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Ionesco rilegge Shakespeare e Molière: Il Macbett e L'impromptu de l'Alma

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di laurea magistrale in Italianistica

Tesi di Laurea

IONESCO RILEGGE SHAKESPEARE E MOLIÈRE:

il Macbett e L'impromptu de l'Alma

Il Candidato

Relatore

Carlotta Donnini

Prof.ssa Emilia David

Correlatore

Prof. Stefano Brugnolo

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Tutto ciò che mi circonda è spettacolo. Spettacolo incomprensibile [...]. Non tragico, ma stupefacente. Lo stupore è la mia sensazione fondamentale di fronte al mondo. Non tragico, certo, certo; forse questo mondo è comico, stranamente comico, sicuramente beffardo. Eppure, contemplandolo più a lungo, avverto in me un dolore, una lacerazione. Anche questo dolore mi stupisce.

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INDICE

INTRODUZIONE...5

CAPITOLO 1 EUGÈNE IONESCO: LE PREMESSE...8

1.1 Ionesco e il Teatro dell'assurdo...8

1.2 Fra critiche e dichiarazioni di poetica...17

1.3 Ionescu prima di Ionesco: le origini romene e l'identità ebraica...29

1.4 La Grande Romania: il contesto storico...35

1.5 Un comico ambiguo...39

CAPITOLO 2 DA MACBETH A MACBETT: LO SHAKESPEARE

DELL'ASSURDO...49

2.1 “Macbête”: nomen omen...49

2.2 Lo straniamento: il “Verfremdung” brechtiano...52

2.3 La struttura: lo spazio e il tempo sulla scena...54

2.3.1 Una scena vuota...54

2.3.2 Il tempo ciclico...56

2.4 Il linguaggio: fra amplificatio e ripetizioni...57

2.5 Ionesco e Shakespeare...62

2.6 La libido dominandi da Shakespeare a Ionesco: un tormento che sfida i secoli...65

2.7 Dall'Ubu Roi al Macbett: la parodia di Alfred Jarry...70

2.8 Magia, streghe e figure femminili: una lady moderna...75

2.8.1 Omnia vincit amor: la relazione schiavo-padrone...81

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2.9 Gli zanni e la commedia dell'arte: l'irruzione del comico...86

CAPITOLO 3

IONESCO E MOLIÈRE: DUE IMPROMPTUS A

CONFRONTO...89

3.1 L'Impromptu nel teatro francese...90

3.2 L'impromptu de l'Alma: il contesto e la critica...92

3.2.1 La critica della critica: i tre Bartholomeus e l'ispirazione poetica...99

3.2.2 La struttura circolare “a matrioska”...100

3.2.3 Uno schema in otto fasi...104

3.2.4 Una trama retta dai conflitti...109

3.2.5 Il realismo stilizzato: la parodia di Brecht...110

3.2.6 Omaggi e riferimenti a Molière...112

3.3 Molière: L'impromptu de Versailles...114

3.3.1 Trama e struttura...115

3.3.2 Il metateatro: le commedie nella commedia...118

3.4 Impromptus a confronto...121

3.4.1 Personaggi e funzioni: la risposta alla critica...122

3.4.2 I temi comuni: le istituzioni e il pubblico sul palcoscenico...124

CONCLUSIONI...129

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INTRODUZIONE

Questo studio analizza la figura e la poetica del drammaturgo franco-romeno Eugène Ionesco, attraverso l'analisi di due opere in particolare: il Macbett e L'impromptu de l'Alma. Nel primo capitolo viene descritto il contesto storico e culturale europeo della metà del Novecento, analizzando nello specifico il ruolo del drammaturgo all’interno della nascente corrente artistica del 'teatro dell'assurdo' – secondo la definizione che ne diede Martin Esslin – e, evidenziando le continue controversie tra i critici e Ionesco, si arriverà a delineare alcuni temi cardine della sua poetica teatrale.

Dopo un rapido sguardo alla situazione storico-sociale della Grande Romania prima e durante la seconda guerra mondiale, si esploreranno, da un lato, le origini ebraiche dell’autore e dall’altro gli importanti lasciti del periodo romeno dell'infanzia sulla visione poetica di Ionesco, il quale manterrà, sempre, un legame ambiguo con le proprie radici.

Il senso di incompletezza e di non appartenenza, legato alla propria identità ebraico-romena, lo condurranno, difatti, ripetutamente, a quella persistente ricerca del Senso

Assoluto (Mihai Șora) che sentiamo continuamente presente nelle sue opere.

Infine, attraverso l'analisi di alcune piéces teatrali dell'autore, con particolare attenzione a La cantatrice calva, l'opera che lo rese noto a livello internazionale, si evidenzieranno i peculiari meccanismi comici, scelti ed utilizzati da Ionesco, per raggiungere quello che si può descrivere come un “comico ambiguo”, per il quale centrali rimangono sempre i grandi temi metafisici, esistenziali, e le conseguenti questioni legate ad essi.

Nonostante gli evidenti echi e i richiami ai personaggi stereotipi della Commedia dell'arte barocca, il comico di Ionesco oscilla sempre fra la parodia e il tragico; sarà il drammaturgo stesso ad affermare, ironicamente, in una sua commedia: “quando voglio scrivere una tragedia, li faccio ridere, quando voglio scrivere una commedia li faccio piangere”.

Nel secondo capitolo di questa tesi si tratterà del Macbett di Ionesco e del suo rapporto con l'ipotesto shakespeariano.

Dell'opera, definita come una “parodia seria” del Macbeth di Shakespeare (Véronique Lochert), verranno analizzate le peculiarità della struttura e del linguaggio, segnalando

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analogie e rielaborazioni rispetto all'illustre modello seicentesco, passando anche per un confronto con l'Ubu roi, la parodia del dramma shakespeariano di Alfred Jarry.

Sarà poi messa in luce, nell’opera, quella particolare modalità di riprodurre negli spettatori l’effetto di straniamento, di chiara origine brechtiana (il Verfremdung), in cui Ionesco tenta di far apparire in qualche modo “strano”, al pubblico, ciò che invece viene sempre considerato e percepito come ordinario.

