani e popoli non cristiani.

Dopo aver esaminato la posizione del teologo circa i presupposti che rendono una guerra giusta, soffermiamoci, in primo luogo, sull’ambiguità insita nella stessa dichiarazione di giustezza di una guerra e, successivamente, sul contenuto dello jus in bello.

Innanzitutto, lo stesso Vitoria è consapevole del fatto che il giudizio sulla liceità di una guerra possa essere messo in dubbio; di qui l’interrogativo, che lo stesso teologo si pone, se «perché la guerra sia giusta sia sufficiente che il principe creda di avere una giusta causa»33. A questo dubbio

Vitoria risponde che non sempre ciò è sufficiente; se lo fosse, si verificherebbe il caso assurdo di guerre giuste da entrambe le parti: «se ci fossero buon diritto e giusta causa da entrambe le parti non si potrebbe fare la guerra, né offensiva né difensiva, contro l’avversario. […] assumendosi una dimostrabile ignoranza dei fatti o della legge, si potrebbe dare il caso che la guerra sia giusta in sé, dalla parte che sta con la vera giustizia, ma che anche dall’altra parte si combatta una guerra giusta, cioè una guerra la cui peccaminosità è scusata dalla buona fede (dato che un’invincibile ignoranza scusa da ogni cosa)»34

.

Per Vitoria, dunque, la guerra può essere giusta da entrambe le parti non per un reciproco riconoscimento della condizione di justi hostes, come avverrà nel sistema westfaliano degli Stati sovrani, bensì, al contrario, a partire da un insopprimibile difetto di conoscenza.

Qual è dunque la soluzione prospettata dal domenicano per evitare di condurre guerre ingiuste? Semplicemente «ricorrere alle opinioni dei sapienti»35, per scongiurare la parzialità del giudizio del

principe.

32 Carl Schmitt, Il nomos della terra, pp. 122-123.

33 Francisco de Vitoria, De Indis, sive jure belli Hispanorum in barbaros, relectio posterior, 1539, in Carlo Galli (a cura

di), Guerra, p. 46.

34 Ibid., p. 48. 35 Ibid., p. 46.

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Venendo allo jus in bello, ossia al quid et quantum liceat in bello iusto, Vitoria afferma esplicitamente che «in guerra è lecito fare tutto ciò che è necessario alla difesa del pubblico bene»36.

Tale diritto include la possibilità di recuperare le cose sottratte e, più in generale, di impadronirsi dei beni del nemico per ripagare le spese di guerra e i danni arrecati; il principe ha anche facoltà di distruggere le fortificazioni nemiche, esigere ostaggi, navi e armi, e in generale tutto ciò che si dimostra utile per garantire la pace e la sicurezza future.

In relazione al tema più scottante della liceità dell’uccisione di innocenti in una guerra giusta, Vitoria fa appello ad alcuni precedenti biblici, che dimostrano come ciò sia ammesso; il teologo precisa che «in sé non è mai lecito uccidere intenzionalmente un innocente. […] il fondamento di una guerra giusta è l’offesa; ma questa non viene mai da chi è innocente; e quindi non è lecito far guerra contro quello»37. Tuttavia, precisa il domenicano, «incidentalmente, anche se

consapevolmente, è lecito uccidere innocenti, ad esempio quando, nel corso di una guerra giusta, si assedia una rocca o una città nella quale si sa che ci sono molti innocenti, e i cannoni non possono essere scaricati, né si possono lanciare proiettili o appiccare il fuoco agli edifici, senza che così facendo si uccidano anche degli innocenti»38. Insomma, solo se gli innocenti rappresentano un

ostacolo al perseguimento della giusta causa, è lecito eliminarli; negli altri casi ciò costituisce una colpa.

Per quanto riguarda l’uccisione di combattenti, Vitoria entra nel merito della liceità della guerra di sterminio del nemico. Se durante il furore della battaglia è concesso uccidere indifferentemente tutti i nemici combattenti, al termine delle ostilità è ancora lecito farlo? Il domenicano risponde affermativamente:

raggiunta la vittoria e messa al sicuro la situazione, è lecito uccidere tutti i colpevoli. Lo dimostra il fatto che, come si è detto, la guerra ha come proprio fine non solo di recuperare i beni ma anche di punire le offese. Quindi è lecito uccidere i responsabili dell’offesa passata39.

Addirittura, aggiunge Vitoria, in alcuni casi l’eliminazione totale del nemico è opportuna, in quanto rappresenta l’unico modo per garantire pace e sicurezza. La guerra contro gli infedeli rappresenta il conflitto al quale applicare questa norma:

ciò sembra essere il caso degli infedeli, dai quali non si può mai sperare una pace equa, a nessuna condizione. E pertanto l’unico rimedio è eliminare tutti quelli che possono portare le armi, purché si siano macchiati di colpa40.

