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Politiche migratorie in Europa: i casi di Francia, Gran Bretagna e Svezia.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale

(ordinamento ex D.M. 270/2004)

In Lavoro, Cittadinanza sociale,

Interculturalità.

Tesi di laurea

Politiche migratorie in Europa: i casi di

Francia, Gran Bretagna e Svezia.

Relatore

Ch. Prof. Francesca Campomori

Correlatori

Ch. Prof. Fabio Perocco

Dott. Francesco Della Puppa

Laureando

Roberta Pinna

Matricola 963984

Anno Accademico

2013 / 2014

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Politiche migratorie in Europa: i casi di Francia, Gran Bretagna e

Svezia.

Introduzione

1. Le Migrazioni internazionali in Europa pag. 8

1.1 Evoluzione del fenomeno delle migrazioni internazionali in Europa pag. 8

1.1.1 Le tre fasi dell’immigrazione post bellica pag. 8

1.1.2 Lo scenario attuale delle migrazioni internazionali pag. 13

1.2 Le politiche dell’UE in materia di immigrazione e integrazione pag. 17

1.3 L’evoluzione del ruolo dell’Unione Europea e l’influenza sulle politiche

migratorie dei paesi dell’UE pag. 24

2. Le politiche d’ingresso in Francia, Inghilterra e Svezia. pag. 31

2.1 Il caso francese: il mito dell’immigration choisie. pag. 31

2.1.1 Le origini dell’immigrazione in Francia pag. 31

2.1.2 La svolta del 1974 pag. 33

2.1.3 L’avanzata del Front National e la politica di Nicolas Sarkozy pag. 34 2.1.4 Evoluzione dell’immigrazione in Francia dal 1975 ai giorni nostri. pag. 38

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2.2.1 Il razzismo istituzionale e i Race Relation Act pag. 43 2.2.2 La lotta al terrorismo e la crisi economica del 2008. pag. 46 2.2.3 I numeri dell’immigrazione in Inghilterra e nel Galles pag. 48 negli ultimi anni

2.3 La politica svedese e l’ambizione dell’uguaglianza sociale pag. 52

2.3.1 I rifugiati come “risorsa” per il mercato del lavoro pag. 56 2.3.2 Gli anni 2000 e il declino della socialdemocrazia pag. 59

2.3.3 Alcuni dati sull’immigrazione in Svezia pag. 64

3. Politiche per l’integrazione pag. 69

3.1 Le politiche di integrazione e i modelli nazionali pag. 69

3.2 Il superamento dei modelli e il tramonto del multiculturalismo pag. 72

3.3 Le contraddizioni del modello assimilazionista repubblicano francese e «le

mal- être des banlieues» pag. 75

3.3.1 I diritti di cittadinanza e lo sviluppo delle relazioni interculturali pag. 79 3.3.2 Le rivendicazioni degli immigrati e l'affaire du voile pag. 83

3.3.3 Il grande cruccio della sinistra francese:

il diritto di voto per gli immigrati pag. 87

3.4 Il pluralismo ineguale dell’Inghilterra pag. 91

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3.4.2 Il Right of abode e i diritti di cittadinanza pag. 97 3.4.3 Un welfare troppo generoso nei confronti degli immigrati? pag. 101

3.5 Il «modello svedese» d’integrazione pag. 105

3.5.1 Il problema della disuguaglianza nella società svedese pag. 107

4. Le politiche in materia di diritto d’asilo nell’Unione Europea pag. 112

4.1 Il diritto d’asilo in Francia pag. 117

4.1.2 La crisi del sistema francese per i richiedenti asilo pag. 120

4.2 Asylum seekers e rifugiati in Gran Bretagna pag. 123

4.2.1 Il dibattito sui richiedenti asilo pag. 127

4.3 Le politiche per i rifugiati in Svezia

5. Conclusioni: uno sguardo complessivo sui casi nazionali pag. 131

5.1 Le politiche d’ingresso pag. 137

5.2 Le politiche antidiscriminazione pag. 137

5.3 Il disagio delle seconde generazioni pag. 140

5.4 L’avanzata dei partiti nazionalisti e xenofobi pag. 143 5.5 Convergenze e divergenze sui casi nazionali pag. 144

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Articoli pag. 155

Papers and Research pag. 158

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Introduzione

Il progetto di tesi verte sulla disamina delle politiche migratorie, d’integrazione e di asilo in Europa, con particolare attenzione per quanto riguarda quelle di tre paesi quali Francia, Inghilterra e Svezia. La prima parte di questo lavoro mira a fornire un quadro generale di quello che sono le migrazioni internazionali in Europa a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, quando da continente prevalentemente fonte di emigranti divenne meta di migrazioni che continuano, in maniera diversa, fino ai giorni nostri. Questi flussi, che con il tempo si sono rivelati di natura permanente, hanno costretto le singole nazioni e l’Unione Europea stessa, a prestare sempre maggiore attenzione a questioni quali: l’immigrazione clandestina, i rifugiati e i richiedenti asilo, le migrazioni familiari e l’integrazione degli immigrati. Non sono però solo le migrazioni internazionali a interessare le nazioni dell’Ue, anche i flussi migratori provenienti dai nuovi stati membri impensieriscono e non poco i governi nazionali, significativo è il caso dell’Inghilterra, dove il governo Cameron negli ultimi anni ha dichiarato guerra agli immigrati provenienti in particolare da Bulgaria e Romania. Anche la Francia con Sarkozy al governo ha dato il via a una politica di espulsioni e sgomberi forzati dei campi a scapito in particolare dei Rom, e con Hollande la situazione non sembra essere cambiata. Saranno pertanto analizzate le politiche comunitarie in materia d’immigrazione, con specifica attenzione al ruolo svolto dall’Unione Europea nell’influenzare gli orientamenti degli stati per quanto riguarda le politiche destinate a gestire gli ingressi di migranti e il loro impatto sulle società di accoglienza. Nonostante l’UE non abbia ancora potere decisionale vincolante su questo argomento, dato che gli stati sono restii a cedere sovranità su una materia tanto delicata per gli equilibri nazionali, ci sono comunque sviluppi interessanti in direzione di un’armonizzazione formale su queste politiche. In seguito, lo studio sarà focalizzato sulle legislazioni delle tre nazioni prese in considerazione: Francia, Inghilterra e Svezia. La parte sulle politiche d’ingresso analizzerà nel dettaglio come gli stati abbiano messo in campo approcci complessi e allo stesso tempo molto diversi gli uni dagli altri, per affrontare i flussi di migrazioni che hanno interessato ogni nazione. Vedremo inoltre che ogni paese ha conosciuto tipologie di migrazioni internazionali differenti che ne hanno pertanto caratterizzato la tradizione migratoria e le scelte politiche nella gestione.

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Attraverso l’analisi dei “modelli” di integrazione sarà possibile esaminare in che modo è stato affrontato negli anni l’inserimento nella società di questa tipologia di persone e di come siano stati gestiti i richiedenti asilo e i rifugiati dai singoli paesi. La natura delle politiche che gli stati hanno operato per governare l’impatto degli stranieri nella società di accoglienza e per favorire la loro integrazione, vedremo che avrà delle conseguenze importanti e non sempre previste nella vita di queste persone. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza e le forti disuguaglianze che ancora persistono nelle società di accoglienza tra autoctoni e gli immigrati per quanto riguarda, ad esempio, le possibilità di ingresso nel mondo del lavoro e di mobilità sociale, hanno portato a delle manifestazioni, in alcuni casi molto violente, di malessere e disagio che hanno come protagonisti in particolare le nuove generazioni. Il problema delle discriminazioni e della disuguaglianza sociale degli immigrati accomuna in maniera diversa tutti gli stati presi in considerazione in questo lavoro. Gli strumenti legislativi predisposti per la gestione di queste problematiche non sempre hanno avuto successo e permangono forti disparità nell’accesso ai beni e agli alloggi, nel mercato del lavoro e nei servizi. Infine attraverso la comparazione di questi tre differenti casi di studio, dei fallimenti dei loro modelli e degli aspetti positivi che li hanno caratterizzati, si cercherà di trarre delle conclusioni che possano portare a delle riflessioni costruttive e propositive sulle politiche d’immigrazione e d’integrazione. L’attenzione per il rispetto delle diversità culturali può portare allo sviluppo di un modello Europeo di reale inclusione che guardi all’immigrazione come una risorsa e non come nemico da combattere o un capro espiatorio per problemi indipendenti da essa.

