V. L’ITALIA E LA SECONDA GUERRA MONDIALE.
3. La questione dell’ordine superiore.
3.1 Fra responsabilità individuale, attenuanti ed esclusione della colpa.
Pietro Nuvolone, prima di valutare l’importanza della questione dell’ordine del superiore nel giudicare il grado di responsabilità del subordinato, affronta «il tema della diversa posizione giuridica dei vari soggetti attivi nei delitti di lesa umanità»424.
Se per i delitti che presentano solamente gli autori diretti (e dunque senza un mandante) è facile giungere alla punizione del responsabile (che si identifica sempre con l’esecutore materiale, il quale deve aver agito volontariamente e dolosamente), nel caso di delitti che presentano una pluralità di autori in posizioni diverse è invece necessario approfondire maggiormente le dinamiche dell’intero
iter criminis.
Nuvolone identifica tre differenti posizioni, che generalmente ricorrono nella seconda tipologia di crimine:
quella del mandante generico, ravvisabile negli uomini responsabili del governo; quella del mandante specifico, ravvisabile nel capo di un reparto o di una amministrazione civile o militare; quella dell’autore diretto, ravvisabile in coloro che ànno [sic] eseguito materialmente il delitto425.
Il giurista ci tiene a soffermarsi sulla prima tipologia di soggetto che concorre nel reato, da lui ritenuta la più pericolosa. Il mandante generico, infatti, è colui che, da alte posizioni di comando, pur non avendo dato ordini specifici di compiere determinati atti, è da ritenersi il responsabile maggiore per i crimini direttamente commessi da altri.
È il caso ad es. dei governanti tedeschi: i quali, evidentemente, non ànno dato di volta in volta l’ordine di compiere omicidi e stragi, ma ànno dato, però, dei generali ordini in bianco ai loro sottoposti per legittimare qualsiasi abuso e qualsiasi violenza. […] proprio su di loro pesa la responsabilità maggiore. La loro condotta di governo, i loro ordini in bianco, le loro direttive, vanno pertanto considerati come crimini per sé stessi, indipendentemente dalle conseguenza che in concreto, e a seconda delle circostanze, i medesimi abbiano avuto426.
Detto ciò, se per il mandante generico nessun’altra valutazione circa la sua responsabilità è prevista, l’autore, nel passare all’esame delle altre due figure, si imbatte nella tematica dell’ordine superiore:
424
Pietro Nuvolone, La punizione dei crimini di guerra, p. 112.
425
Ibid., p. 113.
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Tanto il mandante specifico come l’autore diretto possono agire di loro spontanea iniziativa: e, allora, nulla quaestio. Ma se, come in ipotesi, agiscono in seguito a un ordine ricevuto, rimane da stabilire sotto quali presupposti si possa giungere anche per loro a una affermazione di responsabilità427.
Nell’affrontare questo delicato punto, Nuvolone riporta la questione sul duplice piano e del diritto internazionale e del diritto umano. Attenendoci a quest’ultimo, non ci sono dubbi che dare un ordine che preveda la commissione di un reato rappresenti sempre e comunque una violazione:
[…] se, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, un comandante abbia violato le norme del diritto umano, egli deve ritenersi pienamente responsabile dei crimini da lui ordinati428.
Parallelamente, nell’ambito del diritto umano l’esecutore diretto, per giustificare la violazione compiuta, non può invocare il carattere vincolante di un ordine illegittimo. Chiunque ha il dovere di sottrarsi dal mettere in atto comportamenti lesivi dei princìpi di umanità.
Sul piano del diritto internazionale, invece, l’autore deve ammettere che la situazione della responsabilità, nel momento in cui interviene un ordine superiore, si intrichi notevolmente.
Innanzitutto, se il mandante specifico e l’esecutore diretto hanno ricevuto un ordine generico – che, come tale, lascia un ampio spazio di discrezionalità – devono essere ritenuti responsabili, in quanto hanno agito liberamente. Nel caso, invece, di un ordine specifico, bisogna stabilire se il subordinato aveva o meno la facoltà di sindacarne la legittimità.
Se aveva tale facoltà, e per di più l’ordine si mostrava come illegittimo anche per il diritto interno, la responsabilità è piena ed indubbia; se, invece, l’ordine non era per il diritto interno illegittimo, la questione della responsabilità del subordinato rimane sospesa. Nel caso in cui, invece, sovvengano considerazioni circa la liceità di determinati ordini per il diritto internazionale, l’autore sostiene che il subordinato può godere delle attenuanti, qualora venga dimostrato che l’ordine in questione è legittimo per l’ordine internazionale.
