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Il rischio di liquidità in banca

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1. IL RISCHIO DI LIQUIDITA’

1.1

LITERATURE REWIEW IN MATERIA DI LIQUDITA’

BANCARIA

Da sempre molti autori hanno cercato di offrire una definizione univoca al concetto di liquidità bancaria, cercando inoltre di delinearne le diverse tecniche di quantificazione del rischio ma soprattutto quali fossero le possibili determinanti.

Non è mai stato semplice fornire un’unica definizione di rischio di liquidità. Partendo da Bagehot1 il quale sosteneva che le banche fossero soggette ad un rischio di liquidità di finanziamento definito come “la probabilità di essere illiquidi che varia in base alla durata del periodo considerato”. Questo rischio di liquidità di finanziamento è stato poi ripreso e rivisto recentemente da Brunnermeier e Perdesen2 definendolo come “ il rischio che un intermediario deve fronteggiare richieste di liquidità future incerte derivanti dalle sue attività di business” ed hanno inoltre sottolineato che il concetto di liquidità poteva essere suddiviso in due categorie: funding liquidity risk e market liquidity risk. Hanno ancora studiato che questi ultimi, con la presenza di determinate condizioni, si possano sostenere a vicenda creando una spirale di liquidità nella quale le banche sono obbligate a diminuire il credito concesso alla clientela a causa di una diminuzione dei prezzi degli attivi. Genericamente queste ultime situazioni si rinvengono durante una crisi di liquidità; in questi casi, una riduzione del valore degli assets genera una richiesta di garanzie supplementari, ciò ingenera, a sua volta, la necessità di interrompere contratti e di cedere attività, il che aggrava ulteriormente la crisi di liquidità del mercato.

1 De Boyer Des Roches J., “Bank Liquidity Risk: from John Law(17 5) to Walter Bagehot(1873)”, History of

Economy Trought, Vol.20, No.4 (2013)

2 Brunnermeier K, Pedersen L., “Market liquidity and Funding Liquidity”, The Rewiew of Financial Studies,

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Sempre Brunnermeier3 affermò che a sua volta il funding liquidity risk si compone di tre forme:

- Rischio di finanziamento dell’haircut

- Rischio di rinnovamento (riguardo all’impossibilità di rinnovare i prestiti a breve) - Rischio di rimborso (rischio che i correntisti della banca richiedano il rimborso)

Oggi la Banca Centrale Europea parla di “Risk relates to the probability of having a realisation of a random variable different to the realisation preferred by the economic agent4” sancendone inoltre una relazione inversa con la liquidità, quindi maggiore è il rischio e maggiore sarà la probabilità di una condizione di illiquidità. Oltre ciò il Commitee of European Banking Supervisor sostiene anch’esso la presenza di una relazione tra le due componenti di rischio di liquidità, e sottolinea come questa relazione possa portare delle implicazioni che vanno oltre la singola istituzione bancaria5.

Diversi ancora sono stati anche i tentativi di delineare un’unica misura del rischio di liquidità. Il rischio di liquidità in passato è stato sempre comunemente misurato dal Liquidity ratio, che, in letteratura, è definito operativamente in due diverse direzioni. Il primo tipo di definizione considera le attività liquide rettificate per dimensione come misura del coefficiente di liquidità, dato dal rapporto tra attività liquide e totale attivo usata sia Bourke (1989) sia da Molyneux and Thornton (1992), dal rapporto tra liquidità e depositi utilizzata da Shen (2001), e disponibilità liquide alla clientela e finanziamenti a breve termine; il secondo tipo di definizione considera i prestiti adeguati per dimensione, come il rapporto prestiti / totale attivo ad esempio Huizinga (1999) e da Athanasoglou (2006)6. Quest’ultimo afferma che tuttavia il rapporto tra asset liquidi e il totale delle attività sarebbe una proxy migliore del rischio di liquidità sebbene inutilizzato nella sua ricerca causa scarsità dei relativi dati. Nel primo gruppo, un valore più alto del rapporto di liquidità indica più liquidità e quindi è meno vulnerabile al fallimento. Al contrario, nel

3 Brunnermeier M., “Deciphering the Liquidity and Credit Crunch 2007-2008”, The Journal of economic

Prospectives, Vol. 23, No. 1 (2009).

4EUROPEAN CENTRAL BANK, “Liquidity (risk)concepts definitions and interections”, Working paper

series, No 1008, febbraio 2009.

5 COMMITEE EUROPEAN BANKING SUPERVISION, “Second Part of technical advice to the European

Commision on liquidity risk management”, 17 giugno 2008.

6 Yi-Kai C., Chung-Hua S., Lanfeng K., Chuan-Yi Y., “Bank Liquidity Risk and Performance” , Rewiew of

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secondo gruppo, un valore più alto di questi rapporti implica che le banche soffriranno di un maggiore rischio di liquidità.

Tuttavia, Poorman e Blake (2005) hanno indicato che misurare la liquidità usando solo i rapporti di liquidità non è sufficiente e non è la soluzione più consona e sensibile.

Per questo quindi, oltre ai meri coefficienti di liquidità, le banche hanno sviluppato una nuova visione per la misurazione della liquidità. Ci sono stati in effetti diversi studi che vanno oltre ai passati coefficienti di liquidità, come Saunders e Cornett (2006) e De Young e Jang (2016). Saunders e Cornett (2006)7 hanno dichiarato che le banche misurano la loro esposizione al rischio di liquidità determinando il loro deficit di finanziamento. De

Young e Jang (2016)8 hanno indicato che il deficit di finanziamento è coerente con lo spirito del Net Stable Funding Ratio di Basilea III (NSFR) in cui le banche devono detenere abbastanza fondi stabili (ad es. depositi di base) per finanziare interamente le loro attività illiquide (ad es. prestiti). Il deficit di finanziamento è definito come la differenza tra i prestiti medi di una banca e i core deposit9. Se il divario finanziario è positivo, la banca deve finanziarlo utilizzando il suo denaro, la vendita di liquidità e il finanziamento di fondi nel mercato monetario. Questo deficit di finanziamento indica il fabbisogno finanziario della banca dopo la vendita delle sue attività liquide. Quando le banche concedono più prestiti con meno attività liquide e ricevono meno depositi, esse potrebbero avere maggiore esposizione al rischio di liquidità. Pertanto, questi studi affermano che questo divario è più appropriato per essere la proxy del rischio di liquidità delle banche.

Riguardo alle diverse metodologie di misurazione del rischio di liquidità, è fondamentale sottolineare come Resti e Sironi (2007)10 hanno suddiviso le misure di funding liquidity

risk in tre approcci: approccio degli stock, che mira a calcolare la cash capital position

(differenza tra attività monetizzabili e passività volatili), l’approccio dei flussi di cassa, che calcola per ogni fascia temporale il liquidity gap (differenza tra entrate ed uscite) e l’approccio ibrido che somma al liquidity gap le risorse derivabili dalla smobilizzo degli asset.

7 Saunders A., Cornett M., “Financial Istitution Management: A Risk Management Approach”,

McGraw-Hill, Boston 2006

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De Young R., Jang K., “Do banks actively manage their liquidity?”, Journal of Banking and Finance, pag. 143-161, 2016

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denaro che i clienti abituali di una banca hanno messo nei loro conti e che è disponibile per la banca.

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Riguardo alla cash capitol position Matz e Neu (2007) approfondiscono l’argomento definendola come la differenza tra il valore degli “unencumbered asset”11

e la somma tra i debiti interbancari a breve termine e la parte non considerata stabile dei depositi della clientela. Essi inoltre citano anche un’altra metodologia, la balance sheet liquidity analysis, che mette in relazione le poste dell’attivo e del passivo in base al loro grado di liquidità e precisano che le valutazioni di tipo qualitativo non devono essere messe in secondo piano rispetto agli approcci quantitativi in quanto hanno pari dignità e funzionalità alla misurazione del rischio di liquidità.