In seguito, ci si concentrerà sul rapporto di Shakespeare e Ionesco con il concetto centrale della libido dominandi – per usare la definizione di Ionesco – inteso come violenta e primordiale spinta vitale umana, e sul circolo di violenza senza fine che ne deriva; infine, sulla questione del sovrannaturale nell'opera, e il legame di questo con le figure femminili. Per concludere, si presenteranno gli strumenti comici principali utilizzati nel Macbett e il loro rapporto con le maschere e le dinamiche della comicità riprese dalla Commedia dell'Arte.

Nel terzo capitolo, oggetto di studio sarà L'impromptu de l'Alma e il suo legame con

L'impromptu de Versailles di Molière. Questa pièce viene definita dallo stesso Ionesco

come “un'eccezione”, tra le sue opere.

L'impromptu de l'Alma, come vedremo, infatti, se si inserisce a pieno titolo nei temi del

'teatro dell'assurdo', si colloca in ugual modo in un altro sottogenere, con una importante tradizione di tre secoli alle spalle, il genere dell'impromptu, appunto.

L'opera nasce e si situa in un periodo particolare in cui, da una parte, si stava sviluppando il cosiddetto Nouveau théâtre, e, allo stesso tempo, al mondo si rivelava, tardivamente, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht.

Questa scoperta portò la maggior parte della critica a limitare la propria attenzione e il proprio favore verso le avanguardie, fra cui il nostro Ionesco, nonché a riorientarsi nei confronti della sua produzione, che inizia ad essere sottoposta a continui attacchi da parte dei critici.

Vedremo, difatti, come la spinta iniziale di quest’opera ioneschiana sarà proprio la necessità di rispondere alle calunnie dei critici avversari; un primo elemento, questo, che accomuna la pièce al modello molièrano, modello e riferimento esplicitato fin dal calco nel titolo della commedia.

L'impromptu di Ionesco si rivela da subito come un'opera molto originale, totalmente

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dell'improvvisazione – sempre sulla scia di Molière – e dell'arte metateatrale, le quali danno origine ad una struttura e a uno sviluppo della trama su più livelli, creando, così, un incredibile e confondente effetto a matrioska.

Sulla scena i protagonisti dello spettacolo risulteranno essere, infatti, gli autori stessi, nell'atto di scrivere la commedia che si sta realizzando, contemporaneamente, sul palcoscenico.

Con la messa in scena di questo paradossale circolo vizioso, Ionesco rivela anche – e vi gioca – la propria idea circolare, infinita, e priva di senso del vivere, tema centrale nella poetica dell'autore, già analizzato diffusamente nel Macbett.

Per realizzare questa struttura di 'teatro nel teatro', il drammaturgo si ispira chiaramente alla tradizione barocca e a quella della Commedia dell'arte italiana, ma attingendo anche ad un'interessante elemento di novità dall’opera di Molière, che è quello di inserire nella tradizione dell'impromptu una riflessione esplicita sul teatro, che darà il via, al tempo stesso, ad un disvelamento dei “segreti” del mestiere e dell'arte teatrale.

L'impromptu de l'Alma, dunque, più che essere una semplice opera comica, che ironizza

sui vari esponenti della critica, si rivela anche come un'occasione che Ionesco si pone per esporre le proprie riflessioni sul teatro; un laboratorio attivo, che utilizza come escamotage la tecnica metateatrale per mettere in scena una vera e propria lezione dinamica di teoria teatrale, nonché una profonda riflessione sul teatro stesso: in sintesi, una vera e propria programmatica dichiarazione di poetica.

Mettendo in relazione i diversi contesti in cui nascono le due pièce, si identificano, di seguito, i temi comuni affrontati dagli autori nelle due opere, tra cui il rapporto con la critica, dunque, ma anche con il giudizio e il ruolo del pubblico, con i suoi gusti e le sue necessità, e, quindi, più in generale, con la società e con lo stato.

Particolare importanza sarà data alla modalità della messa in scena scelta, a seconda del pubblico, dell'epoca, e della società in cui i due autori hanno operato.

In conclusione, L’impromptu de l'Alma come il Macbett sono due opere che possono, forse, definirsi un vero omaggio rinnovato alla tradizione.

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CAPITOLO 1

EUGÈNE IONESCO: LE PREMESSE

1.1 Ionesco e il Teatro dell'assurdo

“Assurdo è ciò che è privo di scopo… recise le sue radici religiose, metafisiche e trascendentali, l'uomo è perduto; tutte le sue azioni divengono insensate, ridicole, inutili”1 scrive Eugène Ionesco nel 1957, per spiegare il senso del termine assurdo, scelto poi da Martin Esslin per definire proprio quella corrente teatrale di cui i primi esponenti sono, a suo avviso, Samuel Beckett, Arthur Adamov, Jean Genet e il nostro Ionesco. Una definizione che sembra esprimere a pieno la situazione esistenziale dell'uomo moderno, permeato da quella “angoscia metafisica di fronte all'assurdità della condizione umana”2 caratteristica del Novecento, il secolo assediato dalle due guerre mondiali. Una condizione di imperante non senso che potrebbe rispondere anche alla semplice definizione del termine: “Contrario alla ragione, all'evidenza, al buon senso; che è in se stesso una contraddizione. Ciò che non può essere pensato perché privo di ogni fondamento di ragione, e quindi intrinsecamente contraddittorio”3.

Guerre che, con le loro immani atrocità, hanno definitivamente cancellato anche l'ultimo barlume di speranza rimasto all'uomo di inizio secolo, l'ultima possibilità di abbandonarsi a qualsiasi tipo di fede, di credo, anche soltanto umano. L'uomo di metà Novecento è ormai un involucro vuoto e smarrito. L'inesauribile bagaglio di dubbi, di domande esistenziali proprie dell'essere umano, non solo non hanno trovato risposte adeguate nella logica della scienza e del progresso, ma ora cercano disperatamente un altro luogo dove riversarsi, un altro linguaggio in cui esprimersi.

1 Eugène Ionesco: Dans les armes de la ville, in «Cahiers de la Compagnie Madeleine Renaud – Jean Louis Barrault», Paris, n. 20, ottobre, 1957.

2 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, Abete, Roma 1980, p. 20.

