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Il contributo del private equity e del private debt nella crescita e nello sviluppo delle aziende familiari: il caso Renzini S.p.A.

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Università degli Studi di Pisa

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT

Corso di Laurea Magistrale in

Strategia Management e Controllo

Tesi di Laurea

Il contributo del private equity e del private debt nella crescita e nello sviluppo delle aziende familiari: il caso Renzini S.p.A.

Candidata: Manuela Bello Relatore: Nicola Lattanzi

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I

Indice

Premessa 1

Capitolo primo 4

Introduzione alle family business: connotazioni distintive delle piccole e medie imprese sul

territorio nazionale 4

1.1. Caratteristiche e funzionamento dei modelli capitalistici diffusi nel contesto

internazionale 4

1.1.1. Modello capitalistico anglosassone e tedesco giapponese: un confronto 6 1.1.2. Modello capitalistico italiano: caratteristiche e peculiarità 9 1.2. Il sistema produttivo italiano: evidenze empiriche 14 1.2.1. Il sistema produttivo italiano nel contesto nazionale ed europeo 14 1.2.2. Il radicamento territoriale: i benefici derivanti dall’appartenenza ad un

distretto industriale 17

1.3. L’Italia e la crisi finanziaria: gli effetti del credit crunch sulle imprese 22 1.4. Azienda familiare di successo: il ruolo della dimensione aziendale 25

Capitolo secondo 32

Il mercato del private equity e del private debt: meccanismo e modalità di funzionamento

sotto il profilo teorico 32

2.1. Introduzione: i fondi comuni di investimento 32

2.2. Attività di private equity: inquadramento teorico e aspetti definitori 35

2.2.1. Private equity e corporate governance 36

2.2.2. Tipologie di investimenti di private equity 40

2.2.2.1. Finanziamenti all’avvio 41

2.2.2.2. Finanziamento allo sviluppo 42

(4)

II

2.2.3. Il processo di investimento: la sequenza delle fasi 45

2.3. Il Private Debt fund 50

Capitolo terzo 61

Le determinanti che incidono sulla continuità delle imprese familiari: criticità e fattori di

sviluppo 61

3.1. Piccola impresa e longevità aziendale: i fattori che influiscono sulla continuità delle

imprese familiari 61

3.1.1. Quando la piccola dimensione diventa patologica: il fenomeno del nanismo

aziendale 63

3.1.2 . Il ciclo di vita delle aziende familiari e il fenomeno del passaggio

generazionale 64

3.1.2. La corporate governance nelle aziende familiari 68 3.2. Principali rischi e modalità di finanziamento nelle aziende familiari 75

3.2.1. Le diverse tipologie di rischi supportati 75

3.2.2. Modalità di finanziamento di un’azienda familiare 79

3.3. L’importanza di pianificare 81

Capitolo quarto 84

Il contributo del private equity e del private debt alla crescita delle aziende familiari 84 4.1. L’impatto quali-quantitativo del private equity nelle aziende familiari 84 4.2. La valutazione della validità dell’investimento: la prospettiva dal lato

dell’imprenditore e dell’investitore 92

4.2.1. Valutare l’investitore: la scelta del partner ottimale da parte dell’impresa 94 4.2.2. La scelta dell’impresa da parte dell’investitore: le condizioni che inducono a

investire in un’impresa familiare 96

Capitolo quinto 99

Renzini alta Norcineria e Gastronomia 99

5.1. Introduzione: viaggio in Umbria, dove la norcineria è un’arte antica 99 5.2. Salumificio Renzini S.p.A.: cento anni di storia 100

(5)

III

5.3. Strategia e imprenditorialità: qualità, tradizione e innovazione “Made in Umbria” 104 5.4. Tradizione e innovazione: l’impegno della famiglia Renzini negli anni 110 5.4.1. Il radicamento territoriale quale acceleratore allo sviluppo dell’impresa 113 5.4.2. Il ruolo del Fondo di investimento per garantire il prosperare dell’azienda 116 5.5. SICI S.P.A e Gepafin S.p.A.: sostegno per lo sviluppo di Renzini 117 5.5.1. Introduzione al caso aziendale: conosciamo gli investitori 118 5.5.1.1. SICI S.p.A. – Sviluppo Imprese Centro Italia 119 5.5.1.2. Gepafin S.p.A. – Società Finanziaria partecipata della regione Umbria 123 5.5.2. La natura dell’investimento, la strategia e gli obiettivi dell’operazione di

investimento 124

5.5.3. La valutazione della fattibilità dell’investimento: cambiamenti richiesti e

realizzati 127 5.6. Scenari futuri 137 Conclusioni 141 Bibliografia 152 Elenco Figure 156 Elenco Tabelle 156

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1

Premessa

Dire che il tessuto industriale italiano è composto primariamente da piccole e medie imprese non costituisce affatto una novità, tutt’altro. Basta leggere un quotidiano o ascoltare il notiziario televisivo o radiofonico per sentir parlare della piccola e media impresa come capace di animare il territorio nazionale.

Ho maturato negli anni un acceso e sincero interesse nei confronti della piccola e media impresa, dovuto forse alla mia reale vicinanza ad un noto distretto industriale toscano che mi ha reso consapevole della tenacia con cui queste piccole entità e gli imprenditori che ne costituiscono l’essenza, cerchino di farsi spazio in un mondo ormai in continuo cambiamento.

Oggetto di questa trattazione non sarà direttamente la piccola e media impresa italiana bensì una particolare categoria di impresa che caratterizza in modo egemone il suo tessuto imprenditoriale, ovvero l’impresa familiare. La tematica delle imprese familiari è molto delicata soprattutto in merito a questioni di tipo culturale e istituzionale. La continua simbiosi che spesso divampa tra valori aziendali e valori familiari può incidere negativamente sulla gestione dell’impresa a causa dei continui conflitti che erompono tra soggetti appartenenti allo stesso nucleo familiare.

Il percorso di studi che ho intrapreso in questi anni mi ha più volte messo davanti al fenomeno del private equity quale valida alternativa riconosciuta dagli imprenditori italiani per la soluzione di diversi momenti di criticità della vita aziendale.

Ho quindi pensato di unire il mio interesse verso le realtà italiane di piccola dimensione ad un fenomeno che offre la possibilità di avere un sostegno finanziario alla creazione di valore, oltre ad un supporto di tipo manageriale da parte dell’investitore istituzionale che mette a disposizione la sua esperienza e la sua competenza, oltre ad una serie di possibili contatti esterni con imprenditori operanti nel settore stesso o in altri settori. I primi quattro capitoli della presente trattazione hanno lo scopo di andare a gettare le fondamenta per la stesura dell’ultimo capitolo in questione (il quinto) che vedrà protagonista la Renzini S.p.A., azienda familiare Umbra specializzata nella produzione di

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alta norcineria, nata nel 1977 ma che ha origine ancora più remote risalenti alla fine nella Grande Guerra. Gli indiscussi successi ottenuti in quasi un secolo di attività hanno ispirato la quarta generazione che oggi gestiste l’assetto operativo e strategico dell’azienda, a non fermarsi ai consensi ottenuti ma a pretendere ancora di più. La partnership con due noti investitori finanziari, SICI S.p.A. e Gepafin S.p.A., consentirà alla Società di scalare vette più alte e quindi di raggiungere gli obiettivi di crescita e sviluppo previsti dal piano industriale redatto in occasione dell’instaurazione di questa relazione. Il primo capitolo, di puro scopo introduttivo, si riferisce principalmente al sistema capitalistico italiano analizzandone le caratteristiche e le peculiarità che più lo contraddistinguono dai sistemi capitalistici più diffusi a livello internazionale, ovvero quello anglosassone e quello tedesco-giapponese riportando anche evidenze empiriche a riprova di quanto esposto su base teorica. Il presente capitolo accenna inoltre agli effetti che il credit crunch ha avuto sulle imprese italiane e di come la morsa del credito abbia costretto (e costringa) le imprese italiane a far ricorso a forme alternative di finanziamento (tra cui il provate equity e il private debt) per soddisfare il loro fabbisogno finanziario.