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1) Le Migrazioni internazionali in Europa

1.1 Evoluzione del fenomeno delle migrazioni in Europa

1.1.1 Le tre fasi dell’immigrazione post bellica

In Europa le migrazioni sono state un importante fattore di cambiamento strutturale e di sviluppo, non solo da un punto di vista economico, ma anche culturale e sociale. L’Europa è stata prevalentemente un continente di emigranti per oltre un secolo, nel periodo che va all’incirca dal 1850 al 1950, ed ha registrato un’inversione di tendenza a partire dal 1960. In quella fase l’emigrazione è progressivamente diminuita e l’immigrazione è diventata dominante. Tra il 1985 e il 2000, il continente europeo ha subito un forte aumento di immigrati residenti, da circa 23 milioni nel 1985 (rapporto Nazioni Unite 1998) a più di 56 milioni nel 2000 ossia il 7,7 per cento della popolazione europea. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, per quanto riguarda l’immigrazione in Europa si distinguono “tre fasi diverse tra loro per natura, provenienza, destinazione e funzione dei flussi”1. La prima fase va dal 1945 al 1973 e comprende migrazioni intercontinentali e continentali. In particolare, per quanto riguarda la prima tipologia si tratta di migrazioni essenzialmente dovute a fattori di espulsione (push factors) presenti nei paesi di esodo, ovvero gli effetti causati da gravi crisi politiche ed economiche che hanno accompagnato il processo di decolonizzazione. Per quanto riguarda le migrazioni continentali invece i fattori scatenanti non furono soltanto di espulsione, ma anche di attrazione (pull factors) nei paesi di destinazione (Melotti 2004). L’esempio forse più importante è rappresentato dal richiamo di manodopera per la ricostruzione post bellica, provocato in gran parte anche dall’elevato numero di uomini in età produttiva deceduti a causa del secondo conflitto mondiale e dal basso tasso di disoccupazione dei paesi di approdo. Queste migrazioni hanno interessato tutti i paesi europei ma con delle sostanziali differenze di ruoli. L’Europa meridionale è stata il principale bacino di esodo dal quale partiva la manodopera che                                                                                                                

1 Melotti U., Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche, Bruno Mondadori, Milano,

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approdava nei paesi dell’Europa centro-settentrionale. Le grandi mete migratorie per i migranti dei paesi dell’Europa del sud diventano la Francia e in seguito, in maniera predominante, la Svizzera e la Germania. Queste sono le grandi migrazioni intraeuropee del secondo dopoguerra, trainate dallo sviluppo industriale, che hanno la loro massima intensità nel periodo compreso tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta. All’interno degli stessi paesi dell’Europa meridionale si sono poi verificate migrazioni interne, come nel caso dell’Italia, dalle regioni del sud al nord che “riproponevano in parte la logica di quelle migrazioni continentali”2. Si deve inoltre tenere in considerazione il fatto che in quegli anni le due principali potenze coloniali, Francia e Inghilterra, accolgono numerosi migranti provenienti dalle loro colonie ed ex colonie. Questo è un periodo, quello degli anni 60, in cui il fenomeno migratorio subisce una forte accelerazione. Un esempio su tutti è quello della Germania, che accolse molta manodopera straniera attirata dallo sviluppo economico seguito al conflitto mondiale e dalla necessità di maestranze per la ricostruzione. Si tratta in maggioranza di migrant workers, (lavoratori-migranti), conosciuti anche con il nome di guest workers, ossia letteralmente lavoratori-ospiti, interessati ad una permanenza pro tempore nel Paese di accoglienza, e considerati nello stesso modo dai Paesi di accoglimento. Questi lavoratori migranti sono inseriti prevalentemente nelle grandi fabbriche del settore industriale, ma anche nell’edilizia e nel terziario. Una nuova fase, la seconda, è possibile collocarla tra il 1973 e il 1982 e si apre con la grave crisi petrolifera del 1973-1974 che è determinata non solo dall’aumento del costo del petrolio, ma anche da una crisi strutturale caratterizzata dall’esaurirsi della funzione trainante di quelle attività produttive che erano state alla base dell’espansione economica degli anni precedenti. L’aumento del costo del lavoro, il clima di contestazione del 68 e il diminuire delle migrazioni continentali, dovuto a un miglioramento delle condizioni di vita di quei paesi, ridisegnano un contesto del tutto nuovo di divisione internazionale del lavoro. Questo causa una diminuzione nella domanda di lavoro da parte di quei paesi europei che maggiormente, sino ad allora, avevano attirato i flussi migratori. Ne consegue una serie di limitazioni imposte ai migranti e la relativa chiusura delle frontiere alle migrazioni regolari per lavoro. Le nuove politiche di contenimento e controllo riducono parzialmente i flussi di lavoratori                                                                                                                

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stranieri e producono anche flussi di ritorno nei Paesi di origine. Tuttavia, contrariamente alle aspettative dei paesi ospiti, in particolare la Germania, cambia la natura delle migrazioni, che passano da guest workers a permanenti, stanziali. Crescono i ricongiungimenti familiari per chi sceglie di restare e, anche sulla base di questi ricongiungimenti, aumenta notevolmente il tasso di natalità delle popolazioni straniere cambiando così la struttura sociale della presenza degli immigrati in questi paesi. Non si tratta più di soli lavoratori maschi e celibi, ma di nuclei familiari e di donne che iniziano a emigrare in cerca di un lavoro. La chiusura delle frontiere non interrompe il viaggio dei migranti che si trovano costretti ad aggirare le politiche restrittive con ingressi clandestini, che costringono il più delle volte queste persone ad una vita da irregolari e al lavoro nero come unica fonte di sostentamento. In questa fase, cambia radicalmente la scena migratoria internazionale, si riducono le migrazioni dall’Europa meridionale mentre aumentano i flussi di persone dai paesi extra europei e da quelli dell’Europa appartenenti all’ex blocco comunista. Nuovi popoli e nuovi paesi diventano protagonisti dei movimenti migratori, nonostante manchino i fattori attrattivi tradizionali tipici del periodo precedente. Ad esempio nonostante la crescita economica non sia più ai livelli degli anni 60, l’Europa resta comunque nell’immaginario di chi emigra, una meta di benessere che continua ad attrarre le popolazioni dai paesi in via di sviluppo. Dietro le migrazioni di questo nuovo periodo, sono presenti soprattutto fattori di espulsione (push factors), come la forte crescita demografica dei paesi del terzo mondo, non accompagnata da un’adeguata crescita economica, gli effetti della crisi petrolifera che influisce anche sui paesi non produttori che risentono quindi di tensioni sociali, i conflitti etnici in Africa e il crollo dei sistemi politici comunisti. Tutti questi fattori hanno creato una potente pressione migratoria sull’Europa occidentale, affiancando agli immigrati per motivi economici anche quelli che emigravano per questioni politiche (i richiedenti asilo). È in questo scenario che divengono paesi d’immigrazione nazioni dell’Europa meridionale che fino ad allora avevano conosciuto solo situazioni di emigrazione e non avevano quindi chiuso le loro frontiere. Tra questi anche l’Italia, che in un primo momento si trova impreparata di fronte agli arrivi dei migranti. Infatti, nonostante la grave crisi economica di quel periodo, avvenne per l’Italia una trasformazione epocale, da paese di emigrazione quale fino a quel momento era stato, si ritrovò ad essere un paese di immigrazione. Un’immigrazione dovuta per lo più a fattori