3 Il Vocabolario Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 2008, reperibile al link:

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Ed ecco come Ionesco vede nel teatro una possibilità nuova, quella di riformulare sulla scena la “materia” universale in cui si riuniscono le contraddizioni del mondo interiore, espressione di una profondità ‘ancestrale’ comune a tutto il genere umano:

Il teatro [scrive Ionesco] è per me la proiezione, sulla scena, del mondo interiore: è nei miei sogni, nelle mie angosce, nei miei confusi desideri, nelle mie contraddizioni interne che, per parte mia, mi riservo il diritto di prendere quella materia teatrale. Ma siccome io non sono solo al mondo, siccome ognuno di noi, nel più profondo del suo essere, è nello stesso tempo anche tutti gli altri, i miei sogni, i miei desideri, le mie angosce, le mie ossessioni non mi appartengono in esclusiva: fanno parte di una eredità ancestrale, un antichissimo deposito che costituisce la proprietà di tutto il genere umano. Questo è ciò che, al di là delle loro differenze esteriori, riunisce gli uomini e costituisce la nostra profonda comunità, il linguaggio universale4.

Quello di cui scrivono gli autori del suo tempo è infatti un mondo in cui – così come esprime eloquentemente Camus ne Il mito di Sisifo – “l'uomo si sente estraneo, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa. Questo divorzio tra l'uomo e la sua vita, fra l'autore e la scena, è propriamente il senso dell'assurdo.”5

E sarà proprio questo sentimento di «esilio» di fronte alla condizione dell'uomo a porsi come filo conduttore nelle opere dei nostri grandi autori dell'Assurdo: il non senso della vita, che è destinato a portare inevitabilmente, per Ionesco, al rifugio dell'uomo nell'Ideale, è denunciato invece dall'autore come un pericoloso allontanamento dell'essere umano dalla sua autentica natura. Eppure un timido riflesso di Dio, alle volte, si leva, dubbio, dietro alle quinte, avvertito confusamente, forse anelato, ma mai veramente percepito profondamente.

Per questo motivo Ionesco verrà concordemente inserito fra i massimi esponenti del ‘teatro dell'assurdo’. È chiaro, quindi, che i tratti che questi drammaturghi, generalmente raccolti sotto l'etichetta dell'Assurdo, hanno evidentemente in comune derivano dall'aver vissuto tutti questa stessa situazione sociale, ed è da queste stesse premesse che scaturiscono i loro diversi tentativi di espressione: da un mondo distrutto dalla guerra, dalle preoccupazioni sociali della nuova civiltà occidentale, ormai senza più punti di riferimento.

Il ‘teatro dell'assurdo’ nasce e si sviluppa a Parigi nel secondo dopoguerra. Non si tratta di una vera e propria scuola, ma di singoli artisti, uniti da comuni tematiche d'avanguardia,

4 Eugène Ionesco, L'improvviso dell'Alma, trad. di Daniele Ponchiroli, in Teatro, Einaudi, Torino 1961, p. 390.

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connesse alla particolare situazione sociale degli anni '50 appena evidenziata. Una schiera di drammaturghi uniti nel desiderio di rappresentare l'assurdità della situazione umana, il completo non senso della vita e della morte – per usare le parole evocative di Caproni – “l'intimo vuoto e il disfacimento dell'anima contemporanea”6.

Altro elemento che accomuna questi autori è il ritrovarsi schierati allo stesso modo contro ogni espressione precedente di teatro. In primis, si discostano dalla drammaturgia tradizionale di ispirazione classica, ma si discostano fortemente anche dal teatro esistenzialista, allora in voga, di Jean Paul Sartre e Albert Camus. Ionesco arriverà a definire le opere di questi autori addirittura semplici “melodrammi politici”! Ma soprattutto lo schieramento è unito contro il teatro di Bertolt Brecht e seguaci, e contro quello espressionista, dichiaratamente didascalico e didattico. Il ‘teatro dell'assurdo’ è infatti risolutamente antididascalico. Attacca, con humor feroce, ogni forma di conformismo, di linguaggio predeterminato, rendendo divertente persino l'orrore dell'alienazione e del vuoto della società moderna. Quello di Ionesco è in definitiva un “teatro di violenza […] violentemente comico e violentemente drammatico”7, per citare una sua definizione.

Nonostante tutta questa dichiarata distanza, in realtà, resta chiaro il legame del ‘teatro dell'assurdo’ non solo con le altre avanguardie di inizio Novecento, ma anche con lo stesso esistenzialismo, con il quale condivide alcuni fra i temi cardine: la solitudine esistenziale, l'angoscia per la spersonalizzazione nella nuova società di massa.

Le influenze tra le diverse avanguardie sono molteplici, nel teatro di Ionesco è sicuramente presente, ad esempio, un'eco crepuscolare, accompagnata da un'attenta e ghiotta lettura del compatriota Ion Luca Caragiale (1852-1912), scrittore e drammaturgo romeno, riconosciuto come uno dei più geniali autori romeni per la sua vivace vena umoristica e “acuto osservatore della vita umana nei suoi aspetti tragicamente comici”, Caragiale ci ha lasciato un impareggiabile, ma spietato, ritratto della piccola borghesia del suo tempo8.

Ma il carattere prevalente e distintivo del teatro di Ionesco è senz'altro, come scrive lo stesso autore, il suo aspetto «fantastico». Un teatro che “non riconosce altra realtà

6 Attilio Mauro Caproni, Tre ipotesi sceniche: Ionesco, Beckett, Weiss, Manzella, Roma 1975, p. 5. 7 Eugène Ionesco, Expérience du théâtre in «La Nouvelle Revue Française», a. 6, n. 62, febbraio 1958,

citato in Attilio Mauro Caproni, Tre ipotesi sceniche, cit., p. 20.

8 Encliclopedia italiana Treccani, reperibile al link http://www.treccani.it/enciclopedia/ion-luca-caragiale_ %28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 9 gennaio 2020).

