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L’impatto quali-quantitativo del private equity nelle aziende familiar

Il contributo del private equity e del private debt alla crescita delle aziende familiar

4.1. L’impatto quali-quantitativo del private equity nelle aziende familiar

Nel capitolo precedente abbiamo voluto mettere a fuoco quali sono le problematiche che generalmente accomunano le aziende familiari compromettendo la loro capacità di sopravvivenza nel lungo periodo. Tra queste, la capacità di passare da un’azienda di tipo padronale ad una manageriale non viene riscontrata molto comunemente e l’estrema chiusura all’entrata di capitali di rischio esterni conduce molte aziende familiari verso un serio limite allo sviluppo potenziale non volendo adottare politiche finanziarie di gestione generalmente accettate dalle imprese non family. In questo capitolo ci focalizziamo su quest’ultimo punto ed evidenzieremo come l’affidarsi ad un partner finanziario specializzato non debba essere visto come un oltraggio al lavoro e alla dedizione dei propri padri, ma piuttosto un tentativo di continuare a raccogliere i frutti di chi, con fatica e sudore nei decenni precedenti, ha messo le fondamenta per garantire a se stesso e alla propria famiglia, un futuro sereno e proficuo. Occorre quindi maturare il concetto che “l’intervento professionale di un investitore istituzionale non è una diminuitio dello status o del potere esercitato dalla famiglia, ma un vantaggio per la famiglia stessa e per i suoi eredi”76. Nel caso in cui l’investimento venga realizzato a titolo

di private equity, i vantaggi di questa tipologia di investimento sarebbero notevoli non soltanto perché si risolverebbe il problema della sottocapitalizzazione delle imprese grazie ad una maggiore disponibilità di fonti di finanziamento; il capovolgimento della governance aziendale, con conseguente ausilio di competenze manageriali esterne,

76 C. DEVECCHI – Università Cattolica del Sacro Cuore, Il private equity come strumento di evoluzione

della piccola e media impresa, Convegno “Il private equity: finalità, organizzazione e strumenti”, Milano,

85 consentirebbe di trarre importanti benefici grazie ad una gestione più tecnica e ad una riduzione delle asimmetrie informative.

Fatta questa breve introduzione procediamo con la nostra analisi.

Nel turbolento contesto economico attuale, le difficoltà che le PMI devono affrontare sono legate prevalentemente ai limiti dimensionali di cui storicamente soffrono. La crisi iniziata nel 2008 ad oggi, seppur mitigata dagli interventi delle principali Banche Centrali mondiali, non ha ancora esaurito i suoi effetti e continua ad evidenziare le criticità finanziarie e le problematiche gestionali delle PMI italiane dovute, oltre che da una tradizionale chiusura della compagine sociale, anche da un elevato disequilibrio delle fonti di finanziamento. Le PMI Italiane si caratterizzano, infatti, per un basso livello di capitalizzazione, una forte dipendenza dal debito bancario e una forte incidenza dell’indebitamento a breve sul totale delle fonti di finanziamento.

La scarsa patrimonializzazione è data da due motivazioni77:

- una maggiore propensione al debito piuttosto che al capitale di rischio in ragione delle caratteristiche della struttura societaria, fortemente basata sulla presenza di imprese familiari con un elevato grado di chiusura rispetto all’ingresso di nuovi soci o ad altri investitori esterni;

- un’elevata tassazione dei redditi e deducibilità degli interessi passivi, che fanno propendere per una minore presenza di capitale proprio.

Sulla base di queste considerazioni le PMI italiane potrebbero trovare difficoltà nell’attuare una strategia di crescita; in particolare, rischiano di avere:

- una limitata capacità di investire, soprattutto in ricerca e sviluppo; - una limitata capacità di penetrazione dei mercati internazionali; - una scarsa capacità di attrarre qualificate risorse manageriali;

- difficoltà nella gestione del passaggio generazionale (gli imprenditori italiani con più di 60 anni sono il 60% del totale).

A peggiorare questo quadro c’è il circolo vizioso innescato dal credit crunch.

77 D. SABATINI, Le iniziative del settore bancario a favore della patrimonializzazione delle imprese; II Conferenza regionale per il credito e la finanza per lo sviluppo

86 La situazione dell'accesso al credito per le PMI italiane è particolarmente problematica a causa della stretta creditizia che impone limitate disponibilità di risorse finanziarie per investimenti e oneri assai elevati. Si genera così un circolo vizioso assai negativo: le PMI, tipicamente sottocapitalizzate e con ampio ricorso al debito bancario, si trovano ad operare con risorse finanziarie sempre più carenti e dunque rinunciano a opportunità di investimento e crescita, riducendo la loro redditività e quindi la loro capacità di onorare i debiti con gli istituti finanziari, incrementando così incagli e sofferenze.