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di espulsione dai paesi di esodo che di caratteristiche attrattive da parte dell’Italia, molti di coloro che migravano in quel periodo infatti, trovando le frontiere chiuse da parte degli altri paesi europei di più vecchia immigrazione, furono in qualche modo costretti a stabilirsi nel nostro paese. Le statistiche sui cittadini stranieri soggiornanti in Italia sono disponibili solo dal 1970. Alla fine di quell’anno gli stranieri sono 143.838, e solo nel 1979 vengono superate le 200.000 unità, ma è tra il 1979 e il 1980 che si ha un aumento significativo delle presenze, quando si passa da 205.449 a 298.749 con un incremento del 45,4% (Fonte Caritas/Migrantes).3 Questi numeri evidenziano come il fenomeno dell’immigrazione, in un intervallo di tempo relativamente breve, si sia trasformato da presenza marginale a elemento sempre più importante per l’economia italiana. Questo negli anni si configurerà come un asset strutturale e addirittura strategico per la crescita del nostro paese. Per quanto riguarda la terza e ultima fase delle migrazioni internazionali in Europa, inizia con la ripresa economica degli anni 80 ed è tuttora in corso. Il processo di globalizzazione con le sue trasformazioni economiche, sociali e culturali, porterà le migrazioni ad estendersi su scala planetaria (Melotti 2004). Sulla base di queste tre fasi è possibile definire, per quanto riguarda l’origine dei migranti in Europa fino al 1980, tre categorie: a) la migrazione con uno sfondo coloniale che collegava i paesi europei alle loro ex colonie , b) la migrazione dei lavoratori che collegava i paesi di reclutamento europei a un numero dei paesi selezionati per l’assunzione , c) la migrazione di rifugiati che è stata fortemente dominata da coloro che si spostano dall'Europa orientale verso l'Europa occidentale, cioè sfollati dopo la seconda guerra mondiale e profughi da Est a Ovest durante la Guerra Fredda (Borkert, Penninx, Zincone, 2011). In un contesto globale notevolmente più complesso dove lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha permesso la diffusione in tempo reale delle informazioni, l’aumento di beni e servizi, l’accresciuta facilità degli spostamenti e delle rimesse monetarie nei paesi di provenienza, questi cambiamenti hanno permesso uno sviluppo delle migrazioni internazionali fino ad allora impensabile. Non solo, anche le mansioni e gli ambiti d’impiego della manodopera straniera subiscono una radicale trasformazione. Se le migrazioni del dopoguerra, infatti, erano incoraggiate dallo sviluppo industriale, quelle di questa fase sono trainate dalla domanda di lavoro nei servizi, sia alle dipendenze d’imprese, che delle famiglie. Con l’avvento della                                                                                                                

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globalizzazione e dei cambiamenti citati prima, non evolve solo il mercato del lavoro e la società di accoglienza, mutano anche le migrazioni internazionali, e questo porta Zincone ed altri a introdurre il concetto di transnazionalismo:

“while formerly migration tended to be viewed predominantly as a once-off movement leading to permanent resettlement (a conception that prevailed in classic immigration countries), recent migration – helped by strongly increased transport and communication facilities – has shifted to more fluid practices of international migration in which more migrants have consecutive stays in different countries, alternate their residence between countries, etc. This leads to new practices of residence, settlement, integration and community formation. Researchers are exploring these new phenomena under the concept of transnationalism”4.

Il concetto di “transnazionalismo”, è un nuovo filone di letteratura sulle migrazioni internazionali che si è sviluppato negli ultimi 15 anni e che pongono come concetto cardine il “processo mediante il quale i migranti costruiscono campi sociali che legano insieme il paese di origine e quello di insediamento”5. Questo pensiero si sviluppa sull’idea “che molti immigrati continuino a mantenersi in stretto contatto, in vari modi, con la comunità di provenienza, e che questo abbia ripercussioni importanti sia per il loro percorso migratorio, sia per la vita nella comunità di provenienza”6. Gli studi sul transnazionalismo mettono in luce la capacità dei migranti di mantenere e alimentare legami sociali transnazionali, di attivare partnership commerciali con i paesi di origine, di far circolare merci, conoscenze e capitali. Questa partecipazione attiva dei migranti, li configura come dei ponti tra campi sociali diversi, creando un’osmosi tra il paese di approdo e quello di origine. È una scelta consapevole, che si configura come una tenace opposizione alle pretese di assimilazione e di omogeneizzazione culturale degli stati

                                                                                                               

4 Borkert M., Penninx R., Zincone G., Migration Policymaking in Europe: The Dynamics of Actors and Contexts in Past and Present, IMISCOE Research, Amsterdam University Press, 2011, cap. 1, pp. 8. 5  Maurizio A., Un’altra globalizzazione: il transnazionalismo economico dei migranti, Working paper

5/8, Dipartimento di studi sociali e politici, Università degli Studi di Milano, 2008.

6  Paolo Boccagni, Votare per sentirsi a casa. Il transnazionalismo politico tra gli immigrati ecuadoriani in

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1.1.2 Lo scenario attuale delle migrazioni internazionali

Un’evoluzione in termini quantitativi delle migrazioni internazionali dal 1995 fino al 2010, non solo in Europa, è ben rappresentata in questa tabella elaborata dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che conta 34 paesi membri e si occupa di studi economici. Questa tavola fornisce un quadro in percentuale sul totale della popolazione dell’incidenza del fenomeno migratorio nell’arco temporale di 15 anni.

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Dopo un rinnovato interesse per la migrazione per motivi di lavoro negli anni 2000, con l’inizio della crisi finanziaria del 2008, che ha coinvolto non solo l’Europa ma tutto il mondo, i flussi migratori hanno progressivamente iniziato a diminuire.

“L'immigrazione regolare di tipo permanente degli stranieri (circa 4,4 milioni) è calata del 6% nel 2008, il primo declino dopo cinque anni di crescita media in ragione dell'11%. Tuttavia, tale calo è stato dovuto principalmente alla riduzione delle cifre riscontrate solo in un numero limitato di Paesi ed è stato inoltre una conseguenza dei flussi particolarmente alti verificatisi nel 2007. Cionondimeno, il declino dei flussi è continuato nel corso del 2009 e l'immigrazione è calata nella maggior parte dei Paesi OCSE conseguentemente alla crisi economica”7.

