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La razionalizzazione del sistema delle società partecipate dagli enti locali alla luce del Testo Unico (D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175)

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Economia e Management

Corso di Laurea Magistrale in Consulenza Professionale alle Aziende

Tesi di Laurea

La razionalizzazione del sistema delle società partecipate dagli

enti locali alla luce del Testo Unico (D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175)

Relatore: Candidata:

Prof.ssa Luisa Azzena

Margherita Sapia

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Desidero ringraziare la Prof.ssa Azzena e la Prof.ssa Manzetti per la disponibilità e il supporto che mi hanno dato per la realizzazione di questo lavoro.

Un caloroso ringraziamento va anche alla mia famiglia senza la quale questo obiettivo non sarebbe stato raggiunto ed agli amici che mi hanno accompagnata in questo percorso.

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Indice

Introduzione ... 3

1 Analisi storica ... 5

1.1 Dalle origini della municipalizzazione ... 6

1.2 Avvio dei processi di liberalizzazione ... 8

1.3 Avvio dei processi di razionalizzazione ... 13

1.3.1 Il c.d. “Piano Cottarelli” e la legge di stabilità 2015 ... 24

1.4 La c.d. “Legge Madia” e il riordino ad opera del Testo Unico ... 33

1.5 Le disposizioni integrative e correttive al Testo Unico ... 38

2 Riordino della disciplina ... 43

2.1 Le caratteristiche delle partecipate locali tracciate ai fini del riordino della disciplina ... 45

2.1.1 Vincolo di “tipo” ... 45

2.1.2 Controllo ... 47

2.1.3 Esclusioni ... 50

2.1.4 Servizi di interesse generale e di interesse economico generale ... 51

2.2 Delimitazioni all’ammissibilità delle partecipazioni pubbliche al fine di razionalizzare il sistema ... 55

2.2.1 Il vincolo di scopo ... 55

2.2.2 Il vincolo di attività ... 57

2.2.3 Deroghe al vincolo di scopo e di attività ... 60

2.2.4 Oneri di motivazione analitica per la costituzione e l’acquisto di partecipazioni pubbliche62 3 Revisione straordinariadelle partecipazioni pubbliche e piani di razionalizzazione periodica ... 67

3.1 La revisione straordinaria ... 68

3.1.1 Alcuni dati sulla revisione straordinaria ... 74

3.2 La revisione periodica ... 79

3.3 I controlli previsti per i piani di razionalizzazione ... 82

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3.5 Costituzione di società o acquisto di partecipazioni ... 93

3.6 L’alienazione delle partecipazioni ... 99

3.7 Società in house, necessità di giustificazioni aggiuntive ... 101

3.8 Società miste ... 108

4 Lo stato di crisi ... 111

4.1 La crisi della partecipata ... 112

4.1.1 Partecipate in perdita, effetti sul bilancio delle amministrazioni locali ... 118

4.2 La Responsabilità ... 120

4.3 La crisi dell’ente locale e i rapporti con le partecipate ... 125

4.3.1 Cenni al bilancio consolidato degli enti locali ... 142

Conclusioni ... 145

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Introduzione

L’elaborato si pone l’obiettivo di analizzare parte della normativa introdotta dal Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175) e dal successivo correttivo (D.Lgs. 16 giugno 2017, n.100).

In particolare il lavoro si concentra sull’analisi dei nuovi adempimenti straordinari e periodici imposti agli enti locali al fine di ridurre il numero di società partecipate in quanto spesso utilizzate come strumenti di abuso da parte delle pubbliche amministrazioni.

Nel primo capitolo viene svolto uno studio sull’evoluzione storica della normativa partendo dal monopolio pubblico attuato attraverso l’azienda municipalizzata fino alle norme introdotte di recente; di volta in volta sono stati considerati gli effetti sulle società partecipate e segnatamente sul numero di costituzione delle stesse nel corso degli anni.

L’analisi si sviluppa evidenziando la netta distinzione tracciata dalle varie introduzioni normative in materia di società partecipate: dai processi di liberalizzazione avviati a partire dagli anni ’90 in cui si è assistito ad un’ascesa delle società partecipate fino alla successiva fase di razionalizzazione avviata a partire dal 2006 con il c.d. “Decreto Bersani” e proseguita sino ad oggi con l’obiettivo di ridurre i numeri di società partecipate.

Nel secondo capitolo viene analizzato nel dettaglio il riordino attuato ad opera del Testo Unico definendo in primo luogo quali amministrazioni sono tenute ad adottare la normativa e conseguentemente quali società da esse partecipate sono comprese, escluse o soltanto parzialmente interessate dall’applicazione della legge.

Lo studio prosegue con l’esposizione del perimetro di ammissibilità delle società partecipate definito dai vincoli di attività e scopo, nonché delle relative deroghe previste ex lege, per poi concludersi con l’esposizione degli oneri di motivazione analitica per il mantenimento, l’acquisizione o la costituzione delle succitate società.

Nel terzo capitolo vengono esaminati i nuovi obblighi di razionalizzazione delle società partecipate imposti agli enti locali adottando specifici piani straordinari e periodici e si considerano anche i maggiori oneri previsti in caso di società in house.

La revisione straordinaria, che gli enti locali hanno dovuto deliberare entro il 30 settembre 2017, è stata l’oggetto di una conseguente breve analisi riguardante i principali Comuni italiani allo scopo di evidenziare gli effetti immediati dell’applicazione della norma e i diversi risultati che i Comuni hanno ottenuto.

In relazione ai nuovi adempimenti di razionalizzazione successivamente si analizzano nell’ordine i soggetti a cui è rimesso il controllo dei piani di razionalizzazione, le sanzioni previste in caso di inadempienza e gli incentivi.

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Nel quarto capitolo vengono trattati gli effetti dei rapporti tra società partecipate ed enti locali qualora uno dei due soggetti verta in uno stato di squilibrio.

Dapprima si esaminano le società partecipate con le relative misure adottate per prevenire una potenziale crisi, le conseguenze qualora questa si verifichi e gli effetti sul bilancio dell’ente locale nel caso in cui la partecipata risulti in perdita.

Si passa quindi ad osservare i diversi regimi di responsabilità inerenti gli organi degli enti e delle società partecipate.

Infine si approfondisce la crisi dell’ente locale in relazione alle possibili conseguenze derivanti dai rapporti instaurati con le proprie società partecipate; a tale scopo è stata effettuata una puntuale, oggettiva e sistematica analisi delle delibere di dissesto e dei piani di riequilibrio dei Comuni italiani.

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1 Analisi storica

Fin dagli inizi del XX secolo le società partecipate dalle pubbliche amministrazioni sono state i mezzi con cui la politica poteva soddisfare la domanda di servizi della popolazione.

La disciplina si è sviluppata negli anni in modo frammentario con una continua produzione di norme poco coordinate e per lo più disorganiche.

Con l’inizio degli anni ’90 si passò, sotto l’influenza della crisi della finanza pubblica e delle direttive europee, dal monopolio pubblico all’offerta dei servizi tramite forme privatistiche, avviando importanti processi di liberalizzazione dei settori.

Dagli anni ’90 al 2006 il numero di società partecipate pubbliche è aumentato a dismisura a livello sia centrale che locale.

Solo a partire dalla metà del 2006 sono stati avviati degli interventi normativi per cercare di delimitare il numero di costituzioni di partecipate pubbliche e razionalizzare quelle già in essere.

Nell’arco temporale dal 2006 al 2014 sono state inserite nella disciplina numerose norme disorganiche ed incomplete volte a limitare il ricorso alle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni.

Il primo incisivo intervento organico di razionalizzazione è stato disciplinato dalla legge di stabilità 2014, che ha accolto i suggerimenti del Programma previsto dal Commissario Cottarelli.

Negli anni più recenti è stato infine emanato il “Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica” con l’intento di riordinare e razionalizzare l’intero sistema, a seguito della c.d. “Legge Madia”.

Successivamente in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale sulla legge delega n.124 del 2015, il Testo Unico è stato rivisto e corretto in alcuni punti dal decreto legislativo n.100 del 16 giugno 2017.

