La guerra è un vero camaleonte perché in ogni caso concreto cambia un po’ la sua natura; eppure nel suo manifestarsi complessivo e nelle sue tendenze dominanti si rivela come uno strano trilatero, composto dalla violenza originaria del suo elemento, l’odio e l’ostilità, che è da considerarsi come un cieco impulso naturale; dal gioco delle probabilità e del caso che ne fanno una libera attività dello spirito e dalla natura subordinata di strumento politico, con cui essa si affida alla semplice ragione138.
Così scriveva il generale prussiano Carl von Clausewitz (1780-1831), tentando di dare una definizione all’oggetto della sua lunga e tormentata ricerca, contenuta nell’incompiuto Vom Kriege. Il contenuto dell’opera, che rappresenta uno dei maggiori tentativi mai compiuti di comprendere il fenomeno bellico, è costituito dalle riflessioni che l’autore maturò durante la sua intensa vita militare, trascorsa sui campi di battaglia di un’ Europa squassata dalle armate napoleoniche.
L’obiettivo che l’autore si è prefissato è di costruire una teoria generale la cui validità sia applicabile ad ogni tipo di conflitto e che possa rappresentare uno strumento utile nelle mani di chi detiene fattivamente il potere militare.
Clausewitz è però consapevole che la natura dell’oggetto da lui preso in esame è tale che ogni tentativo volto a contenerlo e schematizzarlo si presenta irto di difficoltà. La guerra non è una realtà inerte ma un interagire di soggetti, dinamico ed imprevedibile, che si sottrae ad ogni legge meccanica o matematica.
Nonostante ciò, l’esigenza di una teoria non viene meno, in quanto esistono principi che risultano costanti pur nell’estrema mutevolezza del fenomeno.
[…] essa [la guerra] poggia su un gioco di possibilità, di probabilità, di fortuna e sfortuna, nel quale spesso si perde completamente la rigorosa consequenzialità logica, rivelandosi uno strumento intellettuale scomodo e inutile. […] La teoria deve ammettere tutto questo, ma è suo dovere porre in alto la forma assoluta della guerra e usarla come un punto di riferimento generale, affinché chi vuole imparare qualcosa dalla teoria si abitui a non perderla mai di vista, a considerarla il criterio originario […]139.
Il nostro esame dell’opera clausewitziana ha come primo obiettivo quello di valutare come l’autore e la sua riflessione si collochino all’interno di quel percorso evolutivo che caratterizza l’ordinamento internazionale.
Innanzitutto, nel Vom Kriege, la cui stesura si colloca negli anni Venti del XIX secolo, vediamo come la sovranità statale (che si manifesta nell’autonomia nel dichiarare una guerra), cardine del sistema nato a Westfalia, non sia minimamente messa in dubbio.
138 Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; trad. it. Della guerra, Einaudi, Torino, 2000, p. 41. 139 Ibid., p. 209.
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Secondo una famosa definizione clausewitziana, la guerra non sarebbe altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi140; da questa enunciazione si può trarre la conseguenza che di guerra
non si può parlare in assenza di un potere politico (che ne determini la forma e gli scopi). Che questo potere politico sia rappresentato, per Clausewitz, dallo Stato, non ci sono dubbi.
A dimostrazione di come una tale affermazione sia provata, sta nel fatto che mai, nel corso dell’opera, si citino altre tipologie di conflitto diverse da quella che vede lo scontro tra Stati.
Le espressioni utilizzate, quali «volontà di un’intelligenza guida»141, «la politica come l’intelligenza
dello Stato personificato»142, in relazione al potere che ha facoltà di dare avvio ad ogni conflitto,
rendono chiaro che il decisore clausewitziano della guerra sia il sovrano, unico depositario della legittimità politica.
A questo proposito, appare significativo evidenziare come la politica svolga un altro importante compito nella definizione di un conflitto: essa esercita infatti un’influenza “limitativa”, agisce come una sorta di contrappeso alla tendenza della guerra a «scalare l’estremo».
Se essa [la guerra] fosse un atto compiuto in sé, immutato, un’espressione assoluta di violenza - quale si deve dedurre dal suo mero concetto - allora dovrebbe prendere il posto della politica, dal primo momento in cui è suscitata da essa come qualcosa di assolutamente indipendente. Dovrebbe cacciarla e seguire soltanto le proprie leggi, come una mina che, una volta innescata, non segue altra direzione e indicazione che quella che gli è stata predisposta143.