Il rapporto successivo del 2011, continua a rilevare un notevole decremento dei flussi migratori verso i paesi dell’OCSE. In generale nei 24 Paesi OCSE per cui si dispone di statistiche omogenee, compresa la Federazione Russa, il flusso in entrata di tipo permanente ha raggiunto i 4,3 milioni di individui, per calare di quasi il 7% nel 2009, in seguito al declino di circa il 5% registrato nel 2008, ma sempre restando livelli più alti rispetto al periodo precedente al 2007 (Rapporto SOPEMI 2011). “Il declino della libera circolazione è stata la causa principale del calo generale avvenuto nel 2009, con una riduzione di circa il 22% rispetto al 2008, ovvero 230.000 individui. Allo stesso modo, la migrazione a scopo di lavoro ha subito una battuta d’arresto, con circa il 6% in meno, e si attesta oggi agli stessi livelli dei movimenti di libera circolazione. Per altre categorie di migrazione, in particolare quella dovuta a ragioni umanitarie o di ricongiungimento familiare, meno legate alla situazione economica, i mutamenti rispetto al 2008 sono stati meno significativi”. Da questi rapporti si evince l’importante contributo degli immigrati alla crescita demografica dei paesi d’approdo e all’arrestarsi dell’invecchiamento della popolazione, fenomeno che preoccupa da sempre i governi del vecchio continente. Emerge, infatti, che in molti Paesi OCSE negli ultimi anni, gran parte della crescita demografica, nonché́ una percentuale sostanziale dell'aumento di                                                                                                                

7 International Migration Outlook, SOPEMI 2010, Sopemi (Système d'observation permanente des

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popolazione in età̀ lavorativa, è imputabile alla migrazione internazionale. Per questo si evidenzia che tra il 2003 e il 2007, il 59% della crescita demografica è attribuibile all'immigrazione. “Gli immigrati rappresentano fino a un terzo della nuova popolazione in età lavorativa, sebbene l'arrivo di minori e immigrati più anziani riduca tale apporto. Solo in Francia, Stati Uniti e Nuova Zelanda, il principale motore di crescita demografica è stato l'aumento naturale della popolazione. Per diversi Paesi (Europa meridionale, Austria e Repubblica Ceca), circa il 90% della crescita demografica è riconducibile all'immigrazione”8. Un altro elemento particolarmente interessante che viene evidenziato dagli ultimi rapporti SOPEMI è come la crisi globale di questi anni abbia colpito maggiormente gli immigrati rispetto ai nativi. Ovviamente la fascia più vulnerabile sotto questo aspetto è da sempre quella dei giovani. L’impatto sproporzionato della crisi economica sugli immigrati si desume dai dati che evidenziano come nella maggior parte dei Paesi OCSE, i giovani nati all'estero hanno sperimentato cali maggiori di occupazione rispetto ai giovani autoctoni. “Mentre la riduzione totale dell'occupazione giovanile (15-24) è stata del 7% dopo il secondo trimestre del 2008, il declino si è attestato al doppio di tale livello per i giovani immigrati. Inoltre la disoccupazione, già̀ alta tra i giovani immigrati, nel 2009 si è elevata al 15% negli Stati Uniti, al 20% in Canada e al 24% nell'Europa dei 15”9. Negli ultimi anni la situazione si è in parte stabilizzata, ma la crescita economica resta ancora insufficiente per poter assorbire la stagnazione dell’utilizzo di forza lavoro e questo rappresenta anche un forte deterrente per gli stati su una possibile riapertura delle frontiere agli immigrati. In Italia la situazione su questo fronte rispecchia quella di molti altri paesi europei, nonostante fino al 2011 lo scarto fra disoccupati italiani e stranieri fosse più basso rispetto alla media degli altri paesi europei. Secondo un rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali di ottobre 2013, il tasso di occupazione degli stranieri si attesta al 58,1 %, contro il 55,4% registrato tra gli italiani, una distanza che negli ultimi tre anni si è progressivamente ridotta. Rispetto al secondo trimestre del 2012, c’è stata una riduzione del tasso di 1,2 punti tra gli italiani, ma di 3,5 tra gli immigrati. Parallelamente però, il

                                                                                                                8  Ibidem.    

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tasso di disoccupazione tra gli stranieri è cresciuto fino al 17,9%, contro l’11,3% degli italiani.

Figura 2: tasso di disoccupazione della popolazione di 15 anni ed oltre per cittadinanza. I trim. 2010 - II trim. 2013

Il ministero conta 511 mila immigrati (157 mila Ue e 354 mila extra-Ue) in cerca di lavoro nel secondo trimestre 2013, con un incremento considerevole rispetto ai 371 mila dell’anno precedente. Sono cresciuti anche gli inattivi, coloro i quali non cercano più un’occupazione pur essendo in età da lavoro. Questo a dimostrazione del fatto che il mercato del lavoro ha risentito di una contrazione nella domanda e dell’aumento del numero di persone in cerca di lavoro, ad eccezione dell’unico settore che nonostante la crisi segna un incremento dell’occupazione, ovvero il commercio. L’analisi che fa la “Direzione Immigrazione e Politiche Integrazione” del Ministero del lavoro, sulla base di questi dati è che la presenza di stranieri nel nostro paese sia adeguata alle necessità e sia per questo essenziale approntare delle politiche volte al riassorbimento di queste categorie di disoccupati, evitando la riapertura delle frontiere. I fattori che rendono gli immigrati vulnerabili alla perdita dell’impiego, come la situazione d’instabilità giuridica in cui si trovano, i settori d’impiego più meno sicuri e precari, rendono comunque più difficile anche l’applicazione di strategie politiche rivolte al mercato del lavoro e a tali

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soggetti. In conclusione nonostante la crisi economica internazionale, l’adozione da parte delle nazioni di politiche sempre più restrittive nei confronti dei migranti, il fenomeno migratorio non accenna ad arrestarsi, sebbene manifesti dei rallentamenti nell’ultimo periodo. Questo a riprova del fatto che queste persone continueranno comunque ad arrivare in Europa in cerca di un futuro migliore e la politica dell’immigrazione zero, la chiusura delle frontiere, i respingimenti, mostrano ogni giorno la loro inadeguatezza e il loro fallimento.

1.2 Le politiche dell’UE in materia di immigrazione e integrazione

Per quanto riguarda le politiche d’immigrazione e d’integrazione, l’elemento di svolta è segnato dall’ingresso sulla scena politica dell’Unione Europea. Possiamo affermare che la storia dell'UE risale all’istituzione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio annunciata nel 1950 e ha inizio come la culla della libera circolazione dei lavoratori che possedevano la cittadinanza di uno stato membro, che più tardi venne estesa a tutti i cittadini all'interno dello spazio europeo in crescita. Difatti i diritti alla mobilità per i cittadini dell'UE sono al centro del quadro per l'integrazione economica istituito nel 195010 . Al contrario, l’immigrazione da paesi terzi non era contemplata nel trattato fondatore dell’unione e sarà inclusa solo nel 1993 con l’attuazione del trattato di Maastricht. Tuttavia, le politiche comuni dell'Unione nei confronti dei cittadini di paesi terzi sono più recenti e hanno avuto inizio con il trattato di Amsterdam del 1997. Quest’accordo prevedeva che nel maggio 2004, cinque anni dopo la sua ratifica, asilo e migrazione sarebbero diventati oggetto di politiche comunitarie, spostando così la materia dal terzo pilastro intergovernativo dell'UE al primo. Il terzo pilastro intendeva costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia in cui vi fosse collaborazione tra gli stati membri per contrastare la criminalità a livello sovranazionale. In questo pilastro rientravano le politiche più soft, basate sul consenso intergovernativo e attuate mediante il metodo aperto di coordinamento, attraverso strumenti politici quali: raccolta d’informazioni, sorveglianza, scambio di buone pratiche e mobilitazione degli attori della società civile. Gran parte delle materie che lo                                                                                                                