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1.1 Dalle origini della municipalizzazione

Fin dalla fondazione del Regno d’Italia le partecipazioni pubbliche hanno rappresentato lo strumento adottato dal governo per soddisfare i bisogni crescenti della popolazione, sostenendo l’importante realizzazione delle reti infrastrutturali del paese. Le necessità della collettività e la domanda di servizi di pubblica utilità sono stati negli anni sempre maggiori al punto tale che, con l’inizio della rivoluzione industriale e del processo di urbanizzazione, l’offerta non poteva più essere soddisfatta dai singoli organismi privati ma era necessario l’intervento di sistemi centralizzati.1

Con c.d. “Legge Giolitti sulla municipalizzazione”2 si iniziò a disciplinare la gestione dei servizi di interesse pubblico da parte degli enti locali e venne introdotta per la prima volta l’azienda municipalizzata.3

L’emanazione di questa legge nacque dall’esigenza di offrire alla popolazione servizi essenziali al fine di migliorarne la qualità della vita: lo stesso Giolitti la definì «fonte di equi profitti a sollievo dei contribuenti».4

Molti di questi servizi di pubblica utilità all’epoca non potevano essere finanziati in modo diverso: i privati non erano in grado di far fronte alle ingenti spese di investimento ed inoltre l’obiettivo da perseguire non risiedeva nella logica privatistica del profitto ma nel benessere della collettività.

La portata innovativa della legge consisteva nel fatto di essere riuscita a collegare l’attività della pubblica amministrazione con i moduli imprenditoriali, creando un’impresa che era un braccio operativo dell’ente per la gestione diretta di questi servizi.5

Il provvedimento venne poi recepito nel “Testo Unico della legge sull’assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Province” del 1925 n. 2578; il Testo Unico fondò il sistema dei controlli dell’ente locale sull’azienda municipalizzata.

Durante questi anni gli enti pubblici economici hanno immesso nell’economia italiana una quantità di risorse tali da contribuire al c.d. “boom economico” con la conseguenza che

1 Luchena S., Zuppetta M., Il riordino delle società partecipate nella riforma Madia, 2016, pag.54 2 Legge 29 marzo 1903, n. 103

3 «Furono 238 le aziende municipalizzate nate all’indomani della legge, di cui: 70 impianti elettrici di

produzione e illuminazione, 36 per impianti e produzione di gas, 33 per aziende di case popolari. 25 acquedotti, 17 tramvie, 19 farmacie, 15 forni» Il Sole 24 ore, inserto n.14 edizione del 2 aprile 2011

4 Cit. Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio, 1892-93, in maniera non continuativa fino al 1914, e dal

1920 al 1921

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l’ingente crescita del ricorso al modello societario da parte delle amministrazioni pubbliche e la maggiore invasività dello Stato, alla fine degli anni ’80, rese l’economia italiana del tutto dipendente dalle risorse pubbliche.6

Si assistette ad una vera e propria crisi dell’amministrazione pubblica italiana, supportata da gestione pubblica inefficiente e da un aumento del deficit pubblico.

6 Lacchini M., Mauro C. A., La gestione delle società partecipate pubbliche alla luce del nuovo Testo Unico,

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1.2 Avvio dei processi di liberalizzazione

A partire dalla fine degli anni ‘90 per contenere il debito pubblico e, sotto la spinta delle direttive dell’Unione Europea in materia di concorrenza, è stato avviato un processo di privatizzazione delle imprese pubbliche.

Questo cambio di scenario ha comportato un progressivo spostamento dal monopolio pubblicistico a forme privatistiche e un cambiamento dei centri direzionali di controllo.

Con la legge 142/1990 ci fu il primo importante intervento legislativo di riforma degli enti locali: i Comuni e le Province furono autorizzati ad adottare un proprio statuto per ridefinire l’organizzazione interna; inoltre vennero loro concesse autonomie amministrative, finanziarie, contabili e patrimoniali.

In ambito locale si assistette quindi ad una liberalizzazione dei settori limitando la veste pubblica alle sole attività “non economiche” e a quelle che diversamente non avrebbero potuto essere offerte, mentre negli anni precedenti l’economia era contraddistinta da monopolio pubblico.

Fu inoltre introdotta la possibilità di trasformare le vecchie società municipalizzate in società per azioni, assoggettate al diritto privato ed alla tassazione degli utili anche se di proprietà interamente pubblica.

Tra le scelte organizzative e finanziarie degli enti pubblici per la gestione interna dei pubblici servizi era prevista: la gestione in economia o per mezzo di aziende speciali7, avvalersi dell’intervento, più o meno incisivo, di terzi nelle forme della società per azioni con capitale pubblico maggioritario o per concessione a terzi.

Tra l’ente locale e la società mista non si stabiliva un rapporto di concessione, ma si era in presenza di affidamento diretto, come per le aziende speciali, utilizzando l’istituto del c.d. “contratto di servizio”.8

Nel caso di gestione associata tra più enti locali era inoltre prevista la possibilità di costituire aziende consortili.

Nello stesso anno venne affermato che la pubblica amministrazione doveva essere guidata dai principi di economicità, efficacia e pubblicità.9

7 La legge di riforma delle autonomie locali 142/1990 ha innovato profondamente la disciplina dell’azienda

municipalizzata ridefinendola “azienda speciale”, ossia un’azienda pubblica dotata di personalità giuridica, autonomia imprenditoriale e di un proprio statuto.

8 Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Le società miste (pubblico-privato) per la gestione dei servizi pubblici locali, maggio 2010

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Con la legge 142/1990 avvenne una sorta di “privatizzazione formale”, si volle riconoscere espressamente la possibilità per gli enti locali di adottare la forma societaria per la gestione dei servizi pubblici e quindi di ricorrere a capitali sia pubblici che privati, alla sola condizione che la maggioranza delle partecipazioni rimanesse in mano pubblica.10

In seguito, invece, con l’art. 12 della legge 498/1992, venne eliminato il requisito della prevalente partecipazione pubblica locale nelle società per azioni e si passò così alla c.d. “privatizzazione sostanziale”, che si aveva quando l’ente cessava di esercitare direttamente l’attività, dismettendola in favore di soggetti privati11, alla condizione che il socio di maggioranza privato venisse scelto mediante procedura a evidenza pubblica.12

A tale riguardo la legge aveva incaricato il governo di definire l’entità minima della partecipazione dell’ente locale, nonché i criteri con cui scegliere i soci privati mediante un procedimento concorrenziale che tenesse conto delle capacità tecniche e finanziarie del soggetto nel rispetto delle regole comunitarie.13

I programmi di privatizzazione messi in atto avevano l’obiettivo di diminuire l’indebitamento dello Stato che era di oltre il 120% del PIL, aggravato dal deterioramento delle aziende a partecipazione statale.14

La successiva legge 332/1994 disciplinò le procedure per accelerare la dismissione delle partecipazioni pubbliche nelle società per azioni al fine di coinvolgere nell’azionariato i soggetti privati e gli investitori istituzionali, garantendo in ogni caso il controllo pubblico. Con l’avvento del nuovo millennio nacque l’esigenza di cambiamento nella pubblica amministrazione, la riforma ebbe origine dal bisogno di semplificazioni e dall’influenza delle nuove tecnologie informatiche.

Gli obiettivi principali della riforma furono l’aumento della qualità, quantità ed efficacia dei servizi erogati alla collettività; per questo motivo si svilupparono anche nuove forme di relazione fra pubblica amministrazione e utenti, che avrebbero garantito un’efficace partecipazione di questi ultimi ai processi decisionali ed un rapido accesso alle informazioni.

10 Art. 22, comma 3, lett. e), della legge 142/1990 «a mezzo di società per azioni a prevalente capitale

pubblico locale, qualora si renda opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati.»