Questa intricata panoramica di tutte le eventuali combinazioni, rende evidente come la questione dell’ordine del superiore, se affrontata prendendo a fondamento l’ordinamento interno e quello internazionale, si complichi in maniera quasi irrisolvibile. L’autore sembra suggerire che, se si facesse appello al diritto umano, non ci sarebbero ambiguità e difficoltà interpretative: un ordine illegittimo sarà sempre tale, come responsabili saranno sempre coloro che l’avranno emanato e coloro che l’avranno eseguito.
Nonostante ciò, rimane comunque interessante indagare la posizione dell’autore in relazione al delicato tema dell’ordine del superiore. Pur essendo le sue considerazioni basate sull’attuale diritto internazionale, da lui considerato lacunoso perché non coincidente con il diritto umano, riteniamo
427
Pietro Nuvolone, La punizione dei crimini di guerra, p. 114.
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imprescindibile una loro analisi, perché esse sono comunque il frutto di un’analisi de jure condito (e non de jure condendo, come lo sono le sue riflessioni in relazione al diritto umano ancora da codificare).
Attenendosi alle disposizioni che il vigente diritto internazionale, nonché gli ordinamenti interni, sanciscono, Nuvolone ritiene che, qualora gli sia permesso, il subordinato può rifiutarsi di eseguire un ordine illegittimo:
L’azione esecutiva di un ordine illegittimo non è, comunque, nemmeno doverosa: la legge non può imporre di commettere un delitto; essa si limita, da un punto di vista generale, a imporre un dovere di ubbidienza agli ordini gerarchici; ma se, in concreto, il subordinato non eseguisce un ordine illegittimo, è evidente che, pur trattandosi di ordine vincolante nessuna pena gli potrà essere applicata, perché la sua disobbedienza dovrà ritenersi giustificata proprio in base al principio generale da cui discende lo stesso art. 51 del codice penale: per cui non è punibile chi commette il fatto che costituisce normalmente un illecito per adempiere a un dovere impostogli da una norma giuridica. E qui si tratta di un dovere di astensione sancito da una norma penale!429
Nonostante ciò, però, Nuvolone ammette che possa comunque configurarsi l’esclusione della colpevolezza in caso di ordine illegittimo:
Riteniamo che di esclusione della colpevolezza si debba parlare unicamente quando il mandante specifico abbia obbedito a un obbligo preciso, la cui violazione avrebbe potuto mettere in pericolo grave lui o i suoi prossimi congiunti. Si deve trattare, insomma, di un obbligo al cui compimento non poteva sottrarsi […]430.
L’autore sembra far valere, per escludere la colpevolezza del subordinato, considerazioni circa lo stato d’animo che esso acquisirebbe sapendo che il suo rifiuto di eseguire un ordine – seppur illegittimo – si tradurrà in sanzioni. Se il mandante specifico può vantare una notevole discrezionalità, nonché autonomia, nel valutare le condizioni di adempimento di un ordine, l’esecutore diretto ha minori margini d’azione.
Per l’esecutore diretto, invece, bisogna osservare che – specie quando si tratti di un militare – i limiti di discrezionalità sono per lo più molto ristretti e i pericoli della disobbedienza molto più gravi ed attuali: per cui il giudizio di colpevolezza dovrà essere qui molto scrupoloso e tener conto esatto di tutti gli elementi della fattispecie concreta431. In ogni caso, avverte il giurista, prima di escludere o attenuare la colpevolezza del subordinato, è necessario valutare se nell’adempimento dell’ordine (illegittimo, al quale non poteva sottrarsi senza grave pericolo), abbia messo «un animus particolare», che permetta di considerare il crimine come opera sua.
429
Pietro Nuvolone, La punizione dei crimini di guerra, p. 119 (nota 42).
430
Ivi.
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Le modalità dell’esecuzione, la particolare barbarie usata, gli eccessi di zelo sono tutte circostanze di fatto di cui bisognerà prendere esatta nota per decidere, se, nonostante la premessa dell’obbligo assolutamente vincolante, non sia ammissibile attribuire in proprio anche all’esecutore del crimine la responsabilità penale che ne consegue432.
Per trovare conferma della posizione di Nuvolone circa la questione dell’ordine del superiore, possiamo citare una nota dello stesso giurista comparsa sulla rivista «La giustizia penale», nel numero del 1945433, a commento di una sentenza della Sezione Speciale del 12 luglio 1945.