Concluderemo il primo capitolo cercando di dare risposta alla seguente domanda: “svincolare la famiglia dalla gestione dell’azienda, attribuendo questa funzione a manager ed amministratori esterni, consente di classificare un’azienda come familiare?”. Questa domanda in realtà si porta dietro una serie di riflessioni che è giusto fare relativamente alla dimensione aziendale. Sfateremo il falso mito che l’azienda familiare è solo e soltanto un’azienda di piccole dimensioni, prendendo atto del fatto che un’azienda può rimanere familiare, anche se la famiglia si svincola dalla diretta gestione dell’impresa affidandola a soggetti terzi.

Il secondo capitolo si concentra su aspetti prettamente teorici relativamente al private equity e al private debt. Cercheremo, dunque, di capire il loro meccanismo di funzionamento, quali sono le tipologie di operazioni esistenti di cui un’impresa si può avvalere e qual è la sequenza delle fasi da porre in essere per realizzarle.

Il terzo capitolo tratterà invece delle determinanti che incidono sulla continuità delle imprese familiari. Approfondiremo le tematiche della dimensione aziendale e del ciclo

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3

di vita delle aziende familiari e considereremo l’importanza che assumono gli assetti di corporate governance anche, e soprattutto, in questa particolare categoria d’impresa. Parleremo, inoltre, dei principali rischi che corre un’azienda familiare nel corso della sua vita e che possono compromettere la loro longevità, tra cui il rischio finanziario, accennando alle principali forme di finanziamento a cui queste aziende possono far ricorso, sottolineando per ognuna vantaggi e problematiche attinenti.

Il quarto capitolo esaminerà l’impatto che un operatore di private equity o di private debt può avere su un’azienda familiare il cui obiettivo è lo sviluppo del proprio business. Vedremo nello specifico quali sono le condizioni che devono sussistere affinché entrambe le parti siano propense a fidarsi l’una dell’altra.

L’ultimo capitolo si riferirà ad una testimonianza aziendale, la Renzini S.p.A., che prende il nome dall’omonima famiglia e che ho personalmente analizzato grazie al sostegno ricevuto di SICI S.p.A. e grazie al contatto che ho instaurato con la famiglia stessa e che ringrazio sentitamente per il tempo che mi hanno dedicato nonostante lo sciame sismico che ha recentemente investito il loro territorio abbia completamente raso al suolo uno dei loro prosciuttifici, quello di Norcia. Sono profondamente vicina alla famiglia in questo delicato e difficile momento consapevole che la loro risolutezza e la loro caparbietà gli permetterà di ripartire e di continuare a radicare la loro differenza.

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4

Capitolo primo

Introduzione alle family business: connotazioni distintive delle

piccole e medie imprese sul territorio nazionale

1.1. Caratteristiche e funzionamento dei modelli capitalistici diffusi nel contesto internazionale

Obiettivo di questo paragrafo è mettere in luce i tratti caratterizzanti del sistema produttivo italiano. A tal fine confronteremo il modello capitalistico italiano con i sistemi capitalistici più diffusi e conosciuti a livello internazionale, quello anglosassone e quello tedesco-giapponese, evidenziando i tratti comuni e quelli che invece differenziano i tre modelli. Il sotto paragrafo 1.1.1 metterà in evidenza le differenze tra il modello capitalistico anglosassone e quello tedesco giapponese; il sotto paragrafo 1.1.2, invece, si concentrerà sul modello capitalistico italiano.

Quando facciamo riferimento ad un modello capitalistico si descrivono le caratteristiche di un sistema-paese e delle imprese che in esso svolgono la loro attività produttiva, concentrandosi su aspetti come: il modello di governance adottato (tradizionale, monistico o dualistico), l’assetto proprietario (sia esso ad azionariato diffuso, concentrato nelle mani di una o più famiglie o altro), le relazioni intrattenute tra le imprese, il ruolo e il funzionamento del mercato dei capitali.

Gli studi sulle diverse forme di capitalismo si sono sviluppate a partire dagli anni Novanta in concomitanza con il verificarsi di alcuni avvenimenti che attirarono l’attenzione di accademici, politici e dell’opinione pubblica. Negli Stati Uniti, ad esempio, la perdita di competitività che il paese ha sviluppato verso la fine degli anni Ottanta rispetto all’economia giapponese, fecero sorgere un dubbio sull’efficacia delle strutture di corporate governance adottate dalle imprese statunitensi nel disciplinare il comportamento del management orientandolo alla creazione di valore per gli azionisti.

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Per quanto riguarda invece gli avvenimenti a livello internazionale, basti pensare al crescente peso degli investitori istituzionali anglosassoni nel capitale di rischio delle grandi imprese di ogni paese o al processo di armonizzazione della normativa realizzato dalla Comunità Economica Europea a partire dagli anni ‘701.

Nel primo caso ci riferiamo agli investitori istituzionali che hanno incrementato il loro peso nell’azionariato delle aziende quotate grazie ad una maggiore propensione dei risparmiatori ad affidare a loro la gestione dei propri risparmi. Gli investitori istituzionali tradizionalmente non intervenivano direttamente nella gestione delle aziende partecipate e nel caso in cui non condividevano le scelte gestionali del management e/o non erano soddisfatti dei risultati conseguiti si limitavano a vendere la propria partecipazione sul mercato (strategia di exit). Il loro ruolo diventa più incisivo quando il paese e l’economia si evolvono e insieme a loro le famiglie che iniziano ad affidare i loro risparmi a dei Fondi piuttosto che tenerli sul conto corrente. Il denaro fornito dalle famiglie viene utilizzato dagli investitori istituzionali per entrare nel capitale di rischio delle imprese e conseguentemente, anche il loro ruolo nella governance aziendale si è potenziato. Hanno iniziato dunque, gradualmente, a modificare il proprio approccio, cercando di influenzare le decisioni aziendali tramite la partecipazione attiva agli organi istituzionali delle aziende partecipate (strategia di voice). I rappresentanti degli investitori istituzionali partecipano infatti sempre più spesso alle assemblee delle aziende quotate, chiedendo spiegazioni e chiarimenti sull’andamento economico-finanziario, esponendo i propri piani strategici e proponendo candidati negli organi di amministrazione e controllo2.

Nel secondo caso ci riferiamo all’impegno della Comunità Economica Europea che, a partire dagli anni ’70, ha iniziato ad elaborare alcune direttive per armonizzare il diritto societario tra gli stati membri. La proposta che suscita maggiori tensioni è la quinta del 1972 che propone alle imprese europee di abbandonare la struttura del consiglio di amministrazione ad un livello per adottare la struttura a due livelli tipica dell’esperienza tedesca e olandese3.

1 A. ZATTONI; Assetti proprietari e corporate governance, EGEA, Milano, 2006

2 M. GALEOTTI, S. GARZELLA, Governo strategico dell’azienda, G. Giappichelli, Torino, 2013 3 A. ZATTONI; Assetti proprietari e corporate governance, cit.

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Le economie capitaliste a cui faremo riferimento non sono tra loro omogenee ma presentano caratteristiche peculiari assai differenti.

Ci concentreremo sul modello capitalistico anglosassone, tipico delle imprese statunitensi e britanniche, sul modello capitalistico renano, tipico dell’Europa occidentale, prima tra tutti la Germania, sul modello nipponico, tipico delle imprese giapponesi e sul modello capitalistico italiano.

Vediamoli nel dettaglio nei sotto paragrafi successivi.