11 Consiglio Nazionale del Notariato, Società a partecipazione pubblica locale e legge Bassanini-bis, studio

n. 1930/1998, pag. 2

12 Tale procedura è stata inizialmente introdotta dal Regio decreto 23 maggio 1924, n. 827

Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato

13 Palliggiano G., L’evoluzione legislativa della gestione dei servizi pubblici locali dalla Legge Giolitti al

Testo unico degli enti locali, pag. 19

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Inoltre, dal punto di vista organizzativo, avvenne una sorta di decentramento della pubblica amministrazione tramite la sostituzione del vecchio modello piramidale con una struttura orizzontale che coinvolgeva maggiormente le autonomie locali e che assegnò loro un ruolo fondamentale, garantendo in questo modo “l’interoperabilità” fra le diverse divisioni della pubblica amministrazione.15

In questo contesto, la c.d. “Legge Bassanini bis” n. 127 del 1997 previde un’ulteriore forma gestionale: la società a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale, in grado di rispondere alle esigenze ed alle nuove dinamiche della società moderna.

Venne inoltre riconosciuta agli enti la facoltà di trasformare le aziende speciali in società di capitali o a responsabilità limitata.

Sotto le sollecitazioni anche dell’Unione Europea si passò dall’esercizio dei poteri e la prestazione dei servizi mediante le forme organizzative del diritto pubblico, alla gestione delle attività secondo le forme del diritto privato, andando però ad esaltare solo la deregulation gestionale e non ponderando il rischio imprenditoriale, senza inoltre considerare le garanzie preposte dalle norme di contabilità e gestione pubblica.

La crescente rigidità del bilancio pubblico e degli obblighi di trasparenza, uniti all’avvio del processo di liberalizzazione, ebbero come conseguenza un aumento considerevole del ricorso ad organismi privati, utilizzati quindi come strumenti per eludere i vincoli imposti dalle norme pubbliche, anche a discapito dei principi di buona amministrazione.16

Le decisioni di esternalizzare attraverso la costituzione di nuovi organismi societari o partecipativi fecero in modo che gli enti locali perdessero interesse al buon andamento e alla sana gestione, l’interesse risiedeva solo nel trasferire le funzioni all’esterno e non farle gravare più nei propri bilanci.

Tutto ciò generò una serie di disfunzioni dovute al prevalere delle logiche politiche su quelle del mercato, con l’effetto che si generarono sprechi ed inefficienze tali da ostacolare la concorrenza e il libero mercato.17

Nel 2000 venne emanato con D.Lgs. 267/2000 il Testo Unico sugli enti locali con l’obiettivo di sistematizzare le norme emanate nel decennio precedente.

15 Bucci P., Lenci P., Passaglia G., La grande riforma della pubblica amministrazione

16 Luchena S., Zuppetta M., Il riordino delle società partecipate nella riforma Madia, 2016, pag. 56 17 Ursi R., Società a evidenza pubblica, 2012, pag. 21-23

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Il decreto conferì agli enti locali autonomia statutaria, normativa, organizzativa, amministrativa e finanziaria.18

L’autonomia normativa venne messa in pratica dall’ente adottando regolamenti per la propria

organizzazione e per il funzionamento degli organismi di partecipazione.19

I Comuni avevano il compito nella loro amministrazione di rappresentare i loro cittadini, di curarne gli interessi e offrire loro i servizi pubblici.20

Tutto ciò è stato poi avvallato dalla riforma costituzionale21 del titolo V, parte II tesa a valorizzare le autonomie territoriali nei confronti dello Stato con la nuova formulazione dell’art. 114 nel quale viene riconosciuta la potestà statutaria22, e dell’ art. 117, in cui si riconosce la potestà regolamentare. 23

La riforma costituzionale è inoltre intervenuta recependo la politica di decentramento avviata con la c.d. “Legge Bassanini” nel 1997, che conferiva agli enti locali la gestione di alcuni settori di interesse pubblico e l’amministrazione delle attività strumentali o connesse.

In tal senso veniva sostituito il precedente c.d. “principio di parallelismo” con il c.d. “principio di sussidiarietà”, art. 118 Cost.24

Con la riforma dell’art. 113 TUEL c.d. “Riforma Buttiglione”, attuata con l’art. 35 della legge n. 448/2001 (legge finanziaria del 2002) e poi modificata ed integrata con l’art. 14 del D.L. n. 269/2003, si cercò di regolamentare i servizi pubblici. L’art. 35 della riforma del 2002 nacque dall’esigenza di rispondere alle procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea nei

18 D.Lgs. 247/2000, art. 3, comma 4, «I Comuni e le Province hanno autonomia statutaria, normativa,

organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell'àmbito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica.» e l’art. 6, Comma 1, «I Comuni e le Province adottano il proprio statuto.»

19 D.Lgs. 247/2000, art. 7, comma 1.

20 D.Lgs. 247/2000, art.13, c.1, «Spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la

popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità»

21 Legge costituzionale 3/2001

22 Art 114 Cost. «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle

Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione»

23 Art 117, comma 6, Cost., «La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione

esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite»

24 Art. 118 Cost. «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio

unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»

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confronti del nostro Paese per la violazione delle disposizioni comunitarie in materia di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, e regolamentare le numerose situazioni di monopolio pubblico delle utilities locali, salvaguardando quelle già quotate in borsa.25

La caratteristica più importante dell’art. 113 TUEL, riformato, fu di inserire, nel caso delle società miste, l’affidamento diretto del servizio qualora il socio privato venisse scelto tramite gara per svolgere quell’incarico, come modalità alternativa possibile alla gara per l’affidamento del servizio.26 La gestione dei servizi pubblici locali poteva quindi avvenire in tre modalità: affidamento del servizio tramite gara, affidamento a società mista in cui il socio privato venisse selezionato mediante gara pubblica e infine la gestione in house providing.

Gli interventi attuati e le riforme introdotte in ambito locale hanno portato ad un aumento pressoché costante delle nuove costituzioni in conseguenza dell’obbligo imposto alle amministrazioni locali di gestire i servizi pubblici mediante partecipate costituite in forma di società di capitali. Secondo i dati riportati nel rapporto del MEF nel periodo dal 2000 al 2006 sono state costituite all’anno in media 414 società pubbliche. 27

Il quadro normativo vigente consentiva agli enti pubblici di avvalersi sia di società miste, selezionando il socio privato tramite gara, sia di società in house; inoltre permetteva di costituire o partecipare a società per la produzione di servizi strumentali se ne soddisfacevano i requisiti preposti dalle leggi comunitarie.28

25 Bassi G., Le utilities locali dopo l’incostituzionalità della riforma dei servizi pubblici: riconfigurarne il

ruolo partendo dai fondamentali dell’economia aziendale, Aziendaitalia, 10/2012, pag. 695

26 De Vincenti C., Termini V., Vigneri A., La “retrovia” in mezzo al guado: lo stallo dei servizi pubblici locali, pag. 5-6

27 MEF, Rapporto sulle Partecipazioni Pubbliche 2016 28 Ursi R., Società ad evidenza pubblica, 2012

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1.3 Avvio dei processi di razionalizzazione

Il calo delle nuove costituzioni registratosi a partire dal 2006 è da attribuire al freno posto dal legislatore nei confronti del proliferare di acquisizioni di partecipazioni societarie da parte delle amministrazioni pubbliche, in particolare quelle locali.

L’art. 13 del D.L. 223/2006 c.d. “Legge Bersani”, “Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza”, introdusse delle misure restrittive, limitando l’autonomia negoziale delle società a capitale pubblico o misto solamente a favore degli enti costituenti, partecipanti o affidanti, per non beneficiare dei vantaggi dati dalla posizione di pubblica amministrazione, rimediando così ad una frequente commistione, che il legislatore statale reputò distorsiva della concorrenza.29

La preclusione di svolgere attività extra moenia per altri enti venne giustificata dal nesso strumentale della società rispetto all’ente che l’ha costituita o partecipata; la giurisprudenza amministrativa delineò i capisaldi affinché un’attività potesse definirsi strumentale: «tutti quei beni e servizi erogati da società a diretto ed immediato supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l’ente di riferimento e con i quali lo stesso ente provvede al perseguimento dei propri fini istituzionali».30

La legge limitò inoltre l’autonomia statutaria; tale limite imponeva l’esclusività dell’oggetto sociale, vietando di conseguenza il cumulo di attività strumentali sul medesimo soggetto societario partecipato, e precludeva la possibilità di costituire società aventi oggetto sociale non strettamente necessario al perseguimento delle proprie finalità istituzionali.