Sempre Saunders e Cornet (2009) ripresero l’argomento della misurazione del rischio di liquiidtà ed individuarono ben 5 misure diverse di rischio di liquidità tra cui: usi e fonti di liquidità (mettendo in luce il fabbisogno di liquidità), peer group ratio comparisons (un confronto tra ratio significativi di banche con caratteristiche giuridiche, dimensionali ed economiche simili), liquidity index (perdite potenziali risultanti dalla dismissione di asset sul mercato), financing gap (la differenza tra prestiti erogati e depositi) e infine la maturity

ladder (il calcolo dei flussi di cassa in corrispondenza di diversi scenari possibili, utilizzati

all’interno dell’approccio dei flussi per il calcolo del funding liquidity risk)12

, proposta già nel 2000 dal Comitato di Basilea.

Oltre agli innumerevoli contributi letterari sulla misurazione dell’esposizione al rischio di liquidità , ve ne sono stati altri che mirano a studiare e quantificare tale rischio da un punto di vista sistemico. Brunnermeier (2012) ha sviluppato una misura di liquidità teorica valida sia per quantificare il rischio di liquidità specifico sia quello insito nell’intero sistema tramite un modello che mira a creare un indice di liquidità per ognuno degli stati che si possono verificare al tempo t+1 e uno totale indicativo per il momento iniziale in cui l’impresa sceglie le componenti dell’attivo e passivo e decide di assumere dei rischi13

. Infine Andrievskaya (2012) tra gli altri, valorizza il rischio di liquidità in termini sistemici come una misura di probabilità che esprime la distanza tra una soglia critica di liquidità stabilita ed il surplus totale della stessa presente nel sistema economico.

11 Si fa riferimento alle attività non vincolate

12 Saunders A., Cornet M., “Financial market and istitutions”, Mc Graw-Hill International editions, 2009. 13Brunnermeir R., Krishnamurthy A., Gorton G., “Liquidity mismatch measurement”, Systemic Risk and

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Altro argomento importante che è stato ed è tutt’oggi affrontato sono i possibili fattori che possono impattare sul rischio di liquidità.

Secondo diversi studi possiamo avere due tipologie di fattori14:

o Fattori idiosincratici: come redditività, dimensione, capitalizzazione ed efficienza o Fattori aggregati: come Pil, tasso di inflazione, tasso di interesse e disoccupazione Molteplici sono gli studi riguardo all’impatto della prima tipologia di fattori:

1. Sulla redditività sono stati fatti diversi studi a partire da Sainderberg e Strahan (1996) fino ad arrivare a PoghoSyan (2011), i quali affermavano tutti la presenza di una relazione negativa tra la redditività e il rischio di liquidità.

2. Sulla dimensione ci sono diversi filoni con idee opposte; la prima a sostegno di una relazione diretta tra la dimensione e l’assunzione dei rischi che viene delineata da

Heimeshoff (2009) e successivamente da De Jonghe (2010) i quali sostenevano

come una banca più grande fosse più propensa all’assunzione al rischio, mentre

Prescott (1986) e Saurina (2002) sostenevano che ci fosse una relazione contraria

tra la grandezza dell’intermediario e il rischio di liquidità.

3. Sulla capitalizzazione anche in questo caso troviamo filoni di studi discordi: Keeley (1989) e Furlong (1990) hanno concluso che l’aumentare degli standard di capitale riducono la propensione al rischio, Pyle (1991) dimostrò inoltre come un aumento del capitale della banca poteva ridurre la probabilità di default; diversamente

Blum(1999) enunciò la relazione inversa tra il rischio di liquidità e l’aumento di

capitale, mentre Calem e Rob (1999) sottolinearono come la relazione tra il capitale e il rischio sia rappresentata da un grafico ad U-Shape.

4. Riguardo infine all’efficienza tutti gli studi fatti affermano la presenza di una relazione negativa tra questo tipo di fattore ed il rischio di liquidità; come ad esempio Mayes (2009) ed Williams (2004).

Molti studi inoltre affermano che ci sia una forte interdipendenza anche tra il settore economico e il settore bancario:

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1. Riguardo al tasso di inflazione tutti gli studi concordano sulla presenza di una relazione positiva; Jancar (2005) ed Heimeshoff (2009) affermano che il cambiamento del tasso di inflazione è sempre preceduto da una generica fragilità economica.

2. La disoccupazione anch’essa viene vista in una relazione positiva con il rischio di liquidità. Per esempio Bofondi e Ropele (2011) affermarono che l’aumentare della disoccupazione aveva dei forti effetti sulla qualità del portafoglio crediti sulla base di uno studio concluso su un campione di banche italiane nel periodo dal 1990-2010.

3. Il tasso di interesse invece viene messo in relazione opposta al rischio di liquidità; come affermato da Zucchini e Soresen (2005) un aumento del tasso di interesse porta ad una maggiore quantità di riserve di liquidità.

4. In ultimo il Pil : la maggior parte degli studi affermano che l’aumento del Pil sia associato ad una più stabile situazione macro economica. Il ciclo economico catturato dall'evoluzione della crescita del PIL ha un'influenza significativa sul capitale e sul rapporto tra liquidità e riserve totali. Viene quindi sottolineata la presenza di una relazione negativa della crescita economica e la presenza del rischio di liquidità all’interno degli intermediari bancari.

Le indagini empiriche sul rischio di liquidità fino a qui menzionate sono relativamente scarse messe a confronto con la grande quantità di discussioni per esempio riguardo al rischio di credito.

1. Alla luce però dei recenti avvenimenti e della crisi che hanno messo in moto un significativo e doloroso processo di riforma che ha cambiato completamente le regole del gioco all’interno del sistema finanziario, gli studi si sono intensificati. Con lo scoppio della crisi, notiamo un notevole e forte interesse riguardo alla liquidità bancaria da parte dei regulators ed affianco a questi troviamo anche una copiosa produzione scientifica focalizzata principalmente su15:

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- Individuazione delle diverse dimensioni del problema della liquidità (distinzione tra funding liquidity risk e market liquidity risk) e dei corrispondenti event-risk;

- Misurazione di queste diverse tipologie sia in scenari di normale operatività sia in caso di shock estremi;

- Svariati tentativi di incorporare il framework del modello del Var all’interno della misurazione del rischio di liquidità.

In questo periodo sono innumerevoli i contributi che cercano inoltre di trovare una correlazione tra il tema della liquidità, la crisi finanziaria dei subprime e la regolamentazione finanziaria. In tale prospettiva si può affermare che negli ultimi anni si è aperta una nuova fase del processo evolutivo della dottrina sul rischio di liquidità.

Tra i contributi di questa recentissima fase ricordiamo i filoni che esaminano gli impatti della politica monetaria delle banche centrali sulla liquidità delle banche; altri contributi si sono occupati di alcuni strumenti operativi che servono per monitorare ex post il rischio di liquidità come il contingency funding plan e il liquidity stress testing16.

Alla luce delle considerazioni emerse dall’analisi della letteratura e degli eventi che hanno accompagnato la sua evoluzione, è fondamentale sottolineare che la liquidità non può essere considerato come un argomento “nuovo”, in quanto è un tema “classico” della teoria economica e della teoria aziendalistica; tuttavia non si tratta nemmeno di un tema “vecchio” dato che nel corso del tempo è stato approfondito ed arricchito in parallelo con il ruolo importante che la finanza ha assunto all’interno degli intermediari bancari e dell’evoluzione dei mercati.

Si è arrivati quindi a capire e a riconoscere la multidimensionalità del rischio di liquidità, proponendo tecniche per la misurazione delle diverse dimensioni, tentando di sottoporre la misurazione di questo rischio a tecniche già utilizzate (Var) per il rischio di credito ed il rischio di mercato ed inoltre si è cercato di dargli dignità creando un processo autonomo nella realtà operativa ed organizzativa con l’inserimento del Liquidity Risk Management

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16La Ganga P., Trevisan G., “ il Rischio di Liquidità dopo la crisi: verso nuove regole e nuovi modelli

gestionali”, Bancaria n.6 2010.

