• Non ci sono risultati.

La relazionalità tra reale e virtuale

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La relazionalità tra reale e virtuale"

Copied!
132
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

LA RELAZIONALITÀ TRA REALE E VIRTUALE

Candidata Relatrice Giulia Ranfagni Prof.ssa Maria Antonella Galanti

Correlatore Prof. Giovanni Paoletti

(2)

Alla mia famiglia, pilastro unico e assoluto

(i∂ – m)

ψ

= 0

(3)

Introduzione 4 Capitolo I 7 Identità e relazionalità nella società complessa 7 1.1 Identità e relazionalità, termini inseparabili sul piano collettivo e individuale 7 1.2 Identità-relazionalità nelle società complesse nell’era della globalizzazione 16 1.3 La relazione nella società dell’incertezza: un’identità o più identità? 24 Capitolo II 35 La comunicazione digitale e le sue potenzialità 35 2.1 Comunicazione e formazione nel digitale 35 2.2 La “Rete”, spazio comunicativo e di conoscenza nell’epoca della complessità 48 2.3 Il “virtuale” e i suoi significati 55 Capitolo III 62 Reale e virtuale: quale relazione? 62 3.1 La relazione nella Rete 62 3.2 “Comunità” nel cyberspazio 71 3.3 I social network tra condivisione e personalizzazione 78 Capitolo IV 90 L’etica della responsabilità quale prevenzione dei rischi online e offline 90 4.1 I social network tra timore ed entusiasmi 90 4.2 La sicurezza nei social network 98 4.3 Una relazionalità distorta: il cyberbullismo 105

(4)

4.4 I social network tra opportunità e problemi: l’etica della responsabilità 111

Conclusioni 118

Bibliografia 124

Sitografia 129

(5)

Introduzione

Il tema della relazionalità entro la quale ciascuno costruisce se stesso comporta oggi una serie di interrogativi ai quali cercare risposte a partire da un complesso rapporto tra reale e virtuale, le due facce di una interazione diversa ma che, insieme, contribuiscono alla definizione dell’identità. Il problema si pone infatti sia da un punto di vista collettivo, sia individuale, visto come si stiano fortemente indebolendo i punti di riferimento tradizionali. Sul piano collettivo la globalizzazione, mentre abbatte barriere di ogni tipo, parallelamente mette in discussione il senso dello Stato, quale Istituzione da cui trarre norme di comportamento, indicazioni per la vita, ma anche un’identità costruita in relazione alla classe sociale, al gender, tutti elementi non più determinanti nella realtà contemporanea. Ne può derivare così la paura dell’esclusione, non soltanto del vivere ai margini, ma di non godere più di un senso di appartenenza. Se poi si guarda alla condizione del singolo individuo, abituato tradizionalmente a costruirsi nelle relazioni di vicinato, nei rapporti faccia a faccia, ora invece proiettato dal Web

2.0 in un cyberspazio, in una possibilità infinita di nuovi contatti e relazioni, si può

comprendere come sia difficile godere di un’identità stabile quando addirittura su Facebook siamo in grado di dare di noi stessi immagini e profili assai diversi. Nasce da queste considerazioni il presente lavoro che intende approfondire il rapporto tra reale e virtuale entro un mondo in cui si oscilla tra aperture e chiusure, tra il desiderio di muoversi liberamente in ogni dove e al tempo stesso chiudersi in uno spazio individuale, nel quale sentirsi in grado di gestire una molteplicità indefinita di relazioni, possibili da interrompere quando si voglia. La ricerca sta dunque nel tentare una risposta a una domanda pressante, quella se esista ancora un’opposizione

(6)

accentuata tra reale e virtuale, se i rapporti faccia a faccia abbiano ancora il peso e le modalità di manifestarsi tipiche di un tempo non molto lontano o se pure nella postmodernità sia tutto cambiato. È insomma pensabile ancora un virtuale che neghi il reale o almeno lo virtualizzi?. Siamo di fronte a domande improrogabili, che chiedono intanto di ridefinire il concetto di identità nella relazione, pensando se la dicotomia tra reale e virtuale sia solo apparente e allora quale nuova relazione si debba istituire tra questi due mondi. Un lavoro di questo tipo porta inevitabilmente a porsi altre domande quali, ad esempio, quelle legate ai potenziali rischi presenti in un virtuale che, come contraltare, offre potenzialità smisurate di relazione. La cronaca dei nostri giorni porta in primo piano forme di adescamento in Rete, casi di pedofilia, furti di identità, fenomeni di cyberbullismo. C’è allora da chiedersi se questo tolga valore al virtuale o se invece non debba essere riproposto il tema della responsabilità individuale e collettiva, quindi una vera e propria rivisitazione dell’etica. Sono queste le domande a cui il lavoro di tesi ha cercato di dare qualche risposta su un tema di riflessioni da portare avanti sia per non demonizzare il virtuale e dare il giusto peso al reale, sia per non favorire lo sviluppo di un individualismo esasperato come risposta al tema dell’esclusione, sia soprattutto per ridare consistenza alla responsabilità di tutti. Così, nel primo capitolo si affronta il tema della relazionalità quale fondamento della costruzione dell’identità in una società complessa, tenendo particolarmente conto delle tesi di Bauman, che portano a pensare la società come un mondo “liquido” in cui tutto cambia rapidamente e nel quale occorre reiventare l’identità a partire da spazi virtuali senza tuttavia rinunciare ai corpi, mentre nel secondo capitolo si esamina il tema della comunicazione e formazione nel digitale. L’intento è quello di individuare non soltanto quanto il mondo della Rete goda di una sua realtà e di un suo spazio, ma

(7)

anche come si ponga ora il rapporto tra online e offline, senza dimenticare il problema di fondo che è quello della formazione, tanto da richiedere l’integrazione di più Scienze e non soltanto quella dell’educazione. Per dare concretezza all’argomento ci si richiama a alcune ricerche del Censis che indagano sul ruolo assunto dal Web 2.0 nella vita di adolescenti e giovani. Così il discorso si snoda su approfondimenti necessari riguardanti la relazione all’interno della Rete, con particolare riferimento ai social

network, da Facebook a Twitter fino a Instagram ma anche alle chat e ai blog entro i

quali la maggior parte delle persone stabilisce rapporti di breve o lunga durata a seconda dei bisogni contingenti e degli interessi; da qui anche il ruolo delle community nel cyberspazio. È quanto si discute nel terzo capitolo, anche in questo caso richiamandosi a indagini e studi significativi nell’ambito della Ricerca, per poi soffermarsi sul tema della sicurezza nei social network e dei pericoli che si possono incontrare ben al di là dei Codici di autoregolamentazione e di carattere deontologico. Siamo spesso nell’ambito di un uso scorretto dei social network tanto da testimoniare il forte richiamo all’etica della responsabilità che costituisce l’argomento centrale del quarto capitolo.