Questa norma, per esplicita interpretazione del Consiglio di Stato, ha un’applicazione restrittiva per cui è riferita solamente alle società strumentali per l’attività delle pubbliche amministrazioni.

La legge finanziaria del 2008 in concerto con l’art. 13 del c.d. “Decreto Bersani” definì un limite alla capacità imprenditoriale degli enti locali, circoscrivendo tale intervento solo ad attività connesse alle finalità istituzionali o a quelle di produzione di servizi di interesse generale. 31

29 Corte Costituzionale n.326/2008: «Ad avviso della Regione, il legislatore statale ha inteso, con le norme

impugnate, evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e assicurare la parità degli operatori, impedendo che soggetti destinatari dei cosiddetti «obblighi di servizio pubblico», solo formalmente privatizzati ma soggetti a un'influenza dominante dei pubblici poteri, possano operare, avvantaggiandosi del regime speciale di cui godono, anche sul libero mercato.»

30 Corte dei conti, Delibera n. 14/2010/AUT/FRG 31 Art 3, comma 27, legge 24 dicembre 2007, n.244

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L’art. 23-bis della legge 6 agosto 2008, n.13332 intervenne quale primo passo per fondare un organico disegno di riforma da applicarsi ai servizi pubblici locali, con carattere di prevalenza assoluta sulle incompatibili discipline di settore.

Art 23-bis individuò per la prima volta come modalità ordinaria per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’affidamento a terzi individuati mediante procedure competitive.

L’art. 23-bis prevedeva come regola generale il sistema della procedura competitiva a evidenza pubblica nel rispetto dei principi dettati dall’ordinamento europeo33, limitando l’affidamento a società in house soltanto come ipotesi eccezionale, in cui non era possibile fare ricorso al mercato in presenza di particolari esigenze territoriali e sociali.34

Ai commi 3 e 4 subordinava la facoltà di procedere agli affidamenti in house con l’obbligo di dare adeguata pubblicità alla relativa scelta dell’ente locale, ma anche di effettuare un rigoroso processo di verifica che da un lato contemplava lo svolgimento di un’analisi di mercato afferente il servizio oggetto di affidamento, e dall’altro l’espressione di un parere preventivo e obbligatorio da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

La norma di fatto subordinò l’affidamento in house alla sussistenza di requisiti più restrittivi rispetto a ciò che prescriveva il diritto comunitario, in quanto tale diritto permetteva ai legislatori degli Stati membri di disciplinare con maggiore rigore le modalità di tale affidamento.35

La stessa legge finanziaria 2008 avviò un processo di dismissione dovuto al divieto per le pubbliche amministrazioni di costituire società, di assumere o di mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie al perseguimento delle proprie finalità istituzionali.36

32 Decreto legge 25 giugno 2008, n.112 poi convertito nella legge 133/2008

33 Art 23-bis, c.1, legge 133/2008 «…al fine di favorire la più ampia diffusione dei princìpi di concorrenza,

di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale, nonché di garantire il diritto di tutti gli utenti alla universalità e accessibilità dei servizi pubblici locali e al livello essenziale delle prestazioni, …assicurando un adeguato livello di tutela degli utenti, secondo i princìpi di sussidiarietà, proporzionalità e leale cooperazione. Le disposizioni contenute nel presente articolo si applicano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative discipline di settore con esse incompatibili.»

34 Nico M., Le società partecipate dagli enti locali, 2014, pag. 32 e 33. 35 Consulta con pronuncia n.325 del 17 novembre 2010

36 Art 3, comma 27, legge 24 dicembre 2007, n. 244 «…non possono costituire società aventi per oggetto

attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di

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Questo divieto non era assoluto ma contribuiva a limitare il ricorso a strumenti societari da parte degli enti territoriali, configurando solo due tipologie di attività consentite: una connessa alle finalità istituzionali e una per la produzione di servizi di interesse generale.37

L’art. 3 al comma 29 della legge finanziaria 2008 prevedeva che, entro diciotto mesi dalla sua entrata in vigore, nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, le amministrazioni cedessero a terzi le società e le partecipazioni vietate.

Il termine originario venne in seguito prorogato con la legge di stabilità 2014, fissandolo al 30 aprile 2014 per l’effettiva dismissione; decorso tale termine la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica doveva cessare ad ogni effetto.

Tutto ciò intensificò nuovamente il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici, congiuntamente all’art. 15 del decreto legge n.135 del 25 settembre 2009, poi convertito dalla legge 20 novembre 2009, n.166, che nell’intento di rendere più aperto e competitivo il settore, introdusse alcune importanti modifiche, specie in ordine al regime ordinario della gestione dei servizi pubblici locali.

Nel 2009 fu prevista la facoltà di affidare i servizi pubblici locali a società miste pubblico-private con gara a “doppio oggetto”, a condizione che al partner privato, individuato con gara, si attribuisse una quota non inferiore al 40% del capitale sociale e specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio.38

La prima procedura di gara consisteva nella selezione del socio privato della società, che doveva dimostrare la capacità di fornire il servizio e i vantaggi della propria offerta; la seconda procedura aveva lo scopo di aggiudicare l’appalto pubblico o la concessione all’entità a capitale misto.

Con questa doppia gara la scelta del partner privato divenne equa e trasparente, inoltre venne assicurata una concorrenza libera e il rispetto del principio della parità di trattamento.39

Successivamente venne emanato il D.P.R. 168/2010, “Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica”, per definire le modalità per lo svolgimento delle procedure di gara, in attuazione dell'articolo 23-bis del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, essendo la normativa precedente assai scarna sull’argomento.

minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e l'assunzione di partecipazioni in tali società»

37 Ursi R., Società ad evidenza pubblica, 2012, pag. 40

38 Nico M., Le società partecipate dagli enti locali, 2014, pag. 34 e ss. 39 Idem

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In seguito per iniziativa referendaria, venne abrogato l’art. 23-bis, D.L. n. 112/2008, ad opera del D.P.R. 18 luglio 2011, n. 113. Si è passati dall’esigenza di contenere le ipotesi di affidamento diretto ed anche di garantire la diffusione dei principi di concorrenza e libertà di stabilimento, all’applicazione delle norme comunitarie che, come visto in precedenza, erano assai meno restrittive sull’affidamento della gestione in house, ritenendo tale modalità una forma ordinaria e non eccezionale.

Tuttavia nei mesi successivi, fu emanato l’art. 4 del decreto legge 138/2011 convertito nella legge 148/2011, rubricato “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall'Unione europea”, che riedita il testo dell’abrogato art. 23-bis e del relativo regolamento attuativo. In particolare, in relazione al tema degli affidamenti fu fissata una soglia di valore al di sopra della quale la gara era obbligatoria; tutto ciò comportò una riduzione della gestione in house limitandone l’ammissibilità entro la soglia di valore pari inizialmente a 900.000 €, poi successivamente ridotta a 200.000 €.

Il legislatore previde inoltre che le società in house fossero sottoposte al patto di stabilità interno e al controllo di gestione affidato all’organo di revisione dell’ente, ma non fu più richiesto un parere preventivo dell’Antitrust come invece avveniva con l’art. 23-bis.40

Successivamente la Corte costituzionale con sentenza n.199/2012 definì la nuova disciplina incostituzionale a seguito del ricorso di alcune Regioni, ritenendola in contrasto con la volontà popolare espressa con il referendum e illegittima per difformità rispetto a quanto previsto dalla Comunità europea sulla possibilità di ricorrere al modello in house senza obbligo di limitazioni quantitative.