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all'infuori dell'irrealtà”9, se per irrealtà si intendono i sogni, come gli incubi, i desideri e tutto ciò che è vita interiore. Ionesco si avvicina in quegli anni alla teoria psicoanalitica junghiana, arrivando a considerare il sogno una forma di ispirazione, anzi di creazione vera e propria. Quello di Ionesco, sulla scia del nostro Pirandello, è infatti quasi un “antiteatro”, che rifiuta radicalmente il naturalismo e la mimesi tradizionale del reale, allo stesso modo in cui la rifiutava, già trent'anni prima, un'opera-manifesto come Sei personaggi in cerca

d'autore.

Non si può non citare in questo contesto, per Ionesco e colleghi, anche un'influenza del movimento futurista, che sosteneva la deformazione grottesca del teatro tradizionale contemporaneo, per il quale provava, per usare le esplicite parole di Filippo Tommaso Marinetti, “un profondo schifo”10. Ad autorizzare un accostamento fra queste correnti, ad eccezione chiaramente del movimento futurista, è anche il forte carattere irrealista dei loro drammi.

Su questa stessa linea si pone Alfred Jarry con il suo teatro elementare, schematico, provocatorio e ferocemente asociale, definito, a ragione, «primitivo». Un tale teatro non può non richiamare subito alla mente il 'teatro dell’assurdo', schematico e antiborghese, del nostro Ionesco. Comune nelle avanguardie è anche lo sguardo a quel surrealismo provocatorio di matrice romena iniziato da Tristan Tzara.

D'ispirazione per il nostro Ionesco sono state sicuramente anche le gags di generi popolari – dei quali Ionesco si nutriva avidamente – come quelle delle elogiate opere dei fratelli Marx, descritti dallo stesso quasi come degni continuatori della commedia dell'arte classica, con i loro giochi mimici e caricaturali, e i loro sketch comici dichiaratamente essenziali, primitivi e buffoneschi.

In Francia, tra gli autori d’avanguardia più influenti di quegli anni, oltre ad Alfred Jarry, troviamo Antonin Artaud, grande teorico del teatro a lui contemporaneo, che il critico Philippe Senart riconosce addirittura come il vero padre di Ionesco. Contrario ad ogni forma di rappresentazione psicologico-naturalista, Artaud guardava infatti già ad un teatro globale, che coinvolgesse tutte le possibilità sceniche. Il critico sosteneva che la parola non fosse sufficiente ad ottenere una comunicazione diretta e decisiva, seguendo la teoria

9 Eugène Ionesco, Expérience du théâtre in «La Nouvelle Revue Française», a. 6, n. 62, febbraio 1958,

citato in Attilio Mauro Caproni, Tre ipotesi sceniche, cit., p. 20.

10 Filippo Tommaso Marinetti, Il Teatro di Varietà, 29 settembre 1913, pubblicato dal «Daily-Mail» il 21 Novembre 1913, oggi reperibile in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano de Maria, Mondadori, Milano 1990, p. 80.

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junghiana degli archetipi, per la quale la nostra psicologia fa parte di una più grande psicologia collettiva e generalizzabile, quello che serve è invece il simbolo. Ecco perché, per Artaud – come anche per Ionesco –, gli elementi scenici sono insostituibili, allo stesso livello d'importanza della parola, delle luci, della scenografia. Quello che entrambi cercavano era, si può dire, un teatro che fosse esclusivamente teatrale. Per i due autori, il teatro, così come tutta la comunità umana, è infatti troppo imbevuto e contaminato dal concetto comune di cultura.

Artaud scriveva: “Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. […] La civiltà è cultura applicata, […] ed è puro artificio separare la civiltà dalla cultura, e usare due parole diverse per indicare una sola e identica azione”11. Per l'autore, l'uomo ha corrotto e contaminato il divino con quell'«infezione umana» che è il contemplare le nostre azioni e speculazioni e teorie, invece che lasciarci guidare da esse. La cultura non è a se stante, ma mezzo raffinato per esercitare la vita.

C'era quindi bisogno, già per Artaud, di un teatro nuovo, che fosse in grado di svegliare e scuotere le coscienze alle radici! Per questo l’autore ricerca, come farà poi Ionesco, uno spettacolo che sia totale, che utilizzi cioè tutti i linguaggi possibili. Nel secondo manifesto del Teatro della crudeltà scrive che anche l'uomo di cui parla è un uomo totale, non analizzato nella sua componente psichica o sociale. La realtà della fantasia e dei sogni va considerata sullo stesso piano della realtà della vita. Artaud esalta inoltre l'antico spettacolo popolare, percepito direttamente dallo spirito, senza la necessità della deformazione del linguaggio, il quale rappresenta, a suo avviso, con le sue ingombranti parole, soltanto un impaccio superfluo. Con il cambiamento della forma teatrale, le parole possono infatti essere usate in un altro modo, cercando di oltrepassare il loro proprio significato logico; vengono usate in un senso quasi «incantatorio»12, magico, anche solo esclusivamente per il loro suono, la loro forma.

Ma il Teatro della crudeltà di cui parla Artaud, nonostante il nome, non è assolutamente un teatro che distrugge. Al contrario è un teatro che afferma, e con potenza, la vita. “Ho detto «crudeltà» – scrive Artaud – come avrei detto «vita»”13. Anche lo studioso Jacques Derrida sottolinea con efficacia come questo tipo di teatro non concepisce l'arte come imitazione, come mimesis della realtà; ma, al contrario, un po' come sosteneva Oscar

11 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, trad. di E. Capriolo e G. Marchi e a cura di Gian Renzo Morteo e Giampiero Neri, Einaudi, Torino 2000, pp. 127-128.

12 Ivi, p. 238. 13 Ivi, p. 228.

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Wilde: non un teatro che è imitazione della vita, ma una “vita che è imitazione del principio trascendente col quale l'arte ci rimette in comunicazione”14.

Allo stesso modo, Ionesco e i drammaturghi dell'Assurdo cercano una nuova forma da dare al proprio teatro, un teatro che possa smuovere e scuotere alla base gli animi, non attraverso il pensiero cosciente, ma per mezzo di qualcosa di atavico, ancestrale, archetipico. Il ‘teatro dell'assurdo’ cerca così di rappresentare, non potendolo spiegare attraverso un linguaggio logico-razionale, quello che l’autore chiama un senso di «stupefazione» davanti all'assurdità e al non senso del vivere. Ionesco stesso prova a definire questo sentimento di stupore perduto, provando a paragonarsi ad un essere che guarda il mondo dall'alto, dal di fuori, senza conoscere tutte quelle regole della vita quotidiana che noi diamo ormai per scontate.

