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Giorgio Del Vecchio: la pace attraverso il diritto di prendere le armi.

III. IL NOVECENTO: SECOLO DI GUERRE TOTALI.

1. Dallo jus publicum europaeum alla guerra giusta: il percorso italiano.

1.1 Giorgio Del Vecchio: la pace attraverso il diritto di prendere le armi.

La guerra è essenzialmente una contesa pubblica, che si svolge tra diverse unità sociali, politicamente costituite: gl’individui non vi partecipano come tali, ma solo come strumenti delle rispettive organizzazioni politiche. La pluralità di queste, ossia degli Stati, è pertanto la condizione prima, da cui dipende la possibilità della guerra243.

Con queste parole, il filosofo del diritto Giorgio del Vecchio si espresse nel 1911.

La guerra, negli anni che precedono il primo conflitto mondiale, è ancora considerata come una contesa fra Stati, alla quale gli individui partecipano come meri strumenti nelle mani del potere politico. Si sostiene, inoltre, che la stessa pluralità delle organizzazioni politiche «non è soltanto una contingenza storica transuente, ma una legge immanente della natura e un’esigenza propria della ragione»244

. Se ne deduce, quindi, che la stessa possibilità della guerra, in quanto legata ad una condizione naturale e immanente, qual è l’esistenza degli Stati, sia essa stessa connaturata nella vita e nei rapporti fra le nazioni.

La fusione delle diverse unità politiche, se pure fosse possibile, non sarebbe […] nemmeno desiderabile: poiché significherebbe la cessazione di ogni sviluppo della coltura [sic], che si alimenta appunto della feconda varietà dei caratteri nazionali; significherebbe lo scomparire di tutte le concrete e spontanee forme di vita, per fare luogo a un rigido e monotono meccanismo, esiziale alla libertà non meno che alla dignità del genere umano. La sola liberazione di un tal marasmo, se vogliam seguire cotesta ipotesi, sarebbe data precisamente dal sorgere di una nuova discordia, dal formarsi di organizzazioni particolari con caratteri e fini propri, capaci di svolgere attività autonome, in salutare competizione fra loro. La storia umana, quasi sospesa per quell’ipotesi, riprenderebbe il naturale suo corso, attraverso gl’immancabili antagonismi fra le distinte unità sociali, che ne costituirono sempre la trama245.

La nascita – non auspicabile – di uno Stato universale costituirebbe la fine della diversità e della varietà, condizioni ineliminabili per garantire prosperità e sviluppo; discordia, competizione ed antagonismo – oltre a giocare un ruolo di primo piano nella creazione di un contesto favorevole allo sviluppo interno degli Stati – dominano i rapporti e gli interscambi fra di essi. Inutile sottolineare come la guerra venga rappresentata quale condizione ideale di confronto-scontro fra gli Stati.

Del Vecchio si spinge oltre nella riflessione affermando che

Una rinuncia assoluta della guerra […] implicherebbe la negazione del concetto medesimo dello Stato, il quale, come suprema potenza umana, non tollera limiti alla sua azione. Ma lo Stato è condizione di vita per l’uman genere: fuori di

243

Giorgio Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, p. 13.

244

Ibid., p. 14.

109

esso l’uomo non potrebbe raggiungere i propri fini. Se dunque non v’ha uomo senza Stato, e non v’ha Stato senza guerra (almen virtuale), si conclude che questa è attributo proprio ed inabolibile dell’umanità […]246

.

Al termine delle sue considerazioni, Del Vecchio sembra però aprire uno spiraglio alla possibilità di un futuro venir meno del fenomeno bellico. Nonostante le sue precedenti considerazioni in ordine alla “naturalità” della guerra, l’autore non nega che essa si svolga «in relazione alla vita storica, secondo motivi vari per il variare della coltura»247. Potrà dunque giungere

il momento in cui verranno meno i presupposti che attualmente la rendono necessaria e ineludibile.

Da ciò tuttavia non segue che essa debba di necessità accompagnare la storia umana in ogni sua fase; bensì rimane aperto il problema, se uno svolgimento ulteriore possa e debba condurre alla cessazione di un tal fenomeno: che, in quanto è manifestazione di volontà, deve pur essere eticamente apprezzato, ossia riguardato nella sua funzione e nel suo valore248.

Nel terzo capitolo dell’opera, intitolato Sulle conseguenze, specialmente benefiche, della guerra, l’autore, dopo una breve carrellata sui “mali” della guerra, si appresta a descriverne i ben più consistenti benefici. «Una considerazione obiettiva delle sue conseguenze rende evidente che essa ha recato un efficacissimo contributo al progresso umano in ogni sua forma»249.

