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3. Giuristi contro teologi: dalla morale al diritto.

3.2 Grozio e il bellum solemne.

La riflessione di Grozio sui temi di diritto internazionale si colloca, non a caso, nel periodo delle guerre civili di religione, considerato dagli studiosi come uno dei due traumi che segnò la nascita dello jus publicum europaeum.

La sfrenatezza che caratterizzò questi conflitti stimolò, nei giuristi e nei pensatori, una profonda riflessione circa i modi per limitare e regolamentare il fenomeno bellico. Alessandro Colombo condivide l’idea che le guerre civili europee, fra Cinque e Seicento, rappresentarono l’evento necessario per la nascita di un nuovo diritto internazionale, che avesse fra i suoi primari obiettivi quello di evitare, in futuro, guerre totali.

L’ordinamento politico-giuridico moderno (e il pensiero che lo accompagna: basti pensare a Hobbes, Bodin o allo stesso Grozio) fu la risposta a questa ondata di decomposizione. La ricerca di un argine alla violenza non fu uno dei suoi problemi, bensì il suo problema fondamentale. In questo senso […] l’edificio «classico» dello jus publicum europaeum intrattenne sin dal principio una relazione silenziosa ma necessaria con il proprio opposto: la sfrenatezza o, appunto, la «barbarie» della guerra civile.68

Grozio partecipò ad un tale progetto e questo suo coinvolgimento gli valse il titolo di padre del diritto internazionale moderno.

Adesso esaminiamo più nel dettaglio il suo pensiero, per valutarne la portata.

Nei suoi Prolegomeni al De jure belli ac pacis libri tres l’autore stesso suggerisce che la sua riflessione circa l’esistenza di un diritto bellico è stata sollecitata da particolari contingenze storiche. Io, ritenendo certissimo […] che esiste fra le nazioni un diritto comune da osservarsi nell’intraprendere e nel condurre le guerre, ho avuto molti e gravi motivi per porre mano a trattare per iscritto di esso. Vedevo che nel mondo cristiano le guerra si conducono con una mancanza di freni vergognosi perfino per i popolo barbari, per futili motivi o inesistenti

66

Alberico Gentili, De jure belli, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 62.

67 Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 189. 68 Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 174.

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motivi si ricorre alle armi, una volta prese le quali viene meno ogni rispetto per il diritto divino e per quello umano, proprio come se una norma universale autorizzasse ad infuriare in crimini di ogni specie69.

Grozio prosegue sostenendo che la visione delle efferatezze compiute in nome della religione portò molti osservatori a negare totalmente la liceità del ricorso alle armi. Il nostro giurista non si dice del medesimo avviso, ritenendo eccessivo sia bandire integralmente l’utilizzo dello strumento bellico nelle relazioni fra Stati, sia celebrarlo ed invocarlo senza riserve. «Entrambi questi estremi ho dovuto perciò temperare, perché non avvenga che ora non si creda lecito nulla e che ora si creda lecito tutto»70.

Il passo successivo della riflessione groziana consiste dunque nel stabilire se «vi sia una qualche guerra giusta o se invece non sia mai lecito fare la guerra»71

. Per conoscere ciò è necessario valutare innanzitutto le cause della guerra alla luce della legge di natura: è lecito, se non imperativo, muovere guerra contro colui che minaccia il nostro diritto naturale alla vita.

Infatti, massimamente conviene ai princìpi naturali il fine della guerra, ossia la conservazione della vita e delle membra e il mantenimento o l’acquisizione di ciò che è utile alla vita. E se a questi fini è necessario l’uso della forza, ciò non si discosta per nulla dai princìpi naturali, poiché a ciascun essere vivente la natura ha attribuito forze sufficienti a difendersi e a procurarsi giovamento. […] La retta ragione, e la natura della società umana […], non inibiscono ogni violenza, ma solo quella che è contraria alla società, ossia quella che priva un altro di un suo diritto72.

Ricordiamo che Alberico Gentili aveva già sostenuto che l’unica giustificazione naturale per l’utilizzo delle armi era costituita dal diritto di conservazione e tutela della vita.

A questo punto della riflessione groziana si inserisce qualche ambiguità che ha fatto dubitare a qualcuno dell’innovatività del suo pensiero.

Dopo aver screditato il presupposto che vuole ogni guerra illecita, Grozio sostiene che esistano due tipologie di conflitti, assai diverse fra loro ma entrambe ‘giuste’. Riportiamo le parole dell’autore e poi evidenziamone le incongruità che gli hanno valso qualche appunto.