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1.2 Rischio di liquidità: tratti generali

La liquidità è un aspetto fondamentale dell’equilibrio gestionale della banca, in quanto essa, in ogni momento, deve essere in grado di far fronte agli impegni di pagamento in moneta legale, in maniera tempestiva ed economica, oltre che operare nel pieno rispetto delle condizioni di equilibrio gestionale, assicurandosi stabilità e continuità di funzionamento nel tempo. L’equilibrio di gestione di un’impresa, e quindi anche della banca, è riconducibile a vari equilibri, fisiologicamente interdipendenti tra di loro (Figura 1)18.

Figura 1

Fonte: Forestieri G., Mottura P., “Il sistema finanziario”, Egea, Milano 2009.

L’“equilibrio finanziario” attiene alla capacità della gestione bancaria di mantenere con sufficiente continuità, su un orizzonte temporale esteso, l’equilibrio tra flussi di cassa in entrata e flussi di cassa in uscita. Inoltre, tale equilibrio fa riferimento alla capacità della banca di tenere sotto controllo la corrispondenza tra quantità attive e passive di bilancio e di realizzare un’adeguata trasformazione delle scadenze. Va detto che l’equilibrio finanziario si fonda innanzitutto sull’“equilibrio monetario” (o di tesoreria) della gestione, in quanto condizione dinamica di stabilità del flusso monetario netto complessivamente generato dai flussi di cassa, in entrata e in uscita, su orizzonti temporali piuttosto brevi.

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Per un intermediario bancario il rispetto dell’equilibrio monetario è fondamentale, perché la fiducia nella moneta bancaria, alla base del funzionamento delle moderne economie e dell’esistenza stessa delle banche, dipende loro capacità di onorare tempestivamente e in maniera economica gli impegni assunti. D’ora in poi quando si parlerà di equilibrio finanziario si prenderà come riferimento una definizione più estesa, comprensiva dunque dell’equilibrio monetario.

Poiché la gestione finanziaria della banca va ricondotta alla gestione aziendale nel suo complesso, allora appare chiaro sottolineare che l’equilibrio finanziario deve essere perseguito nel rispetto di altri equilibri gestionali: equilibrio patrimoniale ed equilibrio economico.

L’“equilibrio patrimoniale” identifica la capacità della banca di mantenere, con continuità, un patrimonio netto positivo e adeguatamente dimensionato rispetto alla propria rischiosità. L’“equilibrio economico” fa riferimento alla capacità dell’intermediario di raggiungere risultati, in termini economici, tali da garantire la stabilità e lo sviluppo della propria gestione.

In definitiva, la situazione di equilibrio finanziario, che determina la condizione di liquidità, come detto, è strettamente interconnessa alle condizioni di equilibrio economico e patrimoniale mediante relazioni reciproche che, pur essendo comuni a qualsiasi impresa, assumono nella banca una particolare rilevanza, per via della specificità dell’attività svolta. Quello che a noi preme descrivere è la liquidità bancaria, e per farlo è giusto partire dal perseguimento della condizione di solvibilità. Quest’ultima rappresenta la capacità di un intermediario bancario di assicurare ai depositanti, ad ogni data futura, il rimborso dei debiti nei modi e nei tempi contrattualmente definiti. La capacità di rimborso dei debiti è alla base sia del concetto di liquidità sia di quello di solvibilità; ma mentre la solvibilità è definita dall’idoneità del valore atteso dell’attivo a coprire il passivo, la liquidità, come già detto, esprime la capacità di fronteggiare le richieste di pagamento, in modo rapido ed economico, in moneta legale e di assicurare la convertibilità dei propri debiti.

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La Banca Centrale definisce la liquidità come “la capacità di una banca di finanziare aumenti delle attività e di adempiere alle obbligazioni alla scadenza, senza incorrere in perdite inaccettabili”19

.

Nello svolgimento della funzione creditizia le banche realizzano una trasformazione delle scadenze che le porta ad avere una scadenza media dell’attivo superiore a quelle del passivo. I limiti legati a questa attività sono rappresentati dalla disponibilità di moneta legale da destinare all’adempimento del vincolo di riserva obbligatoria20

e dal rimborso delle attività richieste dai depositanti.

La natura di questa attività è legata ad una sistematica trasformazione delle scadenze caratterizzate dalla negoziazione di operazioni con durata prefissata, ma soprattutto, da passività a vista o a scadenza indeterminata i cui termini effettivi vengono determinati dalla clientela.

Si viene cosi a delineare un’asincronia fra scadenze nominali e quelle effettive che è alla base dell’incertezza temporale dei movimenti in entrata ed in uscita, e quindi del problema della liquidità bancaria.

La tipica funzione di trasformazione delle scadenze, per sua natura intrinseca, è all’origine di uno squilibrio finanziario ineliminabile.

Lo squilibrio finanziario può essere ricondotto anche alle diverse scelte di gestione messe in atto dalle singole banche: come ad esempio l’ammontare ed il segno della posizione netta sul mercato interbancario oppure gli investimenti in attività finanziarie con scadenze diverse.

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Arora A., Koholi H., “Liquidity risk and Asset liability management: a comparative study of public and

private sector banks”, The IUP Journal of Applied Finance, Vol.24, No.4 (2018).

20 Le riserve bancarie di liquidità rappresentano un fondamentale strumento operativo a disposizione della

funzione di tesoreria; esse sono sostanzialmente “scorte di attività finanziarie”, ossia attività liquide e/o prontamente liquidabili, utili a garantire alla banca il mantenimento di ordinate condizioni di equilibrio dei flussi e la sistemazione degli scompensi giornalieri. In relazione alle funzioni svolte e alla motivazioni che portano alla loro formazione è possibile distinguere tra: “riserve vincolate o obbligatorie”; e “riserve libere”. Le “riserve vincolate” sono dei depositi in contanti costituiti dalle banche in adempimento a prescrizioni legislative e/o regolamentari. Oggi la principale riserva di questo tipo è riconducibile alla cd. “riserva obbligatoria”, che si sostanzia nell’obbligo da parte di una banca di detenere presso la Banca centrale un deposito in denaro contante, parametrato generalmente alla variazione di alcune voci di bilancio su un certo arco temporale.

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Soltanto in un caso la banca può non avere questo problema dello squilibrio finanziario e cioè se gestisse passività ed attività collegando singole operazioni di raccolta a specifiche operazioni di impiego.

In verità quest’ultima situazione è quasi paradossale, e le ragioni sono due ed entrambe riguardano la banca vista nella sua dimensione di impresa:

- Il sostenimento e la liquidazione dei costi operativi di struttura della banca comportano uscite monetarie. A meno di non disporre di correlate entrate finanziarie che offrano una perfetta sincronizzazione per scadenze e ammontare, la banca ha comunque uno squilibrio finanziario da gestire.

- La seconda ragione attiene ai rapporti tra redditività e disponibilità di mezzi finanziari che è propria dell’economia delle imprese, e quindi anche delle banche: la semplice registrazione di un risultato economico comporta sia a fine periodo che nel continuo, riflessi sui mezzi finanziari della banca. Nasce cosi uno squilibrio finanziario, un problema di gestione della liquidità che da luogo ad un investimento o ad una copertura finanziaria.

Lo squilibrio finanziario della banca è dunque21:

1. Ineludibile, perché assolve ad una funzione fondamentale all’interno del sistema finanziario, e cioè la funzione di trasformazione delle scadenze.

2. Intrinsecamente perseguito nella misura in cui è manifestazione finanziaria del conseguimento di risultati economici positivi.

Il problema di fondo della banca non è quindi trovarsi davanti ad una situazione di squilibrio finanziario, perché esso viene ritenuto pressoché la normalità, ma bensì essere in grado di controllare e gestire questo squilibrio.