La politica dunque decide dello scopo della guerra e dell’intensità di essa:
Quanto più grandi e forti sono i motivi della guerra, quanto più essi coinvolgono l’intera esistenza dei popoli, quanto più violenta è la tensione che precede la guerra, tanto più la guerra si avvicina alla sua forma astratta, tanto più si tratta di abbattere il nemico, tanto più vengono a coincidere l’obiettivo militare e lo scopo politico, tanto più puramente guerriera e meno politici sembra essere la guerra. Ma quanto più deboli sono i motivi e le tensioni, tanto meno la direzione naturale dell’elemento guerresco, cioè la violenza, collima con la linea data dalla politica, tanto più la guerra si allontana di necessità dalla sua direzione naturale, tanto più divergente è lo scopo politico dall’obiettivo di una guerra ideale, tanto più la guerra sembra diventare politica144.
7.1 La sfida rivoluzionaria francese all’ancien régime prussiano.
La riflessione di Clausewitz sul concetto di guerra prende spunto dagli eventi rivoluzionari francesi e dalle conseguenti guerre napoleoniche, che toccarono da vicino la patria clausewitziana, la Prussia. È dunque necessario valutare la portata di questi eventi.
Allo scoppio della Rivoluzione, i prussiani, come il resto degli europei, seguono con sentimenti ambivalenti l’evolversi delle situazione.
140 Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; trad. it. Della guerra, Einaudi, Torino, 2000, p. 38. 141 Ivi.
142
Ibid., p. 40.
143 Ibid., p. 37. 144 Ibid., p. 39.
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Quando nel 1792 inizia la prima guerra tra la Francia rivoluzionaria e le potenze europee, Prussia compresa, il conflitto solleva (secondo le parole di Clausewitz) un interesse «abbastanza generale, ma contrastato», diviso tra coloro che percepiscono una minaccia nella nuova Francia e coloro che invece coltivano idee, aspettative e speranze alimentate dalla rivoluzione. I primi appartengono per lo più alla massa del popolo, i secondi al ceto colto borghese145.
Rusconi sostiene che in realtà, in un primo momento, la Prussia non riesce a cogliere la portata (e la pericolosità) delle vicende francesi; lo stesso Clausewitz, solo nella sua opera matura, il Vom Kriege (libro ottavo), attribuirà alle guerre rivoluzionarie e napoleoniche il primato nell’aver dato una nuova forma alla guerra: «si rivelò una forza di cui non si era mai avuto idea. Improvvisamente la guerra era diventata di nuovo una cosa del popolo – e di un popolo di trenta milioni di abitanti che si consideravano tutti cittadini. Da quel momento i mezzi impiegati, gli sforzi che potevano essere fatti non avevano più limiti; l’energia con cui la guerra poteva essere condotta non aveva più alcun contrappeso e di conseguenza il pericolo per il nemico diventava estremo».
Nell’immediato, invece, la Prussia, insieme alle altre potenze europee, lascia mano libera alle armate francesi, convinta che le acquisizioni territoriali e l’atteggiamento neutrale degli altri Stati avrebbero messo fine al dinamismo francese.
Solo con la sconfitta della coalizione austro-russa ad Austerlitz nel 1805 la Prussia si desta dal suo torpore, ma quando ormai è troppo tardi; la catastrofe di Jena del 1806 è dietro l’angolo. L’esercito prussiano che affronterà le armate napoleoniche è un esercito di ancien régime: per quanto riguarda la sua composizione, quasi la metà è costituita da mercenari stranieri; la parte numericamente più consistente dei reclutati in patria è composta da contadini in condizione servile, mentre i ceti nobiliari vanno a costituire il corpo ufficiali; quest’ultimo vede una presenza di uomini di origine borghese neppure del 10 per cento. La mediocre qualità umana della truppa e il tipo di prestazione ad essa richiesta, portano ad una disciplina ferrea e brutale, oltre che ad una estrema rigidità nell’addestramento.
È facile prevedere come le armate napoleoniche abbiano gioco facile con un tale nemico:
Del nuovo esercito uscito dalla rivoluzione Clausewitz mette a fuoco tre elementi in contrapposizione a quello dell’ancien régime: la sua natura popolare (sono arruolati cittadini non mercenari) e quindi indirettamente la nuova motivazione alla guerra, la massa di uomini a disposizione e la qualità del comando (personalità dei capi e struttura decisionale) 146.