Se ci si mette volontariamente fuori o sopra, se si guarda agli uomini come ad uno spettacolo e come se si fosse al posto d'un essere d'un altro mondo che guarda ciò che avviene qui, allora non si comprenderebbe nulla, le parole sarebbero vane, tutto sarebbe vuoto. È una sensazione che possiamo avere se, guardando le coppie che ballano, ci tappiamo le orecchie. Che cosa fanno? I loro movimenti sembrano insensati. Io scrivo di teatro per esprimere questo sentimento di stupore, di stupefazione […] avevo voluto esprimere qualcosa che usciva dagli schemi della logica e della sociologia. […] la stranezza è dovunque [...] in breve è nel fatto di esistere, d'essere. […] una volta che si è ammessa l'esistenza, più nulla è sbalorditivo né assurdo15.

L'esperimento che l'autore mette in atto con quello che si rivelò poi essere il suo massimo successo, La cantatrice calva, nel 1950, è una parodia proprio del comportamento umano basato su quell'arbitrarietà della vita che noi prendiamo per qualcosa di ovvio, senza mai fermarcisi a riflettere sopra. Eppure una volta analizzati dall'esterno – o per meglio dire notati – questi atti non possono che rivelarsi nella loro “sorprendente arbitrarietà”16, creando, nello spettatore, quel senso di straniamento comico ricercato dagli esponenti dell'Assurdo e da Ionesco in particolare. Ma bisogna ricordare che la comicità del nostro autore non è mai fine a se stessa – come sottolinea Esslin – , essa è pur sempre una comicità di facciata, che nasconde ogni volta una qualche tragicità di fondo, l’essenza stessa dell'uomo moderno. Nelle sue commedie, il nostro drammaturgo, al

14 Antonin Artaud, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1956-66, t. IV, p. 310.

15 Claude Bonnefoy, Entretiens avec Eugène Ionesco. Belfond, Paris 1966, citato in Attilio Mauro Caproni,

Tre ipotesi sceniche, cit., pp. 8-9.

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contrario delle apparenze, sfiora in realtà sempre il tragico “prendendo tremendamente sul serio il comico”17.

L'uomo comune, “il piccolo borghese universale”18, è infatti considerato da Ionesco una figura tragicomica, che rappresenta l'uomo moderno “conformato”, cioè colui che ha ormai perso totalmente quel senso di mistero dell'esistenza, e l'ha sostituito con una tranquillizzante sicurezza, data dall'abitudinaria soddisfazione dei bisogni primari.

Ormai incapace di riconoscere l'assurdità dei luoghi comuni e delle convenzioni del proprio mondo, con la sua falsità e, in una parola, la sua assurdità, lo spettatore ha quindi bisogno di uno choc, di uno di quei «coups de matraque» di cui parla Ionesco19, per essere svegliato dall'abitudinario torpore quotidiano.

Ma per far sì che questa sua nuova concezione venga percepita anche dallo spettatore è necessario un teatro di vera e propria violenza, di urto, che sconvolga e risvegli un mondo massacrato dalla guerra, dove gli esseri umani sono ormai alienati e abbrutiti dalla routine quotidiana imposta dai nuovi ritmi dell'emergente società di massa. Lo “scopo”, se così possiamo chiamarlo, del ‘teatro dell'assurdo’ diviene infatti proprio quello di scuotere il pubblico, allo stesso modo di come accade nella musica e nell'arte pittorica. Queste sono le due espressioni artistiche più forti e dirette nel risvegliare sensazioni dimenticate, nascoste nei meandri di un'interiorità abbandonata ed impolverata, che riescono ad acuire sensi ormai intorpiditi.

L'assurdo di Ionesco tenta, quindi, di evocare, in definitiva, il suo contrario: “è un modo di affermare la possibilità della non-assurdità”, ciò che l'uomo ha il dovere di ricercare, senza abbandonare l'eterna speranza di un potenziale riscatto, quasi come una sorta di rivalsa sull'assurdità della vita. Continua infatti Ionesco: “ritengo che ogni messaggio di disperazione è l'affermazione di una situazione dalla quale ognuno deve cercare liberamente una via d'uscita”20.

Nel descrivere le dinamiche del Teatro dell’assurdo, Martin Esslin fa notare come sia naturale non aspettarsi un ordinato sviluppo logico nell'espressione di una poesia, una

trama, e quindi neanche sconvolgersi né chiedersi come mai il senso di essa non arrivi 17 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 184.

18 Eugène Ionesco, Note e contronote, trad. it. di Gian Renzo Morteo e Giovanni Moretti, Einaudi,Torino, 1965, p. 173.

19 Eugène Ionesco, Expérience du théâtre in «La Nouvelle Revue Française», a. 6, n. 62, febbraio 1958, citato in Attilio Mauro Caproni, Tre ipotesi sceniche, cit., p. 21.

20 Eugène Ionesco, citato da Frederic Towarnicki, Des Chaises vides à Broadway, in «Spectacles», Paris, no. 2, July 1958, citato in Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 191.

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sempre immediato. Allo stesso modo non dovremmo aspettarci risposte precise nemmeno dal teatro. Il teatro di Ionesco, prosegue il critico, è infatti un “teatro poetico, un teatro interessato alla comunicazione delle esperienze umane”21. Il linguaggio è qui considerato un ostacolo convenzionale, che distrae dal contatto umano vero e proprio. La comunicazione deve essere cercata quindi ad un livello preverbale, nelle intuizioni di quella condizione umana ancestrale e collettiva, che precede il linguaggio della parola; le stesse sensazioni che stimolavano i personaggi della commedia classica come ad esempio Pulcinella, o i personaggi dei film muti, come i fratelli Marx. Quella che si cerca di evocare è, quindi, più che una riflessione logico-razionale, una risposta violentemente viscerale da parte di un pubblico abituato a un acritico conformismo, e non ad essere brutalmente spogliato delle sue concrete certezze quotidiane.