Difatti attraverso la gestione della liquidità il management bancario delinea i confini e i criteri gestionali delle componenti discrezionali dell’attivo, del passivo e delle poste fuori bilancio nel medio-lungo termine e il margine di manovra degli interventi da compiersi nel breve e brevissimo tempo.

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I processi di gestione della liquidità variano in funzione della dimensione della banca, del tipo di attività prevalente, dal grado di internalizzazione e della relativa complessità organizzativa.

In tutti i casi però i processi prevedono di misurare e controllare disgiuntamente:

- La gestione della “liquidità strutturale” o di “medio-lungo termine”, finalizzata a modificare in maniera economica la composizione quali-quantitativa dell’attivo e del passivo di bilancio agendo sulla dinamica prospettica delle singole voci e sulla struttura finanziaria della banca e del suo grado di liquidità strutturale nel tempo; - La gestione della “liquidità operativa” o di “breve termine”, nota anche come

tesoreria, è diretta al riequilibrio continuo ed istantaneo, in ottica di economicità, della dinamica monetaria, assicurando in ogni istante il puntuale equilibrio di cassa.

In particolare l’obbiettivo fondamentale della gestione della liquidità strutturale è il mantenimento, nel medio-lungo periodo, di un’adeguata corrispondenza fra entrate ed uscite monetarie sui vari orizzonti temporali di riferimento. È evidente che questa capacità diviene tanto più impegnativa quanto maggiore e più marcata è l’attività di trasformazione delle scadenze attuate dalla banca. Inoltre, è compito della gestione della liquidità strutturale assicurare in ogni istante una corrispondenza tra i flussi in entrata ed in uscita, coordinare l’emissione da parte della banca di strumenti di finanziamento a breve, media e lunga scadenza ed ottimizzare il costo del rifinanziamento.

La gestione della tesoreria deve invece assicurare la capacità della banca di far fronte nell’immediato a qualsiasi impegno di pagamento, previsto ed imprevisto, emergente da contratti che pogano la banca nella condizione di dover eseguire una prestazione monetaria.

I collegamenti tra la gestione della tesoreria e gestione della liquidità, negli ultimi anni, hanno assunto connotati di maggiore ampiezza, profondità e dinamicità in seguito all’evoluzione dei vari segmenti del mercato monetario e finanziario (si pensi, ad esempio, al segmento e-MID20 e al MIC21) e all’importanza delle operazioni poste in essere dalle Banche centrali nell’ambito della gestione operativa della politica monetaria.

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È scontato capire come una buona gestione della liquidità sia quindi fondamentale per la banca in modo tale da manovrare al meglio lo squilibrio finanziario; il quale rimanda in modo particolare al rischio di liquidità.

Il rischio di liquidità è definito come “la potenziale incapacità di una banca di onorare i propri obblighi come e quando diventano esigibili” (Sunder, 2014)22

.

Questo è un rischio tipico delle banche, sia che esse operino con un modello di business tradizionale sia che operino con modelli innovativi; rispetto al modello primario di banca tradizionale, noto come modello di Originate to Hold e caratterizzato da un funding prevalentemente da clientela e prestiti tenuti in portafoglio fino a scadenza, il modello di attività bancaria che innova è denominato Originate to Distribute (OTD) ed è caratterizzato da crediti emessi alla clientela ma non detenuti fino alla scadenza ed inoltre la maggior parte di questi crediti vengono cartolarizzati e ceduti ad altri intermediari. Nelle banche “innovative” i ricavi non scaturiscono più da interessi sui prestiti in essere ma da commissioni su prestiti originati e distribuiti; inoltre il funding non proviene più dalla raccolta da clientela ma in modo prevalente da cessione di attivi.

È importante, inoltre, sottolineare il carattere multidimensionale del rischio di liquidità; esso viene declinato, di norma, secondo linee di analisi che tendono a distinguere tre prospettive23 (Figura 2):

 Le origini dello squilibrio finanziario e del rischio di liquidità;

 Le condizioni in cui questo rischio viene gestito;

 Le modalità di gestione del rischio e l’area di impatto;

22 Arora A., Koholi H., “Liquidity risk and Asset liability management: a comparative study of public and

private sector banks”, The IUP Journal of Applied Finance, Vol.24, No.4 (2018).

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Figura 2

FONTE: Tutino F., “La gestione della liquidità in banca”, pag.57, Bologna 2012

Nella prima fase di analisi un peso importante lo occupano le scelte fatte da controparti che possono esercitare opzioni operative nei confronti della banca in modo tale da incidere sui deflussi accrescendoli. Genericamente queste opzioni trattano di scelte fatte in passato dalla banca riguardo alla composizione di attività e di passività.

Quindi se il rischio di liquidità trae origine da scelte aziendali, e quindi da elementi interni, si fa riferimento al corporate liquidity risk.

Ovviamente c’è la possibilità che il rischio di liquidità non dipenda da fattori interni all’intermediario bancario, bensì da fattori esterni o di carattere sistemico; si può fare ad esempio riferimento ad una possibile crisi di fiducia verso le banche che porta ad una conseguente “corsa agli sportelli” (come avvenuto per la Northen Rock durante la crisi del 2007), oppure situazioni di mercato che si riflettono negativamente sulla liquidità complessiva e sui volumi in circolazione. Nei casi appena descritti il rischio di liquidità viene qualificato come systemic liquidity risk.

Riguardo invece alla seconda linea di analisi si fa riferimento al fatto che il rischio di liquidità, a seconda di come viene gestito, può assumere dimensioni e problematicità diverse. Possiamo distinguere tra24:

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- Going concern liquidity risk - Contingency liquidity risk

Il primo rappresenta il rischio che caratterizza l’attività bancaria nel corso della sua attività tipica e corrente ed è connesso a situazioni in cui l’intermediario bancario non è in grado di far fronte al proprio fabbisogno di liquidità utilizzando la propria capacità di funding. In uno scenario di operatività normale, la gestione della liquidità e la corretta misurazione dei rischi ad essa collegati presuppongono di simulare l’evoluzione delle entrate e delle uscite monetarie, adottando le ipotesi più neutrali possibili in merito all’evoluzione delle grandezze aziendali.

Nel secondo caso, il rischio viene affrontato in condizioni di scenari di crisi. Poiché tali situazioni di crisi non sono affrontabili attraverso la normale capacità di funding della banca, allora si rende necessario far ricorso a misure straordinarie formalizzate ex ante attraverso la stesura di un apposito piano di emergenza o Contingency Funding Plan (CFP)25. Tale documento, formalizza la strategia di intervento, classifica le possibili tipologie di tensione di liquidità, individuandone la natura specifica o sistemica e le poste di bilancio maggiormente interessate, identifica le azioni di emergenza da parte del management bancario e contiene le stime di back-up liquidity a disposizione della banca per fronteggiare possibili crisi di liquidità. È evidente che, in quest’ultimo caso, la gestione del rischio di liquidità è più complessa e, inoltre, sono più rilevanti i suoi potenziali effetti negativi. Basti pensare, ad esempio, con quanta intensità possa esprimersi il market liquidty risk in condizioni di crisi generalizzata dei mercati finanziari rispetto alla presenza di condizioni di normalità. Analoghe considerazione possono essere fatte per il funding liquidty risk in condizioni di normale gestione dell’attività corrente o in condizioni di crisi.