10  Boswell C., Geddes A., Migration and Mobility in the European Union, Great Britain, Palgrave

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componevano sono state “comunitarizzate” e trasferite nel Primo pilastro attraverso l’introduzione del nuovo titolo IV denominato “Visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone”11. Nel periodo 1999-2004 vi è stata effettivamente un’armonizzazione delle politiche e delle pratiche già esistenti, anche se la maggior parte degli accordi e delle direttive erano focalizzati sulle politiche restrittive finalizzate a combattere l'immigrazione clandestina e a tenere sotto controllo potenziali richiedenti asilo (Borkert, Penninx, Zincone, 2011). Nonostante ciò non si è completamente realizzato l’intento di arrivare ad una politica comune su questi temi, ogni stato ha continuato a pensare per sé. E’ innegabile che l’immigrazione rappresenti una sfida difficile e importante, non solo per gli stati che diventano pertanto degli attori significativi che “may influence the push-and-pull factor balance of migration itself, as well as the process of settlement that may or may not follow it”12. La stessa cosa vale anche per l’Unione Europea, che in quanto istituzione politica sovranazionale, dal 1999 ha sentito il dovere di intervenire nel dibattito pubblico sull’immigrazione per diffondere buone prassi e cercare di persuadere i vari paesi sulla necessità di affrontare il fenomeno in maniera collettiva. Con l’approvazione del Trattato di Amsterdam (sottoscritto nel 1997 ed entrato in vigore nel 1999), “l’immigrazione diventa questione d’interesse per l’UE nel quadro della realizzazione del mercato comune e della piena libertà di circolazione dei cittadini, e quindi in vista di obiettivi di tipo prettamente economico”13. Quest’accordo modifica l’art. 13 del Trattato istitutivo della Comunità europea e sancisce una competenza esplicita dell’unione a intervenire con specifiche direttive e altre misure in materia di lotta alla discriminazione etnica, razziale e su base religiosa, nonché, in base al nuovo titolo IV del Trattato CE, per promuovere l’equo trattamento tra cittadini UE e di paesi terzi. Questo ragguardevole cambiamento, seguito da due importanti Direttive antidiscriminazione approvate nei primi anni 2000 (la n. 2000/43/CE sulla parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e                                                                                                                

11  http://cestim.it

12  Op. cit., Borkert M., Zincone G., Penninx R., Amsterdam, 2011.

13  A cura di Tiziana Caponio con la supervisione scientifica di Ferruccio Pastore e una postfazione di

Giovanna Zincone, Rapporto FIERI per CNEL, Dall’ammissione all’inclusione: verso un approccio

integrato? Un percorso di approfondimento comparativo a partire da alcune recenti esperienze europee,

Settembre 2013.

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dall’origine etnica, e la Direttiva n. 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) tracciano la direzione che le politiche dell’Unione Europea prenderanno negli anni a venire. Infatti, la disparità di diritti tra individui, suddivisi in base agli stati di provenienza, ha rappresentato un ostacolo alla formazione del mercato unico europeo e alla libera circolazione dei lavoratori, principio costituente che sta alla base della nascita dell’Europa. Un’altra rilevante direttiva approvata in quegli anni è quella sullo status dei soggiornanti di lungo periodo (Direttiva 2003/109/CE sullo “Status dei cittadini di paesi terzi residenti di lungo periodo”), che definisce uno status europeo uniforme per tutti i cittadini non UE che risiedono legalmente e in modo continuativo in una nazione europea da almeno 5 anni. Un pacchetto importante di diritti prima legati esclusivamente allo status di cittadini dell’Unione che viene esteso a cittadini di paesi terzi sulla base della condizione di residenza. Sempre nell’ottica di superare le divisioni delle varie nazioni sull’argomento, nel 2008 il Consiglio europeo decide di adottare solennemente il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Fortemente voluto dalla Presidenza Francese di turno dell’UE, in questo documento c’è la volontà di trovare un equilibrio tra potenziare il controllo dei flussi migratori provenienti dai Paesi in fase di sviluppo e il rafforzamento dell’integrazione dei migranti nelle diverse società europee. Il Patto insiste con forza sul fatto che gli immigrati debbano avere non solo gli stessi diritti dei cittadini europei ma anche gli stessi obblighi, avvallando quindi la svolta neoassimilazionista già in atto in molti paesi europei dalla fine degli anni Novanta (prima fra tutti l’Olanda). Le misure per l’apprendimento di una lingua nel paese d’accoglienza e per garantire l’accesso al mercato del lavoro devono essere rafforzate, assieme all’insegnamento di programmi civici sulla storia del paese, le sue istituzioni e i valori comuni dell’Unione Europea. I contratti di integrazione introdotti dai vari paesi vanno appunto in questa direzione. “Consapevole del fatto che l’attuazione integrale del patto può richiedere, in taluni settori, un’evoluzione del quadro giuridico e segnatamente delle basi convenzionali, il Consiglio europeo assume pertanto cinque impegni fondamentali:

• organizzare l’immigrazione legale tenendo conto delle priorità, delle esigenze e delle capacità d’accoglienza stabilite da ciascuno Stato membro e favorire l’integrazione;

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loro paese di origine o in un paese di transito, degli stranieri in posizione irregolare;

• rafforzare l’efficacia dei controlli alle frontiere; • costruire un’Europa dell’asilo;

• creare un partenariato globale con i paesi di origine e di transito che favorisca le sinergie tra le migrazioni e lo sviluppo”14

Ma è un anno più tardi che l’UE, con il trattato di Lisbona ratificato nel dicembre 2009 (sottoscritto nel dicembre 2007), compie il passo più importante. Con quest’accordo, infatti, si fissano i presupposti per mettere in atto una politica comune su base europea, in particolare per quanto riguarda l’immigrazione e l’asilo. Queste politiche non intervengono su tutti gli aspetti dell’immigrazione e dell’asilo, ad esempio le politiche di ammissione per gli extra europei restano saldamente in mano ai governi locali, ma hanno importanti effetti sul controllo delle frontiere, sulla lotta all’immigrazione clandestina e sui richiedenti asilo (Boswell, Geddes 2011). L’approvazione di questo trattato è stata a lungo ostacolata da una forte opposizione di molti stati membri e rigettata dai primi referendum in Irlanda e nei Paesi Bassi, che in seguito lo avrebbero ratificato come le altre nazioni. Probabilmente questa tenace opposizione è dovuta al fatto che il trattato apporta cambiamenti radicali al ruolo dell’Unione Europea e ne consolida la capacità decisionale su temi che ai governi nazionali sono particolarmente cari, come appunto l’immigrazione e l’asilo. Abolisce la struttura a pilastri dell’Unione, pur non comportando la comunitarizzazione della politica estera e di sicurezza, rafforza le istituzioni europee, in particolare il Parlamento, mira a consolidare la realizzazione di uno spazio europeo comune, per questo conferisce all’UE nuove competenze in particolare sul tema dell’immigrazione. Ad esempio istituisce una gestione comune delle frontiere esterne dell'Unione europea, in special modo attraverso lo sviluppo dell'Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, denominata Frontex, viene creato un sistema europeo comune di asilo, basato su uno status europeo uniforme e su procedure comuni per l'ottenimento e la revoca dell’asilo e stabilisce regole, condizioni e diritti in materia d’immigrazione legale. Nonostante le                                                                                                                

14 Patto europeo per l’immigrazione e l’asilo, Bruxelles, 24 settembre 2008, Consiglio dell’Unione

Europea, http://www.europa.eu/.