È chiaro, infatti, che per descrivere una situazione illogica, priva di senso, e di finalità, non si potrà continuare a cadere nell'illusione di poter ricorrere ai mezzi della logica, della razionalità, ma bisognerà cercare un modo espressivo radicalmente diverso, adatto a questo

assurdo scopo. Di conseguenza, insieme alla novità del contenuto trasmesso, andrà

necessariamente di pari passo la ricerca di un nuova modalità di comunicazione. Il ‘teatro dell'assurdo’ vuole infatti essere un tentativo di superamento di quell'antica e classica contraddizione letteraria che ha sempre tentato di spiegare e risolvere con la logica un mondo che ne è privo. Ma come si può anche solo tentare di arrivare a risolvere questa impasse? Ionesco ha tentato attraverso l'abbandono della necessità di spiegare il mondo – come avevano provato a fare per anni esistenzialisti come Sartre e Camus – in favore del desiderio, appunto, di mostrarlo, di rappresentarlo, secondo la propria personale esperienza, e attraverso la concretezza fisica della scena, con le sue immagini, i suoi suoni, i suoi giochi di luci. “La rivoluzione sta nel provare a cambiare la mentalità”22 radicata nell’animo dello spettatore. Nell'esperimento di questa nuova forma di teatro, a parlare non saranno le parole, ma la scena stessa. Scrive Ionesco:

Ho tentato, per esempio, di esteriorizzare negli oggetti l'angoscia… dei miei personaggi, di far parlare la scena, di visualizzare l'azione scenica, di dare immagini concrete della paura, o del rimpianto, del rimorso dell'alienazione, di giocare con le parole... Ho dunque tentato di moltiplicare il linguaggio teatrale... Sono condannabile per questo?23.

21 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 187.

22 Eugène Ionesco, Note e contronote, Einaudi, Torino 1965, trad. it. di Gian Renzo Morteo e Giovanni Moretti, p. 100; ed. or. Notes et contre-notes, Gallimard, Paris, 1962.

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Quello di Ionesco è quindi, per usare le parole di Esslin “un eroico tentativo di rompere le barriere della comunicazione fra uomini”24. Se non è possibile spiegare il mondo in nessuno modo, e tanto meno comunicarlo attraverso il linguaggio, ciò che può tentare di realizzare il drammaturgo è invece di far “sentire” allo spettatore l'esperienza che l'artista ha sperimentato su di sé. Nessuna spiegazione logica potrà mai sostituire la materialità dell'esperienza provata in prima persona, così come una poesia non può essere sostituita dalla spiegazione dei suoi versi, e come un pezzo musicale non potrà mai essere raccontato.

Ionesco cerca così di dare vita ad un teatro “purificato” da ogni componente che non sia prettamente teatrale, come la fotografia, la letteratura, l'aneddoto, la storia. Così come è successo con la pittura e la musica – spiega Ionesco – che nella loro evoluzione si sono andate sempre più emancipando da ogni fattore esterno (la parola, la letteratura, la politica...), senza mai perdere il proprio carattere prettamente pittorico o musicale. Ionesco guarda ad un teatro, per così dire, “esistenzializzato”, che sia solo se stesso, non l'imitazione di una realtà esterna, come teorizzavano i naturalisti, secondo il tradizionale concetto di mimesis.

Ionesco proverà quindi, con il suo teatro, a contrastare quella sensazione, già descritta nelle memorie giovanili come «disagio», provocata dal vedere i personaggi di Brecht recitare sul palco. Quell'inaccettabile fusione fra vero e finzione così deliberatamente ignorata, in nome di un patto silenzioso con lo spettatore, era infatti, già per Ionesco bambino, insopportabile. Quasi a confermare le parole di Alfred Jarry: “immensa è la nostra incapacità di credere, d'illuderci”25, Ionesco ricorda dettagliatamente come avesse disprezzo e repulsione per la finzione teatrale. Egli percepiva una specie di imbarazzo e di sdegno per la presenza fisica degli attori che, sul palco, disturbavano quella finzione tristemente nascosta, ma evidente a tutti.

Era la presenza sul palcoscenico di personaggi in carne ed ossa che mi infastidiva. Questa presenza materiale distruggeva la finzione. Percepivo due piani di realtà, la realtà concreta, materiale, trita, vuota, limitata, di quegli uomini vivi, quotidiani, che si muovevano parlavano sulla scena, e la realtà dell'immaginazione; giustapposte, ma non coincidenti, irriducibili l'una all'altra: due universi antagonisti che non riuscivano ad unificarsi, a confondersi26.

24 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 192. 25 Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, cit., p. 5. 26 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 20.

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Il passaggio da questo iniziale odio fanciullesco per il teatro a considerarlo attività centrale della sua vita passa sicuramente anche per la riscoperta del teatro nel suo aspetto più unico e potente: la finzione, per l’appunto. Questa difatti non va nascosta ma anzi – essendo l'artificio la componente principale del teatro – va esaltata e spinta al parossismo più violento. La verità della finzione è quindi considerata dall'autore superiore alla verità della realtà.

1.2 Fra critiche e dichiarazioni di poetica

Eppure, inevitabilmente, proprio queste particolari posizioni appena descritte portarono a frequenti controversie e incomprensioni da parte del pubblico, e soprattutto della critica. I più esplicativi furono sicuramente i dibattiti, a partire dagli anni Settanta, con Bernard Dort, esponente della sinistra francese, e con il critico inglese dell'«Observer» Kenneth Tynan.

L'equivoco di Dort fu di considerare, erroneamente, le innovazioni e le svolte rivoluzionarie dei drammaturghi accomunati sotto il nome di ‘teatro dell'assurdo’ una delle molteplici forme di lotta di classe di stampo marxista, alle quali si ispiravano spesso le avanguardie contemporanee. Un teatro che risvegliasse le coscienze doveva, per il critico, essere di conseguenza anche un teatro sociale, d'azione; e la scoperta che così non era, lo portò a formulare pesanti critiche nei confronti di questi autori, primi fra tutti Beckett e Ionesco. Questa incomprensione deriva dal diverso significato attribuito al concetto di

avanguardia. Bernard Dort considerava infatti la poetica teatrale un vero e proprio

strumento politico per poter arrivare alla coscienza degli spettatori e scuoterli, esortandoli a svegliarsi e ad accogliere la rivelazione di una verità più grande.