36

Vitoria, De Indis, sive jure belli Hispanorum in barbaros, relectio posterior, 1539, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 45.

37 Ibid., p. 48 (corsivo mio). 38

Ibid., p. 49.

39 Ivi. 40 Ibid., p. 50.

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Nei conflitti fra cristiani, invece, tali sfrenatezze non sono concesse; è significativo come l’appello di Vitoria alla moderazione in questa tipologia di conflitti faccia riferimento alla pari dignità dei combattenti, fino ad ammettere l’esistenza di una justa causa per entrambe le parti in lotta.

Ciò che comunque risulta è la superiorità dello status di cristiano – rispetto a quello di infedele o barbaro – che consente, a chi lo detiene, di porsi al di sopra della legge. Vitoria introduce anche l’importante questione della non colpabilità del soldato, il quale combatte credendo di farlo per una giusta causa, fidandosi ciecamente del giudizio in tal senso del sovrano.

Così Vitoria si esprime in relazione ai conflitti fra cristiani:

Occorre dunque che l’entità delle pene sia commisurata alla colpa, e che la vendetta non si spinga troppo oltre; anzi, a questo riguardo si deve riflettere e considerare che […] i sudditi né sono tenuti né hanno il diritto di dare un giudizio sulle cause della guerra, ma anzi possono seguire il loro principe alla guerra, accontentandosi dell’autorità sua e del consiglio pubblico. Quindi per la maggioranza dei combattenti, anche se la guerra è ingiusta sotto un altro profilo, nondimeno i soldati che vengono alla guerra e vi combattono […] sono innocenti dall’una e dall’altra parte. E quindi, quando sono vinti e non sono più fonte di pericolo, credo che non possano essere uccisi; e non solo non possono essere uccisi tutti, ma neppure uno solo, se si presume che abbiano fatto guerra in buona fede41.

Infine, esaminiamo un’ultima questione, che bene testimonia l’ambiguità insita nel periodo di transizione dall’evo medievale a quello moderno, nel quale ha vissuto il nostro Vitoria.

In relazione alla prerogativa del principe di punire il nemico sconfitto, il domenicano ammette la possibilità, se non la necessità, che questo si ponga come giudice fra le due parti:

è inoltre necessario che il vincitore si ponga come un giudice fra le due comunità politiche – quella che subì l’offesa e quella che la fece – e che giunga a emanare una sentenza non come accusatore ma appunto come giudice42.

Ciò testimonia la difficoltà di Vitoria di conciliare l’autorità di Papato e Impero con quella nascente dei prìncipi sovrani; infatti, essendo l’autorità dei primi ormai in declino, il teologo ammette che i secondi possano essere giudici in causa propria; così facendo infligge un duro colpa alla teoria della guerra giusta, che appunto prevede l’esistenza di un giudice super partes.

È ormai evidente come la personalità di Vitoria si inserisca in un momento storico gravido di importanti mutamenti e come, di conseguenza, i suoi giudizi siano influenzati da ciò. Il suo pensiero rimane nell'ambito del linguaggio e della concettualità tradizionale:

ribadisce tutti gli elementi della dottrina della guerra giusta e li applica alle nuove questioni poste dal contesto storico. Ma la dottrina presupponeva un altro contesto storico e concettuale che stava rapidamente cambiando, cioè la presenza

41

Vitoria, De Indis, sive jure belli Hispanorum in barbaros, relectio posterior, 1539, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 50. Ricordiamo che la stessa teoria della guerra giusta, fin dalla sua elaborazione da parte di S. Tommaso, ritenendo necessaria la presenza di un’autorità che dichiari la guerra, presuppone la non colpabilità del soldato che la combatte, in quanto egli non ha facoltà di esprimersi in merito alla giustezza della causa belli; ciò lo assolveva, quindi, dal peccato di omicidio.

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di una autorità super partes a cui ricorrere per legittimare i procedimenti previsti dalla dottrina. Nel momento in cui Vitoria ammette che il principe, in quanto espressione di una entità politica perfetta può legittimamente muovere guerra, anche senza il consenso dell'autorità superiore e può diventare giudice in causa propria, il suo discorso viene messo in crisi e gli ostacoli che Vitoria aveva frapposto sia allo jus ad bellum che allo jus in bello, perdono la loro efficacia, perché non hanno più una autorità superiore che sia riconosciuta da entrambe le parti in causa43.