(8)

Capitolo I

Identità e relazionalità nella società complessa

1.1 Identità e relazionalità, termini inseparabili sul piano collettivo e individuale

Il tema dell’identità rimanda non soltanto all’individualità, ma soprattutto all’interazione costante e costruttiva con altri diversi da sé. Ci si forma, si acquisisce il senso di un’identità in virtù delle relazioni con quanti ci circondano, indipendentemente dalla loro provenienza sociale o geografica. È quindi la diversità che permette a ciascuno di acquisire progressivamente consapevolezza di chi egli sia visto come il confronto di idee, stili di vita, comportamenti spesso diversi tra loro permetta a ciascuno di acquisire un senso del Sé che, proprio per sua definizione, implica la presenza dell’altro da Sé. Si legge in Maria Antonella Galanti:

Creare per l’altro uno spazio nella propria mente significa accettare la sua differenza, le disillusioni che reciprocamente ci procureremo, ma, anche, le illusioni che sapremo far vivere l’uno per l’altro.1

1 M.A.Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, Pisa, Edizioni ETS,

(9)

L’altro è dunque il termine imprescindibile di un confronto e di un’interazione attraverso cui si forma e si costruisce un’identità soggetta comunque, nel mondo contemporaneo, ai condizionamenti della dinamicità che caratterizza le relazioni umane e al tempo stesso la presa di coscienza di Sé. Sostiene ancora Maria Antonella Galanti:

Il fatto che la coscienza esista solo in relazione a un altro, dunque a un’altra coscienza, come si sostiene in filosofia, ma anche nell’ambito psicoanalitico, significa che possiamo avere coscienza di noi solo obliandoci per lasciarci andare alla relazione con un altro e all’immagine che egli ha di noi.2

Indubbiamente è poi il contesto storico-sociale in cui ciascuno vive a determinare le condizioni concrete e i presupposti di un’identità che comunque si nutre di idee, problematiche, aspettative inseparabili dal quadro sociale e politico entro il quale le diverse comunità elaborano una cultura condivisa. Questo significa, però, dover prendere atto di quanto, in realtà, il mondo circostante sia soggetto a mutamenti repentini, estremamente dinamici, tali da determinare altrettanti cambiamenti in quei valori su cui esso sembrava interamente reggersi. È allora entro una prospettiva del tutto diversa che va oggi considerato il tema dell’identità quello che, nella cosiddette società “solide”, come le definisce Bauman, proponevano un modello identitario da conseguire entro schemi scarsamente dinamici, tali da predeterminare in qualche misura il futuro di ciascun individuo che volesse sentirsi appartenente a un gruppo, a una cultura, a valori identitari tipici della realtà entro la quale volersi sentire accolti e integrati.

Sostiene infatti Bauman:

(10)

In sintesi, se nella fase «solida» il cuore della modernità risiedeva nella capacità di controllo/definizione del futuro, nella fase «liquida» la principale preoccupazione è quella di non ipotecare il futuro e di scongiurare qualsiasi rischio e di non poter sfruttare le opportunità ancora segrete, ignote e inconoscibili auspicate/attese per il futuro 3

Questo appare oggi del tutto diverso, essendo cambiati i contesti mondiali in virtù dell’abbattimento di barriere, dell’indebolimento degli Stati nazionali, ma soprattutto per fenomeni migratori di portata epocale, che pongono a contatto culture diverse, individui e masse le cui tipicità etniche, religiose, linguistiche, appaiono inevitabilmente simili per gruppi, ma oggettivamente diverse tra loro. Secondo Bauman,

la mescolanza di ispirazioni culturali è fonte di arricchimento e motore di creatività per la civiltà europea come per ogni altra civiltà4

Si sovverte in larga misura il tradizionale modo di intendere l’identità, trovandoci ad agire in un mondo, come già lo definiva padre Ernesto Balducci, di carattere planetario. Entro tali orizzonti l’identità si costruisce ancora nella relazione, ma in un contesto in cui le appartenenze nazionali in qualche misura si dissolvono, senza che questo debba tuttavia significare la negazione di una specificità culturale che dovrà dialogare, incontrarsi con quelle di altri popoli in vista della creazione di nuovi valori condivisi. Siamo dunque di fronte a una società la cui complessità si lega, da una parte,

3 Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011, Prefazione, p. VIII 4 Ivi, Prefazione p. XIV

(11)

al processo della globalizzazione, ma nel contempo a più ampie opportunità di incontro e di dialogo da considerare in positivo, pur sempre entro rischi inevitabili dovendo essere evitato il processo di assimilazione e quindi di rinuncia di una cultura a favore di un’altra, quella del Paese ospitante, ma anche la pura e semplice aggregazione di culture diverse tra loro. C’è dunque, in primo luogo, un problema di identità culturale che richiama i caratteri della società cosiddetta postmoderna, in cui si sono perse solide certezze, modelli stabili di comportamento, per lasciare spazio invece a quella che Bauman ha definito società liquida in cui, mentre si sono indeboliti gli schemi comportamentali a cui ciascuno poteva attenersi e ispirarsi entro il quadro nazionale e statale, si è sostituita una vera e propria liquefazione legata al dinamismo estremo che impedisce anche a un’ informazione di essere duratura o almeno di mantenere una sua connotazione precisa entro tempi sufficienti. Le conoscenze si modificano, progrediscono, si trasformano in tempi così rapidi da impedire all’individuo di coglierle in tutta la loro significatività per acquisire una parallela rapidità nell’adattarsi al loro improvviso cambiamento. Si spiega così lo spazio sempre più ampiamente occupato dagli strumenti informatici, da quei server che sostituiscono in larga misura una memoria umana insufficiente a tenere il passo con informazioni sempre più ampie, immediate, da sostituire in spazi temporali ridottissimi. È del tutto cambiato il contesto della mondialità, ma anche quello del nostro modo di porsi nelle relazioni di vicinanza, alle quali sembrano sostituirsi le memorie dei computer o i

social network. Sta in questo la presa di coscienza del reale contesto in cui collocare il

tema dell’identità nella relazione.

Oggettivamente occorre muoversi nella prospettiva di un’identità in-progress, una sperimentazione costante dei nostri modi di essere in relazione ai mezzi a disposizione

(12)

e alla mutevolezza di una realtà online e offline in cui costruiamo noi stessi. Siamo ben al di là del problema ristretto dell’identità nazionale e di quella personale in larga parte già definite, nel passato, da modelli che potevano dare sicurezza nell’instabilità del mutare di eventi, situazioni, rapporti. Dobbiamo invece pensare in termini ben diversi senza richiami nostalgici all’apparente sicurezza che le società di allora, antecedenti il postmoderno, potevano dare l’impressione di assicurare, per costruire se stessi entro relazioni cambiate che, mentre ci aprono al rapporto e a una necessaria interazione con gruppi umani di altra etnia e cultura, parallelamente ci danno l’opportunità di conoscere in tempo reale gli eventi verificatisi entro orizzonti geografici smisurati e al tempo stesso di confrontarci con gruppi di cosiddetti “amici”, scelti volontariamente, come accade su Facebook. Secondo Adriano Fabris,

spazio e tempo, nella Rete, non vengono affatto aboliti, ma trasformati. Il che significa che la Rete ha il suo spazio, apre spazio, è, anzi, essa stessa spazio e, analogamente, ciò che accade nella Rete si svolge in una specifica dimensione temporale: diversa, però, dal tempo quotidiano.5

“Vicino” e “lontano” diventano allora categorie non facilmente definibili, visto come attraverso il web ci si muova con facilità verso il cosiddetto “lontano”, che entra prepotentemente nelle nostre case risultando estremamente vicino, tanto da darci l’impressione di essere in quei luoghi.

Sostiene ancora Adriano Fabris:

Lo spazio della Rete, in primo luogo, è uno spazio virtuale; è articolato secondo i rimandi del ‘link’; è disposto nella forma del collegamento, della connessione fra i vari nodi. Si tratta,

5 A.Fabris, Etica e Internet, in A.Fabris (a cura di), Guida alle etiche della comunicazione, Pisa,

(13)

appunto, di uno spazio reticolare, composto di altri spazi, a cui esso infinitamente rimanda, e insieme di uno spazio che si apre infinitamente al suo interno, si approfondisce e si articola in se stesso secondo la logica dell’ipertesto. Tempo della Rete, invece, è il tempo reale. Il che significa: il tempo dell’immediatezza, l’istante in cui sono racchiusi i vari percorsi possibili, che poi possono essere seguiti passando da un sito all’altro.6