1.1.1. Modello capitalistico anglosassone e tedesco giapponese: un confronto

Il modello capitalistico anglosassone, è definito market oriented o outsider system «per la forte enfasi che pone sul ruolo del mercato dei capitali come strumento in grado di disciplinare il management e favorire la creazione di valore per gli azionisti»4. Il modello

capitalistico anglosassone fa riferimento alle così dette società ad azionariato diffuso o public company, il cui capitale di rischio è frazionato tra un elevato numero di piccoli risparmiatori ed in cui il sistema di governance predilige la separazione tra la proprietà e il controllo, attribuendo la gestione dell'impresa a manager professionisti. Azionisti e manager, infatti, tendono a non coincidere in quanto gli investitori non sono interessati a partecipare direttamente al governo dell’azienda, essendo attratti invece dalla sua capacità di distribuire dividendi e/o di crescita di valore. Ci riferiamo quindi ad imprese quotate che accedono alla Borsa valori per reperire risorse finanziarie finalizzate alla crescita nel lungo periodo5. Ciò che si riscontra è una separazione tra il ruolo attribuito

all’assemblea dei soci, che ha un’influenza minima sulle decisioni di governo economico, e il consiglio di amministrazione, massima espressione del management, che invece ha un ruolo gestorio all’interno dell’impresa.

Il modello capitalistico tedesco-giapponese, è definito network oriented o insider system «per la forte enfasi che attribuisce alle relazioni tra imprese industriali e finanziarie e per la presenza di una coalizione di azionisti di controllo»6. Se nel modello capitalistico

anglosassone c’è un basso grado di concentrazione della proprietà, nel modello

4 Ibid. pag. 168

5 F. FORTUNA, Corporate governance, soggetti, modelli e sistemi, Franco Angeli, Milano, 2007 6 A. ZATTONI, Assetti proprietari e corporate governance, cit.

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capitalistico in esame, al contrario, si ha un maggior grado di concentrazione proprietaria incentrata nelle mani di un azionista di riferimento7 che in genere è rappresentato da un’impresa industriale o da una banca (bankholder). La presenza di una struttura azionaria maggiormente concentrata e la volontà dei principali azionisti di esercitare un forte condizionamento sulle decisioni di governo economico delle imprese, riduce la possibilità che si crei quella separazione tra proprietà e controllo che caratterizza le grandi imprese anglosassoni.

La struttura azionaria delle grandi imprese tedesche e giapponesi si caratterizza inoltre per il maggior peso ricoperto dalla banche che possono detenere quote significative di capitale oppure essere normali finanziatori; tali imprese, infatti, si distinguono per un sistema di finanziamento orientato al ricorso al capitale di debito e per una accentuata partecipazione delle banche al capitale di rischio8.

Inoltre, in Germania e in Giappone i rapporti tra le imprese che operano nello stesso settore sono più orientati alla cooperazione rispetto a quanto avviene nei paesi anglosassoni9. Infatti, nel modello anglosassone le imprese presentano un maggior

grado di integrazione verticale, le relazioni interaziendali sono gestite attraverso meccanismi di mercato e i contratti sono formalizzati e di breve periodo. Non è inoltre possibile intrattenere rapporti cooperativi con aziende concorrenti a causa della rigida normativa antitrust che vincola le imprese statunitensi. Nel sistema tedesco-giapponese, viceversa, le relazioni interaziendali sono collaborative, i contratti sono rafforzati dalla presenza di partecipazioni azionarie e di norme sociali e gli accordi cooperativi tra le aziende che operano nel medesimo settore sono frequenti.

In virtù delle diverse normative e consuetudini diffuse all’interno dei paesi, oltre alla maggiore concentrazione azionaria e alla presenza di un azionista di controllo, il consiglio di amministrazione delle imprese tedesche e giapponesi ha una composizione e una struttura diversa rispetto a quello delle imprese statunitensi e britanniche. In particolare, in Germania, la normativa prevede che alcune tipologie societarie istituiscano un consiglio di amministrazione a due livelli (modello dualistico), ovvero costituito da due organi distinti ma gerarchicamente subordinati: un consiglio di

7 F. FORTUNA, Corporate governance, soggetti, modelli e sistemi, cit. 8 A. ZATTONI, Assetti proprietari e corporate governance, cit. 9 Ibid. pag.177

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direzione (organo a cui sono affidati compiti gestori) e un consiglio di sorveglianza (che controlla l’operato del consiglio di direzione, nomina e revoca i suoi amministratori e determina i loro compensi). La composizione dei due organi è determinata dalla legge in modo tale da garantire un’effettiva rappresentanza dei principali interlocutori sociali. Infatti, il consiglio di sorveglianza è eletto da entrambe le categorie di portatori di interessi istituzionali: i conferenti capitale di rischio e i prestatori di lavoro10.

In Giappone, invece, i consigli di amministrazione hanno dimensioni maggiori rispetto a quelli delle imprese europee e pur in assenza di obblighi normativi che impongono la presenza di rappresentanti dei lavoratori al loro interno, la cultura su cui si basa il paese spinge i manager a soddisfare gli interessi tanto degli azionisti quanto dei prestatori di lavoro.

La figura sottostante (Figura 1) mostra le principali caratteristiche dei due modelli appena esposti.

Figura 1 - Caratteristiche del modello capitalistico anglosassone e tedesco-giapponese

Concentriamoci adesso sul modello capitalistico italiano, che è quello che interessa in modo preponderante questo lavoro, evidenziando le differenze con i modelli capitalistici appena esposti e presentando le caratteristiche delle imprese che lo compongono.

10 D. M. SALVIONI, L. BOSETTI, Relazione di governance e Stakeholder View, Symphonya Emerging Issue in Management (www.unimib.it/symphonya), n.1, 2006

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1.1.2. Modello capitalistico italiano: caratteristiche e peculiarità

L’impresa più rappresentativa del modello capitalistico italiano è la piccola media impresa (PMI) a conduzione familiare.

Prima di approfondire la questione è necessario comprendere che cosa si intende per family business e cosa le distingue dalle non family business. In letteratura è tutt’oggi assente una definizione globalmente condivisa. Sono molteplici i contributi forniti dagli studiosi di economia e management a riguardo e non sarà oggetto di questa tesi riportare un’ampia visione dei contributi da loro offerti. È utile sapere che le classificazioni fornite in merito alle aziende familiari sono svariate perché diversi sono i parametri distintivi che vengono considerati, quali le posizioni di controllo, le relazioni famiglia-impresa, il capitale sociale. Ciò su cui si ha certezza è l’intersezione all’interno di una family business di due istituti sociali differenti: la famiglia, fondata su affetti e solidarietà, e l’impresa, il cui obiettivo è la realizzazione di un profitto. È chiaro che tali istituti presentano caratteristiche e regole di comportamento diversi dalle quali possono scaturire conflitti e tensioni se non adeguatamente gestiti.

Se provassimo a chiedere ad un soggetto che non ha conoscenza alcuna sul tema delle family business, che cosa egli effettivamente intenda per “azienda familiare”, con molta probabilità egli risponderebbe che “è familiare un’azienda di piccole dimensioni in cui i proprietari e i lavoratori appartengono allo stesso nucleo familiare”. Questa definizione coincide con quella che venne data agli albori delle ricerche sulla tematica in questione ma vedremo che non è completamente corretta.

Le domande che potremmo porci sono tre:

1. Un’azienda familiare assume sempre il connotato della piccola dimensione? Discuteremo e risponderemo a questa domanda nel paragrafo 1.4.

2. È sufficiente il possesso da parte di una o più famiglie di quote di partecipazione che consentono di esercitare il controllo sull’azienda per definirla come familiare, oppure è necessario il coinvolgimento di più generazioni nella proprietà e nel controllo11?

11 Controllo inteso come l’influenza determinante sulle decisioni relative agli obiettivi di medio-lungo periodo dell’impresa, alle strategie per conseguirli, allo sviluppo economico-finanziario e agli investimenti

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3. Svincolare la famiglia dalla gestione dell’azienda, attribuendo questa funzione a manager ed amministratori esterni, consente di classificare un’azienda come familiare? Daremo risposta a questa domanda contestualmente alla prima nel paragrafo 1.4.

In maniera più intuitiva:

- Può essere considerata familiare un’azienda appena costituita da due fratelli, oppure è necessario che passino il testimone ai figli affinché questa possa essere considerata familiare nella vera accezione del termine?