Conseguentemente a ciò la materia dei pubblici servizi fu regolamentata dai principi di diritto comunitario, e dunque vi fu una riapertura alla facoltà di utilizzare il modello delle società in house riproponendo lo schema tripartito tracciato dall’art. 113, comma 5, del TUEL, previa valutazione comparativa tra le diverse modalità di gestione.

Le modalità di gestione dei servizi di interesse economico si possono così riassumere:

a. Società a partecipazione mista, nel quali il socio privato sia scelto secondo procedure di evidenza pubblica

b. Esternalizzazione dell’attività, svolgendo procedure di evidenza pubblica c. Società in house

Il predetto articolo stabiliva un processo di liberalizzazione con termini stringenti, chiedendo agli enti locali di valutare la liberalizzazione delle attività economiche o la procedura di

40 Passalacqua M., Il “disordine” dei servizi pubblici locali, dalla promozione del mercato ai vincoli di finanza pubblica, 2016, pag. 13

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attribuzione di diritti di gestione in esclusiva, secondo il principio costituzionale di buon andamento, tramite complesse analisi di mercato e mediante un’apposita delibera quadro. Nel secondo caso sarebbe stato un preciso onere delle amministrazioni indire gare a evidenza pubblica per conferire la gestione dei servizi sul mercato dopo aver accertato, con la suddetta delibera quadro, che la libera iniziativa economica privata non risultasse idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità. L’effetto della sentenza n.199/2012 è quello di confondere nuovamente la disciplina dei servizi locali.41

In ogni caso rimase in vigore il successivo articolo del decreto legge n.138/2011, “Norme in materia di società municipalizzate”, che aveva lo scopo di introdurre degli incentivi economici per la dismissione di partecipazioni in società municipalizzate esercenti servizi pubblici di rilevanza economica, escludendo inoltre le relative spese dal patto di stabilità interno.

La dismissione delle quote doveva avvenire in maniera sistematica ed avviare un processo di privatizzazione negli anni successivi.

Con questi fini di razionalizzazione già il decreto legge n.78/2010, art. 14, comma 32, aveva imposto limitazioni, rispetto alla costituzione ed al mantenimento in portafoglio di partecipazioni societarie, da parte dei Comuni con meno di 30mila abitanti, mentre per gli enti compresi tra i 30mila e i 50mila abitanti dava la possibilità di partecipare ad una sola società. Il decreto prevedeva inoltre la dismissione obbligatoria delle società in perdita detenute dai piccoli Comuni entro il 30 settembre 2013.

Mentre per la dismissione delle quote era necessario l’espletamento di una procedura di evidenza pubblica salvo eventuali diritti di prelazione degli altri soci, per la liquidazione della società in assenza di una normativa speciale si ritenevano applicabili le regole di diritto Comune previste dagli artt. 2484 e ss. del codice civile, per cui il patrimonio sociale doveva soddisfare i creditori sociali, e solo dopo, in fase di ripartizione del residuo, l’ente locale poteva richiedere la propria quota.42

Successivamente furono introdotte delle deroghe dall’articolo 2, comma 43, del D.L. n. 225/2010, c.d. “Decreto Milleproroghe”. Fu previsto che, per sottrarsi agli obblighi di dismissione delle partecipazioni, le società partecipate dovevano risultare in utile negli ultimi tre esercizi; inoltre non dovevano aver subito negli esercizi precedenti riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio o aver ripianato le perdite tramite le riserve disponibili.

41 Nico M., Le società partecipate dagli enti locali, 2014, pag. 76-77

42 Moretti F., Limiti all’utilizzabilità dello strumento societario da parte dei Comuni di piccole e medie

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La Corte dei conti inoltre ha dato interpretazioni restrittive al fenomeno limitandone l’imposizione43; il decreto successivamente è stato abrogato dalla legge di stabilità 2014.44 Lo stesso decreto legge 78/2010 all’art. 6 poneva inoltre delle limitazioni per le amministrazioni pubbliche agli aumenti di capitale, ai trasferimenti straordinari, alle aperture di credito e al rilascio di garanzie a favore delle società partecipate non quotate che avessero avuto, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio o che avessero deciso di ripianare le perdite tramite riserve disponibili.

Questa normativa rientrava in un processo già avviato di compressione delle autonomie locali a favore di soluzioni richieste dal centro per il conseguimento degli equilibri di finanza pubblica imposti dalle direttive europee.

Nel 2012 venne avviato un processo di razionalizzazione con il secondo decreto sulla spending review (D.L. n. 95 del 6 luglio 2012) che introdusse la possibilità di predisporre appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle società controllate, che prevedevano, nei casi richiesti, la riorganizzazione e l’accorpamento delle società.

Con questo fine venne posto un obbligo generale di alienazione delle partecipazioni o scioglimento delle società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni qualora avessero conseguito un fatturato da prestazioni di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90% dell’intero fatturato nell’anno 2011.

Di conseguenza la possibilità di utilizzare le società strumentali venne molto limitata, poiché l’attività esclusiva a favore della pubblica amministrazione prevista dall’art. 13 della Legge Bersani fece superare detta percentuale. L’unica alternativa alla procedura di alienazione era l’affidamento diretto consentito però nei limiti di 200.000 € del valore economico del servizio. È evidente il disfavore con il quale il legislatore si rapportava nell’approccio alle attività strumentali qualora vi fosse un affidamento diretto, probabilmente scaturente da una valutazione sul buon andamento e dunque per la convinzione che i criteri di efficienza, efficacia ed economicità della gestione fossero più facilmente perseguibili attraverso la concorrenza nel mercato.45

La conversione in Senato del decreto legge con voto di fiducia inserì alcune modifiche. La principale è riferibile alla previsione che «qualora, per le peculiari caratteristiche economiche,

43 Sez. Puglia, delibere n.103/2009/PAR, n.76/2010/PAR e n.12/2011/PAR; sez. Lombardia, delibera

n.861/2010/PAR; sez. Friuli Venezia-giulia, delibera n.245/2011/PAR

44 Nico M., op. cit., pag. 108-109

45 Farneti G., Le problematiche gestionali più attuali delle società partecipate dagli enti locali, Aziendaitalia,

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sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l’amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato» le disposizioni possano essere derogate. Al riguardo l’ente doveva inviare una relazione sull’analisi di mercato e le adeguate motivazioni all’AGCM, alla quale veniva assegnato il compito di esprimere un parere vincolante.

Venne inoltre prevista un’agevolazione fiscale in caso di scioglimento, mentre in caso di alienazione della partecipazione la gara doveva tenere in dovuta considerazione la tutela dei livelli occupazionali e la contestuale assegnazione del servizio per cinque anni non rinnovabile. Infine il disfavore per lo strumento societario venne ancora una volta evidenziato dall’art. 9 che aveva come obiettivo la riduzione degli oneri finanziari. L’articolo prevedeva che per il contenimento della spesa e per il migliore svolgimento delle funzioni amministrative non si poteva in futuro utilizzare enti, organismi ed agenzie di qualsiasi natura giuridica. Per quelli già esistenti, si procedeva alla soppressione o all’accorpamento di tali soggetti, «o, in ogni caso, assicurando la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura non inferiore al 20%».

In sede di conversione venne poi inserita una deroga alla norma in caso di aziende speciali, enti ed istituzioni che gestivano servizi socio-assistenziali, educativi e culturali.46

In caso di inottemperanza degli obblighi di dismissione non fu prevista nessuna sanzione ma vennero invece inseriti dei vincoli alla possibilità di ricevere ulteriori affidamenti diretti o rinnovi di quelli in corso per queste società.47

Per quanto attiene invece ai servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica ilcomma 1 bis dell’articolo 3 bis del decreto legge 138/2011, introdotto con il decreto legge 179 del 18 ottobre 2012, stabiliva che essi dovevano essere organizzati in bacini territoriali ottimali e omogenei in modo tale da superare la frammentazione delle gestioni e tramite la creazione di sinergie ed economie di scala poterne accrescere l’utilità.