Questo genera la simultaneità dei collegamenti per cui ciò che noi sperimentiamo nella vita quotidiana come diacronico si trasforma in sincronico. È entro questo nuovo modo di intendere il rapporto tra spazio, tempo, reale e virtuale che noi costruiamo un Sé non sempre, o almeno solo in parte, legato ai rapporti “faccia a faccia”, privi anche di quella mediazione del corpo il quale è comunque un medium fondamentale, capace di trasmettere nella relazione stati d’animo, emozioni, o farsi rivelatore di pensieri non facilmente traducibili in parole. Questo non significa un implicito e necessario giudizio negativo sul cambiamento che i Social hanno determinato nelle modalità di relazione, al contrario prendere atto di una realtà in cui sempre maggiore diventa il senso della responsabilità individuale unito al rispetto della dignità della persona. Ciò significa porre in primo piano il problema educativo, ma soprattutto la necessità di abituare i giovani e gli individui in genere a pensare e a agire nei termini della complessità, che sempre rimanda all’etica della responsabilità. Si legge in Domenico Massaro:

A differenza dell’atteggiamento ostile di una lunga tradizione filosofica che la vede come innaturale e alienante, la tecnologia (in particolare quella della comunicazione) viene qui considerata come un ulteriore passo verso il processo di

(14)

umanizzazione e di sviluppo dell’intelligenza collettiva. Ciò a condizione che si diffonda contestualmente negli uomini la coscienza della complessità dell’impresa e venga elaborato un progetto educativo tendente ad ampliare sempre più il numero dei cittadini che, oltre a essere fruitori, siano anche capaci di controllarla e dirigerla verso il bene comune. Infatti le tecniche, essenziali per l’uomo e suo mirabile «prolungamento», hanno bisogno di essere illuminate dall’etica.7

È su questa oggettività di fatto che occorre ripensare il rapporto tra identità e relazionalità, termini comunque interdipendenti, ma destinati ora a incontrarsi e a trovare i giusti equilibri tra reale e virtuale. La società prospettata da un sociologo come Bauman, che mai perde di vista il contesto storico in cui ci muoviamo, le opportunità e i rischi per il singolo e per le collettività in un mondo liquido, è sicuramente l’immagine che meglio può favorire una più corretta e attuale interpretazione di un concetto, quello dell’identità, che è chiamato a misurarsi con la complessità del dinamismo sociale, nel quale è impossibile tornare al passato per prospettare, al contrario, l’idea di un percorso di vita in cui l’identità non è mai data una volta per tutte, ma diventa il frutto altrettanto in evoluzione dei nostri modi di sperimentare noi stessi anche attraverso il virtuale, nel quale abbiamo l’opportunità di provare forse quello che, nella realtà, non avremmo mai l’ardire di sperimentare nel timore dell’errore, della censura altrui, ma soprattutto perché l’eventuale errore non implica conseguenze specifiche nelle relazioni “faccia a faccia”. Basta, infatti, un clic per cancellare quanto abbiamo verificato essere un errore o magari un’amicizia

7 D.Massaro, Introduzione, in D.Massaro, A.Grotti, Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie

(15)

risultata inadeguata. Siamo di fronte a una situazione dotata di inevitabile bifrontalità: da una parte, il virtuale aiuta a sperimentare situazioni possibili, dall’altra c’è il rischio di essere poi in difficoltà nell’affrontare il reale visto come poter cancellare significhi agire in maniera avventurosa, ma in sicurezza, mentre poi la realtà è diversa; un vantaggio da un lato e un pericolo dall’altro. Basta tuttavia non dimenticare quanto Buber sostiene con forza:

Non si cerchi di svigorire il significato della relazione: relazione è reciprocità.8

La liquidità, di cui parla Bauman, è poi strettamente legata non soltanto al cambiamento radicale rispetto a un passato recente, ma anche a quel proliferare rapido di scambi umani legati alle migrazioni e a quelli tipici del mondo virtuale, che costituisce un’opportunità ed è al tempo stesso un dato ormai acquisito del nostro vivere entro un particolare tempo storico, in cui sperimentare sfide esaltanti, ma al tempo stesso potenzialmente cariche di rischi, impossibili da evitare se non nei termini di un potenziamento forte dell’ etica della responsabilità, dell’accoglienza dell’altro da sé, della consapevolezza di quanto la diversità debba essere un valore con cui confrontarsi online e offline. Si legge in merito in Bauman:

Se «il problema dell’identità» moderno consisteva nel costruire una identità e mantenerla solida e stabile, il «problema dell’identità» postmoderno è innanzitutto quello di come evitare ogni tipo di fissazione e come lasciare aperte le possibilità. Nel caso dell’identità, come in altri casi, la parola chiave della modernità era creazione; la parola chiave della postmodernità è riciclare.9

8 M.Buber, Il principio dialogico, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993, p. 63 9 Z.Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1999, p.27

(16)

Il verbo “riciclare” mette bene in evidenza non soltanto le trasformazioni, ma anche la possibilità di cancellare o riutilizzare e comunque non trattenere per sempre. Continua infatti Bauman:

Il medium della postmodernità è il video-tape (cancellabile e riutilizzabile, pensato per non trattenere le cose per sempre, che fa spazio agli avvenimenti di oggi unicamente a condizione che quelli di ieri siano cancellati, trasudando il messaggio dell’universale fino «a maggior chiarezza» di ogni cosa valutata degna di essere registrata). Il principale motivo d’ansia dei tempi moderni collegato all’identità era la preoccupazione riguardo alla durabilità; oggi riguarda invece la possibilità di evitare ogni impegno. La modernità è costruita in acciaio e cemento. La postmodernità in plastica biodegradabile.10

(17)

1.2 Identità-relazionalità nelle società complesse nell’era della globalizzazione

La globalizzazione, fenomeno di portata mondiale strettamente connesso all’idea di complessità sociale, presenta una oggettiva bifrontalità che va poi a influire in ampia misura sul concetto stesso di identità costruita nella relazione. Si tratta, infatti, di pensare orizzonti senza frontiere in cui entrano inevitabilmente in crisi, sul piano collettivo, l’idea di Stato sovrano, mentre su quello individuale il valore dei rapporti di parentela, di vicinato, di fratellanza e perfino di solidarietà, principi su cui si è retto per tanto tempo il senso di appartenenza e, insieme a questo, l’idea stessa di identità. Secondo Martin Buber, nell’epoca contemporanea, la condizione umana ha raggiunto il punto più alto di una crisi essendosi realizzate situazioni sociologiche nuove.

Da una parte le tradizionali forme organiche di convivenza sociale (la famiglia, le associazioni di lavoro, il paese) si sono disgregate e non sono state sostituite da nuove forme efficienti. Si trattava di forme organiche innanzitutto da un punto di vista quantitativo perché non erano così ampie da impedire il rapporto personale; in secondo luogo da un punto di vista qualitativo, perché erano tali che i membri si sentivano coinvolti […] perciò lasciano l’uomo in una ‘solitudine sociale’ come mai prima d’ora.11

Sul piano sociologico questo è pienamente confermato da Zygmunt Bauman, il quale afferma:

Vi sono movimenti, cambiamenti e slittamenti apparentemente casuali, fortuiti e totalmente imprevedibili, di quelle che in mancanza di un termine più preciso chiamiamo «forze della globalizzazione». Esse modificano in maniera irriconoscibile e

(18)

senza preavviso i paesaggi familiari dove eravamo abituati a gettare l’ancora della nostra duratura e affidabile sicurezza. Rimescolano gli individui e mandano in rovina le identità sociali.12

In un mondo in cui scompaiono barriere e ci si muove liberamente in uno spazio planetario apparentemente senza vincoli di nazionalità, di lingua, di religione, si diventa tutti in qualche modo “viaggiatori” mai fermi in un luogo preciso, al contrario pronti a spostarsi entro una comunità globale che richiede un cambiamento radicale di mentalità, di stili di vita e nella quale niente è stabile, essendo caratterizzata invece da un dinamismo talvolta esasperato. A questo si accompagna, sul piano individuale, una sorta di liberazione da legami troppo stretti che potrebbero impedire l’allontanamento da situazioni di vita considerate un tempo sicure, per aprirsi invece a relazioni e contatti nuovi, altrettanto mutevoli e dinamici. È questo l’aspetto invitante della globalizzazione, a cui però fanno da contraltare i rischi impliciti in una complessità sociale, nella quale alle opportunità si accompagnano quelli che potrebbero essere definiti reali pericoli. Nella prospettiva ed entro il contesto della collettività e quindi anche dell’identità nazionale, la postmodernità fluida e liquida ha testimoniato la crisi di uno Stato centrale dal quale derivavano norme sicure di comportamento, leggi a cui attenersi, ma anche valori, modi specifici di intendere e configurare l’identità.