Infine possiamo soffermarci sulla possibile area di impatto del rischio di liquidità; in questo caso lo possiamo vedere distinto in due tipologie:

- Funding liquidity risk - Market liquidity risk

25 La Ganga P., Trevisan G., “Il rischio di liquidità dopo la crisi: verso nuove regole e nuovi modelli

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Il funding liquidity risk rappresenta sostanzialmente il rischio che la banca non sia in grado di far fronte puntualmente e in maniera efficiente ai deflussi di cassa attesi e inattesi, legati al rimborso di passività, al rispetto di impegni a erogare fondi o alla richiesta, da parte dei suoi creditori, di incrementare le garanzie fornite a fronte di finanziamenti ricevuti, senza che vengano compromessi l’operatività ordinaria e l’equilibrio finanziario. Si tratta di un rischio legato alla struttura finanziaria dell’intermediario bancario, in quanto essa potrebbe non essere adeguata agli impegni finanziari attesi e inattesi della gestione. Il funding liquidity risk, pertanto, viene anche denominato rischio di cash flow atteso e inatteso, diventando rilevante quando i saldi negativi di tesoreria da gestire e i necessari interventi di riequilibrio della struttura finanziaria si combinano con l’incapacità della banca di mantenere in modo efficiente l’equilibrio finanziario, senza compromettere gli altri equilibri gestionali (reddituale e patrimoniale).

Il market liquidity risk è, invece, il rischio che una banca, al fine di monetizzare una consistente posizione in attività finanziarie, finisca per influenzarne in misura significativa al ribasso il prezzo, a causa dell’insufficiente profondità del mercato finanziario in cui tali attività sono scambiate o per via di un temporaneo malfunzionamento del medesimo. Il market liquidity risk è molto importante per gli intermediari bancari anche in relazione alla rilevante quota di strumenti non liquidi presenti nel loro bilancio. In riferimento alla banca, va detto che tale forma di rischio di liquidità può assumere natura “esogena”, quando dipende dalle caratteristiche generali del mercato e, quindi, è apparentemente al di fuori del controllo dell’intermediario oppure “endogena”, quando attiene alle caratteristiche della banca e/o alla particolare composizione e dimensione del proprio portafoglio di assets. Il rischio di liquidità si connota come market liquidity risk allorquando scaturisce da attività cedute sul mercato per dare copertura finanziaria al saldo di tesoreria e/o per riequilibrare la struttura finanziaria26. Esso è legato alla possibilità di conseguire un flusso di cassa in entrata inferiore rispetto alle attese, con un tempo richiesto per l’effettiva liquidazione degli attivi che può estendersi notevolmente.

Anche se sul piano logico le due fattispecie di rischio sono ben distinte, tuttavia esse presentano una visibile correlazione. Infatti, l’impellente necessità di coprire i deflussi di

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cassa inattesi potrebbe costringere la banca a convertire in denaro posizioni più o meno consistenti su attività finanziarie. Se per fare ciò la banca deve accettare una significativa decurtazione del prezzo di dismissione, allora il danno causato dal rischio di liquidità sarà evidentemente più marcato27.

Inoltre in effetti, le recenti trasformazioni che hanno riguardato il sistema bancario internazionale hanno reso più labile la distinzione tra queste due accezioni di rischio. Il passaggio da un modello di business bancario, Originate To-Hold (OTH), ad un nuovo modello, denominato Originate-To-Distribute (OTD), ha aumentato le soluzione tecniche per la gestione del rischio di liquidità, permettendo la conversione in denaro di poste in precedenza illiquide e non smobilizzabili.

Al tempo stesso, però, tali cambiamenti hanno esposto maggiormente le banche a contingenti situazioni avverse dei mercati che non rendono più liquidabile ciò che in precedenza poteva essere trasferito ad appositi veicoli, incorporato in strumenti finanziari e ceduto a terzi sul mercato.

Alla luce di questo appare evidente la stretta interrelazione fra le due nozioni di rischio di liquidità sopra descritte.

Nonostante queste considerazioni si è potuto notare durante il tempo che ci sono numerosi fattori che rendono particolarmente più acuto il rischio di liquidità. Si può fare riferimento per esempio ad una innovazione dei prodotti; tra questi risultano particolarmente più critici quelli che lasciano alle controparti un elevato grado di discrezionalità nel determinare i flussi di cassa futuri.

Si consideri a tal proposito le passività a vista che rimangono in essere per anni eppure possono essere ritirate senza preavviso. Un’altra tipologia di prodotto che, sotto il profilo dell’innovazione, occupa una particolare importanza sono i derivati; essi richiedono alla banca di versare margini di garanzia che possono assumere una dinamica inattesa. La proliferazione degli strumenti derivati e il loro impiego in termini di strutturazione di nuovi

27 Cfr. European Central Bank (2007), dove è esplicitato il forte legame tra liquidità bancaria e liquidità del

mercato: “A fire sale of assets can lead to severe market turmoil, if a sizeable amount of assets needs to be sold to overcome a liquidity shortage and market demand is not perfectly elastic. This links the liquidity of individual institutions to market liquidity”.

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prodotti di investimento, hanno esposto la banca a rischi di maggiore intensità, tra cui proprio il rischio di liquidità.

Sostanzialmente i fattori suscettibili di amplificare il rischio di liquidità possono essere suddivisi in due tipologie:

- Fattori individuali (specifici della singola banca): si fa riferimento ad eventi che, indebolendo la fiducia del pubblico e degli operatori di una banca, inducono questi soggetti ad accelerare il recupero dei crediti concessi all’intermediario bancario. Si pensi ad esempio alla possibilità in cui ci sia la revisione negativa da parte di un’agenzia di rating del voto assegnato alla banca.

- Fattori sistemici: si tratta di eventi che non dipendono dalla singola banca e possono includere ad esempio, crisi generalizzate di fiducia che inducono i depositanti di un certo paese a richiedere al sistema bancario locale il rimborso di un elevato ammontare di depositi; oppure si può fare riferimento ad una possibile crisi dei mercati che portino ad una temporanea inattività rendendo impossibile l’immediata liquidazione delle attività finanziarie quotate; oppure si può trattare di catastrofi naturali o eventi terroristici.

In ultima analisi risulta fondamentale sottolineare come il rischio di liquidità presenta evidenti relazioni con gli altri rischi tipici dell’attività bancaria, finanziari e non (ad esempio con il rischio di credito, di mercato, di tasso di interesse operativo, strategico e reputazionale) e con quelli esistenti tra le sue varie dimensioni (ad esempio tra il corporate liquidity risk e il sistemic liquidity risk; tra il going concern liquidity risk e il contigency liquidity risk; tra il funding liquidity risk e il market liquidity risk).

Interrelazioni e aree di sovrapposizione tra i diversi profili di rischio, generati dall’operatività finanziaria, hanno reso, inoltre, più labili i confini tra questi: tensioni nella liquidità interagiscono con altri rischi a volte amplificandone le conseguenze e dando luogo a fenomeni a spirale (liquidity spiral) la cui intensità è strettamente connessa a innumerevoli fattori, non ultima la tempistica del piano di smobilizzo delle attività previsto

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a copertura di esigenze di funding addizionale che possono manifestarsi in condizioni di stress28.

Gli impatti del rischio di credito sul rischio di liquidità provengono, in maniera immediata, dal venire meno di flussi finanziari positivi attesi dai rimborsi di crediti a causa di insolvenze e/o del downgrading della propria clientela. Ad esempio, un aumento delle probabilità di default, che riduce gli incassi programmati, può dar luogo a un maggiore fabbisogno finanziario a causa della necessità di reperimento del funding per il finanziamento delle poste attive.

Gli effetti dei rischi di mercato29 sul rischio di liquidità si esprimono nella dimensione del market liquidity risk. Il rischio di mercato produce variazioni nel valore del portafoglio di titoli collateralizzabili e nel valore di smobilizzo degli assets detenuti. Infatti, negative condizioni dei fattori di mercato si riflettono sui prezzi delle attività finanziarie e portano a soluzioni più onerose del rischio di liquidità.

In riferimento al rischio di tasso di interesse30, va detto che le variazioni del tasso di interesse impattano direttamente sul valore della maggior parte delle poste attive e passive di una banca e, quindi, sulle connesse entrate e uscite monetarie, incidendo sulla posizione di liquidità dell’intermediario bancario.