- Se la gestione dell’impresa è affidata a manager esterni professionisti e la famiglia, pur rimanendo proprietaria, è svincolata dalla gestione e viene coinvolta solo per le decisioni più rilevanti, possiamo parlare di azienda familiare?

In una prima analisi possiamo dare una definizione di azienda familiare in senso ampio e in senso stretto.

Si definisce familiare in senso ampio l’azienda in cui si ha il possesso da parte di una o più famiglie di una quota che consenta di esercitare il controllo sull’impresa.

Si definisce familiare in senso stretto l’azienda che unisce ai connotati precedentemente delineati, l’ulteriore elemento di coinvolgimento di più generazioni nella proprietà e nel controllo.

Con tale distinzione andiamo a rispondere alla seconda domanda (“È sufficiente il possesso da parte di una o più famiglie di quote di partecipazione che consentono di esercitare il controllo sull’azienda per definire un’azienda come familiare, oppure è necessario il coinvolgimento di più generazioni nella proprietà e nel controllo?”). Sicuramente non può essere considerata familiare un’azienda costituita dal solo fondatore, per lo meno non finché questo non decide di passare il testimone ai propri discendenti o affini. Fino a quel momento l’azienda è di tipo imprenditoriale.

Si potrebbe invece considerare familiare l’azienda fondata da due fratelli, i quali però devono avere almeno l’intento di proseguire l’attività d’impresa con i rispettivi figli o con soggetti a loro legati da stretti vincoli di parentela. Si parla infatti di azienda familiare in senso stretto quando è stato affrontato almeno un passaggio generazionale, ovvero

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quando si ha il trasferimento delle quote di partecipazione dal/dai fondatore/i ai discendenti.

Fatta questa premessa possiamo proseguire con l’analisi del tessuto industriale italiano. Abbiamo fatto presente che le PMI rappresentano il cuore dell’economia nazionale. Esistono tre diverse tipologie di PMI12:

- Tradizionali: sono le PMI più rappresentative del sistema produttivo italiano. Si tratta di aziende familiari che operano in settori caratterizzati da bassa competitività rivolgendosi principalmente a nicchie di mercato. Un’impresa a questo “stadio” trova spesso difficile realizzare un processo di crescita dimensionale.

Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, queste aziende si rivolgono principalmente al sistema bancario mentre sono quasi del tutto assenti i rapporti con altri intermediari finanziari.

- In transizione: parliamo di imprese che stanno realizzando un processo di crescita e sviluppo, ad esempio una transazione strategica o generazionale. Questo processo di sviluppo necessita di un ricorso al sistema finanziario che generalmente è una o più banche.

- Complesse: ci riferiamo ad imprese che operano in settori altamente competitivi e che producono e vendono anche a livello internazionale.

Essenziale in questo contesto è il ruolo della banca, ma l’impresa è aperta anche all’intervento di operatori, quali fondi di private equity e/o di private debt13.

Nonostante le PMI siano il modello di impresa più diffuso, per ragioni di completezza, è necessario far notare che il tessuto industriale italiano ospita anche altre tipologie di imprese, presenti in misura meno incisiva14:

- grandi gruppi piramidali controllati da singole famiglie o da coalizioni di azionisti;

- grandi imprese e grandi gruppi controllati dallo Stato o dagli enti locali;

12 M. ZANOBIO, I modelli di capitalismo, N. 1304, VP VITA E PENSIERO, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2013

13 Approfondiremo il concetto di Private Equity nei capitoli seguenti 14 A. ZATTONI, Assetti proprietari e di corporate governance, cit.

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12 - cooperative e consorzi;

- filiali di multinazionali estere.

In sintesi, nel modello capitalistico italiano non si riscontra né un ruolo prevalente della Borsa, tipico delle imprese anglosassoni, né un ruolo gestorio della banca come nel sistema tedesco. Prevalgono ancora imprese pubbliche o semiprivate, poche famiglie che controllano grandi imprese e tante piccole e medie imprese a conduzione familiare, che necessitano di sostegno finanziario per realizzare un processo di crescita e sviluppo. In definitiva, il sistema italiano presenta le seguenti caratteristiche:15

- elevata concentrazione della proprietà, con una limitatissima separazione tra proprietà e controllo;

- rilevanti presenze di gruppi piramidali di matrice familiare;

- intervento non significativo da parte di investitori istituzionali, sebbene il ricorso ad operatori di private equity sia in espansione.

Soffermiamoci sul primo punto (elevata concentrazione della proprietà, con una limitatissima separazione tra proprietà e controllo) che è quello che meglio riesce ad esplicitare l’essenza della governance delle tipiche aziende familiari italiane.

Le PMI italiane, in particolar modo quelle tradizionali, sono fortemente influenzate dalle convinzioni e dalla storia della famiglia proprietaria. L’assetto proprietario risulta essere costituito da pochi azionisti legati da vincoli di parentela. Ci troviamo spesso di fronte ad una sovrapposizione tra la famiglia proprietaria e l’impresa e di conseguenza la mission aziendale è condizionata dalla volontà e dalle aspirazioni dell’imprenditore che è lo stesso che definisce la strategia aziendale.

Il consiglio di amministrazione di queste aziende, per lo meno quelle di prima e seconda generazione, è costituito dagli stessi familiari e assume un ruolo puramente formale e non sostanziale, ovvero le decisioni vengono prese dall’imprenditore e dai suoi discendenti “a tavolino” con discussioni e scambi di opinioni. Le figure manageriali, se esistenti, sono per lo più ricoperte dai figli dell’imprenditore.

Queste aziende, si caratterizzano molto spesso per un’eccessiva avversione al rischio che le porta ad essere orientate alla conservazione più che alla crescita, ad avere un

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basso livello di indebitamento e una scarsa apertura del capitale di rischio, oltre che una scarsa propensione ad innovare ed espandersi in mercati internazionali. Tali aziende mostrano inoltre resistenza nel far ricoprire ruoli manageriali e dirigenziali a soggetti esterni all’impresa ed estranei alla famiglia per timore che questa perda buona parte del controllo.

Questi caratteri tipici delle PMI costituiscono spesso dei punti di debolezza generati dalla stessa famiglia la quale si pone come un freno allo sviluppo dell’impresa e non come un suo propulsore.

È chiaro che quanto appena riportato sia un modello di comportamento tipico delle aziende familiari italiane ma che non deve valere in assoluto. La corretta conduzione dei passaggi generazionali, accompagnati da un’adeguata evoluzione nel rapporto famiglia-impresa, da una apertura nei confronti di soggetti esterni e dall’attuazione di un adeguato processo di apprendimento di conoscenze e competenze, consente di creare ottime opportunità di sviluppo e crescita aziendale. È grazie infatti a questa evoluzione che nascono quelle PMI che precedentemente abbiamo definito come “in transizione” e “complesse”.

Quanto esposto lascia pensare che il modello italiano sia più simile alla tipologia “insider system”. Negli ultimi anni, però, il sistema economico italiano, spinto dal processo il integrazione europea e, più in generale, dalla globalizzazione dei mercati reali e finanziari, ha iniziato a percorrere una nuova strada che lo spingerà ad assumere i caratteri tipici dei modelli anglosassoni16. Il cambiamento in atto si basa su eventi che

segnano il passaggio da un’economi mista a un’economia di mercato, quali:

- il processo di privatizzazione che porta al declino del capitalismo pubblico; - l’apertura delle famiglie imprenditrici a nuovi soggetti investitori, che porta ad

un ridimensionamento del capitalismo familiare, necessario per rimanere competitivi sul mercato;

- lo sviluppo e la diffusione di una nuova cultura finanziaria, generata soprattutto dallo sviluppo del mercato borsistico che costituisce una valida alternativa all’indebitamento bancario.

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Cerchiamo adesso di dare una connotazione più oggettiva a quanto esposto in questo paragrafo, riportando nel paragrafo successivo alcuni dati di tipo quantitativo.