Ai sensi del I comma dello stesso articolo spettava alla Regione individuare o costituire l’ente di governo d’ambito o bacino tramite una convenzione obbligatoria tra Comuni i quali erano poi tenuti a svolgere i compiti che venivano loro attribuiti dalle norme. In questo modo gli enti esercitavano le funzioni in forma associata senza creare un soggetto con personalità giuridica e autonomia patrimoniale. Il modello così delineato era il più conforme ai vincoli di razionalizzazione della spesa pubblica introdotti con il decreto legge 95/2012.

46 G. Farneti, Le problematiche gestionali più attuali delle società partecipate dagli enti locali, Aziendaitalia,

11/2012, pag.783

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L’art. 34 del D.L. 179/2012 «al fine di assicurare...la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento», emanato con l’intento di recepire le direttive comunitarie, obbligava l’ente locale a predisporre una relazione che motivasse la scelta sulla modalità di affidamento e ne evidenziasse il rispetto dei requisiti stabiliti dalla normativa europea.

Nel caso di affidamento diretto il tetto di valore di 200.000 € venne soppresso dall’art. 35, comma 27, D.L. n. 179/2012 ma l’ente fu chiamato nella relazione illustrativa a mettere in luce le ragioni per cui non si era ricorso al mercato, alla sussistenza del controllo analogo e alla prevalenza dell’attività della società a favore dell’ente costituente.48

Inizialmente l’art. 34, co. 21, D.L. n. 179/2012, aveva previsto l’adeguamento degli affidamenti non in linea con le regole comunitarie entro il termine del 31 dicembre 2013 e la pubblicazione della relazione entro tale data. L’inadempimento da parte degli enti avrebbe dovuto comportare la cessazione dell’affidamento al 31 dicembre 2013, ma l’obbligo di adeguamento e pubblicazione venne prorogato al 31 dicembre 2014 dalla L. 27 febbraio 2014, n. 15.49

Nello stesso anno venne riformato il sistema dei controlli interni ed esterni sulle società partecipate non quotate; il nuovo art. 147 quater TUEL impose all’ente locale di definire, secondo la propria autonomia organizzativa, un sistema di controlli sulle proprie società, correlato da sistemi informativi per monitorare l’andamento delle partecipate e per valutarne eventuali squilibri o scostamenti rispetto agli obiettivi programmati.

Infine i risultati complessivi della gestione dell'ente locale e delle aziende non quotate partecipate dovevano essere rilevati mediante bilancio consolidato, secondo la competenza economica.

La norma doveva essere applicata inizialmente agli enti locali con popolazione superiore a 10.000 abitanti, a 50.000 abitanti nel 2014 e a 15.000 abitanti a decorrere dal 2015.50

Il primo censimento delle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche fu condotto, nel periodo febbraio-maggio 2011 con riferimento alla data del 31 dicembre 2009. Successivamente vennero effettuate le rilevazioni delle partecipazioni per l’anno 2010, per il 2011 e per il 2012.

Alle amministrazioni era richiesta la comunicazione delle partecipazioni detenute sia in via diretta che in via indiretta, tramite altra società o ente.

48 Passalacqua M., Il “disordine” dei servizi pubblici locali (dalla promozione del mercato ai vincoli di finanza pubblica), 2016, pag.26-27

49 Corte dei conti, Gli organismi partecipati dagli enti territoriali, Relazione 2014 50 Nico M., Le società partecipate dagli enti locali, 2014, pag. 113

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Per l’anno 2011, le amministrazioni hanno dichiarato 30.133 partecipazioni riconducibili a 7.340 società partecipate.

Per l’anno 2012 le amministrazioni pubbliche hanno dichiarato di detenere 29.094 partecipazioni dirette e 8.828 partecipazioni indirette, per un totale delle partecipazioni comunicate pari a 36.125 relative a 8.146 società. 51

Con la L. n.147 del 27 dicembre 2013 (legge finanziaria 2014) vi fu un cambio di prospettiva dovuto alla preoccupazione del mantenimento dei livelli occupazionali pregiudicati dalla chiusura delle società imposta dall’avvio dei piani di dismissione del processo di razionalizzazione.

Con questa legge vennero aboliti numerosi limiti alla detenzione delle partecipazioni sia in società affidatarie dei servizi sia in società strumentali.

Il legislatore cambiò approccio nei confronti delle società partecipate; passò da una politica incentivante l’alienazione delle partecipazioni ad una di sollecitazione ad una sana gestione del gruppo pubblico. Il principio di responsabilità finanziaria dell’ente sulle perdite delle società e l’aumento della responsabilizzazione degli enti territoriali nella gestione delle attività esternalizzate fecero da corollario alla sana gestione, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi e di monitorare i vincoli del patto di stabilità.52

Con l’art. 1 comma 551-555, L. 147/2013 si cercò di disincentivare le partecipazioni in perdita mediante un obbligo di accantonamento nel bilancio degli enti partecipanti, in considerazione dell’entità della partecipazione detenuta e del valore della perdita, mentre in caso di perdurante risultato negativo fu previsto l’obbligo di liquidazione delle società partecipate.

In questo contesto va tenuto presente che era ancora in vigore l’art. 6, comma 19, del D.L. n. 78/2010, che vietava agli enti non quotati di effettuare aumenti di capitale, trasferimenti straordinari, aperture di credito, rilascio di garanzie a favore di partecipate non quotate che avessero registrato perdite per tre esercizi consecutivi, ad eccezione di pochi casi in cui era possibile derogare a questa legge.

Le disposizioni introdotte con la legge 147/2013 si applicavano originariamente ad una platea più vasta di società: erano ricomprese dal comma 550 sia le società partecipate che le aziende speciali e istituzioni.

L’obiettivo che si voleva perseguire non era quello di imporre l’alienazione delle partecipazioni, come nel regime previgente, ma porre un obbligo di accantonamento pari al

51 MEF, Rapporto sulle partecipazioni detenute dalle Amministrazioni Pubbliche al 31 dicembre 2012 (luglio

2014)

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saldo negativo della società calcolato sulla percentuale di quota detenuta dall’ente. Il fondo costituito doveva rimanere vincolato nel bilancio dell’ente finché la perdita non fosse stata ripianata o vi fosse stata la liquidazione dell’organismo societario o della partecipazione. In questo modo venne occupata una quota di risorse disponibili dell’ente anche qualora il risultato negativo fosse registrato per un solo esercizio, senza dover compiere nessuna valutazione sul bilancio della partecipata e di conseguenza senza svalutare la partecipazione detenuta.

Come evidenziato dalla Corte dei conti (Sez. autonomie, delibera n. 4/2015) il fondo permise di evitare, già in sede di bilancio previsionale, che la mancata considerazione delle perdite riportate dall’organismo partecipato potesse inficiare gli equilibri di bilancio e in tal modo favorire la responsabilizzazione degli enti soci.

L’applicazione della norma era prevista gradualmente53 nell’arco di un triennio, entrando a pieno regime solo nel 2018; gli accantonamenti dovevano essere operati dal 2015, considerando quindi gli eventuali risultati negativi delle partecipate nell’anno 2014. 54

Era inoltre previsto dall’art. 1 che, qualora il risultato negativo fosse rilevato per due esercizi consecutivi, si verificava una giusta causa per la revoca degli amministratori, mentre se la risultanza negativa avveniva per 3 esercizi di seguito il compenso degli amministratori doveva essere ridotto del 30%.

Infine il comma 555 obbligava la messa in liquidazione nel caso in cui la perdita venisse rilevata su quattro dei precedenti cinque esercizi a decorrere dall’esercizio 2017, prendendo quindi come riferimento per la valutazione il risultato dell’esercizio 2012 fino al 2016, nonostante alcuni di questi esercizi fossero antecedenti all’entrata in vigore della norma (1/01/2014). Erano esonerate da queste fattispecie le società che svolgevano servizi pubblici locali in quanto soddisfacevano un fine più elevato, che consisteva nel benessere della collettività, a prescindere dalla modalità di affidamento prescelta.