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importanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona, nel 2009 e 2010, l'evoluzione delle politiche migratorie ha in parte risentito del rallentamento economico. La crisi finanziaria e le difficoltà di bilancio degli stati europei hanno imposto drastici ridimensionamenti agli aiuti pubblici alle politiche di cooperazione, e a quelle misure finalizzate a massimizzare l’impatto positivo delle migrazioni internazionali sui contesti di origine. “Alla carenza di risorse, si sommano esitazioni concettuali e strategiche: dopo anni in cui l’idea di co-sviluppo ha alimentato forti speranze, oggi sembrano prevalere atteggiamenti più cauti”15. Anche nei confronti della migrazione a scopo di lavoro, compare un inasprimento delle politiche, “è il caso, ad esempio, della Spagna o dell’Irlanda o anche del Regno Unito, dove il cambio di governo ha introdotto un approccio molto più restrittivo in materia di immigrazione a scopo di lavoro. Allo stesso modo, le politiche per la gestione dell'immigrazione per motivi umanitari e familiari e i controlli alle frontiere si sono inaspriti nel periodo in esame, anche se per ragioni diverse”16. I canali di migrazione dei lavoratori sono stati esaminati in profondità e i criteri per l'ammissione resi ancora più rigidi. Il coinvolgimento dell’UE per quanto riguarda i provvedimenti e le politiche sull’immigrazione a scopo di lavoro, rimane ad oggi molto limitato, questo perché “on the one hand, it had a huge impact on migration through its competence in the area of free movement of workers. […] On the other hand, the EU has very limited competence to introduce legislation in the area of labour immigration from outside the EEA”17. Molte nazioni europee hanno complesse legislazioni e piani per regolare gli ingressi e non vedono di buon occhio un’ingerenza maggiore dell’UE in questo tipo di politiche. Soprattutto per quanto riguarda i lavoratori con bassa qualifica, gli stati pretendono di mantenere il controllo degli ingressi per una mera questione d’interesse, infatti, nel caso in cui la domanda di manodopera non sia soddisfatta dai lavoratori nazionali, essi hanno il potere di aprire i canali d’immigrazione sentendosi giustificati dall’eccezionalità data dalla situazione. Questa filosofia è ben esemplificata da molte leggi italiane, a partire dalla Turco-Napolitano (d.lgs. n.286/1998) e dalla Bossi-Fini (legge n. 189/2002), che stabiliscono la regolamentazione dei flussi d’ingresso con lo strumento delle quote annuali e legano il                                                                                                                

15  Rapporto Fieri per CNEL, settembre 2013, pp. 4.

16International Migration Outlook, SOPEMI 2011, Sopemi (Système d'observation permanente des

migrations), OECD Publishing, 452 p., 12 July 2011.

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permesso di soggiorno al contratto di lavoro. La filosofia di queste leggi, definita “mercantile”, ha l’unico effetto di produrre irregolarità, poiché, crea un percorso ad ostacoli per l’immigrato che gli impedisce quasi del tutto la possibilità di entrare regolarmente nel territorio italiano. “Secondo quest’impostazione, le frontiere dell’Unione si aprono ai migranti se ed in quanto il fabbisogno di manodopera degli stati membri lo consente: con l’ovvio corollario che, quando questa necessità verrà a mancare, il migrante dovrà fare ritorno in patria”18. Diversa è la situazione per quei lavoratori altamente qualificati, verso i quali si fanno meno strette le maglie della legislazione d’ingresso. Nei confronti di questa tipologia di lavoratori, infatti, i governi rivelano un atteggiamento molto diverso, giacché hanno tutto l’interesse a cercare di attrarli facilitandone l’ingresso ed il soggiorno, anche se la rigidità legislativa dell’ultimo periodo non ha risparmiato nemmeno loro. Ugualmente la legislazione sui ricongiungimenti familiari a causa della crisi finanziaria dell’ultimo periodo, ha subito dei cambiamenti che hanno puntato ad imporre criteri restrittivi, quali residenza, requisiti minimi di reddito, conoscenza della lingua e test civici (SOPEMI 2010). Negli ultimi anni, parallelamente all’inasprimento delle legislazioni in materia di migrazione, si rilevano anche delle misure volte all’integrazione di queste persone e al sostegno per coloro che si trovano ad aver perso il lavoro a causa della crisi. “Sono state adottate disposizioni destinate agli immigrati disoccupati impossibilitati a rinnovare i permessi temporanei (Spagna e Irlanda) ed è stata fornita assistenza per il ritorno nei loro Paesi d'origine (Spagna, Giappone e Repubblica Ceca). Alcune quote sono state ridotte (Italia, Corea, Spagna e Australia)”19. I programmi d’integrazione destinati ai nuovi arrivati, come le famiglie e i rifugiati, si stanno diffondendo sempre di più nei paesi Europei e ne stanno ampliando la portata al fine di migliorare la capacità di comunicazione dei nuovi immigrati nella lingua del Paese ospitante nonché le loro conoscenze delle principali istituzioni della società di accoglienza. Sempre in ambito d’integrazione, il 20 settembre 2011 la Commissione europea ha presentato la comunicazione “Agenda europea per                                                                                                                

18 Peretti I. (a cura di), Schengenland, immigrazione: politiche e culture in Europa, Ediesse, Roma 2011,

pp. 46.

19International Migration Outlook, SOPEMI 2011, Sopemi (Système d'observation permanente des

migrations), OECD Publishing, 452 p., 12 July 2011.

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l'integrazione” che rappresenta un contributo importante per il dibattito sulle sfide che l’integrazione dei migranti pone all’Europa e suggerisce raccomandazioni e ambiti d’intervento. Secondo la Commissione sussistono dei concreti ostacoli all’inserimento nella società e li identifica, in particolare, nei livelli occupazionali particolarmente bassi della forza lavoro immigrata, soprattutto femminile; nella crescente disoccupazione e negli alti tassi di forza lavoro immigrata sovra qualificata; nel rischio crescente di esclusione sociale; nelle disparità in termini di rendimento scolastico; e da ultimo nell'apprensione pubblica per la scarsa integrazione. Per far fronte a tali sfide irrisolte, la Commissione raccomanda di concentrare le attenzioni su tre settori chiave: l'integrazione tramite la partecipazione; più azione a livello locale; coinvolgimento dei paesi di origine. “In particolare la Commissione europea raccomanda agli Stati membri di:

• organizzare corsi di lingua che rispondano alle esigenze evolutive degli immigrati nelle diverse fasi del processo di integrazione;

• predisporre programmi introduttivi per i nuovi arrivati, come corsi di lingua e di educazione civica. Questi programmi dovrebbero tener conto dei bisogni specifici delle immigrate per promuoverne la partecipazione al mercato del lavoro e l'indipendenza economica;

• perfezionare i metodi per il riconoscimento delle qualifiche e delle competenze dei migranti;

• favorire la partecipazione degli immigrati con politiche attive del mercato del lavoro;

• concentrare gli sforzi nei sistemi educativi conferendo a insegnanti e dirigenti scolastici le competenze necessarie per gestire la diversità, assumendo insegnanti con un passato di immigrazione e favorendo la partecipazione dei figli di immigrati all'educazione e assistenza della prima infanzia;

• predisporre misure per attuare nella pratica il principio della parità di trattamento e prevenire la discriminazione istituzionale e forme quotidiane di discriminazione;

• rimuovere gli ostacoli alla partecipazione politica degli immigrati e coinvolgere di più i rappresentanti degli immigrati nell'elaborazione e nell'attuazione delle

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politiche e dei programmi di integrazione”20.

È pur vero che nonostante gli sforzi fatti dall’Unione Europea, per governare i fenomeni migratori e la loro complessità, è necessario uno sforzo collettivo non solo a livello sovranazionale. Anche le politiche locali e regionali, insieme a quelle nazionali, giocano un ruolo molto importante per l’integrazione, in alcune occasioni determinante. È proprio a livello locale che le politiche messe a punto in ambito nazionale, si scontrano con la quotidianità e le difficoltà reali. “Il livello locale, quello in cui si presentano con più evidenza i problemi, adatta e modifica le linee nazionali, produce input e feed-back che incidono sui contenuti delle policy disegnate dai decisori a livello centrale”21. Questo dimostra quanto il fenomeno migratorio abbia bisogno di una strategia multilivello e multidisciplinare per essere affrontato, non è più possibile agire singolarmente, è necessaria un’azione collettiva di tutti i soggetti coinvolti affinché si possa costruire un nuovo modo, realmente inclusivo, di gestire l’immigrazione.