Il rischio di reputazione produce effetti sulla banca e sulla sua attività e le interrelazioni con il rischio di liquidità sono evidenti e facilmente individuabili. Un downgrading della banca, o una percezione negativa della sua immagine sul mercato, può indurre sfiducia nei depositanti e, quindi, provocare il fenomeno del bank runs (“corsa agli sportelli”). Il peggioramento della reputazione dell’intermediario bancario, pertanto, rende meno facile la gestione del rischio di liquidità, traducendosi negativamente, tra l’altro, in condizioni più onerose di accesso al credito. Ad esempio, dunque, potrebbe rendere meno agevole l’accesso al mercato interbancario in veste di prenditore di fondi. Al tempo stesso, persistenti difficoltà di gestione del rischio di liquidità hanno riflessi negativi sul rischio di reputazione.

28 La Ganga P., Trevisan G., “Il rischio di liquidità dopo la crisi: verso nuove regole e nuovi modelli

gestionali”, Bancaria n.6/2010

29 Per una rassegna letteraria sul tema del rischio di tasso di mercato si veda la parte bibliografica di Resti A.,

Sironi A., “Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione e gestione”, 2005

30 Per una rassegna letteraria sul tema del rischio di tasso di interesse si veda la parte bibliografica di Resti

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In merito infine al rischio operativo, si precisa che i numerosi operational event risks possono essere causa di uscite improvvise di casse con sicuri impatti sul rischio di liquidità.

1.3 FUNDING LIQUIDITY RISK

La configurazione di rischio di liquidità più studiata nel settore finanziario è quella del funding liquidity risk. Esso ha un carattere idiosincratico e può quindi innescare molto velocemente reazioni da parte delle controparti di mercato che possono chiedere in contropartita una remunerazione maggiore.

Il Funding Liquidity Risk, come già detto, è il rischio che un intermediario bancario non riesca a far fronte in modo efficiente a deflussi di cassa, attesi o inattesi, senza mettere a repentaglio la propria operatività e il proprio equilibrio finanziario.

La misurazione di questa tipologia di rischio di liquidità viene di solito effettuata in un’ottica operativa (breve periodo) e in un’ottica strutturale ( medio lungo periodo)31

. Gli schemi utilizzati dalle banche hanno come obbiettivo quello di individuare delle possibili tensioni di liquidità e di verificare il mantenimento dell’esposizione al rischio in scenari sia di normale operatività che di stress. Queste due rappresentazioni non sono alternative ma devono integrarsi reciprocamente.

Nell’ottica operativa si analizza quindi il rischio che la banca non riesca a far fronte ai flussi di cassa in uscita generati nel breve periodo, derivante per esempio da una tensione di liquidità improvvisa determinata da eventi critici interni o esterni. Mentre nell’ottica strutturale si cerca di assicurare la gestione ottimale della trasformazione delle scadenze tra raccolta ed impieghi, tramite un adeguato bilanciamento delle scadenze di attività e passività, cosi facendo si cerca di prevenire possibili future situazioni di crisi di liquidità. Si può affermare inoltre che nel primo caso la quantificazione è cash oriented; mentre nell’ottica strutturale, il rischio può essere opportunamente coperto con il capitale.

31 “La misurazione del rischio di liquidità in banca”, pag 181, La Ganga P., in Tutino F., “ La gestione della

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Nel caso del funding liquidity risk non si sono ancora affermate delle metodologie robuste e condivise di gestione e difatti la materia è affrontata in modo piuttosto diversificato nei vari paesi. Secondo European Central Bank (2007), le metodologie utilizzate dalle banche per misurare questa tipologia di rischio sono riconducibili a tre gruppi32 (Figura 3):

- Lo Stock Based Approach, il quale misura lo stock di attività prontamente monetizzabili a disposizione dell’intermediario bancario per far fronte a una eventuale crisi di liquidità.

- Il Cash-Flow Approach, che confronta i flussi di cassa in entrata ed in uscita attesi dalla banca, raggruppandoli in categorie con scadenze omogenee, verificando che i primi siano sufficienti a coprire i secondi.

- L’Hybrid Approach rappresenta un mix tra i due approcci precedenti, dato che ai flussi di cassa vengono sommati i flussi di cassa che potrebbero essere ottenuti attraverso la vendita delle attività finanziarie prontamente monetizzabili.

Genericamente, nell’applicare tali metodologie non si considerano i veri flussi di cassa contrattuali, ma quelli effettivi che possono coincidere o meno con la scadenza nominale delle attività e delle passività. Questi flussi sono corretti per tenere conto del probabile comportamento delle controparti e della necessità della banca di non compromettere le proprie relazioni di affari.

Figura 3.

FONTE: Panetta I., Porretta P., “Il rischio di liquidità: regolamentazione e best practices”, pag. 67 in Bancaria n.3/2009

32 “Il rischio di liquidità”, pag. 233, Anolli M. e Resti A., in “ Il Secondo Pilastro di Basilea e la sfida del

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Oltre a questi approcci, è presente un’ulteriore metodologia che merita di essere descritta la quale prende il nome di Liquidity at Risk (LaR); data la sua elevata complessità di

applicazione, viene utilizzata solo da banche “evolute”.

1.3.1 Approccio per stock

L’approccio è riconducibile alla gap analysis, poiché consiste nella suddivisione delle poste attive di bilancio dalle più liquide a quelle illiquide e le poste passive in variabili e stabili. La contrapposizione tra poste attive e passive della stessa categoria dà quindi luogo al liquidity gap, che misura, anche se non in modo preciso, l’esposizione della banca al rischio di liquidità qualora assuma valori inferiori a zero. Sostanzialmente il bilancio è quindi riclassificato secondo una logica della liquidità/esigibilità delle poste patrimoniali, in modo da far emergere il contributo delle stesse alla creazione e alla copertura del rischio in oggetto. In altri termini, questa metodologia consente di quantificare la vulnerabilità della banca al rischio di liquidità mediante semplici indicatori basati su grandezze stock patrimoniali, costituiti da rapporti e/o differenziali tra attività e passività.

Gli intermediari bancari fanno sempre più frequentemente ricorso ad indicatori di liquidità di tipo stock-based per la valutazione dell’esposizione al rischio di liquidità. L’utilizzo di queste misure risulta essere un ausilio per minimizzare i rischi derivanti dal grado di trasformazione delle scadenze e l’eccessiva concentrazione temporale, geografica e valutaria di impieghi e fonti di finanziamento.

Tra i principali indicatori ritroviamo33: - Il Loan To Deposit Ratio (LTD) - Lo Structural Liquidity Ratio (SRL) - La Cash Capital Position (CCP)

33 P. Porretta, “La liquidità della banca: equilibri gestionali, politiche e strumenti operativi”, in F. Tutino (a

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Il LTD è un indicatore di struttura finanziaria che misura il rapporto quantitativo fra le componenti tipiche del bilancio bancario, e cioè i prestiti erogati alla clientela e i depositi costituiti dalla clientela.

𝐿𝑇𝐷 =𝑖𝑚𝑝𝑖𝑒𝑔ℎ𝑖 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑐𝑙𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖 𝑣𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑐𝑙𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖

Tale indice fornisce una prima indicazione sul grado di liquidità della banca. L’informazione fornita è:

 Parziale, perché la struttura finanziaria della banca comprende anche altre voci da cui trae origine il rischio di liquidità, che in questo non vengono considerate.

 Sommaria, dato che gli andamenti della liquidità e il rischio associato non dipendono solo dalla struttura finanziaria della banca fissata ad una certa data. Il LTD presenta però anche un vantaggio, la semplicità, che è tipica degli indici di bilancio, in quanto facile da costruire e da interpretare. Può essere ricavato facilmente dai dati di bilancio di una banca e consente di effettuare confronti nel tempo e nello spazio con altre banche.

Valori di questo indice superiori ad 1 indicano che la banca ha fatto ricorso, oltre ai depositi, a fonti di raccolta esterne per sostenere gli impieghi ai clienti.

Al fine di identificare e quantificare in modo adeguato l’esposizione e i fabbisogni di liquidità strutturale, le banche calcolano un gap ratio cumulato, ossia lo SLR. Questo indicatore rapporta la porzione di attività (A) e di passività (P) con una scadenza contrattuale pari o superiore a n anni.