1.2. Il sistema produttivo italiano: evidenze empiriche

A riprova di quanto appena esposto, vengono proposti nei sotto paragrafi successivi alcuni dati quantitativi relativamente al sistema industriale italiano. Il paragrafo 1.2.1 conterrà dati frutto di studi condotti dall’ISTAT e dal Dipartimento delle Politiche Europee, per i cui approfondimenti si rimanda direttamente alle loro banche dati. Questo elaborato vuole riportare solamente i risultati utili a comprendere il ruolo e la posizione dell’industria italiana nel contesto nazionale ed in quello internazionale, principalmente in quello europeo.

Il paragrafo 1.2.2, dopo una breve introduzione sull’aspetto definitorio di distretto industriale, riporterà i dati ISTAT relativamente alla loro diffusione nel territorio italiano, soffermandosi poi, sulla base di uno studio condotto da Intesa San Paolo, sull’importanza che i distretti hanno per l’economia italiana e sulle migliori performance che le aziende “distrettuali” riescono ad ottenere rispetto alle aziende “non distrettuali”, facendo riferimento, inoltre, alla maggiore capacità che hanno avuto di reagire alla crisi finanziaria. Anche in questo caso, per gli approfondimenti si rimanda agli studi integrali a cui sarà fatto riferimento nelle note.

1.2.1. Il sistema produttivo italiano nel contesto nazionale ed europeo

In Italia, secondo le rilevazioni Istat del 201517 si contano 4,2 milioni di microimprese

(con meno di 10 addetti)18 che rappresentano il 95% del totale delle unità produttive e

impiegano 7,8 milioni di addetti (il 47% contro il 29% nella media europea).

17 Rapporto Annuale ISTAT, La situazione del Paese, 2015

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Le imprese di maggiori dimensioni (con 250 addetti o più) sono una quota particolarmente modesta: lo 0,1% delle imprese e il 19% degli addetti. Questa frammentazione, solo in parte mitigata dalla presenza di gruppi d’impresa, determina una dimensione media molto contenuta (3,9 addetti per impresa a fronte di una media europea di 6,8), una struttura proprietaria molto semplificata (le imprese individuali sono il 63,3%) e una quota di lavoratori indipendenti più che doppia di quella media europea.

Le ragioni che portano l’Italia ad ospitare una prevalenza di imprese di piccole (se non piccolissime) e medie dimensioni verrà trattata in modo esaustivo nel capitolo 3. Andiamo comunque ad accennare le cause di questo nanismo.

L’Italia senza ombra di dubbio è un paese a forte vocazione imprenditoriale. Tale vocazione deriva dalla cultura nazionale, dove si predilige l’impegno a fare, l’individualismo e la propensione al risparmio, ma anche da altri fattori. Primo tra tutti ricordiamo un sistema imprenditoriale prevalentemente di tipo familiare, in cui la gestione e il controllo dell’azienda sono quasi sempre in mano ai soli membri della famiglia. Secondo l’ISTAT19, gli assetti proprietari delle imprese italiane (con almeno tre

addetti) sono caratterizzati da un’elevata concentrazione delle quote di proprietà e da un controllo a prevalente carattere familiare. In media, i primi tre azionisti detengono oltre il 90% del capitale sociale dell’impresa, con una quota superiore al 55% attribuibile al primo socio; in oltre il 70% dei casi il controllo dell’azienda è esercitato direttamente o indirettamente da una persona fisica o da una famiglia.

Un secondo fattore causa del nanismo delle imprese italiane è ravvisabile nella presenza prevalente delle imprese in settori che attraversano una fase di maturità (condizione che preclude le possibilità di sviluppo e crescita), al quale si aggiungono i mutamenti tecnologici, spesso affrontati con ritardo rispetto agli altri paesi europei e in modo inefficace. L’analisi dei dati ISTAT20 mostra che l’elevata frammentazione del sistema

produttivo e una governance estremamente semplificata si riflettono sul comportamento e sulle performance delle imprese. Le imprese italiane rispetto a quelle europee hanno una minore propensione ad investire in ricerca e sviluppo (lo 0,7% del

19 Rapporto Annuale ISTAT, La situazione del Paese, cit. 20 Ibid. pag. 95

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PIL a fronte di una media Ue pari all’1,3%) e una minore intensità brevettuale (circa 75 brevetti per milione di abitanti contro 111 per l’Ue). La figura 1 dà una rappresentazione visiva di quanto esposto.

Figura 2- Brevetti e spesa per ricerca e sviluppo nella UE (valori assoluti)

Fonte: Elaborazione Istat su dati Eurostat

Con riferimento all’utilizzo di nuove tecnologie, nel 2013 le imprese italiane si caratterizzavano per una performance assai modesta nell’ambito dell’e-commerce, e in particolare delle vendite on line: l’8% delle imprese rispetto a una media Ue del 18%. Quelle accennate sono alcune delle variabili che determinano il manifestarsi del nanismo aziendale delle PMI italiane, argomento che, come già detto, avremo modo di approfondire nel capitolo 3 di questo elaborato. È interessante notare, tuttavia, come il nanismo non sia una malattia solo italiana. In effetti che l'Italia abbia un tessuto economico costituito in larghissima maggioranza da piccole e medie imprese è cosa nota, meno noto è il fatto che anche gli altri paesi europei siano caratterizzati da un contesto produttivo per molti versi comparabile con il nostro.

In effetti, le PMI rappresentano il 99,8% delle imprese europee (il 91,2% sono microimprese). Inoltre, il peso delle PMI appare determinante anche in termini di contributo alla crescita e all’occupazione: 75 milioni di europei lavorano presso una PMI,

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e il 55% della ricchezza dell’Unione dipende da queste realtà imprenditoriali21.

L’importanza delle PMI è particolarmente significativa in alcuni stati membri, tra cui figura senza dubbio l’Italia. La figura qui sotto (Figura 1) riporta il numero di PMI in rapporto al numero degli abitanti per stato membro (dati Eurostat 2008), e mostra che il nostro paese è tra quelli in cui le PMI hanno una diffusione maggiore.

Figura 3 - Numero PMI per 1000 abitanti, esclusi i settori finanziari

Fonte: Eurostat, 2008

Si pensi che, mentre in Italia l’81% della forza lavoro è impiegato in una PMI (la metà in una microimpresa), nel Regno Unito la percentuale scende al 46% e in Germania e in Francia addirittura al 39%. In altre parole, se il ruolo della PMI è importante per l’Europa, in Italia esso diventa ancor più decisivo22.

1.2.2. Il radicamento territoriale: i benefici derivanti dall’appartenenza ad un distretto industriale

Iniziamo col chiarire che quando parliamo di distretti industriali ci riferiamo ad un sistema di piccole e medie imprese che svolgono diverse fasi dello stesso processo produttivo e che sono legate da diverse tipologie di relazioni, siano esse orizzontali, verticali o diagonali.

I distretti industriali vengono definiti dall’ISTAT a partire dai Sistemi Locali del Lavoro (SLL), ovvero quei contesti caratterizzati da un’elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni e da una peculiare organizzazione interna.

21 A. RENDA, G. LUCCHETTA, L’Europa e le piccole e medie imprese, come rilanciare la sfida delle

competitività, Dipartimento delle Politiche Europee, presidenza del consiglio dei ministri

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Il termine distretto industriale, è stato utilizzato per la prima volta dall’economista inglese Alfred Marshall, nella seconda metà del XIX secolo, per descrivere le realtà industriali delle zone tessili di Lancashire e Sheffield. La definizione che l’economista inglese ha dato è la seguente: “Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento ad un’entità socio-economica costituita da un insieme d’imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza”.

In pratica Marshall individua nei distretti industriali le seguenti caratteristiche: - presenza di una realtà socio-economica;

- presenza di una filiera produttiva; - concentrazione geografica;

- relazioni sia di collaborazione che di concorrenza.

Fu poi Becattini, nel 1989 a dare una definizione ulteriore di distretto industriale definendolo come “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area circoscritta, naturisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali”.