Se l'avanguardia era quindi l'espressione artistica che rappresentava una possibilità concreta di cambiare il sistema dall'interno, è chiaro che un teatro come quello di Ionesco, in cui il cambiamento era, più che altro, uno scardinamento netto e brutale, non poteva rispecchiare le aspettative del critico francese. Una rottura, quella di Ionesco, tanto radicale da suscitare verosimilmente uno spaesamento, un'allucinazione cognitiva, piuttosto che la trasmissione di una verità da cui poter trarre apprendimento. Per Ionesco, infatti, il suo teatro d'avanguardia mira in una direzione diametralmente opposta rispetto a quel teatro sociale a cui Dort aspirava, teatro incarnato da autori come Brecht o Miller.

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Secondo la concezione dei drammaturghi dell'Assurdo, quindi, il teatro d'avanguardia realizzato a partire dal 1950:

si distingue radicalmente dal teatro di boulevard. È addirittura l'opposto. Contrariamente al teatro del boulevard […] nonostante l'umorismo di alcuni di noi, nonostante i nostri sogghigni, il nostro teatro è un teatro che mette in questione la totalità del destino dell'uomo, la nostra condizione esistenziale27.

E così ancora prosegue Ionesco in Note e Contronote:

Io sono, così sembra, un autore drammatico d'avanguardia. […]. Ora, che cosa significa avanguardia? […]. Le regole teatrali che io credo di scoprire, sono provvisorie, mutevoli; non precedono, ma seguono l'evoluzione della creazione artistica. Basta che scriva una nuova opera teatrale, perché il mio punto di vista possa essere profondamente modificato. Succede che io sia obbligato a contraddirmi e a non sapere più se penso sempre quel che penso. Spero tuttavia che esistano alcuni principi fondamentali; su di essi coscientemente e istintivamente io mi baso. [...]28.

Avanguardia, dunque, ma sempre parte integrante della tradizione, e, anzi, alla fine “la cosiddetta avanguardia” per Ionesco non è che una riscoperta di fattori dimenticati dalla tradizione dominante, ed “è interessante solo se rappresenta un ritorno alle fonti, se recupera una tradizione viva, attraverso i tradizionalismi sclerotizzati, attraverso gli accademismi rifiutati”29. Questo esperimento del ‘teatro dell'assurdo’ si realizza però lontano dalla politica, attraverso un teatro anti-borghese e anti-ideologico:

Il problema che un autore deve porsi è dunque semplicemente quello di scoprire verità e dirle. Il modo di dirle è naturalmente inatteso poiché questo dire stesso è per lui la verità. Egli può parlare soltanto per sé. Tuttavia esprimendo quelle verità per se stesso egli le manifesterà anche per gli altri. Non al contrario30.

Dunque “scoprire verità e dirle”, ma non attraverso la classica retorica politica, ma in un modo nuovo, “inatteso”. Così infatti precisa Ionesco, parlando del teatro politico:

Non facevamo neanche teatro politico […]. Due secoli di politica e di rivoluzione non hanno istituito né la libertà né la giustizia né la fraternità. La politica non dà risposte alla domanda essenziale: che cosa siamo, da dove veniamo, dove andiamo? […]. Il teatro politico arreca solo una luce molto limitata. Il teatro ideologico è inferiore all'ideologia che esso vuole illustrare, di cui si fa strumento. Il teatro politico, poiché

27 Eugène Ionesco, Perché scrivo? in Antidoti, Spirali, Milano 1988, p. 25. 28 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 41.

29 Ivi, p. 148. 30 Ivi, p. 45.

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riflette le ideologie che conosciamo, è tautologico. Ripetendo gli stessi temi da un secolo, e soprattutto da cinquant'anni, è accademico. Il teatro politico non può insegnarci più nulla di nuovo31.

Un'altra importante controversia con la critica è quella tra Ionesco e Kenneth Tynan. Nel 1985 il critico inglese, nel suo articolo Ionescu, a man of destiny?, dopo aver rilevato l'importanza e la novità dell’opera del drammaturgo, lo accusa di porsi come una specie di pericoloso messia del Nulla e del non senso cosmico, abiurando così al ruolo sociale dell'artista che, a suo avviso, con i suoi messaggi, deve sempre rispettare una forma di responsabilità morale. Tynan incolpa Ionesco di perdere di vista il senso nei suoi drammi, di essere troppo ostentatamente antirealistico.

Queste accuse risultano di particolare interesse perché la risposta di Ionesco finì per configurarsi come una magistrale dichiarazione di poetica, rivelando al tempo stesso un’acuta capacità critica e autocritica. Rispondendo all’articolo, così Ionesco infatti correggerà il critico:

Il signor Tynan, si direbbe, mi accusa di essere deliberatamente, esplicitamente antirealista, d'aver dichiarato che le parole non hanno senso e che ogni linguaggio è incomunicabile. Tutto ciò è vero solo in parte, poiché il fatto stesso di scrivere e rappresentare commedie appare in contraddizione con una simile teoria. Sostengo soltanto che sia difficile farsi capire, non che sia assolutamente impossibile32.

Per Ionesco il lavoro stesso dell'artista consisteva proprio nel tentativo di comunicare l'incomunicabile: “un'opera d'arte è espressione di una realtà incomunicabile che si tenta di comunicare e che, qualche volta, può essere comunicata. È questo il suo paradosso e la sua verità”.

Nelle risposte a queste critiche si può anche trovare la conferma definitiva del rifiuto da parte dell'autore di un ruolo politico, considerato come un aspetto da porsi solo in secondo piano all'interno della comunità umana, come d'altronde tutto ciò che è esclusivamente sociale. Ma poiché a sorprendere (e talvolta irritare) maggiormente il pubblico di metà secolo fu proprio questo dichiarato rifiuto di qualsivoglia missione sociale del teatro, Ionesco si troverà a dover specificare:

Un drammaturgo si limita a produrre opere nelle quali non può che offrire la sua testimonianza – mai un messaggio didattico – una testimonianza personale, emotiva, dell'angoscia propria o 31 Eugène Ionesco, Perché scrivo?, cit., pp. 26-27.