[…] una distinzione […] fra guerra ufficiale secondo il diritto delle genti, ossia guerra giusta a pieno titolo, e guerra non ufficiale, che tuttavia non cessa di essere giusta, cioè congruente rispetto al diritto. Infatti, come si mostrerà, il diritto delle genti non consente né condanna guerre non ufficiali, purché abbiano una giusta causa73.

Ciò che Grozio suggerisce in questi passi è che sia le guerre ufficiali – ossia quelle condotte da autorità politiche e che rispettano determinate formalità – sia quelle non ufficiali – presumibilmente da intendersi guerre fra soggetti non pubblici – mantengano l’appellativo di guerre giuste. Ora, dopo aver ripetutamente sottolineato come lo jus publicum europaeum degradi le contese private a mere

69 Ugo Grozio, Prolegomeni al De jure belli ac pacis libri tres, 1625-1446, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, p. 66. 70 Ibid., p. 67.

71

Ugo Grozio, De jure belli ac pacis libri tres, in Carlo Galli (a cura di), Guerra, pp. 67-68.

72 Ibid., p. 68. 73 Ivi.

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turbative dell’ordine, senza concedere loro il titolo di guerre, risulta un po’ paradossale il fatto che colui che è considerato il padre del diritto internazionale moderno insista nel voler mantenere i conflitti privati nel novero delle guerre.

Oltre a ciò, stupisce l’utilizzo che Grozio fa dell’aggettivo ‘giusto’ e dell’espressione ‘giusta causa’ in relazione ai conflitti; anche in questo caso, ci saremmo aspettati un distacco maggiore dalle formulazioni proprie della fase preglobale del diritto internazionale.

Diamo voce a Carl Schmitt, il quale ha sottolineato le incongruenze nel pensiero groziano:

Ma la confusione tra i concetti è in lui [Grozio] particolarmente grave. Egli mantiene in tutta la loro prolissità i modi di dire tradizionali relativi alla guerra combattuta ex justa causa, quasi che si fosse ancora in pieno Medioevo teologico. Parla ancora di «guerre private» e le considera come guerre nel senso del diritto internazionale. Ma nello stesso tempo aggiunge di non includere la giustizia nella definizione del concetto di guerra: «justitiam in definitione (belli) non includo»74.

E ancora:

Si trascinano così nelle trattazioni di diritto internazionale da Grozio a Vattel le formulazioni della guerra giusta provenienti dalla Scolastica, e si continua a sostenere che è lecito condurre una guerra soltanto ex justa causa. Ma questa è un’inutile ovvietà, perché ogni sovrano afferma di essere nel giusto e di avere ragione; perché già per motivi propagandistici egli non può dire nulla di diverso; perché manca qualsiasi istanza superiore di decisione e perché, malgrado le affermazioni riguardanti il requisito della giustizia, a ogni sovrano belligerante spetta il medesimo diritto di catturare prigionieri e prede. La guerra è allora considerata praticamente sempre giusta da entrambe le parti, quale bellum utrimque justum75.

Non tutti i moderni e contemporanei commentatori di Grozio danno peso alle comunque evidenti incongruenze insite nel suo pensiero; anche nel presente lavoro abbiamo avuto modo di evidenziare come spesso eventi e idee nuovi coesistano con il vecchio. Nonostante tutto, al giurista olandese è stato attribuito il merito di avere perfezionato alcuni princìpi-cardine del moderno diritto internazionale.

Alessandro Colombo dedica un intero capitolo in La guerra ineguale a quelli che sono stati gli apporti di Grozio alla moderna scienza giuridica. Secondo Colombo, i meriti del giurista olandese consistono nell’aver sistematizzato tre importanti questioni, senza le quali nessun’altra forma di ritualizzazione della guerra sarebbe stata possibile. Queste tre questioni sono le seguenti:

chi ha diritto e a quali condizioni di ricorrere alla forza; in quali modi e contro chi ha diritto di impiegarla; in che cosa e attraverso quali procedure lo stato di guerra si differenzia dallo stato di pace, da un lato, e dalle altre forme di violenza dall’altro. Nel linguaggio delle due grandi tradizioni occidentali della «guerra giusta» e della «guerra limitata», la prima

74 Carl Schmitt, Il nomos della terra, p. 192. 75 Ibid., p. 190.

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questione corrisponde alla nozione di jus ad bellum, la seconda a quella di jus in bello e la terza, che le altre presuppongono e dalle quali in ultima istanza dipendono, alla nozione di bellum76.