Gli abitanti di una società sempre più privatizzata e deregolamentata non vedono più lo Stato come un destinatario affidabile per le loro lamentele e richieste. È stato loro detto, ripetutamente, di far conto solo sulla propria abilità, le proprie capacità e il proprio impegno; di non attendersi la salvezza dall’alto, di dare la colpa a se stessi , alla propria

(19)

indolenza e accidia se inciampano o si rompono una gamba nel loro percorso individuale verso la felicità. […] Feriti dall’esperienza di abbandono, uomini e donne dei nostri tempi sospettano di essere pedine nel gioco di qualcun altro, senza protezione contro le mosse fatte dai grandi giocatori. […] Consciamente o inconsciamente gli uomini e le donne dei nostri tempi sono ossessionati dallo spettro dell’esclusione.13

Basti pensare soltanto alle società e quindi anche agli Stati nei quali determinante era l’appartenenza a uno specifico ceto sociale, una classe ben delineata dalla quale scaturivano i modelli da seguire per godere di quella identità e al tempo stesso avere stabilità e successo. Oggi non soltanto la società non appare più fondata sulle classi, anche se in un mondo globale queste tenderebbero a riemergere, ma soprattutto l’appartenenza a uno Stato non garantisce più l’identità poiché si tratta di un’istituzione ormai in ombra. Da qui il tentativo di identificare ancora una volta lo Stato con la Nazione, appellandosi a un’identità etnica e culturale che è la stessa globalizzazione a non prospettare più come elemento stabile e garante del senso di appartenenza. Il multiculturalismo costituisce ormai un dato di fatto entro il quale identificare Stato e Nazione appare ormai impossibile. La sfida , in un mondo globale, è quella di creare un contesto unitario nella diversità, in cui non semplicemente far convivere etnie e culture diverse, ma costruire insieme una identità globale sentita come propria e capace di garantire comunque un diverso, ma irrinunciabile senso di appartenenza. Afferma ancora Bauman :

Da maledizione, la globalizzazione può trasformarsi in una benedizione: l’«umanità» non ha mai avuto un’occasione migliore! […]. Siamo alla soglia di un’altra grande

(20)

trasformazione: le forze globali sguinzagliate e i loro ciechi e dolorosi effetti devono essere messi sotto controllo democratico popolare e obbligati a rispettare e osservare i principi etici della coabitazione umana e della giustizia sociale.14

Indubbiamente lo spostamento in massa di tanti popoli di cultura e tradizioni diverse genera la paura del conflitto. Si legge in Maria Antonella Galanti:

Il conflitto che più intimorisce nell’epoca delle grandi migrazioni, è legato alla paura dell’alterità culturale. Il problema dell’incontro tra culture è un tipico problema da paura del conflitto e presenta un duplice aspetto: è un’ emergenza sociale e nello stesso tempo si traduce in un compito etico e politico.15

Nel problema identitario, la paura collettiva è quella dell’esclusione, di essere in qualche modo non tanto ai margini, ma addirittura esclusi in un mondo in cui tutto è cambiato e soggetto a ulteriori mutamenti. La bifrontalità della globalizzazione sta in questo e il rischio identitario consiste nella potenziale tendenza di ciascuno a ricrearsi uno spazio delimitato, chiuso, ritenuto sicuro nel quale recuperare il “vecchio” senso di appartenenza. Sostiene invece Maria Antonella Galanti:

Le recenti migrazioni rappresentano una rottura rispetto alla tradizione occidentale e rimuovono millenarie consuetudini e sicurezze di tipo etnocentrico, rendendo possibile una diversa concezione della convivenza culturale non basata sul principio dell’appartenenza alla tradizione, ma su quelli della ragione e della solidarietà.16

14 Ivi, p.101

15 M.A.Galanti, Smarrimenti del Sé. Educazione e perdita tra normalità e patologia, op.cit. pp.98-99 16 Ivi, p.99

(21)

Tuttavia di fronte al pericolo dell’intolleranza e di un conflitto esasperato, per Bauman i naviganti nell’era della globalizzazione

sarebbero inclini a costruirsi e delimitarsi un piccolo approdo personale dove gettare l’ancora e depositare le loro orfane e fragili identità. Non fidando più nella rete di navigazione pubblica, monterebbero gelosamente la guardia all’ingresso del loro approdo privato, per difenderlo da qualsiasi intruso. Per una mente lucida, l’odierna, spettacolare ascesa dei fondamentalismi non ha niente di misterioso. È tutto fuorché disorientante e inaspettata.17

I fondamentalismi dell’era contemporanea nascono spesso da questo sentimento di paura dell’esclusione, una risposta possibile a un mondo dispersivo in cui non sappiamo più chi essere o almeno non vogliamo pensare l’identità come un processo in divenire, qualcosa da costruire progressivamente nelle relazioni con altri diversi da sé che i flussi migratori spostano da un punto geografico all’altro, i social network portano nelle nostre case, così da stimolare ciascuno a ripensare se stesso, il proprio ruolo e l’identità quasi come un mosaico in cui avvicinare pezzi che troviamo nel nostro esistere e di cui individuare le possibili somiglianze o comunque gli incastri più adatti. Sostiene Bauman sul concetto di bricolage di identità :

Continuare a incastrare insieme i pezzi, sì, non si può far altro. Ma incastrarli insieme una volta per tutte, trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco di incastro? No, grazie, questo è qualcosa di cui si fa volentieri a meno.18

17 Z.Bauman, Intervista sull’identità, op.cit. p.53 18 Ivi, p. 63

(22)

Non tutti sono disposti però ad accettare la sfida identitaria della globalizzazione, tanto da chiudersi rigidamente rispetto alla realtà in cui dovrebbero trovare un nuovo spazio, costruire un Sé nella condivisone, al di là di qualsiasi differenza che deve rimanere, essendo l’unico termine con il quale confrontarsi per costruire insieme. Dunque il termine “identità” riconferma il proprio significato polisemico, strettamente connesso alla condizione particolare dell’uomo contemporaneo, che combatte la paura dell’altro come timore della perdita della certezza identitaria che, come afferma Maria Antonella Galanti

a livello più superficiale si presenta come paura di sottrazione: di oggetti posseduti, del lavoro, ma anche dei luoghi , che vengono in qualche modo ‘contaminati’ e resi non più riconoscibili, quasi territori segnati diversamente. Dunque il termine ‘identità’ ha un valore fortemente polisemantico: fa infatti riferimento alla permanenza psichica, alla stabilità e coesione del Sé, ma anche all’individuazione e alla differenziazione rispetto all’altro. […] Il termine ‘identità’, inoltre, fa riferimento alle origini (i propri genitori, la famiglia…) e, dunque, alla continuità con l’altro collocato in una diversa dimensione temporale rispetto alla propria; ma fa riferimento anche al divenire e dunque alla discontinutà rispetto alle origini.19

Se questo vale sul piano collettivo e mondiale, a maggior ragione se ne vedono gli effetti a livello individuale e locale. Da tempo, infatti, l’individuo sperimenta nelle società occidentali, la perdita di rapporti relazionali “faccia a faccia”, di contatto anche entro uno stesso palazzo, quei condomini anonimi, che spesso diventano una sorta di