La catastrofe di Jena porterà alcune significative personalità politiche e militari a meditare una serie di riforme politico-istituzionali, che possano preparare la Prussia ad una futura rivincita sulla Francia. Comincia così a delinearsi il nuovo patriottismo prussiano, che ritiene presupposto
145
Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano. La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, Torino, 1999, pp. 32-33.
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indispensabile per le riforme il coinvolgimento del popolo. Questo è il maggior insegnamento tratto dall’analisi del successo francese.
Nell’ottobre del 1807 viene nominato cancelliere di stato Stein, uomo di grande personalità, che insieme a valenti collaboratori dà inizio ad una serie di riforme economiche, militari e politico- istituzionali.
Precondizione e tappa intermedia di questo processo riformatore è il risveglio del senso patriottico nella popolazione, in particolare nell’opinione pubblica borghese, che dopo aver mostrato simpatia per la rivoluzione francese è in preda a grande incertezza ideologica e politica. Fare delle riforme la risposta alla rivoluzione è l’ambizione di Stein e dei suoi collaboratori147.
L’operato del cancelliere non è privo di ostacoli: all’accesa e prevedibile opposizione della nobiltà a qualsiasi volontà di rinnovamento si aggiunge la resistenza passiva della corona, che può contare sulla indiscussa lealtà monarchica non solo dei militari ma anche dei civili attorno a Stein. La corona non comprende che in realtà i soggetti promotori delle riforme sono estranei a qualsiasi idea di suscitare una lotta fra le classi o i ceti che possa mettere in difficoltà la monarchia.
Pur fra vari dissidi e contrasti, il 25 luglio 1807 viene istituita la Reorganisationskommission, sotto la responsabilità del tenente colonnello Scharnhorst, professionista militare e al contempo attento osservatore degli avvenimenti politici. Così Clausewitz lo descriverà nel 1817 nel suo saggio
Über das Leben und den Charakter von Scharnhorst, evidenziando quali fossero gli ideali che lo
guidarono nella sua opera di riformatrice:
La rinascita dell’esercito prussiano, la fusione dei ceti nel popolo, la creazione della milizia (Landwehr), la lotta tenace contro la miseria del tempo e contro la diffidenza dei partiti sono altrettante ancore che la mano di questo abile pilota ha gettato in momenti tempestosi e con le quali la nave del re ha affrontato lo scatenarsi della tempesta148.
In concreto, la Reorganisationskommission introdusse, fra le altre, queste importanti novità: l’abolizione di ogni privilegio nobiliare nella carriera militare e la riaffermazione del principio del servizio militare valido per tutti i cittadini; soltanto la cultura e la competenza, non più i privilegi dello status nobiliare, divennero i requisiti per la promozione. Venne istituito il ministero della guerra per coordinare tutte le attività amministrative e operative dell’esercito.
Gli obiettivi attesi dalla riorganizzazione dell’esercito affidata a Scharnhorst sono la ristrutturazione delle forze armate con un più moderno ed efficace armamento, la fine dell’arruolamento degli stranieri, passi concreti verso l’effettività del servizio militare generale, la creazione di nuovi quadri superiori con l’introduzione di nuovi incentivi e meccanismi di promozione accanto alla semplice anzianità, l’oculata selezione degli ufficiali da porre a capo dei settori più
147
Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano, pp. 58-59.
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importanti, l’abolizione delle punizioni corporali e, non ultimo, un nuovo sistema di esercitazioni in grado di rispondere alla nuove tattiche di guerra149.
Nonostante sia evidente il fatto che gli eventi francesi rappresentarono la molla per il cambiamento, «non dobbiamo dimenticare la sostanziale differenza di principio tra la levée en masse proclamata dalla rivoluzione francese, in nome dei principî della libertà e dell’eguaglianza, e la natura dell’obbligo del servizio militare generale richiesto dai riformatori come dovere di cittadinanza/appartenenza a uno stato, senza contropartita politica»150.
All’altezza del 1810, l’egemonia francese sul continente europeo sembra non incontrare ostacoli: con l’eccezione dell’Inghilterra, nemico irriducibile, e della Russia, ancora titubante sull’atteggiamento da tenere nei confronti della potenza francese, quest’ultima controlla, direttamente o indirettamente tutto il continente. La stessa Prussia vive in una continua tensione tra un partito disposto alla leale collaborazione con la Francia e un partito tenacemente antifrancese. I primi decenni del XIX secolo segnano la rinascita politica e culturale del regno, accompagnata da riforme modernizzatrici dello Stato e della società.