Il merito di Grozio sta, secondo Colombo, nell’aver stabilito un limite al diritto di ricorrere allo strumento bellico, vietando cioè che chiunque potesse farlo in qualunque momento e fino a qualunque esito.

A questo punto vediamo come l’autore de La guerra ineguale scioglie l’ambiguità insita nell’utilizzo, da parte di Grozio, della categoria della guerra giusta.

Secondo Colombo, infatti, la teoria della guerra giusta avrebbe creato le prime limitazioni all’utilizzo dello strumento bellico; essa infatti stabilisce che la guerra debba essere dichiarata da un’autorità legittima, che debba avere una giusta causa e che vi si ricorra solo in casi estremi.

Se tali parametri possono essere utilizzati in un contesto storico in cui l’autorità legittima era impersonata dal Papa e dove la giusta causa costituiva l’annientamento o la conversione dei non cristiani, essi possono trovare un’altrettanto concreta e sensata applicazione anche nel contesto moderno. Il grande scarto, che lo stesso Colombo riconosce, è costituito dal fatto che nel primo contesto il diritto di ricorrere alla guerra viene riconosciuto solo ad una delle due parti in conflitto, mentre nel secondo i contendenti si riconoscono portatori dei medesimi diritti.

Colombo dichiara che soltanto il fatto che un soggetto politico sia tenuto a giustificare il ricorso alla guerra (esplicitando cioè quale sia la justa causa, senza che essa sia realmente justa) rappresenti comunque il sintomo di un’evoluzione del sistema internazionale.

Chi adduce una giusta causa, persino quando questa non ha svolto alcun ruolo nella sua decisione, riconosce almeno di dovere agli altri una spiegazione della propria condotta nei termini di principi e regole che anche essi condividono. […] Di niente di simile hanno bisogno, non a caso, coloro che non riconoscendo i loro avversari come parte dello stesso contesto sociale possono muovere loro guerra senza spiegazioni o con una spiegazione formulata soltanto nei termini delle proprie convinzioni dominanti – come nella credenza dei mongoli nel mandato del paradiso, o in quella dei conquistadores nell’imperium mundi del Papa, o in quella delle potenze coloniali ottocentesche nella propria missione civilizzatrice. Nelle relazioni tra soggetti estranei, l’uso della forza non è mai mediato o legittimato attraverso il discorso77.

Riepilogando, dunque, Colombo non vede nell’utilizzo da parte di Grozio di alcuni assiomi tipici della teoria della guerra giusta un’incongruenza; la guerra giusta auspicata dal giurista olandese è comunque una guerra fra entità politiche aventi i medesimi diritti, limitata quindi nei soggetti che possono praticarla e nella sua stessa essenza. Le guerre giuste di religione, caratterizzate da un uso estremo della violenza, in quanto il nemico che si affronta è screditato e perfino disumanizzato, rappresentano il passato che si vuole superare.

76 Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 125. 77 Ibid., p. 128.

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La guerra, come scrisse Grozio agli albori del diritto internazionale moderno, sarebbe stata da quel momento in poi giusta, nello stesso senso in cui si dice testamento giusto, giuste nozze: a condizione, cioè, che entrambe le parti che la fanno siano investite nella loro nazione dall’autorità sovrana e che osservino determinate formalità78.

Così anche Eugenio di Rienzo:

Secondo Grozio, la guerra doveva essere intesa, alla stregua di altre procedure giuridiche (il testamentum iustum o le justae nuptiae), come bellum solemne, dove la solennità era conferita dalla decisione presa dalle massime autorità istituzionali di muovere guerra79.

In questo senso, appare ovvio come l’aggettivo giusto, anche in Grozio, abbia perso la sua valenza teologico-morale per acquisirne una giuridica. D'altronde l’intera opera groziana ha come fondamentale obiettivo quello di ricondurre nell’alveo del diritto l’intero fenomeno bellico.