19 M.A.Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine,

(23)

mondo chiuso in cui difficilmente gli inquilini stabiliscono contatti umani solidali, tanto da limitarsi a saluti formali e occasionali. Già questo prospetta l’immagine di una realtà sociale diversa da quella che non soltanto proponeva lo Stato, ma anche la quotidianità stessa del vivere. Così, ad esempio, l’idea dei vincoli di vicinato è rimasta come espressione di un mondo in cui l’appartenenza era un dato certo, che liberava dalla paura dell’esclusione, ma al tempo stesso dava la certezza di un mondo sicuro, in cui non si doveva temere l’estraneo, chi veniva da fuori visto come questo raramente accadesse. Si tratta di un’immagine ormai superata che sembra, tuttavia, mantenere un suo spazio nell’immaginario collettivo soprattutto in tempi in cui le relazioni di contatto sono fortemente rarefatte. Mentre chi viaggia nel mondo globale, spostandosi frequentemente con mezzi di trasporto velocissimi o attraverso i social network, si riconosce ormai come appartenente a un mondo senza barriere, chi non gode di questa condizione o comunque la teme, trova talvolta nel rimpianto nostalgico di un mondo lontano o nel rifugio in spazi e gruppi chiusi l’unica ancora di salvezza rispetto a quella generale dispersione che molti individuano nella globalizzazione. Questo fa comprendere la portata e la complessità del tema identitario, che va comunque declinato e coniugato con le potenzialità e i pericoli di un mondo globale. Sostiene giustamente Maria Antonella Galanti:

da relativamente stabile, l’identità si è fatta sempre più incerta e, per certi versi, multipla.20

Se da una parte lo Stato non garantisce più l’appartenenza a un popolo che vive su uno specifico territorio con le sue tradizioni, stili di vita ormai consolidati, norme a cui attenersi, se, le relazioni “porta a porta” stanno scomparendo, diventa impossibile

(24)

tornare a un passato ormai inesistente, per misurarsi invece con una realtà che chiede di pensare l’appartenenza culturale nella dimensione di più culture attraverso le quali costruirne una nuova in divenire, aprendosi alle diverse possibilità, ma anche a quanto richiedono situazioni contingenti in costante evoluzione. In tale contesto i social

network assumono un peso rilevante, anche in questo caso bifrontale, poiché, mentre

permettono di acquisire una mentalità planetaria e di superare il localismo spaziale, parallelamente, se non usati in maniera corretta, rischiano di far dimenticare comunque l’importanza del vivere offline, dei contatti fisici e relazionali che non possono essere sostituiti da quelli virtuali e considerati efficacemente globali. C’è dunque da rivoluzionare il modo di pensare e di essere in una realtà in cui le categorie del passato non sono più capaci di dare stabilità nel cambiamento, tanto da richiederne altre che siano le relazioni democratiche, la giustizia sociale a motivare, dando loro concretezza e valore per tutti gli uomini.

(25)

1.3 La relazione nella società dell’incertezza: un’identità o più identità?

In una società, definita da Bauman dell’incertezza e della fluidità, il tema dell’identità acquista connotazioni nuove in stretto rapporto a un mondo globale in cui ci si muove costantemente , in tempi assai rapidi, tanto da vedere scardinati i consueti parametri di valutazione e definizione del problema identitario che non nasce in tempi recenti, ma è tale da aver costituito in ogni tempo il problema.

Vivere senza poter mai risolvere il «problema dell’identità» sembra il carattere più diffuso tra gli uomini e le donne nella società contemporanea. Essi soffrono, si potrebbe dire, di una cronica mancanza delle risorse necessarie a costruire un’identità davvero solida e definitiva, ad ancorarla saldamente e a impedirle di andare alla deriva.21

Si legge ancora in Bauman:

Nella versione postmoderna l’incertezza (che comunque non era una novità nel mondo del passato moderno) non è più vista come un semplice fastidio temporaneo, che può essere mitigato o addirittura risolto con i giusti sforzi. Il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irrisolvibile.22

L’identità infatti, sia essa nazionale o personale, appare inseparabile dal concetto di appartenenza, quel sentimento di cui ciascuno avverte il bisogno soprattutto quando esista l’incombente pericolo di sentirsi in qualche modo emarginati o esclusi, magari in concomitanza con l’arrivo di “estranei” che possono minacciare la stabilità e la sicurezza. Si legge in Bauman:

21 Z.Bauman, La società dell’incertezza, op.cit., p.67 22 Ivi, p.61

(26)

L’idea di «identità» è nata dalla crisi dell’appartenenza e dallo sforzo che essa ha innescato per colmare il divario tra «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è», ed elevare la realtà ai parametri fissati dall’idea, per rifare la realtà a somiglianza dell’idea.23

Quel senso del “noi” che sta a fondamento dell’identità risulta però oggi assai fragile essendo venuto meno il concetto di “comunità” visto come l’identità stessa si costruisca nella relazione. La comunità rimanda non a semplici ed episodici contatti fisici, al contrario sottintende i principi di solidarietà, fratellanza, la capacità di riconoscersi in valori condivisi. In un mondo globale, quale quello in cui oggi siamo proiettati, all’idea di comunità si è invece sostituita quella di “Rete”, di “connessioni” generate dai social network in cui però i contatti risultano prevalentemente epidermici, legati all’opportunità del momento, privi di solidità, perché intenzionalmente mutevoli e finalizzati a scopi e obiettivi che variano a seconda dei bisogni. In un mondo siffatto la categoria dell’incertezza diventa quella in cui siamo chiamati a muoverci senza sosta, sia perché tutto cambia rapidamente, sia in quanto ciascuno di noi si costruisce non tanto un’identità quanto un’immagine funzionale al momento e alle sue richieste. Questo facilita il ricorso alle metafore del migrante e del vagabondo, che ben rendono l’idea di quanto oggi tutto sia mutevole e, conseguentemente, non si possa parlare di un’identità stabile, uguale nel tempo, quanto piuttosto di più identità, la cui caratteristica comune è proprio la variabilità. A questo si accompagna la consapevolezza di quanto, inevitabilmente, il senso dell’incertezza si leghi al ruolo insopprimibile del conflitto, che non è di per sé un elemento negativo, quanto piuttosto la condizione di una crescita, di una maturazione nel confronto costante con altri

(27)

diversi da sé. È quanto hanno ben evidenziato Miguel Benasayag e Angélique del Rey, quando sostengono che elogiare il conflitto significa elogiare la vita, perché nella tensione verso qualcosa si colloca quel “desiderio”, che è la spinta ad agire e quindi a perseverare nel dinamismo, nel cambiamento, nella ricerca non tanto di un’identità, quanto di molteplici identità nella relazione.

Le azioni di una persona, di un popolo, di un qualsiasi essere vivente hanno l’unico scopo di consentire a quello stesso organismo di perseverare nel suo essere, individuale o collettivo che sia. Un qualsiasi atto, ma un’azione di lotta in particolare, richiedono di essere pensati dinamicamente. Il dispiegamento dell’agire è il solo fine dell’agire, il dispiegamento delle molteplici dimensioni del conflitto è l’unico scopo del conflitto.24

Questo significa che il conflitto, l’entrare in relazione dinamicamente con gli altri è sinonimo di crescita, di conoscenza di sé attraverso l’altro entro una realtà non statica.