Alla fine a Berlino si impone il partito filofrancese: nel febbraio del 1812 la Prussia stringe un’alleanza militare con la Francia, impegnandosi a metterle a disposizione un contingente di truppe in previsione dell’invasione della Russia. Questa decisione provoca la spaccatura all’interno dell’esercito, diviso fra una fazione monarchica, che appoggia incondizionatamente le decisioni del re, ed una patriota, che disapprova l’alleanza con il francese. Clausewitz, facendo parte della fazione dei delusi, prenderà una clamorosa decisione: si dimette dall’esercito e si arruola nelle armate dello zar.
La campagna di Russia, come sappiamo, rappresenterà per Napoleone l’inizio della fine.
Il giudizio di Clausewitz sulla condotta del generale corso in questa occasione non risparmia dure critiche; agli occhi del prussiano, il condottiero francese ha peccato di arrogante superficialità, non curandosi della vita dei suoi uomini, non garantendo loro risorse materiali adeguate, non predisponendo un piano di ritirata. Nonostante ciò, Clausewitz non attribuisce tutta la responsabilità della sconfitta a Napoleone: «Può essere stato un errore di Bonaparte averla intrapresa [la campagna di Russia]; quantomeno il risultato ha mostrato che si è ingannato nei suoi calcoli. Ma noi affermiamo che se si doveva mirare a quello scopo, non poteva essere raggiunto sostanzialmente in modo diverso». «Invece di impegnarsi in un’infinita, costosa guerra di difesa a est come già doveva fare a ovest, Bonaparte ha tentato l’unico mezzo adatto allo scopo: strappare la pace a un avversario
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Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano, p. 67.
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demoralizzato da un attacco audace. Che il suo esercito potesse venire distrutto era il pericolo che egli correva, era la posta in gioco, il prezzo della sua grande speranza»151.
Clausewitz non può condannare chi si serve dello strumento bellico per il raggiungimento di un preciso scopo politico; considerazioni critiche possono essere fatte in relazione alle scelte, alla strategia adottata, ma niente metterà in dubbio l’efficacia dello scontro armato. Napoleone, pur essendo la sua condotta discutibile in numerosi punti, rappresenta il comandante militare determinato nel raggiungimento del suo obiettivo: la sconfitta del nemico, a qualsiasi costo.
7.2 Popolo in armi.
Dopo questo excursus storico, indispensabile per collocare in un contesto preciso le riflessioni clausewitziane racchiuse nel Vom Kriege, passiamo ad un’analisi più dettagliata di quelli che sono i concetti più significativi espressi dal generale prussiano e contenuti nella sua opera principale. Innanzitutto, soffermiamoci sulla riflessione compiuta dall’autore in relazione ad un importate concetto, più volte emerso nella discussione critica sulle innovazioni introdotte dagli eventi rivoluzionari francesi: ossia, il concetto di ‘popolo’.
Innanzitutto, nella visione clausewitziana (che rispecchia la situazione concreta esistente in Prussia) il popolo è rappresentato da cittadini-sudditi, a cui sostanzialmente è domandata ubbidienza e piena fedeltà al sovrano. Gli ideali rivoluzionari francesi, fortemente emancipatori, che facevano dell’uomo un cittadino dotato di diritti, non trovarono un buon terreno di coltura nel regno prussiano.
«Lo Staatsbürger non è il citoyen consapevole dei suoi diritti e doveri, ma il membro di una comunità bene amministrata, divisa in classi o ceti e patriotticamente fedele all’istituto monarchico»152
. Le idee liberali di sovranità popolare e di rappresentanza parlamentare erano respinte.
Alla Rivoluzione francese Clausewitz nega ogni valore politico-emancipatorio; ciò che lo affascina di questo rivolgimento storico è la capacità che esso ha dimostrato nel mobilitare un intero popolo. Quest’ultimo, agli occhi del generale prussiano, è visto esclusivamente nell’ottica di risorsa militare, di fattivo supporto all’operato delle truppe regolari. Il popolo in armi realizza cioè la nazionalizzazione della guerra nel senso della mobilitazione subalterna dei sudditi al servizio del proprio sovrano e della propria patria.