Becattini nel parlare di distretto si sofferma su due elementi fortemente correlati: una comunità di persone ed una popolazione di imprese; la comunità di persone condivide valori, comportamenti, aspettative e linguaggi comuni, mentre la popolazione d’imprese si configura come concentrazione di aziende in un’area geograficamente delimitata. Giacomo Becattini afferma che il distretto industriale marshalliano non è solo un ambiente produttivo, quanto un “ambiente sociale in cui le relazioni tra gli uomini avvengono dentro e fuori i luoghi di produzione”.

Secondo la Legge italiana23, infine, si definiscono distretti industriali, “aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle imprese”. Definizione che, riprendendo quella classica, sottolinea la stretta relazione tra realtà industriale e sociale.

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Questo breve quadro definitorio consente di intuire che il funzionamento e l’organizzazione dei distretti industriali influenza tanto la gestione e la cultura aziendale quanto le relazioni che le imprese istaurano con i propri stakeholder. Un’impresa attiva all’interno di un distretto industriale diventa parte integrante di una comunità con la quale condivide cultura, storia, valori e regole di comportamento, che consentono di ridurre i costi legati al ricorso al mercato e allo stesso tempo facilitano la condivisione e lo scambio di informazioni. Ci riferiamo ad un radicamento dell’impresa nel suo territorio di appartenenza che gli consente di creare una rete di rapporti economici e sociali e di fruire, come accennato, a codici e regole di comportamento condivisi, che si traducono per la comunità locale e per l’impresa in risparmi di costo (come quelli per instaurare e mantenere rapporti di tipo contrattuale).

Inoltre, l’elevata specializzazione produttiva caratteristica dei distretti industriali, dal punto di vista funzionale ed organizzativo, favorisce l’efficienza all’interno del sistema di produzione locale: le imprese che formano un distretto infatti, come già detto, sono specializzate in differenti fasi della produzione e sono collegate tra loro da intensi rapporti di sub-fornitura.

Da un’analisi dei dati ISTAT24, si evidenzia nel 2011 la presenza di 141 distretti industriali

su un totale di 611 SLL.

Elementi fondanti dei nostri distretti sono senza dubbio25: il dinamismo delle piccole e

medie imprese, che li costituiscono e che sono diretta espressione di una imprenditorialità vivace e diffusa; la loro presenza capillare sul territorio, in particolare nelle aree del Nord e del Centro, ma anche in alcune zone del Sud (in particolare in Abruzzo, Puglia, Basilicata); le loro specificità territoriali.

I distretti industriali costituiscono circa un quarto del sistema produttivo del paese, sia in termini di numerosità (il 23,1% del totale), sia di addetti (il 24,5% del totale), sia di unità produttive locali (il 24,4% del totale). L’occupazione manifatturiera distrettuale rappresenta oltre un terzo di quella complessiva italiana26.

24 ISTAT, I distretti industriali, report, 2011

25 D. SCHILIRO’, I Distretti Industriali in Italia quale Modello di Sviluppo Locale: Aspetti Evolutivi,

Potenzialità e Criticità, Università Cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche in analisi economica e

sviluppo economico internazionale, V&P, Luglio 2008 26 ISTAT, I distretti industriali, report, 2011

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Complessivamente, sono 15 le regioni dove i distretti industriali sono presenti. Lombardia (29 distretti) e Veneto (28) insieme contano il 40,4% dei distretti italiani. Seguono le Marche con 19 distretti (13,5%), la Toscana con 15 (10,6%) e l’Emilia Romagna con 13 (9,2%). Per contro, il modello distrettuale è meno diffuso in Liguria e nel Lazio (con 1 distretto in ciascuna regione) e del tutto assente in sei regioni o province autonome (Valle d'Aosta, Bolzano, Molise, Basilicata, Calabria e Sicilia). Il “triangolo industriale distrettuale” formato da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna contiene 70 distretti, pari al 49,6% del totale. Le storiche regioni distrettuali dell’Italia centrale (Toscana e Marche) registrano la presenza di 34 distretti, pari al 24,1%; in queste cinque regioni è presente il 73,8% dei distretti italiani.

La tabella 1 consente una lettura più chiara e immediata di questi dati.

Tabella 1 - Dati relativi ai distretti industriali per regione e ripartizione geografica

Fonte: Istat, 2011

Continuando ad esaminare i dati ISTAT, vediamo che i sistemi produttivi dei paesi europei e dell’Italia in particolare, hanno risentito della crisi iniziata nel 2008, i cui effetti si sono fatti sentire soprattutto in termini di riduzione dei posti di lavoro.

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Tabella 2 - Dati relativi ai distretti industriali. Anno 2011 e 2001

Come si può vedere dalla tabella sovrastante, il numero dei distretti è passato da 181 nel 2001 a 141 nel 2011, con una diminuzione sia in termini assoluti (-40) che di peso specifico (rappresentano il 23,1% dei sistemi locali complessivi, contro il 26,5% del 2001). Negli stessi anni si è ridotto anche il peso percentuale dei distretti sui sistemi locali manifatturieri, passando dal 67,3% al 64,1%, così come l’occupazione complessiva, dal 69,5% al 65,3%, e il livello dell’occupazione manifatturiera, dal 70,9% al 65,8%. Nonostante qualche difficoltà, i distretti si mostrano un punto di forza dell’industria italiana. Ha confermarlo è Intesa San Paolo che ha presentato nel 2015 l’ottava edizione del Rapporto annuale che la Direzione Studi e Ricerche della Banca dedica all’evoluzione economica e finanziaria delle imprese distrettuali27. Il Rapporto analizza i bilanci

aziendali dal 2008 al 2014 di quasi 13.000 imprese appartenenti ai diversi distretti industriali e di 35.250 imprese non-distrettuali attive negli stessi settori di specializzazione. Lo stesso Rapporto presenta inoltre stime sui risultati di bilancio delle imprese nel 2015 e le previsioni per il biennio 2016-17.

I tratti salienti di questo studio evidenziano un incremento del fatturato delle imprese distrettuali in accelerazione e a tassi più elevati rispetto alle imprese non distrettuali. Secondo questo studio i distretti hanno recuperato quanto perso durante la crisi e sono tornati ai livelli di fatturato del 2008, cosa che invece non è stata riscontrata per le imprese non distrettuali.

27 INTESA SAN PAOLO, Economia e finanza dei distretti industriali, Rapporto annuale n. 8, Direzione studi e ricerche, Dicembre 2015

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All’interno dei distretti si è vista anche una migliore crescita dell’occupazione rispetto alle aree non distrettuali: persino le imprese più in difficoltà sembra abbiano mostrato una maggiore tenuta occupazionale.

Nei distretti, ad esempio, un quinto delle imprese tra il 2008 e il 2014 ha registrato un aumento degli addetti superiore al 38%, cinque punti percentuali in più rispetto alle aree non distrettuali. Questi risultati possono essere spiegati anche dall’organizzazione distrettuale, che favorisce la mobilità interna ai distretti (tra un’impresa e un’altra) e il passaggio da imprese in difficoltà a imprese in espansione.

Nei distretti inoltre, si è assistito all’affermazione di una nuova classe di medie imprese, capaci tra il 2008 e il 2014 di aumentare significativamente il fatturato (+10%), di accrescere i propri addetti (+5% circa), di rafforzare i propri livelli di produttività del lavoro e di redditività, facendo leva anche su una struttura patrimoniale più solida. Presa visione del fatto che i distretti industriali rappresentano in buona parte il traino della nostra economia, nel paragrafo successivo, facendo riferimento alla crisi finanziaria nata nel biennio 2007-2008 che ha interessato anche il nostro paese, ci soffermeremo su una delle conseguenze che il sistema produttivo italiano ha affrontato e sta in buona parte ancora affrontando: la contrazione nella concessione del credito da parte delle banche, elencando le alternative di tale fonte di finanziamento.