1.3 L’evoluzione del ruolo dell’Unione Europea e l’influenza sulle politiche migratorie dei paesi dell’UE

Nonostante i trattati, le direttive e i progressi fatti negli ultimi anni, l’Unione Europea resta ancora un contenitore dove gli interessi degli stati hanno la meglio su quelli della collettività. Per troppo tempo, infatti, la questione del trattamento degli immigrati e dei rifugiati è rimasta sospesa tra competenze nazionali e timidi tentativi europei di armonizzazione.

“Le regole di accoglienza, i diritti di cittadinanza, i modelli d’integrazione nei confronti degli immigrati sono perlopiù definiti su base nazionale”22, questo rende difficile affrontare i problemi legati all’immigrazione e il tema dei diritti di queste persone in ambito comunitario, anche perché, come abbiamo visto, i diversi paesi sono restii a                                                                                                                

20 L'integrazione dei cittadini di paesi terzi soggiornanti legalmente nel territorio dell'UE http://camera.it/. 21  Rapporto FIERI per CNEL, Settembre 2013, pp. 68.  

22  Ilvo Diamanti, Immigrazione e cittadinanza in Europa, Fondazione Nord Est, Convegno Internazionale

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cedere sovranità su un tema tanto importante. La difficoltà nella progettazione di una politica d’immigrazione a livello comunitario consiste nel fatto che l’immigrazione è sempre stata, anche legittimamente, considerata un tema molto delicato e complesso che riguarda direttamente non solo gli interessi nazionali, ma anche gli umori delle società di accoglienza destabilizzate dalla diversità culturale prodotta da decenni di ondate migratorie, e per questo motivo tutti i Paesi hanno sempre cercato di gestire il problema degli immigrati in modo autonomo. Del resto, è vero che l’insieme delle specificità nazionali, sia per quanto concerne la tipologia dei flussi migratori sia per il grado e il tipo di esposizione al fenomeno, possono essere causa di divergenze tra i vari stati sui sistemi da adottare per far fronte a questo fenomeno. Le politiche d’immigrazione e asilo a livello europeo rientrano, come già detto, nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, istituito col Trattato di Amsterdam nel 1997. Le iniziative dell’Unione in questi ambiti fanno parte di quelle che vengono definite competenze concorrenti o condivise, previste dall’articolo 4 del TFUE23. Questo significa che l’UE e gli Stati membri possono adottare atti vincolanti in tali settori. Tuttavia i paesi membri possono utilizzare la loro competenza soltanto nella misura in cui l’UE non ha deciso di adoperare la propria o rinunci a esercitarla. Questo limita il raggio d’azione dell’Ue privandola di quel potere esecutivo fondamentale per intervenire in maniera vincolante su questi temi e viceversa consente agli stati di mantenere l’autonomia necessaria a disciplinare per conto proprio l’immigrazione. Le linee guida sono formulate come principi molto generali ai quali le nazioni possono scegliere se aderire o meno, o di farlo in maniera blanda, così che perdono di forza all’atto pratico. Resta però una questione forte sollevata più volte dalle istituzioni della comunità europea, ossia la necessità di affrontare in maniera unitaria i problemi legati a questo tema che sono comuni a tutti i paesi dell’eurozona ai quali spesso non è possibile rispondere come singoli. La globalizzazione, l’apertura delle frontiere tra paesi UE, le preoccupazioni sull’identità e dell’ordine pubblico, il forte dibattito sociale che questo tema suscita, accomuna i diversi stati e concorre a renderli interdipendenti. La politica migratoria e di asilo di un singolo stato può anche subire l’influenza di attori esterni come le istituzioni                                                                                                                

23 Il TFUE è il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ha ottenuto questa denominazione con

l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009. Precedentemente chiamato "Trattato per la Fondazione dell'Unione Europea", il cambiamento del nome è giustificato dal fatto che col Trattato di Lisbona è stata sancita la fine della Comunità Europea e tutte le sue funzioni sono state assunte dall'UE.

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internazionali o attori transnazionali, che contribuiscono a determinarne i contenuti. Soprattutto a causa della globalizzazione, le scelte politiche di uno stato possono avere conseguenze indirette nel territorio di altri stati. In particolare, “esistono alcune interdipendenze immediatamente percepibili tra i flussi migratori che interessano i diversi paesi dell’Unione europea, nonostante le diverse priorità che li caratterizzano. La politica migratoria si trova sempre più connessa ad altre politiche, in particolar modo la politica di sicurezza interna degli stati, la politica estera e la politica di cooperazione allo sviluppo” 24. I flussi d’immigrazione illegale, ad esempio, utilizzano il territorio di alcuni di questi stati per raggiungerne altri e questo obbliga i paesi ad operare congiuntamente al fine di arginare il fenomeno degli ingressi clandestini. Questo scenario globalizzato e i cambiamenti derivati, hanno contribuito all’allargamento delle competenze in materia d’immigrazione dell’Unione Europea che, in un primo momento, erano in pratica inesistenti. È pur vero che, nonostante l’Europa non sia ancora riuscita a guadagnarsi potere decisionale vincolante su questi temi, le politiche migratorie degli stati membri sono sempre più influenzate dagli orientamenti di quest’ultima. Ad esempio, l’azione dell’Europa ha giocato un ruolo chiave nei paesi del sud quali, Italia, Spagna e Grecia influenzandone il cambiamento delle politiche e nei dodici paesi che sono entrati a far parte dell’EU dal 2004 al 2007. Per questi stati, l’influenza dell’Unione Europea è stata maggiore rispetto, ad esempio, a quelli di vecchia immigrazione, poiché si sono trovati a fronteggiare il passaggio da paesi di emigrazione a paesi di emigrazione nel momento in cui, questa istituzione sovranazionale iniziava ad occuparsi della materia. Si è verificato anche un altro fenomeno, “nuove policy e correzioni di rotta a livello nazionale e locale sono indirizzate dalla propensione a imitare stati europei di più antica immigrazione che fungono da modelli di policy per quelli di immigrazione più recente, affetti da sensi di inferiorità decisionale”25. Ma la via dell’imitazione non sempre si è rivelata la scelta migliore per affrontare i problemi legati alle migrazioni. L’attenzione per il condizionamento delle politiche nazionali sull’immigrazione e l’integrazione, solleva la questione dell’europeizzazione.

                                                                                                               

24  Gaia Danese, Le politiche migratorie nazionali nella prospettiva della comunitarizzazione. I casi di Francia e Spagna, CeSPI - Institut d’Etudes Politiques de Paris, n. 02, gennaio 2000.  

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“Europeanization can refer to processes of construction, diffusion and institutionalization of formal and informal rules, procedures, policy paradigms, styles and 'ways of doing things'. It can also included the development of shared beliefs and norms which emerge at EU level and are then incorporated in domestic discourse, identities, political structures and public policies”26.