Il risultato di questo circolo vizioso, ampliato senz'altro dal perdurare della crisi economica, è un freno alla crescita delle PMI, e dunque del Paese.

È evidente che le PMI debbano riequilibrare le loro fonti di finanziamento riducendo l’indebitamento bancario, incrementando i livelli di capitale di rischio e incrementando il ricorso alle emissioni obbligazionarie.

Il rafforzamento patrimoniale, in particolare, è una condizione necessaria per sostenere la competitività delle imprese italiane. È possibile, infatti, incrementare gli investimenti in innovazione, aggredire nuovi mercati, lanciare nuovi prodotti e, quindi, crescere e competere, se ai canali tradizionali di finanziamento si affianca un ricorso consapevole al capitale di rischio.

Un’impresa correttamente patrimonializzata, infatti, attrae capitali e dispone di un rating migliore riuscendo ad ottenere, quindi, finanziamenti a condizioni migliori necessitando al contempo di minori garanzie collaterali.

La sfida alla patrimonializzazione delle PMI può essere realizzata facendo sì che si avvalgano di strumenti che la rendono più solida soprattutto dal punto di vista patrimoniale, ovvero fornendogli:

- una generale inversione di tendenza dal punto di visa culturale;

- una crescita complessiva della dimensione del sistema imprenditoriale italiano. Il rafforzamento patrimoniale e organizzativo che si può realizzare con il ricorso al private equity può rappresentare un valido sostegno in questo stato congiunturale dell’economia italiana. Il private equity è, difatti, uno strumento strategico per le PMI e rilevante sotto molteplici aspetti. Innanzi tutto consente di configurare una struttura patrimoniale solida e coerente con gli obiettivi di crescita attraverso l’apporto dei capitali necessari a sostenere progetti di sviluppo e riequilibrando la composizione delle

87 fonti di finanziamento. Consente, inoltre, di mantenere il controllo decisionale nelle mani dell’imprenditore. È giusto precisare, infatti, che il private equity in Italia, soprattutto per quanto riguarda le operazioni di expansion, ha una modalità di attuazione diversa rispetto a quella realizzata nei sistemi capitalistici anglosassoni in cui l’investitore istituzionale acquista, generalmente, una quota di maggioranza del capitale sociale dell’impresa target. In Italia, invece, questa modalità di attuazione è rarissima e predilige, invece, l’acquisto di una partecipazione di minoranza, lasciando il pieno controllo dell’impresa alla famiglia proprietaria.

Detto questo, analizziamo i contributi forniti da un operatore di private equity, diversi dal mero apporto di capitale di rischio.

In generale, l’investitore promuove lo sviluppo e il rilancio delle aziende anche mediante l’apporto di know-how manageriale e di conoscenze ed esperienze a cui l’azienda stessa potrà avere libero accesso. Inoltre, consente di sfruttare i contatti e le collaborazioni di cui l’investitore istituzionale già gode, ad esempio con altri imprenditori, operanti anche in settori diversi da quelli a cui l’azienda appartiene.

La prima area di intervento su cui abbiamo deciso di soffermare la nostra attenzione riguarda il grado di oggettività e razionalità che l’investitore istituzionale riesce a fornire quando si tratta di valutare un’idea imprenditoriale o di prendere una decisione. Il primo fattore su cui dobbiamo soffermarci è il cambiamento del livello di competitività cha ha caratterizzato la quasi totalità dei settori a causa del processo di internazionalizzazione e di globalizzazione che ha richiesto di restare al passo con i tempi e quindi di prendere continuamente decisioni riguardanti una molteplicità di fattori. Qualsiasi decisione, dalla più semplice alla più complessa, è caratterizzata da un certo grado di criticità, sia perché nella maggior parte dei casi questa comporta una successiva decisione di spesa che inciderà sul bilancio di azienda, sia perché può essere caratterizzata da un elevato grado di irreversibilità78. La teoria economica spiega che per

prendere una decisione in modo corretto e valutare un’idea imprenditoriale per la sua effettiva validità occorre che il soggetto decisore sia razionale e che sia a conoscenza di

78 Ibid. pag. 316

88 quante più informazioni possibili. Nella realtà dei fatti questo non accade, soprattutto in realtà come aziende familiari.