L’obiettivo di ogni lotta è quello di garantire a una certa epoca la possibilità di non ripiegarsi su se stessa, di non distruggere il molteplice della vita, ma di promuoverne anzi il dispiegamento più ampio e profondo.25

Se questo vale per i popoli, altrettanto risulta vero per il singolo individuo poiché la negazione del conflitto comporta in vari casi la negazione della differenza ma anche delle affinità che, secondo Maria Antonella Galanti

possono tradursi anche in negazione della paura, dei desideri di fuga , dell’errore e della colpa, delle sconfitte, del dolore e della morte stessa. Così, nell’illusorio tentativo di rendere più forte l’identità, finiamo per negare la debolezza che ci

24 M.Benasayag, A. Del Rey, Elogio del conflitto, Milano, Feltrinelli Editore, 2008, p.205 25 Ibidem

(28)

definisce, togliendo nello stesso tempo spazio alla speranza che rende possibili i desideri di trasformazione di se stessi e delle esistenze.26

In senso più ampio questo significa trovare un proprio spazio per evitare la confusione nell’altro, al tempo stesso interiorizzandolo secondo legami che non implichino passiva adesione, ma evitino anche un solipsismo sempre controproducente. Si legge ancora in Maria Antonella Galanti:

Per evitare le opposte trappole del solipsismo individualistico e del gregarismo ignavo e serializzante, occorre mettere in luce anche concettualmente, riflettendovi, la differenza tra similarità ‘adesiva’, intesa come conformazione (o conformismo) rispetto agli aspetti visibili e più superficiali e, invece, una co-costruita, più complessa e profonda affinità di valori e sensibilità.27

Torna dunque in primo piano il tema della diversità e delle paure che questa spesso sottintende, quando invece la diversità costituisce un valore che può comportare anche il conflitto, ma costruttivo. Purtroppo accade che la società contemporanea non alimenti desideri autentici, quanto piuttosto quelli effimeri, che difficilmente incidono in maniera positiva sulla maturazione del singolo e della società. Sostengono in merito Miguel Benasayag e Gérard Schmit:

Solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. Purtroppo la nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle ‘voglie’ che sono un’ombra impoverita del

26 M.A.Galanti, Sofferenza psichica e pedagogia. Educare all’ansia, alla fragilità e alla solitudine,

op.cit. p.135

(29)

desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati, per cui, se le persone non trovano quel che desiderano si accontentano di desiderare quello che trovano.28

Ne consegue che educare alla cultura e alla civiltà significa ancora creare legami sociali e legami di pensiero, che senza relazionalità non si costruiscono identità siano pure esse plurime. Viene così in primo piano, strettamente connesso al tema dell’identità-relazionalità, quello dell’etica, data la tendenza a non valutare più i fatti e i comportamenti secondo criteri etici, quanto piuttosto principi di carattere estetico. Le cosiddette “comunità guardaroba” rimandano a vestiti da indossare temporaneamente in rapporto allo scenario in cui ci troviamo ad agire. Secondo Bauman,

nel nostro mondo fluido impegnarsi per tutta la vita nei confronti di un’identità, o anche non per tutta la vita, ma per un periodo di tempo molto lungo, è un impresa rischiosa. Le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro […]. Siamo costretti a torcere e modellare senza posa le nostre identità senza poter rimanere legati saldamente a una sola di esse anche se lo volessimo.29

Ne adottiamo uno a seconda della necessità perché una situazione risulti gradevole, per essere tempestivamente pronti a cambiarlo a seconda del contesto e del suo mutamento e dei gruppi entro i quali dobbiamo interagire. Da qui la metafora di Bauman della “comunità guardaroba”, ma anche dell’identità intesa come un abito che si indossa e di cui ci si libera rapidamente in correlazione all’altrettanto veloce mutamento delle situazioni contingenti. Sostiene a tal proposito Bauman:

I luoghi cui era tradizionalmente affidato il sentimento di appartenenza (lavoro, famiglia, vicinato) o non sono

28 M.Benasayag, G.Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli Editore, 2005, p.63 29Z. Bauman, Intervista sull’Identità, op.cit. p.87

(30)

disponibili o, quando lo sono, non sono affidabili, e perciò quasi sempre incapaci di placare la sete di socialità o colmare la paura della solitudine e dell’abbandono. Da qui nasce la crescente domanda per quelle che potrebbero essere chiamate ‘comunità guardaroba’, quelle comunità che prendono corpo, anche se solo in apparenza, quando si appendono in guardaroba i problemi individuali, come i cappotti e i giacconi quando si va a teatro.30

Se allora l’identità era una nelle società precedenti la postmodernità, ora è il momento di pensare a più identità, da costruire e non mai definite una volta per tutte. Nella cosiddetta società dei ceti il tema identitario risultava predefinito dall’appartenenza a una particolare classe sociale, entro la quale acquisire l’identità di classe, come fondamento, per poi dare luogo a identità minori nei diversi gruppi in cui ciascuno era chiamato a esercitare quella di classe. Nella società moderna era invece lo Stato sovrano a definire l’identità come progetto individuale, un obiettivo da conseguire, tuttavia entro valori spesso nazionali a cui costantemente attenersi, considerata anche la tendenza a identificare lo Stato con la Nazione. Si legge ancora in Bauman:

L’identità individuale ben strutturata e ordinata (di vasta portata integrata, coerente e continua) si trasformò in un progetto (divenne un ‘progetto di vita’). L’edificio dell’identità doveva essere costruito in modo sistematico, livello dopo livello e mattone dopo mattone, seguendo un progetto definito in anticipo. L’opera di edificazione implicava una visione chiara della forma finale. […]. Si era creato, così, un legame stretto e irrevocabile tra il progetto dell’ordine sociale e il

(31)

progetto di vita individuale: quest’ultimo era impensabile senza il primo.31

Nel postmoderno tutto si fa liquido, mutevole, mentre l’appartenenza di classe o l’identità nazionale non godono più della necessaria importanza, tanto da riproporre in termini nuovi il problema dell’identità. Quando però un mercato è deregolamentato, come è accaduto con la globalizzazione, il criterio per valutare tutto, anche le relazioni umane, diventa quello del consumo, dell’acquisto di beni che, in qualche misura, sono provvisori e comunque soggetti al criterio della gradevolezza e della riuscita estetica. Secondo Bauman,

parte della responsabilità è da attribuire alle nuove (ma sempre mutevoli) pragmatiche delle relazioni interpersonali, pervase ora dallo spirito dominante del consumismo che identifica nell’altro un potenziale mezzo per ottenere gradevoli esperienze. Qualsiasi cosa siano in grado di fare, le nuove pragmatiche non possono generare legami duraturi. Il tipo di legami che esse producono in abbondanza incorpora clausole «a scadenza» e «a libera ricontrattazione», e non promettono né l’attribuzione né il conseguimento di diritti o di obbligazioni.32

Mentre si affievoliscono i contorni del “noi” anche a livello di vincoli comunitari quali quelli di vicinato, se non addirittura familiari, ciascun individuo è proiettato in un mondo in movimento nel quale quegli stessi abiti che dobbiamo indossare vengono acquistati in corsa, a seconda delle contingenze e dei gruppi temporanei all’interno dei quali viviamo esperienze non durevoli. È allora l’immagine del “vagabondo” quella che più risulta calzante per meglio definire un cambiamento radicale avvenuto nella

31 Z.Bauman, La società dell’incertezza, op.cit., p.59 32 Ivi, p.64

(32)

società dell’incertezza. Mentre infatti in tempi passati questo concetto rimandava alla persona estranea a luoghi ben organizzati e stabili, tanto da costituire spesso una figura da emarginare, potenzialmente pericolosa, tale da rompere o comunque contraddire il senso di appartenenza, in un mondo quale quello attuale, in cui luoghi organizzati e sicuri sono difficilmente individuabili, siamo tutti più o meno estranei l’uno all’altro, uomini in movimento, “vagabondi” chiamati a relazionarsi con una varietà di individui in rapporto ai bisogni del momento, tanto da doversi assuefare alla contingenza senza pensare l’identità come un puzzle da comporre in relazione all’immagine presente sulla facciata di una scatola, al contrario da costruire a incastro, ma senza un’immagine precostituita, quindi in costante divenire. Per questo Bauman può affermare:

In questo mondo, i legami sono disseminati in una serie di incontri successivi, le identità sono mimetizzate da maschere indossate una dopo l’altra, le storie di vita sono frammentate in una serie di episodi che rivestono importanza per un periodo breve, vincolato a una memoria effimera. […] Se un tempo si ricercava la certezza, ora la regola è l’azzardo, mentre l’assunzione di rischi prende il posto del perseguimento tenace degli obiettivi. […] Anche l’immagine di Sé si frantuma in una raccolta di istantanee, ciascuna in grado di evocare, veicolare ed esprimere il proprio significato, spesso senza alcun riferimento alle altre.33