Innanzitutto, secondo l’autore la guerra non rappresenta la dimostrazione della natura abietta e ferina dell’uomo, bensì esalta quelle che sono le caratteristiche migliori di esso.

L’azione bellica esige «disciplina, subordinazione e coordinazione armonica degli sforzi»250, tutte

qualità richieste dalla normale convivenza sociale e politica.

Il grande significato della guerra ci è dimostrato precisamente da ciò, che essa informa sin dall’inizio l’organizzazione civile e politica dei gruppi umani: essa spinge gli individui a costituire un’unità più alta e complessa, che non sia quella familiare, li induce a sottoporsi a un solo potere, frenando le cupidigie particolari e limitando le azioni proprie in tal guisa, da rendere possibile ed efficace l’azione del tutto. Le esigenze della guerra […] hanno una profonda efficacia sulla vita sociale in genere, favorendo lo svolgersi delle virtù ed attitudini, sulle quali la vita stessa si fonda. Nulla più della guerra dimostra […] la necessità dell’ordine, e del sacrificio individuale, che può e deve giungere fino all’abnegazione totale di sé251.

La guerra assume così per Del Vecchio un valore etico e pedagogico, in quanto essa ha la capacità di instillare e rafforzare nei combattenti quelle qualità che lo Stato esige da loro, in tempo di guerra come in tempo di pace. Parafrasando Clausewitz, la guerra rappresenta per il cittadino-combattente di Del Vecchio il mero prolungamento del suo rapporto quotidiano con lo Stato. Nessun turbamento allo scoppio delle ostilità: lo Stato belligerante richiede ai suoi cittadini di impugnare le armi e

246

Giorgio Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, p. 31.

247 Ibid., p. 32. 248 Ibid., p. 33. 249 Ibid., p. 36. 250 Ivi. 251 Ibid., p. 37.

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dimostrare fattivamente la loro completa subordinazione agli ordini e la loro fedeltà agli interessi più alti della nazione. La guerra si distingue dalla normale vita pacifica della comunità statale solo per il fatto che prevede e legittima l’utilizzo della forza per conseguire determinati obiettivi (gli «altri mezzi» della famosa definizione clausewitziana di guerra).

Anche in Del Vecchio troviamo la classica descrizione (e legittimazione) dei conflitti, che vorrebbe questi come i mezzi preferenziali per la diffusione delle idee e del progresso in generale. La guerra, rappresentando il momento di incontro fra eserciti di nazioni differenti, consente il travaso e la diffusione di idee nuove; nella migliore delle ipotesi, se si considera lo Stato vincitore del conflitto come migliore e più civile del vinto, ogni guerra si trasformerebbe in un passo successivo verso il perfezionamento dell’intera umanità.

Inoltre, l’autore fa notare come «in nessun’altra forma di attività umana si compi[a] un maggiore e più raffinato sforzo d’intelligenza per adeguare ogni possibile mezzo al fine voluto […], in nessuna specie di attività appa[ia] più certo e quasi tangibile il continuo perfezionamento e progresso umano, che nella guerra»252.

Per di più, le stesse attività legate al comparto bellico, quali la semplice invenzione di nuovi procedimenti industriali e l’ideazione di tecnologie militari sempre all’avanguardia, hanno dato impulso allo sviluppo dell’industria pacifica.

Del Vecchio si guarda bene dal proporre una giustificazione assoluta della guerra: attualmente, le istituzioni politiche, qualunque parte abbia avuto la guerra nella loro genesi storica, esercitano le loro funzioni indipendentemente da essa. Gli stessi progressi materiali non vedono più nel fenomeno bellico la loro unica fonte, ma addirittura traggono sempre maggiore linfa dai periodi di pace.

L’autore ammette che i vantaggi scaturiti dalla guerra sono spesso connessi con svantaggi corrispondenti; la selezione esterna, ossia il prevalere del popolo più forte ed evoluto e l’estinzione del più debole, è compensata da una controselezione interna, ossia la decimazione dei combattenti, che generalmente costituiscono la parte migliore della popolazione (per sesso, età, forza etc.); la severa disciplina militare, che spesso rappresenta il corollario di un ordinamento politico autoritario, può essere lesiva della libertà e dell’iniziativa individuale; le stesse virtù associate alla guerra, quali lo spirito di sacrificio e d’abnegazione, corrono il rischio di venir corrotte e sfociare nell’eccesso. La stessa massima (clausewitziana) «che al nemico si debba nuocere il più possibile, è per sé una suprema immoralità»253.