Come abbiamo notato, lo stesso Colombo attribuisce al modello della guerra giusta un primo tentativo di limitare la violenza bellica (essa deve essere autorizzata da un’autorità, vi si deve ricorrere in ultima istanza, il male che essa provoca deve essere ben compensato dal bene cui si mira etc.); che poi essa si presti, senza troppi sforzi, a giustificare conflitti che mirano all’annientamento del nemico, rappresenta un’eventualità insita nella sua stessa natura. Dobbiamo ricordare infatti che generalmente essa ha trovato la sua espressione più piena e coerente in occasione di conflitti privi di limiti, dove si aveva la necessità di presentare il nemico come una minaccia da eliminare per garantire il mantenimento dell’ordine e della pace. Non è un caso che la teoria della guerra giusta abbia superato, più o meno indenne, secoli, offrendo giustificazioni a conflitti dalle nature più disparate. Avremo comunque modo di tornare più volte sull’argomento nei capitoli che seguiranno.

Tornando a Colombo, egli sostiene che «i giudizi sulla titolarità e la legittimità del ricorso alle armi non esaurisc[a]no […] il campo dei freni alla violenza» ma, al contrario, vadano integrati alla necessità «di fissare limiti morali o giuridici […] al modo in cui la guerra è condotta»80

.

Infatti, contrariamente all’assunto silent leges inter arma, la guerra «non sospende tutti i principi, le norme e le regole della convivenza internazionale, bensì si limita a sostituire le norme e le regole dei ‘tempi normali’ con norme e regole proprie, variabili secondo i luoghi e le epoche ma egualmente dirette a impedire che i contendenti possano usare qualunque mezzo, in qualunque

luogo e in qualunque momento contro chiunque. Questo […] grappolo di restrizioni» va a costituire

78

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 180.

79 Eugenio Di Rienzo, Il diritto delle armi, p. 127. 80 Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 129.

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quella che è definita dall’autore la seconda tipologia dei «freni groziani»81 e che riguarda lo jus in

bello.

Come abbiamo ricordato più sopra, il De jure belli ac pacis del giurista olandese è nato come tentativo di mitigazione delle pratiche belliche, sotto l’impressione delle violente e irrefrenabili guerre civili di religione. Il bellum solemne groziano, al pari di altre procedure giuridiche, si presenta come un fenomeno regolato e disciplinato in ogni suo momento: oltre a necessitare di una formale dichiarazione che dia inizio alle ostilità e di un’altrettanto formale dichiarazione di pace che ne decreti la cessazione, la teoria groziana della guerra stabilisce luoghi, tempi e soggetti contro i quali si può legittimamente esercitare la violenza.

Contro la teoria e la pratica della «guerra senza limiti», il loro obiettivo è precisamente quello di porre limiti alla violenza che i combattenti possono legittimamente infliggersi, da un lato, preservando da qualunque forma di violenza determinati spazi, determinanti tempi e determinati soggetti dall’altro82.

Vedremo successivamente come questa tipologia di limitazione, o quantomeno lo sforzo di rendere tali limitazioni operanti, sarà una costante nella storia dello jus belli. Sarà interessante notare come i tentativi di mitigare la violenza bellica si faranno sempre più pressanti in occasione di – o successivamente a – conflitti che, per la loro sfrenatezza, erano apparsi superare ogni limite di umanità. Anche Grozio, sull’onda delle guerre civili europee, percepì la necessità di porre un freno alla violenza: se proibire la guerra non era pensabile e nemmeno auspicabile, che almeno si stabilissero precise regole che in qualche modo potessero contenerla.

Colombo, nel descrivere i freni groziani, sottolinea come la guerra moderna si caratterizzò per essere un evento conchiuso nel tempo, in quanto la dichiarazione di guerra e la stipulazione della pace ne rappresentavano, rispettivamente, l’inizio e la fine; limitata nello spazio, in quanto il campo di battaglia rappresentava l’unico terreno sul quale potessero fronteggiarsi gli eserciti regolari; e limitata nei soggetti, attraverso la distinzione fra combattenti e non combattenti.

Ovviamente, Colombo, nella sua esposizione, non attribuisce a Grozio il merito di aver sistematizzato, già nei primi decenni del XVII secolo, l’intero apparato normativo relativo allo jus

belli. Agli occhi di Colombo, il merito del giurista olandese risiede nell’aver inserito le limitazioni

della guerra nel terreno del diritto e delle istituzioni, passo ineliminabile per ogni successivo tentativo di regolamentazione del fenomeno bellico.

81

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 130. La prima tipologia di freno groziano riguarda lo jus ad bellum, il limite di accesso alla guerra.

37 4. Bellum, arcanum regni.