𝑆𝐿𝑅 = ∑ 𝑃𝑡 𝑡 ∑ 𝐴𝑡 𝑡

𝑡 ≥ 𝑛

Lo SRL è spesso inferiore all’unità in quanto le banche svolgono una funzione di trasformazione delle scadenze a condizioni di “relativa” illiquidità delle proprie attività rispetto alle passività emesse. Tuttavia valori particolarmente bassi possono essere sintomo di squilibri nella struttura delle attività e delle passività. Nel calcolo di questo rapporto un ruolo determinante è rivestito dall’analisi dei profili per scadenza (cd. gap profiles), che a sua volta dipende in maniera sostanziale da alcune assunzioni, spesso oggetto di formale

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validazione da parte del Risk Management, volte a determinare la scadenza effettiva (anziché contrattuale) degli elementi del bilancio. L’elaborazione dei gap profiles, sulla base delle assunzioni appena dette, dovrebbe consentire, in teoria, un’analisi efficace del fabbisogno netto, tesa ad evidenziare gli opportuni interventi di finanziamento in termini di mercato, divisa e prodotto.

Un altro indicatore utilizzato per la misurazione del rischio di liquiidtà in un’ottica strutturale è dato dal rapporto tra asset liquidi sul totale degli assets, anche se, come sostenuto da Panetta, Poretta (2009)34, tale indice non consente una valutazione congiunta del market e del funding liquidity risk. La CCP è, invece, un indicatore determinato come posizione finanziaria netta ossia come differenza, positiva o negativa, tra attività liquide e passività volatili della banca. Sono considerate liquide le attività quali il contante e le riserve libere sul conto della Banca centrale, gli impieghi a breve termine sul mercato interbancario, i titoli di portafoglio che sono liberamente utilizzabili come garanzie (collaterals) per i prestiti garantiti che la banca potrà richiedere. Al fine di determinare il corrispondente ammontare di attività liquide, il valore dei titoli è ridotto degli scarti di garanzia prudenziali (cd. haircuts35), normalmente applicati in sede di erogazione di finanziamenti garantiti. Fanno parte delle passività volatili la raccolta a breve sull’interbancario e la parte dei depositi a vista ritenuta “instabile”.

La CCP offre una misura della capacità della banca di resistere, facendo fronte con proprie riserve a inattesi inasprimenti del rischio di liquidità, dovuti ad esempio all’impossibilità di continuare ad ottenere sul mercato interbancario finanziamenti non garantiti.

Per far cogliere il valore relativo di questo indice, il suo ammontare viene rapportato solitamente al Total Asset dell’intermediario, rendendo cosi possibili confronti temporali e spaziali fra diverse banche; proprio per questo spesso tale indicatore è espresso sotto forma di percentuale perché l’effetto dei fattori inattesi dipende in modo proporzionale dalle dimensioni dell’intermediario.

Analiticamente la CCP è definita come:

34

Panetta I., Porretta P., “Il rischio di liquidità: regolamentazione e best practices”, Bancaria n.3/2009

35 Questi scarti hanno una funzione duplice: 1) possono indicare la verosimile minusvalenza, rispetto al

valore reale dei titoli, che la banca potrebbe dover accettare per poterli rivendere rapidamente sul mercato secondario; 2) più spesso, tuttavia, vanno intesi come lo scarto tra il valore dei titoli e il valore (inferiore) del prestito a breve termine che la banca potrebbe ottenere costituendoli in garanzia.

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𝐶𝐶𝑃 = 𝐴𝑀 − 𝑃𝑉 − 𝐼 𝑇𝐴

AM = sono le attività rapidamente convertibili in contate: impieghi a vista, liquidabili

senza compromettere i rapporti coi clienti e la stabilità dei debitori, e titoli non impegnati (unencumbered) al netto di un haircut (scarto di sicurezza) che riflette la probabile minusvalenza in caso di liquidazione o la differenza tra il valore dei titoli ed il prestito ottenibile a fronte degli stessi.

PV = passività volatili, sono i finanziamenti a vista il cui rinnovo non è certo: raccolta da

controparti professionali e quota di depositi a vista non stabile. Una quota dei depositi a vista, i cosiddetti “core deposits”, può essere considerata stabile ed esclusa dalle passività volatili.

I = Impegni a erogare: indicano un impegno irrevocabile della banca ad erogare fondi. Essi

possono provocare una fuoriuscita di fondi che va a legarsi al possibile rimborso delle passività volatili.

Nonostante alcuni limiti, come ad esempio l’utilizzo di informazioni retrospettive e la mancata considerazione dell’evoluzione temporale delle poste di bilancio considerate, la CCP è preferibile rispetto ad altri indicatori stock-based per le seguenti motivazioni36:

 Considera adeguatamente il collateral value ( e non il valore contabile) delle attività negoziabili, riflettendo l’ammontare di liquidità che potrebbe essere generato attraverso la cessione o prestazione in garanzia di attivi ricevuti;

 Definisce il grado di liquidità delle passività sia in funzione della scadenza sia della tipologia;

 Mostra un’adeguata granularità delle poste di bilancio

36 P. Porretta, “La liquidità della banca: equilibri gestionali, politiche e strumenti operativi”, in F. Tutino (a

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Una CCP elevata indica la capacità di resistere a tensioni di liquidità innescate da una volatilità delle fonti di provvista superiore alle attese, o da problemi dell’utilizzo delle attività monetizzabili37.

1.3.2 Approccio per flussi

Gli indicatori patrimoniali sopra menzionati forniscono una rappresentazione del rischio di liquidità di tipo statico, in quanto trascurano la dinamica dei flussi in entrata e in uscita connessi alla gestione bancaria e il loro preciso momento di manifestazione. È necessario quindi passare da un’analisi di tipo statico, basata sul confronto di stock patrimoniali, ad un’analisi di tipo dinamica, in cui la liquidità viene valutata sulla base dei flussi generati o assorbiti in un determinato orizzonte temporale.

Il bilancio in questo approccio viene quindi riclassificato come una maturity ladder38 comprendente un ampio e dettagliato ventaglio di fasce temporali39. L’analisi dei cash flow prevede la contrapposizione dei flussi di cassa in entrata e uscita attesi dalla banca nei mesi considerati e il loro raggruppamento in fasce di scadenza omogenee, con l’obbiettivo di verificare che i flussi in entrata risultino quindi sufficienti a coprire quelli in uscita. Come per il metodo degli stock anche in questo caso la stima delle poste a vista è condotta considerando la scadenza effettiva e non quella contrattuale.

Il mismatch-based approach prevede un’analisi dei gap di liquidità, calcolati prima per fasce di scadenza e poi in maniera cumulata, secondo due tipologie40:

- Contractual liquidity gap, che prevede la mappatura dei flussi in base alla scadenza contrattuale

- Operational liquidity gap, secondo il quale la mappatura dei flussi avviene in funzione della loro scadenza operativa o attesa.

37 Resti A., Sironi A. ,“Comprendere e misurare il rischio di liquidità”, in Bancaria n.11/2007

38 La maturity ladder è una matrice delle scadenze che permette di calcolare il saldo tra flussi di cassa in

entrata e uscita per ogni fascia di scadenza considerata

39

Resti A., Sironi A., “Comprendere e misurare il rischio di liquidità”, pag.7, Bancaria n.11/2007.

40 P. Porretta, “La liquidità della banca: equilibri gestionali, politiche e strumenti operativi”, in F. Tutino (a

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27

Le maturity ladders si configurano, pertanto, come una rappresentazione utile ai fini gestionali per la misurazione del rischio di liquidità sia in ipotesi di scenari di normale operatività che di stress.