252

Giorgio Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, p. 44.

111

Nella conclusione del terzo capitolo, l’autore rinnova la sua considerazione circa la funzione storica del fenomeno bellico e la sua intima correlazione con il progresso della cultura. Proprio per questa sua natura, la guerra non può «costituire un ideale assoluto ed eterno della ragione»254

, ma i suoi valori e la sua stessa necessità sono relativi.

Nella parte finale del suo lavoro, Del Vecchio indaga le teorie, avanzate nei secoli, a sostegno della pace, per poi affermare la sua posizione sull’argomento.

Alla base della contestazione dell’autore delle teorie ireniste, sta il netto rifiuto di considerare la pace come un ideale astratto, al quale si deve sempre e comunque tendere. Su questa base, Del Vecchio contesta la concezione ascetica della pace, che deriva direttamente dal Cristianesimo, a suo avviso colpevole di ricercare «la pace a qualunque costo», attraverso la «legge etica dell’amore e della fratellanza umana»255.

Nessuna società può formarsi secondo la sola massima della “non resistenza” o dell’abnegazione individuale. La “pace a qualunque costo” equivale a un’accettazione dell’arbitrio indeterminato, cioè torna al medesimo che la sfrenata violenza […]256.

Per Del Vecchio, il principio di astensione dalla violenza ha un valore soltanto ipotetico, in quanto, per affermare e tutelare il diritto, l’uso della forza, oltre ad essere necessario è perfino legittimo. Lo studioso contesta anche le varie teorie che basavano il raggiungimento della pace su progetti di creazione di monarchie universali o organismi sovrastatali:

[…] non è chiarito come possa effettivamente costituirsi una monarchia universale, la quale ci appare pertanto come utopistica; in parte, e sopra tutto, da ciò, che, anche ammesso il sorgere di una dominazione unica su tutta l’umanità, questo semplice fatto non conterebbe ancora per sé una garanzia della pace. Tale dominio sarebbe invero precario, e necessariamente caduco, fino a che non fossero tolte le ragioni intrinseche delle divisioni e dei contrasti tra i vari popoli257.

Del pari, le più moderne teorie che auspicavano l’avvento della pace perpetua attraverso accordi fra gli Stati, sono rigettate; innanzitutto, non si capisce come si possa abolire per decreto la guerra, senza considerare quei fattori storici e contingenti che potrebbero sempre renderla necessaria; conseguentemente, la stessa volontà di sottoporre tutti gli Stati, in egual modo, ad un organismo superiore, con facoltà di dirimere le controversie fra di essi, contraddice l’evoluzione e la diversità storica delle formazioni politiche:

Un altro difetto, che rende tali proposte anche eticamente poco apprezzabili, è la superficialità empirica della valutazione, per la quale tutti i governi, di qualsivoglia forma e ragione, erano egualmente considerati e posti in un

254 Giorgio Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, p. 48. 255

Ibid., p. 49.

256

Ibid., pp. 52-53.

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medesimo piano, quasiché fossero parti omogenee di un solo tutto; e questo difetto è tanto più grave, in quanto che ai governi medesimi, prodotti storici corrispondenti ai più vari gradi dello sviluppo, volevasi attribuire da quell’istante il carattere della perpetuità. Ogni cambiamento futuro, quindi anche ogni avvicinamento all’ideale della giustizia, avrebbe dovuto essere escluso. Tesi così contraria alla vera comprensione storica delle cose, come alle esigenze eterne della ragione, che vietano di considerare tutti i governi come egualmente legittimi258.

Sostanzialmente, per l’autore, tutti quei tentativi di eliminare tout court la pace, senza considerare le contingenze storiche e la volontà precipua degli Stati, sono destinati al fallimento. Feconda è, invece, la strada percorsa da quella che Del Vecchio definisce «concezione giuridica della pace». Riprendendo il filo della speculazione kantiana e rousseauiana, lo studioso vede di buon occhio la formazione di una confederazione universale che avesse «per condizione prima ed ineliminabile la rivendicazione dei diritti delle nazioni singole e la legittimità delle costituzioni interne dei vari Stati»259. Dunque, sì ad un organismo sovranazionale, a patto che il nesso fra la libertà interna delle

nazioni e la possibilità di una loro coordinazione giuridica universale sia inscindibile.