1.3. L’Italia e la crisi finanziaria: gli effetti del credit crunch sulle imprese

L’intento di questo paragrafo è di rendere noti gli effetti che la crisi finanziaria ha avuto sul sistema produttivo italiano, facendo particolare riferimento a come il clima di sfiducia scaturito da tale crisi abbia avuto ripercussioni negative sulla concessione del credito da parte delle banche alle imprese (e alle famiglie). In un simile contesto, le PMI italiane, spesso necessitanti di risorse finanziarie, non avendo possibilità di autofinanziarsi e non riuscendo ad ottenere credito da parte delle banche a condizioni favorevoli, si vedono costrette, al fine di intraprendere un percorso di crescita e sviluppo rimanendo competitive sul mercato, a far ricorso a forme alternative di finanziamento. Il private equity e il private debt sono alcune di queste.

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La crisi finanziaria internazionale che ha avuto origine negli Stati Uniti, innescata dalla crisi dei mutui subprime (agosto 2007), ha colpito anche l’Italia che è entrata in recessione nel secondo trimestre del 2008.

Questa recessione si è spezzata in due fasi: la prima, tra la fine del 2008 e i primi mesi del 2009, è caratterizzata da una forte contrazione del commercio e della domanda mondiale. La seconda ha visto un’iniziale ripresa ciclica, trainata dagli scambi internazionali, presto interrotta da una nuova recessione alimentata dalla crisi dei debiti sovrani in Europa (2010-2011).

Nonostante tale crisi non abbia riguardato solo l’Italia, il nostro paese è quello che ha sofferto di più rispetto ad altri paesi europei come Germania, Francia, Regno Unito che non sono stati colpiti dalla seconda fase della recessione. Nel 2010, infatti, l’Italia sembrava aver superato la crisi; il PIL nel 2010 crebbe dell’1,7%. La ripresa vera e propria però non ebbe luogo. Mentre gli altri paesi colpiti dalla crisi tornavano a crescere, l’Italia, appesantita dai problemi strutturali della sua economia, si trovò ad affrontare un nuovo problema: il calo della domanda interna.

La conseguenza, forse peggiore, che l’Italia ha dovuto affrontare è la contrazione del credito bancario; questo fenomeno è stato definito credit crunch. Il termine inglese credit crunch significa, letteralmente, stretta del credito e va a indicare “un significativo calo nell'offerta di credito, di solito susseguente a un prolungato periodo di espansione”28.

Fino al 2008 i prestiti bancari sono infatti cresciuti a ritmi elevati, per poi rallentare decisamente; dal 2011 il volume dei prestiti si è invece contratto. L’andamento dei debiti finanziari nei bilanci delle aziende italiane evidenzia che il fenomeno ha interessato prima e in misura maggiore le PMI rispetto alle grandi imprese: tra 2011 e 2013 le PMI hanno infatti ridotto i debiti finanziari di 4,1 punti percentuali, mentre per le grandi società sono aumentati nel 2012, diminuendo solo marginalmente nel 2013 (-0,9%)29.

La restrizione del credito non ha riguardato in modo omogeneo le PMI italiane: anche spinte dalle regole di Basilea, tra 2008 e 2013 le banche hanno selezionato con maggiore

28 http://www.pmi.it/tag/credit-crunch 29 CERVED, Rapporto PMI, 2014

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severità la clientela, riducendo i finanziamenti alle PMI più rischiose e continuando a erogare prestiti alle società più affidabili.

Gli effetti di una scarsa disponibilità di credito sull’economia reale possono essere assai rilevanti. La mancanza di finanziamenti può costringere le imprese a ridimensionare i piani di investimento e le famiglie a comprimere i programmi di consumo, prolungando e amplificando l’effetto negativo di shock reali sull’attività produttiva e sull’occupazione30. In Italia il ruolo centrale del settore bancario nel finanziamento

dell’economia aggrava tali rischi.

Se per effetto del credi crunch le banche hanno chiuso i rubinetti del credito alle imprese (e alle famiglie) è bene tener presenti valide alternative di finanziamento su cui possono contare le imprese italiane. Vediamole.

- Ricorrere alla quotazione in Borsa, sebbene le imprese italiane siano restie a realizzare questa operazione per paura di perdere il controllo dell’azienda. - Il crowdfunding, ovvero il “finanziamento di folla”. Si tratta di un canale

di accesso al credito alternativo alle banche e basato sul fatto che più persone contribuiscono con somme di denaro di varia entità a un progetto o a un’iniziativa di cui si fanno sostenitori. Tra i vantaggi, per chi si rivolge alla “folla” c’è anche quello di ottenere uno scambio di informazioni e/o suggerimenti per migliorare la propria idea.

- Il social lending, ovvero il “prestito tra privati”. Con il social lending i privati si prestano denaro tra loro, evitando l’intermediazione della finanza tradizionale. - Il private equity, ovvero l’ingresso di investitori nel capitale sociale di

un’azienda, generalmente non quotata, attraverso fondi di private equity o di venture capital.

- Il private debt, ovvero un operazione di investimento che si focalizza su strumenti finanziari di debito emessi dalle imprese tra cui obbligazioni, cambiali finanziarie, altre tipologie di strumenti finanziari di debito, nonché finanziamenti, sotto forma di trattativa privata, la cui sottoscrizione è riservata ad investitori professionali.

30 F. PANETTA, F.M. SIGNORETTI, Domanda e offerta di credito in Italia durante la crisi finanziaria, Questioni di economia e finanza, n. 63, Banca d’Italia, Aprile 2010

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25

Queste ultime due alternative saranno il principale approfondimento di questo elaborato, che verranno analizzati nelle loro capacità di mitigare, se non di eliminare, le problematiche relative alle aziende familiari a cui abbiamo fatto cenno alla fine del paragrafo 1.1 e che approfondiremo nel capitolo 3. Non si tratta quindi di studiare il private equity solo come forma alternativa all’indebitamento per le aziende italiane, obiettivo più consono ad una tesi in finanza, ma andremo a vedere il suo contributo dal punto di vista organizzativo e nella governance nelle aziende gestite a livello familiare, dove la forza propulsiva della famiglia potrebbe essersi esaurita o, più semplicemente, dove la famiglia rischia di essere un ostacolo alla crescita dell’azienda in quanto, la sola esperienza, le tradizioni e la cultura familiare non sono sufficienti a raggiungere performance soddisfacenti.

1.4. Azienda familiare di successo: il ruolo della dimensione aziendale

In questo paragrafo ci concentreremo sul fatto che non esiste una sovrapposizione tra PMI e impresa familiare, ovvero non obbligatoriamente un’impresa familiare deve essere un’impresa di piccole o piccolissime dimensioni. Decidere di internazionalizzarsi, professionalizzare la famiglia, managerializzare l’impresa, non vuol dire che obbligatoriamente se ne perda il controllo. Gli azionisti sono coloro che apportano capitale di rischio e rappresentano, mediante la forza volitiva ed imprenditoriale, la primaria fonte di potere aziendale; spetta a loro la nomina dei membri del consiglio di amministrazione e del top management. In questo senso il grado di coinvolgimento della famiglia nella gestione dell’impresa non incide sulla caratterizzazione di family o non family business: un’impresa che intraprende un percorso di crescita e sviluppo, anche dimensionale, pur affidando la gestione dell’impresa a terzi rimane familiare se la famiglia continua a detenere quote di partecipazione azionaria e ad influenzare, seppur indirettamente, la gestione. Approfondiamo la tematica in questione.

Nei paragrafi precedenti abbiamo fatto riferimento alla piccola impresa associandola ad un’azienda a conduzione familiare, quasi come se questi due termini fossero sinonimi. Nel sotto paragrafo 1.1.2 ci eravamo posti la seguente domanda: “un’azienda familiare assume sempre l’aspetto della piccola dimensione?” Cerchiamo di dare una risposta.

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Attribuire ad un’azienda familiare l’etichetta di piccola dimensione non è corretto. Sono luoghi comuni le affermazioni: “le aziende familiari sono per lo più di piccola dimensione” oppure “le aziende di piccola dimensione sono generalmente aziende familiari”.

Con l’avvento della globalizzazione era convinzione comune, soprattutto per la scuola americana, che le aziende familiari sarebbero scomparse lasciando spazio ad aziende di tipo manageriale; si riteneva infatti che la piccola dimensione fosse solamente una fase del ciclo di vita di un’azienda e che questa fase dovesse essere superata per garantire la sua sopravvivenza31.