È un termine ampio, che però può avere effetti di vasta portata sulle politiche interne. È evidente però che l’europeizzazione può avere conseguenze diverse a seconda dei paesi e questo può dipendere da una serie di fattori che variano in base al contesto politico e sociale delle varie nazioni. I dati dimostrano che l’immigrazione è destinata a restare un fenomeno strutturale dell’Europa nell’era della globalizzazione, questo impone agli stati di confrontarsi non solo per quanto riguarda le esigenze del presente, ma soprattutto sulle strategie a lungo termine. Per questo le istituzioni europee hanno più volte sollecitato un’armonizzazione delle politiche nazionali, ma da parte dei paesi non vi è stata una risposta altrettanto convinta. Malgrado però le diverse priorità e l’iniziale riluttanza, i governi dei paesi europei non sono rimasti del tutto insensibili alle sollecitazioni dell’UE, infatti, riconoscono la convenienza di dotarsi di una politica comunitaria che disciplini il fenomeno migratorio. La necessità di una politica unitaria si evince non solo dal punto di vista normativo, ovvero per affrontare le questioni più tecniche e di ordinaria amministrazione, ma anche per contribuire a formare una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione diversa da quella che attualmente vige in Europa. Le politiche di chiusura e rifiuto nei confronti dei migranti, non sono state accompagnate da adeguati percorsi per l’inclusione e questo ha contribuito ad esacerbare gli umori xenofobi e la paura dell’invasione da parte delle società di accoglienza. “ll quadro normativo europeo che si è andato delineando nell’ultimo decennio, se segna decisamente il superamento della politica della “fortezza Europa che aveva caratterizzato gli anni Novanta, aprendosi a una valutazione positiva del contributo che l’immigrazione può dare al rilancio economico della zona euro e al contenimento del deficit demografico, come sottolineato anche dalla nuova strategia                                                                                                                

26  Boswell C., Geddes A., Migration and Mobility in the European Union, Great Britain, Palgrave

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“Europa 2020”, resta comunque fortemente incentrato su una definizione economica dell’immigrazione, e in ogni caso non mette in discussione la prerogativa ultima degli stati membri di definire in maniera autonoma le loro priorità di policy dell’immigrazione”27. Il ruolo dell’UE sarà tanto più importante quanto riuscirà a condurre gli stati europei verso una politica comunitaria che sia in grado di cogliere i cambiamenti del fenomeno migratorio, abbandonando definitivamente l’ottica repressiva e riconsiderandone le potenzialità, non solo dal punto di vista economico. Un nuovo approccio dell’Unione Europea all’argomento, potrebbe essere quello di stimolare il dibattito sui potenziali vantaggi delle migrazioni circolari e delle mobility partnership. Con partenariati per la mobilità s’intendono degli accordi con paesi terzi per consentire un migliore accesso all’UE da parte dei cittadini di nazioni extra europee. Questi offrono delle occasioni concrete per il dialogo e la cooperazione tra l'UE ei suoi Stati membri, da una parte, e i paesi non UE, dall'altro. La cooperazione si concentra principalmente su tre aree: migrazione legale, migrazione e sviluppo e la lotta contro la migrazione irregolare. Anche le migrazioni circolari sono un concetto nuovo, che differisce dalle migrazioni temporanee poiché implicano la ripetitività, non implicano la possibilità dello stanziamento. Su proposta della commissione si vuole promuovere la discussione su questi temi con lo scopo di gestire meglio le migrazioni, di contrastare gli ingressi clandestini e di far beneficiare di questo processo anche i paesi di origine degli immigrati. Questo perché, “both circular migration and mobility partnerships addresses a weakness in traditional immigration policies, namely that they have an inbuilt tendency to encourage migration to become permanent. This is because they do not tend to create the possibility for retourn”28. Questo limite delle politiche d’immigrazione causa una mancanza di flessibilità nella migrazione dei lavoratori stranieri che diminuisce le potenzialità economiche date dalla circolazione della forza lavoro.

A parere della Commissione, le due forme di migrazione circolare più adatte al contesto europeo sono:

1. “Quella di cittadini di paesi terzi stabiliti nell’UE: è il caso degli

                                                                                                               

27 Rapporto FIERI per CNEL, Settembre 2013, pp.9.

28  Boswell C., Geddes A., Migration and Mobility in the European Union, Palgrave Macmillan, 2011,

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imprenditori cittadini di paesi terzi che lavorano nell’UE e che desiderano avviare un’attività nel loro paese di origine, o in un altro paese terzo;

2. quella di cittadini di paesi terzi che risiedono al di fuori dell’UE: è il caso, in particolare, di coloro che desiderano assumere un impiego stagionale o temporaneo nell’UE, oppure intendono studiare nell’UE prima di rientrare nel paese di origine”29.

Naturalmente per promuovere questo tipo di migrazione e facilitarne lo sviluppo è necessario che tutti gli stati adeguino le proprie legislazioni, armonizzandole a livello europeo, inserendo, ad esempio, incentivi alla mobilità. A prescindere però dai tentativi di promuovere nuove forme di migrazione e di coinvolgimento dei paesi terzi nel processo migratorio, resta il problema dell'integrazione di queste persone nel tessuto sociale europeo e questo può avvenire principalmente partendo dal superamento della visione dell’immigrazione come problema. Preso atto del fallimento delle politiche dei decenni passati, ci s’interroga sulle possibili soluzioni in grado di tenere conto non solo di considerazioni di utilità economica ma anche d’integrabilità sociale. “Si è andato così delineando, e progressivamente affermando, una linea di policy che considera possibile e utile, se non addirittura necessario, “preparare l’integrazione”, sia mediante la selezione degli immigrati dotati di maggiori potenzialità di inserimento economico, civico e culturale, sia spostando fuori dalle frontiere test e processi di integrazione o anticipandone almeno i tempi (all’arrivo o immediatamente dopo)”30. L’integrazione dei migranti è uno degli argomenti più trascurati dalla politica comune, nonostante dovrebbe rappresentare uno dei pilastri portanti della comunità europea. Un altro tema particolarmente importante, complementare a quello dell’integrazione, riguarda la cittadinanza europea e i diritti politici degli immigrati. Il tema è stato delegato alla sovranità dei singoli Stati membri creando così una disomogeneità normativa che determina una disparità di trattamento giuridico tra comunitari e non comunitari da un lato e dall’altro tra immigrati non comunitari che risiedono in diversi paesi dell’Unione. Il trattato di Maastricht stabilisce che è cittadino europeo chiunque abbia la cittadinanza                                                                                                                

29 Migrazioni internazionali e partenariati per la mobilità, http://www.europa.eu/. 30 Rapporto FIERI per CNEL, Settembre 2013, pp.4.

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di uno stato membro, qualche anno più tardi è il trattato di Amsterdam a specificare che la cittadinanza europea completa, ma non sostituisce, la cittadinanza nazionale. Il riconoscimento della cittadinanza europea assoggettato al requisito della nazionalità dei paesi membri, rischia di ritardare il processo di unificazione politica e di conseguenza il consolidamento di un modello europeo di cittadinanza. Per questo “è essenziale oggi riappropriarsi dell’elaborazione di un pensiero forte capace di promuovere l’allargamento ed il rafforzamento dello stesso concetto di cittadinanza europea, attraverso l’introduzione di canali regolati di acquisizione facilitata a individui di origine extra-europea (per esempio, attraverso l’affermazione universale della regola dello jus soli ai figli di migranti nati sul territorio del continente)”31. L’accesso a questo tipo di cittadinanza, non ha solo un valore simbolico particolarmente importante per la coesione sociale, ma consente l’accesso a diritti che sono fondamentali per una completa integrazione sociale di queste persone. La libertà di circolazione e di soggiorno nei territori Ue, i diritti politici, come votare ed essere eletti, sono solo alcune delle garanzie che sono acquisite con la cittadinanza europea. È paradossale che ancora oggi ci sia l’esclusione dei residenti di lunga durata da questo tipo di diritti, una categoria di cittadini che pur non avendo la cittadinanza di uno stato membro, risiede stabilmente in Europa e contribuisce come gli autoctoni al suo sviluppo. Nazionalità e cittadinanza sono concetti “di chiusura sociale che determinano i limiti (o l’esclusione) alla partecipazione di alcuni esterni ad alcune interazioni sociali”32. Deriva da questo l’importanza su un’eventuale estensione della cittadinanza europea anche agli immigrati lungo residenti, quella che viene chiamata “cittadinizzazione”, potrebbe aprire scenari importanti per la costruzione di una nuova Europa.

                                                                                                               

31 Leca J., Nazionalità e cittadinanza nell’Europa delle immigrazioni, in Italia, Europa e nuove immigrazioni, Torino, Edizioni della Fondazione Agnelli, 1990.

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