Significativa, a questo proposito, è l’attenzione che l’autore dedica ai due istituti storici del
Volkskrieg: la Landwehr (milizia territoriale) e il Landsturm (armamento del popolo). La riflessione
151
Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1832, cit. in Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano, p. 120.
152 Gian Enrico Rusconi, Clausewitz rivisitato in Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; trad. it. Della guerra, Einaudi,
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di Clausewitz su questi due istituti prende spunto dai fatti del 1813: l’esigenza di creare in Prussia un esercito patriottico che affianchi quello regolare nella lotta contro i francesi.
Alla base di entrambi questi concetti sta la valutazione positiva di un pieno coinvolgimento dell’intera popolazione nello sforzo bellico.
La milizia territoriale è pensata come una formazione da affiancare alle truppe regolari, così da ottenere una massa d’urto maggiore. Il pregio più rilevante di questo istituto, dice Clausewitz, che lo differenzia dall’esercito permanente, è quello di essere «una quantità di forze assai più estesa e meno rigida, molto più facile da far crescere con lo spirito e con il sentimento»153.
Lo «spirito» e il «sentimento» di cui si parla rappresentano il corollario della partecipazione popolare alla guerra. Per Clausewitz, la guerra ideale deve essere di popolo non solo nel senso della mobilitazione di massa (importanza del numero), ma anche e soprattutto per il consenso popolare che deve sostenerla (sentimento di fedeltà e spirito di attaccamento alla patria).
L’autore affida al popolo in armi compiti specifici:
L’impiego del Landsturm e di gruppi popolari armati non può e non deve essere diretto contro la forza nemica principale, neppure contro formazioni armate consistenti. Non deve aggredire il nucleo centrale del nemico ma corroderlo solo alla superficie e ai margini. Deve provocare sollevazioni nelle province che sono lontane dal teatro di guerra e dove l’invasore non arriva con la sua potenza per sottrarle alla influenza degli insorti154.
Inoltre, la popolazione, proprio per la sua natura di entità radicata al territorio, può favorire le operazioni belliche nei più svariati modi: agli abitanti del luogo possono essere affidati compiti quali la trasmissione delle informazioni o il presidio di punti strategici quali gli accessi alle montagne e i passaggi sui fiumi. Tutte queste mansioni presuppongono una conoscenza consolidata del territorio ed una notevole capacità di movimento all’interno di esso, competenze spesso non possedute dall’esercito regolare.
Clausewitz, in conclusione alle sue osservazioni sul Volkskrieg, ammette che le sue considerazioni «discendono più da intuizioni che da un’indagine oggettiva. L’argomento infatti non è molto studiato ed è presentato troppo succintamente da coloro che hanno potuto osservarlo a lungo con i propri occhi»155.
Lo stesso autore afferma che il coinvolgimento del popolo nelle operazioni belliche rappresenta una novità rispetto al modo tradizionale di condurre una guerra.
La guerra di popolo in generale è da vedere come una conseguenza dello sfondamento operato dal principio della guerra del nostro tempo contro vecchie e artificiose muraglie. E’ l’ampliamento e l’intensificazione dell’intero processo di fermento che chiamiamo appunto guerra. Rispetto al ristretto sistema militare di un tempo, l’estensione degli eserciti in
153
Carl von Clausewitz, Vom Kriege, 1832; trad. it. Della guerra, Einaudi, Torino, 2000, p. 177.
154 Ibid., p. 185. 155 Ibid., p. 189.
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masse enormi, il servizio militare obbligatorio, il sistema delle requisizioni, l’impiego delle milizie sono fattori che vanno tutti nella stessa direzione. In questa direzione si muove anche l’istituzione del Landsturm o l’armamento del popolo156.
Troviamo quindi conferma anche in Clausewitz che all’altezza cronologica della Rivoluzione francese e delle successive guerre napoleoniche si inseriscono quei primi fattori di mutamento nella conduzione della guerra, relativi all’introduzione del popolo nelle operazioni belliche, che porteranno al definitivo sovvertimento costituito dai conflitti novecenteschi.
Non dobbiamo però trascurare il fatto che l’apporto della popolazione alle operazioni belliche rimanga marginale.
Nell’analisi calusewitziana della campagna di Russia e delle successive guerre di liberazione dal dominio napoleonico non mancano gli accenni al carattere ‘popolare’ della resistenza e delle ribellioni. Da un’attenta analisi storica emerge però che l’apporto della guerra popolare non fu tale