Nelle aziende familiari può capitare di non voler contraddire il padre o un familiare per evitare che eventuali tensioni a lavoro possano ripercuotersi al di fuori del tetto aziendale. Inoltre, l’attaccamento all’azienda, alla storia e la tradizione non permettono, spesso e volentieri, di avere una visione del tutto distaccata sull’effettiva validità e fattibilità dell’idea imprenditoriale. L’amore per la propria azienda accompagnato da una mancanza di conoscenze e competenze adeguate spesso e volentieri rende ciechi e non permette di vedere ostacoli e difficoltà che potrebbero compromettere l’attuazione o ancor peggio la proficuità dell’investimento. L’ investitore, invece, grazie alla sua esperienza e alla sua professionalità, non solo sarà in grado di valutare l’effettiva validità e fattibilità dell’idea imprenditoriale ma avrà, altresì, una visione oggettiva e distaccata non influenzata dalla sfera affettiva o da eventuali conflitti tra parenti.

In linea con quanto detto, l’investitore ha un ruolo importante anche nella definizione delle strategie aziendali. Egli, in virtù delle sue già menzionate competenze e del grado di oggettività con cui riesce a esprimere un giudizio, sarà in grado di dare un apporto positivo in questo senso. Come diretta conseguenza avremo una maggiore probabilità di definire strategie vincenti in grado di accrescere il valore creato per l’impresa, consentendo quindi tanto all’imprenditore quanto all’investitore di realizzare i rispettivi obiettivi.

La seconda area di intervento di un investitore istituzionale riguarda il sopperire all’assenza di un vero processo di managerializzazione all’interno dell’azienda. Non occorre soffermarsi ulteriormente sul perché la chiusura della famiglia nei confronti di soggetti ad essa estranei possa interferire sulle sue prospettive future di sviluppo. Ci rendiamo conto che sia difficile credere che ciò che per anni ha funzionato sulla base del solo intuito dell’imprenditore possa essere sostituito da “qualcuno” o da “qualcosa” che non vanta alcun tipo di esperienza nel settore, è però ferma convinzione di chi scrive che la partecipazione di un investitore istituzionale alla compagine sociale o l’intervento dello stesso nel capitale di debito, possa essere il giusto stimolo per affrontare un processo di cambiamento atto a ridurre i punti di debolezza che caratterizzano l’azienda. Ovvero, l’intervento di un fondo di private equity potrebbe essere utile ad incentivare il

89 raggiungimento di performance aziendali e reddituali e nell’ intento di raggiungere tale obiettivo l’azienda (e quindi la famiglia) sarebbe stimolata ad inserire figure manageriali al suo interno e ad iniziare ad utilizzare strumenti quali sistemi di controllo di gestione che grazie a programmi economico-finanziari ben precisi e a sistemi di budgeting e reporting, aiutano l’azienda ad individuare gli obiettivi da perseguire verificando anche il loro grado di raggiungimento.

La terza area di valorizzazione si riferisce alla rete di contatti apportati dall’investitore. L’investitore potrebbe consentire all’impresa di instaurare dei contatti con una nuova rete di soggetti, come imprenditori operanti in settori differenti da quello in oggetto. È bene fare presente che il miglioramento dell’immagine aziendale dovuto all’ingresso dell’investitore non viene percepito solamente da interlocutori di tipo finanziario come le banche, ma anche da altre tipologie di stakeholder aziendali quali fornitori e clienti. In sostanza l’investitore istituzionale è in grado di creare un clima di fiducia nei confronti degli interlocutori esterni e questa rete di contatti, se ben sfruttata, consente di ottenere un tasso di crescita maggiore rispetto ad altre aziende non partecipare da investitori istituzionali.

Per concludere, nel caso di un investimento di private equity, l’ingresso del socio investitore, può determinare tutta una serie di vantaggi da cui trarre beneficio. In particolare, il valore aggiunto di un investitore istituzionale, oltre all’apporto del capitale di rischio, si concretizza in79:

- supporto strategico, direzionale e finanziario, soprattutto per le scelte strategiche d’investimento;

- riorganizzazione delle risorse umane, grazie all’apporto di competenze manageriali altrimenti non accessibili per l’imprenditore;

- pianificazione fiscale;

- apporto di management e modificazione dei membri del consiglio di amministrazione, in particolare per le imprese a conduzione familiare;

- creazione di network (acquisizioni, accordi, contatti internazionali);

79 Ibid. pag. 200

90 - miglioramento dell’immagine nei confronti del mercato e delle banche, grazie all’ingresso del partner finanziario che assicura la validità dell’impresa e dei suoi programmi;

- miglioramento del sistema di controllo di gestione;

- trasparenza e contributo alla netta distinzione tra interessi personali/familiari e aziendali.

Nonostante queste valide motivazioni molte aziende familiari, troppo attaccate alla loro cultura e alla loro storia, preferiscono rinunciarvi.