L’espressione del comma 555, «sono posti in liquidazione» poteva aprire diverse strade interpretative; in un primo caso poteva sembrare necessaria una delibera dell’assemblea convocata dagli amministratori per “decidere” sullo scioglimento obbligatorio e la messa in liquidazione, richiamando l’art. 2484, comma 1, n. 5; secondo un’altra interpretazione la

53 Era previsto un accantonamento del 25% della perdita nel primo anno, il 50% nel secondo e il 75% nel

terzo anno sempre in proporzione alla quota di partecipazione detenuta dall’ente; in questo modo nel 2018 ente avrebbe dovuto vincolare un valore corrispondente alla perdita dell’anno precedente in rapporto alla sua partecipazione.

(27)

fattispecie rientrerebbe come causa legale di scioglimento aggiuntiva all’art. 2484, comma 3 codice civile.

Nella seconda interpretazione la causa di scioglimento si era già verificata e spettava agli amministratori accertarla; da quel momento decorrevano gli effetti previsti dagli art. 2485 e 2486 c.c..55

Questa era una delle poche norme che non dava la possibilità di collocare le partecipazioni sul mercato come alternativa alla liquidazione della società, che doveva avvenire entro 6 mesi dall’approvazione del bilancio o del rendiconto dell’ultimo esercizio.

In caso di approvazione del bilancio con ritardo, gli obblighi di avvio della procedura di liquidazione dovevano comunque decorrere, fatte salve eventuali azioni di responsabilità verso gli amministratori o i soci.

Queste norme vennero poi riprese e rivisitate dall’art. 20, comma 2, lett. e) e dall’art. 21 del TUSPP in un’ottica più generale di razionalizzazione delle partecipazioni; la differenza più significativa riguardava l’ambito di applicazione, infatti le predette norme oggi si applicano solo alle aziende speciali e alle istituzioni.

Sempre con l’art. 1, L. 147/2013 vennero introdotte delle agevolazioni “a termine” in ambito fiscale e lavoristico qualora si procedesse a una riduzione delle partecipazioni pubbliche (comma 568-bis).

In caso di scioglimento delle società questo doveva essere in atto o deliberato massimo nei dodici mesi precedenti all’entrata in vigore della norma; le stesse condizioni potevano applicarsi in caso di alienazione della partecipazione purché già detenute alla data di entrata in vigore della norma.

L’ambito soggettivo di applicazione della norma riguardava tutte le pubbliche amministrazioni locali indicate nell’elenco dell’ISTAT ai sensi della legge 196/2009, e le società controllate direttamente o indirettamente.

La disposizione non inseriva una definizione di controllo per cui occorreva chiedersi quale fosse in questo contesto quello più ragionevolmente applicabile e se di conseguenza fosse da intendersi la nozione generale di controllo prevista dal art. 2359 c.c.

Con le stesse finalità fu attenuato il vincolo di stretta necessità che giustificava la partecipazione e la conservazione dell’ente; la legge di stabilità 2014 aveva solo stabilito che le amministrazioni pubbliche locali potessero far ricorso a società a partecipazione di maggioranza diretta o indiretta qualora contribuissero con gli «obiettivi di finanza pubblica,

55 Idem pag. 211-212

(28)

perseguendo la sana gestione dei servizi secondo criteri di economicità ed efficienza» (art. 1, comma 533).

1.3.1 Il c.d. “Piano Cottarelli” e la legge di stabilità 2015

Nel novembre 2013 venne nominato come Commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica C. Cottarelli che, nel rispetto dell’articolo 23 del decreto legge 66/2012, il 7 agosto 2014 pubblicò un programma di razionalizzazione degli organismi partecipati.

Gli obiettivi del rapporto furono quelli di predisporre una strategia di riordino, tesa a migliorare le condizioni di efficienza nella gestione delle partecipate pubbliche nonché a ridurne il numero «da 8.000 a 1.000»56 nell’arco di tre anni, anche favorendone l’aggregazione.

Il piano sarebbe poi stato reso vincolante per gli enti locali attraverso il suo inserimento nella legge di stabilità 2015, lasciando comunque valide le norme precedenti sulla legittimità e sugli obblighi di dismissione (art. 3, comma 29, legge 244/2009 e art. 1, comma 569, legge 147/2013) I destinatari finali del programma di razionalizzazione erano le amministrazioni locali incluse nell’elenco ISTAT, ma diversamente dalla legge 147/2013 qui non venivano richiamate direttamente anche le società controllate dagli enti locali, ma diventavano solamente gli organismi su cui avrebbero dovuto agire gli enti per adottare le misure previste nel programma. Tali misure erano:

a) processi di liquidazione o trasformazione, per fusione o incorporazione, di aziende speciali, istituzioni e società pubbliche.

Si presume che i termini utilizzati fossero impropri e che si volesse intendere che tramite una fusione si potesse giungere a ridurre il numero delle partecipate.

b) efficientamento della gestione di tali soggetti, anche attraverso il confronto con altri operatori che operavano a livello nazionale e internazionale;

c) la cessione di rami d'azienda o anche di personale ad altre società anche a capitale privato con il trasferimento di funzioni e attività di servizi.

Inizialmente il c.d. “Piano Cottarelli” specificava che esistevano due diverse dottrine circa le attività che potevano essere detenute in mano pubblica:

56 Il 31 dicembre 2012 la banca dati MEF censiva 7.726 partecipate locali, mentre la banca dati del

Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio comprende 10.000 partecipate, includendo un numero più elevato di partecipate indirette. Solo 20% è di proprietà interamente pubblica mentre il 28% è a maggioranza pubblica. Il resto, quindi più della metà, è a maggioranza privata e in molti casi la presenza pubblica è largamente minoritaria. (tratto dal programma di razionalizzazione delle partecipate locali)

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la prima, la più elastica, prevedeva che si potessero costituire partecipate per la produzione di ogni tipo di bene e servizio qualora fossero in condizione di agire in modo efficiente, mentre la seconda, preferita dallo stesso Cottarelli, era già stata intrapresa dal legislatore con l’art. 3, comma 27, legge n.244/2007, ossia l’intervento pubblico doveva essere limitato ad attività strettamente legate ai compiti istituzionali dell’ente e non fornite dal mercato privato.

Il programma tuttavia evidenziava che, nonostante questa norma, il numero delle nuove società partecipate era comunque cresciuto e la causa era da rinvenire nel fatto che la decisione sulle partecipazioni veniva presa dalle stesse amministrazioni.

Per questo motivo il Commissario propose diversi approcci in base alla tipologia di settore; in alcuni casi poteva bastare una semplice delibera da parte dell’amministrazione, mentre per altri poteva essere richiesta l’autorizzazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), a garanzia che la partecipata esercitasse un’attività non reperibile sul mercato; in quest’ultimo caso la mancanza dell’autorizzazione avrebbe comportato l’obbligo di dismissione e le correlate sanzioni.

Inoltre per le società in house erano previste condizioni più restrittive rispetto a quelle dettate dal diritto comunitario, ed un rigoroso controllo analogo.

Se l’attività era motivata da compiti istituzionali dell’amministrazione pubblica e se non era reperibile sul mercato, occorreva scegliere una modalità di gestione che fosse la più efficiente e a tal riguardo si sarebbe potuto richiedere un parere al MEF o ad altra entità centrale, o si si sarebbe potuto procedere con una consultazione diretta della cittadinanza, come era già stato fatto dalla c.d. “Legge Giolitti” nel 1903.

In un altro punto il Commissario ritenne che sarebbe stato opportuno eliminare gli incentivi alla costituzione di partecipate, attraverso anche l’assoggettamento al patto di stabilità interno e semplificando le procedure di funzionamento della pubblica amministrazione in modo tale da non preferire la forma giuridica privatistica.57

Oltre a questi interventi generali vennero inseriti nel piano degli interventi specifici volti a diminuire il numero di partecipate. Per prima cosa il piano definì dei limiti per le partecipazioni indirette essendo ritenute le più rischiose per la finanza pubblica, a tal punto da considerarne precluso l’utilizzo nei casi di attività strumentali o privi di rilevanza economica, riprendendo la soluzione già vagliata dal c.d. “Decreto Bersani”.