Nonostante le aziende familiari costituiscano la tipologia di azienda più diffusa sul nostro territorio, non è detto che queste debbano per forza essere di piccola dimensione; esse possono essere anche di dimensione media, grande o grandissima. Basta pensare ad aziende come Barilla, Fiat, Ferrero, Parmalat; sono realtà italiane di grandi dimensioni, con una governance strutturata e formalizzata, gestite da manager esterni, in cui la proprietà familiare esercita una qualche influenza sulla strategia dell’impresa.

Può quindi essere considerata familiare sia un’azienda di piccole dimensioni, che occupa meno di 50 dipendenti, con una governance semplice e costituita al suo interno solamente da familiari (imprese familiari tipiche del tessuto imprenditoriale italiano); sia un’azienda di dimensioni più grandi, che occupa più di 200 addetti, che ha deciso di internazionalizzare la sua produzione e di attuare un processo di managerializzazione e professionalizzazione, inserendo al suo interno soggetti esterni portatori di professionalità, specializzazione e competenze tecniche. In questo caso la famiglia esiste ancora nella veste proprietaria ma decide di fare spazio, almeno in parte, a soggetti dotati di particolari requisiti, in grado di consentire il progresso e l’espansione.

Possiamo quindi dare risposta alla domanda numero 3 proposta nello stesso sotto paragrafo 1.1.2: svincolare la famiglia dalla gestione dell’azienda, attribuendo questa funzione a manager ed amministratori esterni, consente di classificare un’azienda come familiare? A dispetto di quanto è generalmente intuibile, la risposta è affermativa.

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27

Uno studio condotto dal Family Business Group, un organo costituito dalla Commissione Europea per discutere i principali problemi delle aziende familiari nei singoli paesi, ha proposto una definizione di azienda familiare:

«A firm, of any size, is a family business, if: 1. The majority of decision-making rights are in the possession of the natural person(s) who established the firm, or in the possession of the natural person(s) who has/have acquired the share capital of the firm, or in the possession of their spouses, parents, child or children's direct heirs. 2. The majority of decision-making rights are indirect or direct. 3. At least one representative of the family or kin is formally involved in the governance of the firm.

Listed companies meet the definition of family enterprise if the person who established or acquired the firm (share capital) or their families or descendants possess 25% of the decision-making rights mandated by their share capital».

Esaminando questa definizione vediamo che:

- le aziende familiari possono essere di ogni dimensione e non solo piccole; - non è necessario che la famiglia possieda l’intero capitale della società, ma è

sufficiente il controllo della maggioranza delle azioni, se la società non è quotata, o il 25% se la società è quotata;

- i fondatori possono anche essere due o più persone non appartenenti alla medesima famiglia;

- non è necessario che sia coinvolta la famiglia fondatrice e l’impresa rimane familiare se chi l’ha acquistata è una famiglia imprenditoriale;

- il controllo può avvenire in forma diretta o indiretta (tramite Holding o altri strumenti);

- è necessario che almeno un membro della famiglia sia operativo con ruoli di governo o di gestione dell’azienda.

La definizione del Family Business Group presenta comunque elementi discutibili in quanto considera familiari:

- le imprese dove il fondatore è l’unico familiare impegnato in azienda, creando quindi confusione tra il concetto di azienda familiare e di azienda imprenditoriale.;

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28

- le imprese dove i soci non solo legati da legami di parentela o affinità; un azienda di questo tipo può essere considerata familiare se i fondatori hanno coinvolto i coniugi e/o i figli nei processi decisionali.

In definitiva, la definizione proposta dal Family Business Group è condivisibile precisando però che la natura di azienda familiare si acquisisce solo quando il fondatore o i fondatori coinvolgono la famiglia nel processo decisionale.

È importante precisare che la dimensione dell’impresa è una variabile rilevante ma da sola non è indicatore di efficienza. Le capacità di crescita e sviluppo di un’azienda dipende da numerosi altri fattori, quali:

- la capacità dell’imprenditore di creare un network di relazioni in grado di consentire l’accesso a risorse e competenze distintive;

- la capacità dell’azienda di acquisire conoscenze e competenze esterne facendole divenire proprie;

- la corretta gestione del passaggio generazionale;

- l’evoluzione nel rapporto famiglia-imprese e quindi il grado di apertura verso l’esterno.

Un’azienda familiare che intraprende un percorso in questo senso è un’azienda che può passare dalla piccola dimensione ad una dimensione più grande, senza però perdere il carattere di familiarità. Ci riferiamo ad un’azienda che è stata in grado di gestire adeguatamente il passaggio generazionale, inserendo in azienda quei familiari dotati delle giuste competenze e conoscenze idonee a ricoprire determinati ruoli e con una propensione alla leadership e allo spirito innovativo e imprenditoriale. Ma non solo. Ci riferiamo ad un’azienda che non prende decisioni solamente basandosi sulle esperienze passate; accade spesso che l’imprenditore/fondatore sia restio ad ascoltare idee di soggetti terzi estranei alla famiglia e utilizzi come base per prendere le decisioni solo le esperienze e i successi (e gli insuccessi) passati. Una scarsa propensione all’innovazione e allo sviluppo tecnologico è il primo passo falso che un’azienda familiare può fare. Uno spirito conservativo e una riluttanza al cambiamento metteranno quasi sicuramente un’azienda familiare nella condizione di essere esclusa dal mercato.

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Ci riferiamo inoltre ad un’azienda che è stata in grado di far evolvere il rapporto famiglia-impresa e di aprirsi a soggetti esterni. Non di rado un’azienda familiare tende a far ricoprire ruoli rilevanti al suo interno (ad esempio nel CdA e/o nel top management) ai soli membri della famiglia. Questo, oltre a costituire un problema nel momento in cui il familiare non sia in grado di assolvere a determinati compiti per mancanza di esperienza o competenza, accentua il problema se non c’è un organigramma aziendale che specifica le mansioni che ognuno dovrebbe ricoprire, con il rischio quindi di una sovrapposizione di ruoli o di una duplicazione dell’autorità.

I conflitti familiari poi, conseguenza del fenomeno della deriva generazionale e del raffreddamento dei soci32, se non adeguatamente gestiti avranno effetti negativi sulle

performance aziendali e quindi sui risultati conseguiti. Una o più figure esterne, con una visione oggettiva e distaccata su tematiche che possono essere sensibili per la famiglia, costituiscono un valido contributo allo sviluppo e al successo aziendale.

Tutte queste tematiche verranno approfondite nei successivi capitoli. Quello che preme evidenziare in questo momento è il fatto che un’azienda familiare, se non adeguatamente gestita è destinata a rimanere statica, se non addirittura ad involvere. Utile nell’intento di capire il percorso che può intraprendere un’azienda familiare al fine di crescere e svilupparsi, mantenendo però il carattere di family business, è la classificazione di imprese familiari fornita da Gallo33. Tale classificazione, secondo Gallo,

individua i possibili stadi che un’impresa familiare attraversa nel suo processo di crescita. Vediamola nel dettaglio.

1. Impresa familiare del lavoro: caratterizzata, oltre che dalla normale proprietà familiare, dalla numerosità dei membri della famiglia che lavorano nell’impresa. Ci riferiamo alle imprese di prima e seconda generazione.

32 Deriva generazionale: fenomeno a cui un’azienda familiare non può sottrarsi. Consiste nell’aumento del numero dei familiari coinvolti nell’attività d’impresa, con conseguente aumento della complessità aziendale.

Raffreddamento dei soci: è una conseguenza diretta del fenomeno della deriva generazionale. Consiste nell’affievolimento dell’intensità dei legami tra membri della famiglia coinvolti in azienda, i quali non sono legati stretti vincoli di parentela.

33 S. TOMASELLI, Longevità e sviluppo delle imprese familiari. Problemi, strategie e strutture di governo, Giuffrè, Milano, 1996

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