La valutazione del grado di equilibrio tra i flussi in entrata ed in uscita viene effettuata contrapponendo questi all’interno di ciascuna fascia temporale della ladder, ottenendo così:

 I liquidity gaps marginali (LGM) che sono indicativi del saldo netto relativo ad ogni fascia temporale;

 I liquidity gaps cumulati (LGC) che sono indicativi dei saldi netti cumulati nell’arco temporale considerato.

𝐿𝐺𝐶𝑡 = ∑ 𝐿𝐺𝑀𝑡 𝑛

𝑖≤𝑡

Il saldo cumulato di liquidità rappresenta pertanto il fabbisogno (o surplus) finanziario nell’orizzonte temporale considerato, mentre il gap di liquidità per ogni periodo indica l’ammontare dei nuovi finanziamenti o impieghi da porre in essere.

Valori negativi di LGM evidenziano l’incapacità della banca di coprire, con i flussi di cassa in entrata le prevedibili fuoriuscite monetarie; in questo caso si rendono necessari interventi correttivi per far si che l’intermediario bancario non rimanga coinvolto in una possibile crisi futura di liquidità.

1.3.3 Approccio ibrido

Questi modelli, come già detto, integrano le due categorie descritte precedentemente in modo da ridurne i limiti, poiché prevede di misurare gli squilibri di liquidità per singola fascia mediante un’unica maturity ladder che ricomprende sia le grandezze stock sia i flussi di cassa. Questo approccio modifica l’iniziale scala delle scadenze e costruisce la cosiddetta “adjusted maturity ladder”, uno strumento di misurazione corretto sulla base delle ipotesi aggiuntive rispetto alla mera considerazione delle scadenze effettive delle poste attive e passive del bilancio. La adjusted maturity ladder prevede che eventuali fabbisogni finanziari negativi siano coperti per intero nel breve periodo utilizzando un apposito cuscinetto di liquidità chiamato anche Liquidity Buffer (LB):

(28)

28

𝐿𝐺𝐶𝑡 = ∑ 𝐿𝐺𝑀𝑡+ 𝐿𝐵𝑡 𝑛

𝑖≤𝑡

Il Liquidity Buffer è costituito per la maggior parte da contante ed attività che assicurano con elevata probabilità la generazione di liquidità nel brevissimo termine senza che si registrino perdite eccessive in periodi di stress. L’ammontare di questa riserva di liquidità è definito in funzione della tolleranza al rischio della banca e dovrebbe essere sufficiente a garantire la sopravvivenza della stessa per un tempo predefinito senza alcuna variazione del modello di business. Inoltre La Ganga41 precisa che il Liquidity Buffer assume un ruolo cruciale nel definire e monitorare la posizione di liquidità della banca grazie all’individuazione di due elementi fondamentali: il valore effettivo dei titoli in esso inclusi e la tempistica con la quale gli stessi possono essere smobilizzati.

È necessario inoltre evidenziare che i liquidity gap periodali e cumulati, risentono fortemente delle ipotesi adottate per ricondurre i flussi attesi nelle relative fasce della maturity ladder.

A causa della multiforme natura del rischio di liquidità però, nessuna metodologia di misurazione ha ottenuto una larga condivisione da parte degli esponenti accademici; anche se nella prassi si sta notando una convergenza degli intermediari verso gli approcci che insistono sulla costruzione della “ scala delle scadenze” o “maturity ladder”, sia nell’ottica operativa che in quella strutturale.

Le principali scelte metodologiche preventive all’adozione di uno schema di maturity ladder sono relative a42:

- Orizzonte temporale di riferimento della posizione finanziaria netta;

- Definizione delle poste altamente liquide che possono essere smobilizzate in breve tempo per fronteggiare i bilanci attesi in relazione ai vari scenari;

- Modellizzazione dei flussi di cassa delle poste fuori di bilancio o a vista.

41

La Ganga P., “La misurazione del rischio di liquidità in banca”, in Tutino F., “ La gestione della liquidità nella banca”, pag.190, il Mulino, Bologna 2012

42 P. Porretta, “La liquidità della banca: equilibri gestionali, politiche e strumenti operativi”, in F. Tutino (a

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29

In ogni caso, si possono trovare delle differenze tra le maturity ladders delle singole banche che riguardano sia l’intervallo temporale della scala, sia l’ampiezza delle fasce temporali, sia le modalità di collocazione dei flussi temporali incerti all’interno della scala delle scadenze.

Anche se la metodologia della maturity ladder viene utilizzata dalla maggior parte degli intermediari, essa, proprio perché è costruita sulla base delle specificità della singola banca, non può essere considerata la miglior pratica di mercato.

1.3.4 Liquidity at Risk (LaR)

Come già accennato, tale approccio di misurazione presenta un livello di complessità di analisi più elevato rispetto alle metodologie presentate sopra e pertanto il suo utilizzo risulta conveniente solo per le banche più avanzate dal punto di vista del Risk Management. L’approccio LaR si ispira al più noto Value-at-Risk (VaR) utilizzato nel calcolo del capitale a rischio delle posizioni del portafoglio di trading.

Il LaR, conosciuta anche come Cash Flows at Risk (CFaR), è definito come la massima perdita potenziale che una banca può subire, in un determinato intervallo di tempo e secondo un prestabilito livello di confidenza, a causa di una indesiderata situazione di liquidità. Le situazioni indesiderate possono derivare per esempio da imprevedibili comportamenti delle controparti o dall’andamento negativo di variabili di mercato.

A differenza del VaR, che tratta il rischio associato alla distribuzione dei profitti e delle perdite, il LaR tratta del rischio connesso allo squilibrio che si verifica nella distribuzione dei flussi di cassa. Attraverso l’utilizzo di tecniche di simulazione, è possibile ottenere per ogni fascia temporale della maturity ladder una distribuzione dei flussi di cassa; fissando un determinato livello di confidenza si ricava la misura della massima perdita potenziale.

L’approccio, grazie all’utilizzo di un metodo probabilistico, conferisce ovviamente un maggior rigore all’analisi dei flussi di cassa; per contro, il metodo LaR è caratterizzato dalla difficile stima della distribuzione di probabilità delle posizioni finanziarie nette

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all’interno di ogni singolo bucket e dall’inverosimile ipotesi di normalità della stessa distribuzione. Le variabili utilizzate nella determinazione del LaR dipendono inoltre dal modello di business adottato dalla banca e per questo, le probabilità associate a ogni fascia temporale dovrebbero variare a seconda che la banca risulti caratterizzata da un modello operativo del tipo retail banking o investment banking.

Per concludere, l’eventuale adattamento della distribuzione di probabilità delle posizioni finanziarie nette a una distribuzione normale causerebbe una eccessiva semplificazione del modello riducendone la validità. Per i motivi appena elencati, il LaR è applicato solo da pochi istituti di credito di grandi dimensioni. Citando nuovamente l’indagine condotta da Panetta e Porretta43, non sorprende pertanto osservare che nessuno dei dieci istituti di credito esaminati utilizzi la metodologia LaR come tecnica di misurazione del rischio di liquidità.

1.4 MARKET LIQUIDITY RISK

La continua evoluzione dei mercati e degli strumenti finanziari ha conferito una rilevanza crescente alla liquidità “di mercato” (e al rischio ad essa correlato) nella gestione dei flussi finanziari. Il Comitato di Basilea definisce il market liquidity risk come il rischio che l’intermediario, al fine di monetizzare una consistente posizione in attività finanziarie, finisca per influenzarne in misura significativa e sfavorevole il prezzo. Tale circostanza è facilmente riscontrabile in presenza di un’insufficiente profondità del mercato finanziario nel quale tali attività sono scambiate o di un suo temporaneo malfunzionamento. Qualora una banca ceda una consistente porzione del proprio portafoglio, potrebbe subire una riduzione del prezzo rispetto all’ipotetico fair value tanto più significativa quanto minore è il grado di liquidità delle attività finanziarie ivi incluse.

Attualmente, le metodologie di stima suggerite per la misurazione del market liquidity risk prevedono correzioni, da applicare alle tecniche di misurazione tipiche del rischio di

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