Qualora invece vi fosse stato uno stretto rapporto gestionale tra la partecipata diretta e la controllata di secondo livello si ritenne la partecipazione indiretta ammissibile a condizione che ne venisse data adeguata motivazione da sottoporre a un ente esterno.

(30)

Ulteriori limiti vennero evidenziati per i piccoli Comuni; l’argomento era già stato trattato in precedenza da diverse leggi, nel piano si voleva mettere in luce che sarebbe stato opportuno delineare indicativamente delle soglie e che queste poi si sarebbero potute raggiungere tramite la gestione aggregata di più Comuni o in casi eccezionali superate dai pareri della Corte dei conti, dal Ministero dell’Interno o dal MEF.

Il piano inoltre suggerì l’uscita dalle c.d. “micropartecipate”, definendo una percentuale minima necessaria di partecipazione, salvo nei casi fisiologici in cui i Comuni si aggregassero nella gestione di un’unica società.

Un’ulteriore misura sottolineò la necessità di chiudere le c.d. “scatole vuote” ossia le partecipate con un numero di dipendenti minimo o con un numero degli amministratori maggiore di questi. I dati riportati dal MEF su questo tema erano assai rilevanti; infatti la relazione riportava che 3.000 partecipate avevano meno di 6 dipendenti e in circa la metà il numero dei dipendenti era minore di quello degli amministratori.

Numerose società erano già in fase di liquidazione ma i processi erano assai lenti per cui il piano si proponeva di accelerare le fasi di chiusura di queste società, sia che fossero in liquidazione che in concordato, mediante l’invio al MEF da parte degli enti controllanti di una relazione con i programmi di liquidazione dei successivi 12 mesi.

In aggiunta il programma avrebbe voluto imporre vincoli di rendimenti non dissimili da quelle già adottati dall’art. 6, D.L. n.78/2010 o dall’art. 1, comma 555, L. n. 147/2013, considerando che tra le società censite 438 avevano generato perdite nell’ultimo triennio, oltre a quelle già in liquidazione.

Inoltre prevedeva che le fondazioni pubbliche fossero sottoposte al controllo da parte di un soggetto pubblico più elevato, essendo state fino a quel momento controllate dallo stesso soggetto che le aveva costituite.

Oltre a queste previsioni rivolte a diminuire il numero di partecipate e a mantenere in vita solo quelle che erano economiche ed efficienti per la pubblica amministrazione, si aggiunsero delle misure volte a ridurre i costi delle società partecipate, anche aprendo un confronto con quelle degli altri Stati, e ad aumentare la trasparenza nell’organizzazione e nel funzionamento delle stesse società tramite la semplificazione della normativa e il miglioramento della qualità delle informazioni disponibili.

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Il 26 agosto 2014 sono stati pubblicati alcuni dati volti a integrare il programma di razionalizzazione, e a valutare la redditività delle partecipate locali, tramite l’indice ROE (Return on Equity).58

Dall’analisi di questi dati relativi all’esercizio 2012 era emerso che 143 società avevano patrimonio negativo, 1.242 società non erano operative e di queste molte avevano già avviato le procedure di liquidazione. Inoltre 1.424 società avevano una redditività che recava un segno negativo per cui in media 1 società su 4 risultava con indice ROE non positivo, in particolare si notava che tale indice in media risultava maggiormente negativo in misura inversamente proporzionale al patrimonio della società. Tra l’altro 2.708 partecipate presentavano un ROE superiore a zero ma inferiore al 10% e solo 1.132 avevano una redditività più elevata.

Il comma 1-bis stabiliva che le misure proposte nel programma di razionalizzazione sarebbero state recepite nel disegno di legge di stabilità. Infatti l’art. 1, comma 611 e seguenti della legge di stabilità 2015 introdusse numerosi interventi già previsti nel piano ma con due differenze sostanziali: la prima è che l’ambito soggettivo venne maggiormente circoscritto rispetto a quello previsto originariamente da Cottarelli e la seconda è che le misure proposte non vennero recepite in toto ma spesso modificate dal legislatore per meglio adattarle alle sue finalità. La ratio perseguita dalla norma risiedeva nel coordinamento della spesa pubblica, affinché tutti gli enti agissero in modo omogeneo, nel contenimento della spesa, nel buon andamento articolato nell’efficienza, efficacia ed economicità dell’amministrazione, e nel rispetto delle disposizioni europee sulla tutela della concorrenza e del mercato.

Quest’ultima finalità comportò che la modalità di gestione in house non fosse automaticamente accessibile ma che preventivamente dovesse essere predisposta una relazione ex art. 34 del D.L. 179/2012 e in alcuni casi anche il piano economico e finanziario.

In questa sede non vennero richiamate tutte le amministrazioni inserite nell’elenco ISTAT, ma solo alcune di essi: «le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali», per cui le società controllate anche in questa disposizione non erano i soggetti direttamente interessati ma vennero coinvolte indirettamente per effetto dell’applicazione della legge da parte della pubblica amministrazione.

58 Il ROE rappresenta il rapporto tra il reddito netto conseguito nel corso dell’esercizio e il valore del capitale

proprio impiegato nel corso dello stesso esercizio e rappresenta l'importo dei profitti o delle perdite per unità di capitale investito

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Il processo di razionalizzazione doveva coinvolgere tutte le tipologie di società possedute dagli enti, sia di controllo che non, includendo anche le società consortili e le partecipazioni di qualunque tipo; diversamente dal piano Cottarelli venivano esclusi tutti gli altri organismi diversi dalle società: consorzi, fondazioni, associazioni, aziende speciali e istituzioni.

L’art. 1 ai commi 611 e ss. prevedeva che i piani operativi per la razionalizzazione e le correlate relazioni tecniche, con le modalità di attuazione e le tempistiche nonché i risparmi di spesa previsti, dovevano considerare tutte le società a cui l’ente territoriale partecipava, a prescindere dalla tipologia del servizio che tali società svolgevano.

L’attenzione verso le partecipazioni indirette era massima perché si reputavano uno strumento in grado di eludere le norme e rendere meno trasparente il quadro operativo.

Anche il comma 611, come già il programma di razionalizzazione, premetteva che le nuove norme non intendevano sostituire l’art. 3, comma 27-29, della legge n. 244/2007 e l’art. 1, comma 569, della legge n.147/2013, per cui restava valido il vincolo di stretta necessità e l’obbligo di dismissione o l’automatica cessazione nel caso non si ottemperasse nei termini previsti.

Di conseguenza le disposizioni appena introdotte si sarebbero applicate alle società che non avevano obblighi di cessazione dovuti alle norme precedenti, a partire dal 1 gennaio 2015. Vennero individuati diversi criteri dall’art. 611, ma erano solo criteri esemplificativi e sicuramente non tassativi ed esaustivi.

Come primo criterio si cercò di eliminare le società e le partecipazioni non indispensabili per realizzare le proprie finalità istituzionali. È chiaro l’intento rafforzativo che si voleva dare al vincolo di stretta necessità previsto dall’art. 3, comma 27, L. n.244/2007; in questo caso però la norma non si limitava alle società strumentali ma investiva una platea più vasta.

Di conseguenza come già avveniva nel c.d. “Piano Cottarelli”, gli affidamenti in house dei servizi pubblici locali potevano solo limitarsi alla gestione di quelli a rete in quanto per altri ambiti sarebbe stato difficile motivarne l’indispensabilità.59

Con “l’eliminazione” si voleva raggiungere l’obiettivo di riuscire a cancellare dal patrimonio dell’amministrazione la partecipazione detenuta, tramite i menzionati istituti della liquidazione e della cessione, ma nulla vietava che venissero utilizzati anche altri mezzi purché efficaci per raggiungere il risultato atteso. La cessione doveva avvenire nei casi in cui l’amministrazione non avesse i voti in assemblea necessari per deliberare lo scioglimento anticipato e quindi

59 G. Farneti, Il nuovo perimetro delle società partecipate secondo la legge di stabilità, Aziendaitalia, 1/2015,

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