Vitoria è il simbolo del passaggio dallo jus gentium medievale allo jus publicum europaeum: riconosce l'esistenza di vincoli morali e teologici all'azione del principe, ma non più una autorità che abbia il potere di far rispettare questi princìpi e vincoli morali.

8. Fra continuità e discontinuità. Verso lo «jus publicum europaeum».

Se le spedizioni di conquista oltreoceano furono condotte all’insegna della continuità con le categorizzazioni proprie della respublica christiana, il cuore dell’Europa, più o meno nel medesimo arco di tempo, fu scosso da una conflittualità tutta intestina, che vide gli europei farsi guerra all’ultimo sangue per stabilire una superiorità religiosa.

Se il fatto che gli europei condussero le loro guerre di conquista nelle terre di nuova scoperta utilizzando schemi interpretativi e giustificativi propri della passata epoca preglobale non stupisce, dovrebbe quantomeno allarmare il fatto che, in casa propria, gli stessi europei condussero una guerra fratricida, secondo gli schemi della guerra giusta.

Eppure, entrambi i fenomeni, le spedizioni oltreoceano e le guerre di religione europee, furono il segnale inequivocabile dell’inizio di una nuova era, quella dello jus publicum europaeum, che segnò la fine dell’ordinamento politico-giuridico premoderno.

Alessandro Colombo ben sintetizza la portata di questi due eventi:

Sebbene […] rimanga controverso quando debba essere collocata l’origine [dell’ordinamento politico-giuridico moderno] […] è opinione comune che essa sia associata a un doppio trauma egualmente produttivo di violenza. Il primo è la scoperta del nuovo mondo che, oltre ad innescare una competizione immediata per la conquista delle terre e dei mari divenuti «disponibili», si riverberò sulla stessa Europa aprendo un nuovo ciclo di lotte per l’egemonia, imponendo il problema del tutto nuovo e sino allora inimmaginabile di un ordinamento spaziale di diritto internazionale valido per l’intero globo terrestre e sfuggendo, nello stesso tempo, alla capacità mediatrice del papato – il quale, dopo essere stato ancora chiamato a ratificare l’accordo di divisione ispano-portoghese di Tordesillas nel 1494, venne definitivamente estromesso già sessant’anni più tardi, in occasione del trattato ispano-francese di Cateau-Cambresis del 1559 ma, più in generale, di fronte alla realtà intrattabile delle guerre di religione tra le potenze marittime conquistatrici cattoliche e protestanti. Perché è proprio questo, naturalmente, l’altro grande trauma costituente dell’ordinamento politico-giuridico moderno. Insieme alla scoperta del nuovo mondo, fu la scoperta di un nuovo modo del Cristianesimo, originata e propagata dalla Riforma, a spezzare definitivamente l’impalcatura politica e spirituale dell’universalismo medievale e a diffondere, sulle sue rovine, una epidemia di conflitti confessionali e guerre civili di religione – guerre senza limiti,

43 Giuseppe Tosi, La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista, http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/tosi.htm.

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appunto, non soltanto perché estreme, ma anche perché inclini a minare o dissolvere i basamenti di qualunque ordine internazionale, attraverso la disarticolazione dei legami esistenti di fedeltà e la diffusione, al loro posto, di fazioni superterritoriali in mobilitazione politica permanente44.

Se nelle righe precedenti abbiamo suggerito che i due eventi – la scoperta del nuovo mondo e le guerre civili di religione – pur inaugurando un nuovo nomos della terra, rappresentarono la continuazione di paradigmi ormai in teoria sorpassati (sintetizzabili sotto la dizione di guerre giuste), adesso dobbiamo evidenziare come, in realtà, furono il preludio di qualcosa di nuovo45.

In realtà, tutte le guerre coloniali e civili, anche quelle intraprese nei secoli successivi, furono l’eccezione che confermava la regola; furono, cioè, l’eccezione che confermava la regola dello jus

publicum europaeum, che esse avevano contribuito a formare. Tale nuovo ordinamento stabilì,

infatti, che l’unico utilizzo lecito dello strumento bellico era quello fra Stati sovrani, riconoscentisi come justi hostes. Un tale riconoscimento, che implicava la condivisione, da parte dei contendenti, della medesima tavola di valori, aveva come diretta conseguenza la limitazione della violenza bellica.

Nessuna guerra giusta, priva di limitazioni, e quindi di annientamento, poteva aver luogo ormai fra gli Stati europei, ma niente impediva che ciò avvenisse al di fuori del Vecchio continente (e, in alcuni casi che approfondiremo in seguito, nell’eventualità delle guerre civili).