Si tratta di una sfida, della capacità di cogliere le opportunità del momento, ma in qualche modo anche di essere avventurosi, pronti a non dare niente per scontato, di aprirsi al confronto, alla novità delle situazioni e dei gruppi umani con i quali doversi

(33)

relazionare pur nella consapevolezza di quanto niente sia stabile. Sostiene ancora Bauman:

Invece di costruire la propria identità, con gradualità e pazienza, come si costruisce una casa -attraverso la lenta edificazione di soffitti, pavimenti, stanze, corridoi- si preferisce «ricominciare sempre dall’inizio», sperimentando forme indossate sul momento e altrettanto facilmente dismesse: l’esito è una ‘identità a palinsesto’.34

Basti soltanto pensare all’incertezza e all’instabilità dell’occupazione lavorativa. A partire da grandi Stati, quali gli USA, ma anche considerando la realtà di quelli emergenti, potenzialmente ricchi di risorse ma ancora confusi nella capacità di saperle sfruttare, i contratti di lavoro difficilmente risultano a tempo indeterminato, quelli che danno senso di sicurezza, per essere, al contrario, contratti di breve durata all’insegna della precarietà. È questa una delle sfide a cui dover far fronte, ma al tempo stesso un pericolo reale quando a questo non si accompagni l’etica della responsabilità e del rispetto della dignità umana, data una tendenza evidente allo sfruttamento di singoli e di gruppi umani. Tale è l’ambivalenza della globalizzazione in cui non si può più parlare di un’identità, ma di una molteplicità di identità che sono anche gli strumenti informatici e massmediali a determinare. Basti soltanto pensare al potere di Internet e dei social network in generale, che fanno comunicare anche con estranei in tempo reale per la durata necessaria o comunque desiderata, per poi interrompere quando si voglia la comunicazione stessa. Anche questo comporta minore responsabilità, poiché diventa possibile una precarietà di relazioni che si rompono nel momento stesso in cui non siano più gradite. Se queste possibilità si estendono a tutto l’orizzonte dei rapporti

(34)

umani, meglio si comprende come a prevalere oggi sia non il criterio morale, ma quello estetico e neppure quello cognitivo, mentre si eliminano dalla nostra quotidianità gli elementi di disturbo per cui la temporalità della comunicazione, la possibilità di scegliere a proprio piacimento possono trasformarsi in criteri universali di valutazione delle nostre relazioni umane con gli aspetti positivi, ma anche i pericoli che questo comporta. Come l’incertezza del lavoro può diventare un’opportunità, ma anche un rischio, così la scelta degli interlocutori con cui agire anche a distanza, in modo temporalmente da definire e decidere, si risolve nell’opportunità di comunicare piacevolmente e di chiudere quando il piacere non sia più presente, ma con il pericolo di non avvalersi di quei rapporti “faccia a faccia” che chiedono , nel loro evolversi, confronti diretti e critici, compromessi inevitabili, discussioni non sempre gradevoli. Questo rimanda all’idea di una pedagogia, ora scienza dell’educazione, che sappia far fronte alla mutevolezza del reale, considerando le trasformazioni come una sfida da accogliere in senso critico e costruttivo. Sostiene in merito Franco Cambi:

La pedagogia come sapere viene mutando volto: perde ogni carattere dogmatico, invariante sovrastorico e si fa sapere delle trasformazioni e delle formazioni storiche. […] procede verso una nuova identità: plurale, dialettica, critica. […] Ciò non avviene per caso: avviene per sollecitazione di una società in profonda trasformazione e che sta assumendo il volto di una «società aperta» (plurale, dinamica, conflittuale anche).35

Torna dunque con insistenza il problema di costruirsi un Sé in cui, mentre non si disdegnano né si rifiutano le opportunità globali e online, parallelamente non si dimenticano né si evitano i rapporti offline, quel mondo reale in cui comunque occorre

(35)

muoversi come “vagabondi” consapevoli, che cercano di avvalersi delle reti, delle connessioni, ma al tempo stesso indossano vestiti anche in corsa, coscienti di quanto alle “comunità guardaroba” vadano però accompagnati il senso e la volontà dell’interazione con l’altro da sé, di cui rispettare la dignità, le differenze e con cui essere disponibili a costruirsi secondo il principio di una responsabilità condivisa.

(36)

Capitolo II

La comunicazione digitale e le sue potenzialità

2.1 Comunicazione e formazione nel digitale

L’irruzione degli strumenti informatici, prima nelle strutture e organizzazioni industriali, poi nell’esistenza quotidiana dei singoli individui, porta in primo piano il problema dell’identità, ma soprattutto della costruzione del Sé in un mondo in cui la percezione dominante è quella di un cambiamento così dinamico da determinare stati di insicurezza e instabilità cui far fronte attraverso un adattamento attivo al mutare rapido di relazioni sociali, situazioni contingenti, bisogni e interessi. Da qui una serie di studi specifici sul ruolo da attribuire alla comunicazione attraverso gli strumenti elettronici, ma soprattutto quegli spazi virtuali entro i quali imparare a muoversi senza perdere il senso di un’identità in costruzione, che comunque necessita sia di opportunità relazionali online sia di quelle offline. Una volta consapevoli del potere che la Rete e le connessioni assumono nel darci orizzonti illimitati di contatti e di conoscenze, occorre non dimenticare quanto altrettanto determinanti siano i rapporti mediati dalla fisicità, dal corpo, dal contatto reale con quanti entrano nella sfera delle nostre relazioni.

(37)

Mentre allora, soprattutto negli anni novanta, ha prevalso, in ambito soprattutto sociologico, l’idea che ormai non si dovesse più parlare di un’identità stabile, ma di tante identità fluide, occorre oggi prendere atto di quanto incerta e molteplice sia la definizione stessa di identità, pur sempre entro ciò che il virtuale prospetta e fa sperimentare insieme a quella realtà concreta, cambiata profondamente rispetto al passato, ma di cui è impensabile poter fare a meno.

Nell’ambito degli studi sulle relazioni online si è parlato più volte di un vero e proprio dissequestro dell’esperienza, come lo ha definito Thompson36, ad opera dei media elettronici, per i processi di costruzione dell’identità, così da dare l’idea di una vera e propria liberazione dagli schemi tradizionali entro i quali si costruiva l’identità stessa a partire dal gender, dalla classe sociale, per esaltare il moltiplicarsi delle esperienze mediate, in virtù delle quali la Rete aprirebbe incredibili possibilità che l’esperienza reale non è in grado di offrire. Tuttavia è da respingere un’opposizione netta tra

virtuale e reale, visto come il virtuale rappresenti una delle possibili modalità in cui

questo si manifesta. Certamente il virtuale si oppone a ciò che sia dato una volta per tutte. Questo sta a indicare come la virtualizzazione possa configurarsi come un’opportunità di liberazione dal “qui e ora” e da tutte quelle coordinate che strutturano il soggetto come determinato, insomma un’operazione di riapertura di possibilità. Ciò significa superare l’opposizione tra virtuale e reale senza demonizzare né l’uno né l’altro termine, al contrario viverli come modalità diverse di costruire se stessi, e comunque tra loro complementari. Si tratta insomma di reinventare l’identità a partire da spazi virtuali, senza rinunciare ai “corpi”, da non considerare soltanto ed

36 Cfr. J.B.Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, Il

(38)

esclusivamente nell’ambito delle etnie, dell’età, del genere. Si giunge così a superare in parte quel postmodernismo radicale che ha inteso negare il valore delle relazioni fisiche nella costruzione dell’identità, addirittura parlando di identità prive di contenuti solidi a cui ancorarle. C’è oggi una rinnovata attenzione per l’importanza assunta dalla vita quotidiana sia come luogo di appropriazione delle tecnologie telematiche sia per la rivalorizzazione dei rapporti interazionali. Se il web è lo spazio in cui prevalentemente ci si pone in relazione con una molteplicità di interlocutori che siamo noi a scegliere, la realtà è quella che ci chiama a misurarci con quanti entrano nella sfera dei nostri rapporti indipendentemente dal fatto che lo vogliamo o meno.