Con la Pace di Westfalia viene ufficialmente inaugurata una nuova fase della politica europea. Con l'ausilio del concetto di Stato il diritto internazionale riuscì nell'impresa di limitare la guerra in tutti i suoi aspetti.

Innanzitutto, riprendendo le parole di Alessandro Colombo, la violenza bellica fu sottoposta ad un «processo di clausura», che riguardò, in prima istanza, i soggetti che legittimamente potevano farne uso.

Al vertice di questa piramide dell'inquadramento fu posta la clausura stessa della guerra in quanto violenza «pubblica», rivolta contro soggetti altrettanto «pubblici» [...]83.

Gli Stati divennero, dunque, gli unici legittimi detentori del diritto di fare la guerra, mentre le manifestazioni “private” di violenza vennero declassate a mere turbative dell'ordine pubblico: sedizioni, ribellioni etc.

Oltre a circoscrivere la guerra rispetto ad ogni altro tipo di violenza, lo jus publicum europaeum si attrezzò per confinare la violenza all'interno della guerra stessa.

Questa «razionalizzazione e umanizzazione della guerra» [Schmitt 1950], avvenuta attraverso uno sviluppo senza precedenti dello jus in bello, trovò la propria espressione plastica nell'idea continuamente rinnovata della clausura della battaglia, intesa contemporaneamente come luogo della decisione e recinto della violenza – ma di una violenza, appunto, «parsimoniosa», proprio perché interamente rivolta alla decisione84.

La battaglia, oltre ad essere circoscritta spazialmente – in quanto praticata su un terreno delimitato, entro il quale solo gli eserciti regolari possono accedere – presenta anche delle limitazioni di carattere temporale.

Basti pensare [...] al carattere stagionale che le guerre hanno mantenuto fin quasi all’ultimo secolo […], o al carattere altrettanto tipicamente diurno delle battaglie – con il contrappunto della notte come «tempo pacifico», che soltanto la luce crepuscolare dei bombardamenti notturni della Prima guerra mondiale avrebbe definitivamente violato. E lo stesso vale, quasi a maggior ragione, per l’impressionante continuità dei luoghi in cui si è combattuto sia in mare che in terra […] sotto la spinta delle stesse condizioni favorevoli al movimento e al sostentamento degli eserciti o, in mare, delle flotte85.

Conseguentemente, tali limitazioni finirono per coinvolgere il più sensibile dei fattori di contenimento della guerra: la distinzione tra combattenti e non combattenti.

Dobbiamo innanzitutto ricordare che una tale distinzione fu una delle conseguenze più evidenti della nascita dell'apparato statale. Pur essendo sempre stata presente, anche se non formalizzata, una classificazione che stabiliva precise mansioni all'interno del corpo sociale – come la tripartizione

83

Alessandro Colombo, La guerra ineguale, p. 182.

84 Ibid., p. 184. 85 Ibid., p. 92.

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formulata all'inizio dell' XI secolo tra oratores, bellatores e laboratores – solo in età moderna la distinzione fra componenti militari e componenti civili della società venne istituzionalizzata.

Nell'Europa del Settecento le guerre erano combattute da forze armate professionali […]. Il corpo degli ufficiali non era più massicciamente costituito da membri di una classe guerriera che scendevano in campo mossi da un concetto d'onore o da un obbligo feudale; e neppure da «contrattori» al servizio del primo offerente. Erano invece servitori dello stato, ai quali venivano garantiti un lavoro continuativo, uno stipendio regolare e prospettive di carriera […]. La nascita e lo sviluppo di questa categoria di professionisti a tempo pieno fece sì che per la prima volta si potesse tracciare una distinzione fra componenti «militari» e componenti «civili» della società86.

Colombo, a questo proposito, parla di una clausura stessa dei combattenti rispetto ai non combattenti: «una clausura istituzionale, culturale, iconografica e persino, anzi soprattutto, fisica»87.

La caserma come luogo dal quale è precluso l’ingresso ai civili non autorizzati, insieme alle uniformi che andarono a sostituire il fasto dei colori e l'arbitrio degli ornamenti precedenti, divenne il simbolo visibile della razionalizzazione operata dalla Stato sulle società europee, oltre che la manifestazione della volontà di isolare il mondo militare da quello civile. Il risultato fu

quello di rafforzare la riconoscibilità e la reciproca separazione tra militari e civili. L'uniforme divenne, insieme alla

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