Le guerre coloniali, come quelle civili, dove le parti in conflitto non erano identificabili come entità politiche, finirono per confermare quella che era divenuta la regola.

Ciò non significa che gli europei si astennero dalle guerre coloniali, perché non conformi al nuovo ordinamento giuridico, ma semplicemente queste subirono una categorizzazione affatto differente.

[…] nessuna delle limitazioni della violenza promosse dallo jus publicum europaeum trovò mai spazio oltre la linea del suolo europeo: […] non il riconoscimento reciproco dello jus belli, perché il nemico extraeuropeo fu screditato di volta in volta come infedele, selvaggio, o portatore di tradizioni incivili o contrarie al progresso sociale e civile dell’umanità; e non, soprattutto, le restrizioni ai modi di combattere, a cominciare da quelle che avrebbero dovuto separare i combattenti dai non combattenti46.

Nel prosieguo del presente lavoro, ci sarà l’opportunità di trattare più diffusamente la tipologia della guerra civile, in particolar modo in riferimento agli eventi bellici del XX secolo. In relazione alle guerre civili di religione, che infiammarono il suolo europeo per circa un secolo – dalla metà del

44 Alessandro Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Il Mulino,

Bologna, 2006, pp. 173- 174.

45

Schmitt evidenzia come l’operato della Corona di Castiglia, la prima grande potenza conquistatrice, porti il marchio di questa contraddizione: «E’ commovente vedere come la prima potenza conquistatrice cui si deve l’inaugurazione di quest’epoca, la Spagna […] si sia trovata per molti aspetti alla testa di uno sviluppo che doveva allontanarla dalla Chiesa e dal Medioevo, mentre essa restava contemporaneamente vincolata al titolo giuridico ecclesiastico che legittimava la sua grande conquista territoriale». [Il nomos della terrra, p. 147].

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1500 alla metà del secolo successivo – è importante sottolineare come esse screditarono la figura del Papato, l’autorità morale e politica sulla quale si era fondato l’ordinamento medievale.

II. «JUS PUBLICUM EUROPAEUM».

1. Lo Stato come entità portante del nuovo ordinamento spaziale.

Il diritto internazionale europeo-continentale, lo jus publicum europaeum, fu essenzialmente un

diritto interstatale tra sovrani europei e determinò, partendo da questo nucleo europeo, il nomos del resto della terra. Lo Stato, come unico soggetto politico riconosciuto, andò a sostituirsi ai due universalismi, Papato e Impero, che fino a quel momento avevano retto sulla scena europea e mondiale.

Lo Stato, secondo Schmitt, fu il veicolo della secolarizzazione:

La nuova entità «Stato» elimina l’impero sacrale del Medioevo ed elimina inoltre la potestas spiritualis di diritto internazionale del pontefice, cercando di dare della Chiesa cristiana uno strumento per la propria politica e polizia statale47.

Generalmente, il passaggio di consegne fra le autorità del vecchio nomos medievale e “l’astro nascente” rappresentato dallo Stato, viene collocato nel 1648, anno in cui si conclusero i Trattati di Westfalia. Quest’ultimi posero fine alla sanguinosa guerra dei Trent’anni, la quale, a sua volta, fu l’atto finale della lunga e sanguinosa parentesi delle guerre di religione europee e la fine dei due universalismi medievali.

I trattati di pace stipulati nel 1648 a conclusione della guerra dei Trent’anni sono generalmente considerati il terminus a quo di una nuova fase della politica europea, e il definitivo riconoscimento della fine dei due universalismi (cristiani) medievali. Nel «modello Westfalia» la sovranità degli stati e la loro eguaglianza giuridica sono princìpi assoluti e incondizionati48.

Nello specifico, i trattati di pace al termine del conflitto confermarono la validità dei princìpi contenuti nella Pace di Augusta del 1555, i quali, attraverso la formula cujus regio, ejus religio, avevano stabilito un nuovo legame tra confessione religiosa e ordinamento statuale. La sua ripresa nei Trattati di Westfalia confermò il definitivo venir meno dell’autorità spirituale della Chiesa anche in questioni di carattere religioso, come la scelta della confessione da parte dei prìncipi. Oltre a queste importanti conquiste in ambito religioso, i Trattati di Westfalia ridisegnarono la cartina dell’Europa, restituendo uno scenario nel quale gli Stati acquisivano la loro natura di soggetti unici del nuovo ordinamento.

47

Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 142.

48 Luca Baccelli, Ritorno a Vitoria? La parabola della “guerra giusta” in Luca Baldissara (a cura di), La guerra giusta.

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