Sostiene Riva in merito:

Nell’interazione faccia-a-faccia il soggetto è il suo corpo. Dall’espressione del volto al movimento delle mani, ogni gesto riflette il soggetto che lo rende «visibile» all’altro; intuitivamente, per esempio, io capisco immediatamente che il mio amico Andrea vuole un caffè più dolce semplicemente vedendo la sua mano che si muove verso la zuccheriera. Al contrario, nei nuovi media, la fisicità e l’immediatezza del corpo reale vengono sostituite da un corpo virtuale, composto da una pluralità di immagini parziali e contestualizzate. […] In pratica, il soggetto diventa, per i propri interlocutori, quello che comunica.37

Allo stesso modo Gabriella Pravettoni può affermare:

Essere digitali significa essere ciò che le nostre dita fanno trapelare di noi attraverso lo schermo. Abbiamo depositato il corpo, momentaneamente, dietro la tastiera. Ci siamo estesi al

37 G.Riva, Nativi digitali. Crescere e apprendere nel mondo dei nuovi media, Bologna, Il Mulino, 2014,

(39)

di là di noi stessi tramite il cursore. Tabula rasa: di noi possiamo fare e dire ciò che vogliamo.38

Questo spiega come gli studi sulla comunicazione nella Rete abbiano subito nel tempo cambiamenti significativi nelle loro prospettive di indagine. Mentre infatti tra gli anni settanta e ottanta del Novecento la Rete è stata pensata soprattutto come un canale capace di generare effetti sugli scambi comunicativi, ma anche sui comportamenti e sulle relazioni sociali in Rete, si è passati poi, negli anni novanta, a pensare la Rete stessa come cyberspazio, quindi un vero e proprio luogo, uno spazio sociale abitato, capace di elaborare e dar vita a particolari culture di Rete e dunque da studiare prevalentemente in senso etnografico e più ampiamente sociologico. Sostiene a tale proposito Giuseppe Riva:

Il cyberspazio che unisce alcune caratteristiche delle reti sociali tradizionali –interazione, supporto e controllo sociale- con le caratteristiche del web-multimedialità, è creazione e condivisione di contenuti. Grazie al cyberspazio è possibile far entrare nella propria rete sociale anche «amici digitali», ciò persone mai incontrate dal vivo. […] Tuttavia trovarsi nel cyberspazio non significa necessariamente essere parte di una comunità.39

Occorrono infatti tempo, per comprendere le caratteristiche della Rete digitale, e disponibilità così da adattare la propria modalità di interazione a queste caratteristiche. Tuttavia anche nel mondo reale creare una vera comunità è difficoltoso, intanto perché non sempre si conseguono interazioni frequenti, entrando in gioco vari fattori quali il ritmo intenso di vita di ciascuno, l’assenza di persone che abbiano interessi simili, ma

38 G.Pravettoni, Web Psychology, Milano, Guerini e Associati, 2002, p.46

(40)

talvolta anche la timidezza, problemi a cui i social media danno una risposta efficace in quanto essi facilitano i contatti, dando la possibilità di un’interazione istantanea e priva di ostacoli, già a partire dal fatto di non doversi preoccupare del proprio aspetto per scrivere i contatti stessi. Rimane comunque la consapevolezza di quanto le comunità costruite intorno ai social media richiedano più tempo per creare legami stabili fondati sulla reciproca fiducia. Questo porta a dover sovrapporre una comunità digitale a una reale. In tal senso Riva può affermare che:

i social network permettono per la prima volta la creazione di reti sociali ibride – contemporaneamente costituite da legami online e da legami offline- dando vita a un nuovo spazio sociale l’«interrealtà».40

L’interrealtà dunque può rappresentare un punto di incontro e di equilibrio; nella costruzione del Sé, tra relazioni faccia a faccia e la Rete digitale. Si legge ancora in Riva:

A caratterizzare l’interrealtà è la fusione di reti digitali online e di reti sociali offline mediante lo scambio di informazioni tra di esse. È anche grazie all’interrealtà che il nativo digitale riesce a usare i social media per creare relazioni affettive in grado di uscire dal mondo digitale e diventare reali.41

In anni più recenti ci si è spostati comunque su studi che investono le modalità in cui i singoli individui includono la Rete all’interno della propria vita quotidiana ed è questo l’aspetto che più direttamente interessa riguardo al tema dell’identità visto come grande importanza sia da attribuire al rapporto tra relazione sociale e costruzione del

40 Ivi, p.140 41 Ibidem

(41)

Sé. In merito si può affermare con Enrico Menduni, Giacomo Nencioni, Michele Pannozzo relativamente a chi si avvale della Rete, che

non ha alcun senso continuare a chiamarlo «utente»; noi siamo gli utenti della sua pagina (google). Dobbiamo chiamarlo: «abitante», «partecipante»,«membro attivo di una comunità». Quindi, un’interattività molto maggiore molto più paritaria (anche se mai completamente).42

Non si tratta di rinunciare agli apporti delle ipotesi decostruzioniste, quanto piuttosto di riportarle su un terreno di confronto costruttivo in cui la quotidianità dell’esistere non perda la sua importanza, al contrario si arricchisca e si potenzi di rinnovato valore, cosicché i processi di costruzione dell’identità in Rete mai perdano di vista la portata strutturante delle relazioni sociali faccia a faccia. Per questo diventa determinante la valutazione dell’impatto potenziale delle tecnologie su quanti ne facciano uso e sui contesti di vita in cui essi se ne avvalgono. Se Internet ha, da una parte, la capacità di veicolare contenuti sociali ed emotivi e quindi di dare un apporto alle relazioni personali più significative, accade che comunque continui a essere la realtà di ogni giorno a consolidare o modificare, entro un confronto con i dati oggettivi, quanto la comunicazione mediata dalla rete è in grado di offrire e prospettare. Questo fa comprendere come anche online possano replicarsi gli aspetti sociali dell’identità quali appunto l’età, l’etnia, il gender, tutte categorie apparentemente eliminate dalle ipotesi decostruttive del postmodernismo. Sostiene in merito Simone Tosoni:

Le potenzialità decostruttive dell’identità in Rete sono anzi ricondotte precisamente alla possibilità del soggetto di

42 E.Menduni, G.Nencioni, M.Pannozzo, Social Network. Facebook, Twitter, Youtube e gli altri.

Riferimenti

Documenti correlati

I rischi e le opportunità sono stati individuati per ciascun processo primario e di supporto determinato dall'organizzazione, così come descritto nel Manuale di Gestione per la

Spesa per la protezione sociale in UE (€

Francesco Corna, consigliere camerale in rappresentanza del settore Lavoro e segretario generale CISL Bergamo. 16.10 Interventi dal pubblico 17.00 Chiusura

[r]

4-bis coerenti al disegno costituzionale per il quale la funzione di risocializzazione della pena non può mai essere pretermessa, neppure a fronte del più orribile dei reati,

Con la loro totale assenza di regole questi spazi presentano, tuttavia, il fascino di luoghi in cui è possibile immaginare uno scenario urbano integralmente rin- novato, libero

I mi- nori stranieri non accompagnati e i migranti di prima o seconda generazione ci fanno riflettere che solo una scuola soggettocentrica 47 può mettere in atto una buona pratica

jo jaajja Suuaqos aqj jBqj adoq pjnoa a ^ ajdoad uBissng aqj jo Suuajjns aqj jo j suoijBUBjdxa [BuojBJidsuoo qjiA\ aja(daj ‘8661 JsnSny jo qsBJD onuouoaa aqj