Evidenze empiriche mostrano che tali resistenze sono dovute a svariati fattori, primo tra tutti il timore di veder ridotta la facoltà decisionale della famiglia. Spesso non si è disposti ad accettare l’idea che un “estraneo”, anche se detentore di una quota di minoranza, possa avere un peso significativo nel consiglio di amministrazione rendendolo, il più delle volte, un organo sostanziale e non più solo formale.

L’investitore è generalmente rappresentato all’interno dell’organo amministrativo della società in misura proporzionale o più che proporzionale all’entità della partecipazione detenuta.

Abbiamo già detto nel paragrafo 2.1.1, quando facevamo riferimento alle regole di corporate governance che devono essere istaurate tra socio imprenditore e socio investitore, di come quest’ultimo abbia diritto a ricevere informazioni specifiche di tipo quantitativo, qualitativo e cronologico sulla gestione dell’impresa finanziata.

La prassi italiana e internazionale, ripetiamo, prevede che la società assicuri all’investitore informazioni in merito ai fattori di rischio che possono influenzare le performance dell’investimento tra cui, ad esempio, quelle relative al business o al settore in cui la società opera, alla eventuale dipendenza della società da particolari materie prime o mercati di approvvigionamento, a operazioni effettuate con strumenti derivati o contabilizzate fuori bilancio, a conflitti d’interesse, potenziali o attuali, relativi ad amministratori o dirigenti chiave della società.

91 Inoltre, viene spesso garantito all’investitore il diritto di veto su decisioni ritenute rilevanti per la società, dal cui esito potrebbe dipendere il futuro dell’investimento. Citiamone alcune80:

- le modifiche dello statuto sociale; - la distribuzione di riserve e dividendi;

- la nomina e la revoca dell’amministratore delegato e/o del direttore generale; - le acquisizioni o alienazioni di partecipazioni in altre società;

- l’acquisto, la cessione o l’affitto dell’azienda e/o di rami d’azienda.

Imprenditori che hanno fatto la storia dell’azienda faticano ad accettare che un terzo sia in grado, al suo posto, di capire cosa è giusto e cosa non lo è per la propria attività d’impresa. Il dover divulgare informazioni ad estranei e dover acconsentire a condividere idee, pareri e decisioni con chi non si è mai occupato e preoccupato del business nel corso degli anni è un fardello che un imprenditore tradizionale non riesce a sopportare.

Un altro fattore di resistenza all’apertura di capitale a cui possiamo far riferimento riguarda il disaccordo tra la famiglia proprietaria e il finanziatore relativamente al valore di mercato dell’azienda. Gli imprenditori infatti ritengono che il valore della propria azienda incorpori la storia dell’azienda stessa e della famiglia che da anni se ne è presa cura. L’operatore finanziario invece valuta tale valore solo sulla base di parametri oggettivi e formulerà la sua scelta in base alla redditività dell’investimento prevista negli anni a seguire. Proprio per questa discordanza il processo di apertura si chiude nella fase finale di definizione del valore dell’azienda. La questione della valutazione del valore aziendale verrà approfondita nel prossimo paragrafo.

Per quanto riguarda un investimento a titolo di capitale di debito da parte di un operatore di private debt le considerazioni che possiamo avanzare sono pressoché le stesse fatte per il private equity.

I benefici di cui può godere l’impresa emittente non sono diversi da quelli di cui gode l’impresa che fa entrare un soggetto terzo nel proprio capitale sociale. Per raggiungere

80 Ibid. pag. 3

92 i suoi obiettivi l’investitore eserciterà un’azione tendente ad elevare la trasparenza e la qualità della comunicazione dell’impresa, a professionalizzare la gestione e l’organizzazione, a far introdurre o evolvere sistemi di pianificazione, di controllo e di monitoraggio dei risultati aziendali. In entrambi i casi sarà pertanto necessario separare il patrimonio aziendale da quello familiare ed introdurre sistemi di budgeting e di controllo di gestione.

La differenza, forse, più sostanziale tra un investimento a titolo di capitale di rischio e di debito è che nel secondo caso i fondi non chiedono un posto nel consiglio di amministrazione, ovvero generalmente non è previsto un loro ingresso negli organi di governance della società. Inoltre, le società non sono tenute a modificare la propria struttura organizzativa per poter rientrare nei criteri di investimento dei fondi di private debt. Psicologicamente parlando, realizzare un investimento di private debt piuttosto che uno di private equity potrebbe essere meno traumatico per la famiglia che si sentirebbe meno sopraffatta dall’idea che un terzo possa mettere a repentaglio la sua capacità decisionale.

4.2. La valutazione della validità dell’investimento: la prospettiva dal lato