La Corte aveva dovuto stabilire se Cappellini, vice comandante di brigata nera, era da ritenersi responsabile per fatti commessi dai suoi sottoposti. Inoltre, la sentenza dovette pronunciarsi su fatti compiuti dallo stesso Cappellini, per i quali lo stesso invocava l’esimente dell’ordine superiore. I giudici della Sezione Speciale stabilirono la non responsabilità di Cappellini per fatti compiuti dai suoi subordinati: «La corte deve riconoscere la fondatezza del rilievo della difesa del Cappellini che erroneamente sia stato ritenuto dal magistrato di merito che in un regime di arbitrio e di sistematiche illiceità, il capo il quale resti al comando dopo di aver constatata la propria impotenza a far valere l’autorità di cui è rivestita, debba rispondere anche dei delitti commessi dai gregari a sua insaputa e perfino di quelli consumati in ispreto [sic] ai suoi ordini. Elemento essenziale del delitto doloso è la volontarietà dell’azione e degli effetti che ne derivano»434. Unica colpa (e non dolo) del
vice comandante risiede nel non essere stato in grado di tenere a freno l’indisciplina dei suoi subordinati.
Per quanto riguarda i fatti compiuti direttamente dal vice comandante della brigata nera (consistenti in uccisioni di patrioti), la Corte stabilì non potersi invocare l’esimente dell’aver ubbidito ad ordini superiori, in quanto la stessa natura criminale delle brigate nere rendeva i rapporti fra superiore e subordinato illegittimi. In questa circostanza, gli ordini si presentavano automaticamente come illegittimi e non vincolanti.
Nuvolone non approva l’esito della sentenza. Innanzitutto, non comprende come la Corte abbia potuto ammettere che Cappellini avrebbe dovuto, nella sua qualità di vice comandante – e se le circostanze glielo avessero permesso –, impedire che i suoi subordinati compissero determinate azioni. Ciò è sempre vero per ogni formazione militare legittimamente riconosciuta. Ma come conciliare questo assunto con il fatto che la Corte stessa stabilì che le brigate nere non erano formazioni regolamentari? Stando a ciò, Cappellini non sarebbe stato tenuto a sorvegliare l’operato dei suoi subordinati.
432 Pietro Nuvolone, La punizione dei crimini di guerra, p. 121. 433
Pietro Nuvolone, Il rapporto di dipendenza nei reati di collaborazionismo, in «La giustizia penale», 1945, II, pp. 210 e seg.
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[…] si vien ad ammettere nello stesso tempo che il rapporto di dipendenza non è legittimo e tuttavia dà luogo a quell’obbligo giuridico di impedire l’evento che solo può derivare da una posizione gerarchica riconosciuta dall’ordinamento giuridico. Le due affermazioni, evidentemente, non possono stare insieme: o siamo di fronte a un rapporto di dipendenza non rilevante per il diritto e allora non vi è nessun obbligo giuridico nel superiore di impedire un’iniziativa nell’inferiore; o l’obbligo giuridico c’è e allora il rapporto di dipendenza non è irrilevante, e, quindi, può anche configurarsi non solo la diminuente dell’art. 114, cpv. 2. c.p., ma, in determinate ipotesi, anche la scriminante dell’art. 51, cpv. 1. e 2., c.p.435.
L’autore passa poi ad analizzare se, nel caso concreto, Cappellini avesse diritto ad invocare l’esimente dell’ordine superiore. Innanzitutto, il giurista non nega che la R.S.I, come il suo apparato militare costituito dalle brigate nere, debba considerarsi illegale; ma non ritiene che ciò debba influire sui rapporti di dipendenza esistenti fra i componenti delle suddette brigate. Secondo il giurista, gli articoli del codice penale che contemplano l’attenuante per aver ubbidito ad ordini superiori, tengono conto dell’elemento soggettivo del reato.
con essa, cioè, si tiene conto del fatto che chi è sottoposto ad un’altra persona, pur potendo sindacarne gli ordini, è in una condizione psicologica di inferiorità, teme le conseguenza di una disobbedienza, non è, insomma, del tutto libero nelle sue azioni. E ciò, evidentemente, si verifica sia nel caso in cui la posizione di subordinato discenda da un rapporto legalmente riconosciuto come nel caso in cui discenda da un semplice rapporto di fatto: perché quello che importa è che tra chi dà l’ordine e chi lo riceve vi sia in fatto una situazione, per cui il secondo è in una posizione di inferiorità rispetto al primo, che su di lui esercita un’autorità e, come tale, ha determinati poteri per costringerlo all’obbedienza436
.