Strumenti giuridici volti ad escludere il ricorso alle armi – quali l’arbitrato – se rispondono alle esigenze dei singoli Stati, rappresentano per l’autore dei validi espedienti per scongiurare la guerra. Del Vecchio è infatti consapevole che l’attuale fase storica vissuta dalle nazioni è sempre più indirizzata verso la riduzione al minimo dei motivi di attrito; l’attuale coscienza pubblica, infatti pel ravvivato concetto di universalità del diritto umano, per la comunanza d’idee e di scopi, sempre più largamente riconosciuta e stabilita tra i vari popoli, per le necessità del commercio e il prevalere di forme essenzialmente pacifiche d’attività, in fine per le mutate condizioni di vita, considera ormai la guerra con avversione sempre crescente260.

Il filosofo del diritto ravvisa nei tentativi recenti di mitigazione della crudeltà in guerra un’ulteriore dimostrazione che essa sia sempre più tenuta in dispregio. La volontà di fare del fenomeno bellico un procedimento quasi giuridico è sintomo di un nuovo approccio degli Stati nell’affrontare i loro rapporti reciproci.

Non è possibile disconoscere la grande importanza, anche pratica, di cotesta limitazione della guerra. Il fatto che gli Stati si combattano come tali, riconoscendosi reciprocamente questa qualità, implica già un vincolo tra di essi; e li obbliga a rinunciare a quei mezzi, che toglierebbero alla guerra il suo carattere pubblico, per degradarla a semplice sfogo di private passioni. Li obbliga a non violare mai, pur durante la guerra, certe supreme norme di umanità e di diritto, dalle quali essenzialmente dipende la possibilità di una pace futura. […] molti atti, che sarebbero tuttavia efficacissimi a indebolire il nemico, sono vietati per la loro nequizia intrinseca, che menomerebbe la dignità stessa dei combattenti […]261.

258 Giorgio Del Vecchio, Il fenomeno della guerra e l’idea della pace, pp. 62-63. 259

Ibid., p. 65.

260

Ibid., p. 81.

113

Per riassumere, Del Vecchio, lungi dal pronunciare un’apologia della pace, ritiene, (ottimisticamente) che in futuro si potranno evitare sempre di più i conflitti armati fra le nazioni, in quanto il contesto storico attuale è in una fase in cui la pace rappresenta una condizione favorevole. Ma il suo raggiungimento non dovrà essere imposto: essa sarà la naturale risultanza di un progressivo ed inesorabile cammino dell’umanità verso la giustizia. Lo studioso non esclude che, nonostante il costante lavoro del diritto, in futuro possano presentarsi delle occasioni di conflitto; in quest’ottica, non è ancora possibile fare a meno dello strumento bellico.

La […] condanna assoluta [della guerra] sarebbe legittima solo se fosse dimostrato che la pratica della guerra non ha servito e non può servire a quel fine, cui tutto conviene che si sacrifichi: cioè appunto l’avveramento della giustizia. Ma una tale dimostrazione non fu mai data, e non è possibile. Ancor nella fase odierna, nella quale la guerra ha pressoché esaurita la sua funzione, v’hanno ingiustizie, che possono essere sanate da essa, e forse solo da essa; ancora v’ha la possibilità di guerre santissime, e ancora merita onore chi combattendo dà la sua vita. In genere, non è condannabile la violenza, quando si volge a reintegrare il diritto262.

Del pari, la pace acquista un valore aggiunto se ottenuta in seguito ad una guerra combattuta per ripristinare la giustizia; vien da sé, quindi, che

è un grave e funesto errore, che si commette dagl’irenisti, quando si attribuisce alla pace in se stessa un valore che essa, disgiunta dall’ideale della giustizia, non ha e non può avere; quando si esige l’abolizione della guerra sic et simpliciter, e si vitupera questa come il supremo dei mali, per ciò che produce morte e dolore; quasi che non fosse nel mondo una male assai più grave e vituperevole, un male che la guerra medesima può concorrere per sua parte ad eliminare: cioè l’ingiustizia in tutte le sue forme, il disconoscimento della sacra libertà dell’essere umano, l’oppressione degl’individui e delle nazioni263.

La pace per Del Vecchio deve essere «sprone all’azione, incitamento alla virtù operosa e al sacrificio individuale» e non «alimento di supina apatia o d’ignavo egoismo»264

.

Sacro è l’ideale della pace; poiché esso è tutt’uno con quello della giustizia. Ma gl’ideali non si servono e non si onorano coll’inerte contemplazione. Il loro culto si celebra nelle opere265

.

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