Troviamo dunque conferma del fatto che Nuvolone sia propenso nel concedere l’attenuante, se non la totale esclusione della colpevolezza, a colui cha ha agito illecitamente in seguito ad un ordine del suo superiore. Unico requisito richiesto, perché sia configurabile l’esclusione della colpevolezza, è che l’ordine in questione fosse insindacabile e che quindi il sottoposto avesse agito come semplice strumento del suo superiore.
Il gesuita Salvatore Lener, nel suo testo Crimini di guerra e delitti contro l’umanità437, sembra
partire dalle medesime premesse del giurista bergamasco, per arrivare ad una più decisa soluzione riguardo al problema del diritto umano e della sua concreta applicazione. Lener, infatti, ritiene che il diritto umano faccia già parte del diritto penale delle nazioni civili, essendo «quel nucleo essenziale […] di precetti negativi che, tutelando valori umani universali, risulta […] come minimo comune e fondamentale di protezione giuridica, assolutamente impreteribile per la pacifica convivenza degli uomini»438.
435
Pietro Nuvolone, Il rapporto di dipendenza nei reati di collaborazionismo, in «La giustizia penale», 1945, II, p. 210.
436
Ibid., p. 212.
437 Salvatore Lener S.I., Crimini di guerra e delitti contro l’umanità. Lineamenti di dottrina e spunti critici, Edizioni la
«Civiltà Cattolica», Roma, 1948 (i saggi ivi contenuti comparvero nella rivista «Civiltà Cattolica», anno 1946; il saggio conclusivo comparve, invece, in «Politica Estera», sempre nell’anno 1946).
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Il gesuita non vede contraddizioni nell’affermare che il diritto umano abbia la duplice qualità di essere diritto naturale e positivo, in quanto l’efficacia di esso si impone sia perché i suoi precetti sgorgano spontaneamente dalla stessa natura dell’uomo, sia perché, implicitamente o esplicitamente, gli ordinamenti giuridici positivi li contemplano.
Codesto minimum giuridico assoluto si presenta munito di una triplice efficacia: 1) essendo postulato dalla stessa natura umana, esso costituisce il patrimonio giuridico naturale più incontestabile di ogni uomo, in quanto tale; 2) essendo esplicitamente o implicitamente riconosciuto nei singoli ordinamenti giuridici positivi moderni, vige anche come diritto positivo; 3) costituendo patrimonio comune di tutti i popoli civili, deve ritenersi come tale (in quanto comune, cioè) conquista storica irrinunciabile dell’intera umanità, sì che l’attentare ad esso pone in pericolo non solo la pacifica coesistenza interna e il grado di civiltà del singolo gruppo politico, ma la pace stessa e la civiltà dell’intera società umana439.
Il diritto penale comune, quindi, appare la base giuridica più che sufficiente per individuare e sanzionare i crimini di guerra:
cade, pertanto, la prima generale obiezione contro la punibilità dei crimini di guerra, desunta dall’inesistenza di una fonte di diritto che li colpisca come reati. […] questa norma esiste: è il diritto penale comune440.
Vien da sé, dunque, che qualsiasi norma particolare, che nel suo contenuto violasse il diritto umano, rendendo, ad esempio, lecito un attentato ai princìpi di umanità, decade automaticamente, essendo, il diritto umano, intrinsecamente superiore ad ogni sistema giuridico particolare.
L’autore ammette, però, che possa esistere, se non nelle alte gerarchie statali, almeno nelle fila dell’esercito e della piccola burocrazia, la difficoltà di discernere la validità dei precetti del diritto umano, quando questi si presentano in contrasto con quelli statuiti dal regime politico.
Anche ad ammettere, dunque, la su chiarita efficacia del diritto umano e conseguente nullità delle contrastanti leggi naziste, come negare a queste, tuttavia, l’effetto di rendere incerti i precetti proibitivi del diritto comune, se non per le stesse superiori gerarchie dello Stato, quanto meno pei subordinati ufficiali, soldati, poliziotti e via dicendo? Quei principii generali potranno valere bensì per chiunque sia in grado di conoscerne l’esistenza, il valore inderogabile e il delicato meccanismo nell’ambito dell’intero ordinamento giuridico; non per la massa dei pubblici ufficiali, che non conosce se non la parte del diritto relativa ai propri doveri, e sa bene che le norme speciali o eccezionali derogano a quelle generali e comuni. Come è possibile affermare allora che un diritto formalmente abrogato conservasse immutato, per costoro, l’originario suo vigore?441
Il gesuita è perentorio: nessuna disposizione, norma o comando, nemmeno in tempo di guerra, può giustificare la violazione dei princìpi di umanità. Il soldato, al quale è ordinato di commettere un’atrocità, deve fare appello a quanto è in lui di umano, «ribellarsi e notificar[e] l’impossibilità di
commettere lecitamente azioni che gridano vendetta al cospetto di Dio e dell’intera umanità! […]
439
Salvatore Lener S.I., Crimini di guerra e delitti contro l’umanità, pp. 89-90 (corsivi nel testo).
440
Ibid., p. 94.
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nessuna legge di guerra, nessun ordine di superiore può lecitamente sopprimere nei soggetti o nei nemici la natura umana, coi suoi doveri più elementari e i suoi più fondamentali diritti»442.
In conclusione, possiamo notare come Lener, proprio per la sua natura di uomo religioso, non abbia difficoltà nell’affermare la natura vincolante dei precetti del diritto umano, che si confondono – per non dire identificano – con quelli religiosi. Nuvolone, invece, in qualità di giurista, pur avendo anche lui postulato l’esistenza di tale diritto, si trova costretto ad esaminare le più importanti tematiche – quali la questione della responsabilità individuale e quella relativa alla funzione dell’ordine superiore – alla luce della attuali e vigenti norme internazionali. Pur auspicando, il giurista bergamasco, una futura e stabile concretizzazione del diritto umano, sembra ammettere che per il momento una seria disamina di tematiche, quali quelle sopra enunciate, possa avvenire solo facendo riferimento alle concrete norme positive. Lener, invece, imposta la sua discussione affermando che il diritto umano, anche laddove non sia stato recepito, abbia una valenza intrinseca, che supera ogni incertezza e lacuna presenti negli altri ordinamenti. Qualsiasi dibattito, che possa riguardare il comportamento degli individui, può sempre essere affrontato prendendo a riferimento i precetti del diritto umano.
Se Nuvolone e Lener, pur con argomentazioni in parte differenti – ma comunque tenenti in considerazioni ogni eventualità –, arrivarono a postulare la responsabilità per il subordinato per fatti delittuosi compiuti sotto ordine del superiore, Giuseppe Vedovato, per ammettere la configurabilità dell’esimente dell’ordine ricevuto, contempla unicamente il caso in cui l’ordine in questione sia specifico e insindacabile.
Preliminarmente, Vedovato ammette che «l’ammissione della irresponsabilità per atti compiuti in obbedienza ad ordini superiori ricevuti […] contribuì in modo notevole a rendere inefficace il sistema punitivo dei crimini di guerra stabilito dal trattato di Versailles: percorrendo la strada degli ordini gerarchici, si correva il rischio di concentrare tutta la responsabilità nel massimo organo dello Stato, il quale, in quanto tale, sfuggiva alle misure di repressione»443
. Si dimostra oltremodo consapevole che diversi ordinamenti nazionali – tra cui quello italiano –, e alcuni trattati internazionali, prevedono esplicitamente l’insussistenza, per il subordinato, dell’esimente dell’ordine del superiore se questo prevede una violazione della legge.
Ma subito dopo afferma che
il desumere da questi precedenti che «nessun imputato potrà addurre a sua discolpa la sua posizione di funzionario o di subalterno», costituisce, a dirla con [V.E.] Orlando, una vera e propria «aberrazione giuridica». Quando si sia ricevuto un ordine specifico senza facoltà di sindacarne la legittimità sostanziale, come può un subordinato sottrarsi ad un preciso dovere di obbedienza? Che l’atto ordinato dal superiore sia delittuoso, non può essere giudicato dal subordinato,
442
Salvatore Lener S.I., Crimini di guerra e delitti contro l’umanità, pp. 98-99.
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se non quando tale giudizio rientri nella competenza che direttamente spetti a quest’ultimo. Distinzione sottile che ben si può dire trovi solo eccezionalmente luogo nell’ordinamento militare, in cui non è concepibile – e tanto meno in tempo di guerra! – che il subordinato abbia la capacità di discutere l’ordine del superiore e di rifiutarsi di obbedirvi444. L’autore ritiene che l’aver stabilito, già nell’Accordo di Londra, l’impossibilità di escludere la responsabilità del subordinato per fatti illeciti da lui compiuti sotto ordine del superiore, rappresenta