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dell'angoscia altrui, o, cosa rara, della propria felicità […]. Un'opera d'arte, soltanto ideologica, e null'altro, sarebbe inutile, inferiore alla dottrina cui fa appello, dottrina che troverebbe una migliore espressione nel linguaggio della dimostrazione e del discorso. Un dramma ideologico non è altro che la volgarizzazione di una ideologia. […].

Nessuna società ha mai potuto abolire la tristezza umana, nessun sistema politico ci libererà dal dolore della vita, dalla paura di morire, dalla sete di assoluto.

La condizione umana prevale sulla condizione sociale, non viceversa33.

L'espressione artistica viene quindi considerata indipendente dalla realtà sociale e dall'ideologia politica. L'autore non si giustifica, quindi, per non aver rispettato quella presunta responsabilità politica di ogni artista nei confronti della società ma, anzi, sostiene che “arte e ideologia si condizionano a vicenda; la verità è che scaturiscono da una stessa sorgente. L'una e l'altra fanno leva sull'esperienza umana per spiegare gli uomini a loro stessi. Sono fratello e sorella, non padre e figlia.”34.

Queste rivoluzionarie innovazioni sono tra i motivi che contribuirono a quella accoglienza ambigua di Ionesco da parte del pubblico, e soprattutto della critica. Ma, come abbiamo detto, il drammaturgo non sembra più di tanto essere scosso dai suoi critici, anzi, rispondendo sempre in maniera sorprendentemente acuta, ribadisce riflessioni esplicative sul senso profondo del suo teatro:

Mi sembra che il signor Tynan riconosca un solo aspetto della realtà: quello cosiddetto «sociale», ai miei occhi il più superficiale di tutti e, insomma, il meno obiettivo, perché soggetto a interpretazioni partigiane. Questa è la ragione per cui penso che scrittori come Sartre (autori di melodrammi politici), Osborne, Miller, ecc.., sono i nuovi «autori del boulevard», rappresentanti di un conformismo di sinistra deplorevole come quello di destra. […].

Se potessi esprimermi paradossalmente, direi che la società vera, l'autentica comunità umana, è extrasociale: è una società più vasta e più profonda, che si rivela nelle angosce comuni, nei desideri, nelle nostalgie segrete che sono esperienza di tutti. La storia del mondo è retta da queste nostalgie e da queste angosce che l'attività politica non può che riflettere, ed interpretare molto imperfettamente35.

Eppure, personalità di spicco nel panorama teatrale mondiale (Orson Welles, Philip Toynbee) sono corsi a supportare la critica di Tynan, difendendo la funzione sociale di artisti non conformisti e d'avanguardia. Forse furono anche attacchi come questi a spingere ancor di più Ionesco a giocare con i suoi critici, utilizzando quel suo stile pungentemente dissacrante, che lo caratterizzò fin dal suo primo saggio giovanile Nu, nel quale sosteneva

33 Ivi, pp. 88-89. 34 Ivi, p. 93.

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prima, e distruggeva subito dopo la prestigiosa nomea dei più grandi scrittori romeni contemporanei. Ma, come abbiamo osservato, quello che, alle volte, può sembrare un semplice gioco derisorio e nonsense, è invece per l'autore sempre un tentativo di tracciare una distinzione netta tra il ruolo dell'arte e quello della dottrina, dell'ideologia, rifiutando in maniera estrema ogni forma di conformismo legata ad esse, di destra o sinistra che fosse.

Nonostante le accuse da parte della critica, quindi, emerge abbastanza evidentemente dalla produzione dell'autore come egli prenda in realtà molto sul serio la sua apparente comicità e irrisione del mondo e della realtà. Anzi, come scrive il critico e amico Mihai Șora, Ionesco aveva “anche il coraggio […] di esporsi eventualmente al ridicolo e, quasi sicuramente alla disapprovazione dei circoli intellettuali, con la colpa di aver violato, con tale sovrana incoscienza, tutte le regole del gioco”36.

Si può dire che l'errore di valutazione di Tynan è stato, quindi, quello di giudicare il teatro di Ionesco ancora secondo i canoni del vecchio teatro tradizionale. Questo nuovo teatro ormai può essere analizzato solo attraverso nuovi criteri, quelli propri del ‘teatro dell'assurdo’.

In queste opere manca, infatti, spesso, anche una vera e propria trama, sono popolate e portate avanti da personaggi piatti, quasi simboli antropomorfizzati, privi di profondità psicologica. Le regole convenzionali di unità e di coerenza sono considerate inutili e vengono totalmente ignorate, il concetto classico di realtà non è più una base condivisa da cui partire. Il concetto di mimesi, fondamento di tutta la drammaturgia precedente, è rifiutato in favore di un'atmosfera di fantasia e sogno della realtà che, alle volte, intensificandosi turbinosamente, sfocia nel vero e proprio incubo. Il linguaggio è anch'esso spesso relegato ai margini delle scena, balbettante, incoerente e alle volte addirittura negato, messo in scena solo come puro simbolo di barriera sociale.

Ho usato il termine “canoni” ma bisognerebbe parlare forse di linee guide, considerato che quelli che noi oggi riteniamo i principali esponenti del ‘teatro dell'assurdo’ (Beckett, Ionesco, Genet, Adamov...) non si sentivano parte di un gruppo definito, appartenenti ad una stessa scuola di pensiero, ma singoli artisti a se stanti, “in Francia abbiamo autori appassionanti: Jean Genet, Beckett, […] Adamov, […] e tanti altri. Essi non costituiscono che punti di partenza per un possibile sviluppo d'un teatro vivo e libero. L'avanguardia è la

36 Mihai Șora, L'incomparabile Ionesco in La cantatrice calva e le poesie giovanili, traduzione e note a cura di Davide Astori, MUP editore, Parma 2006, p. 5.

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libertà.”37 scrive Ionesco. E difatti, nonostante i molteplici attacchi ricevuti dalla critica, difensori di Ionesco si schierano autori come Adamov, Beckett, Queneau e molti altri, firmando una difesa delle opere del drammaturgo pubblicata in un articolo sulla rivista

Arts, che suonò quasi come una legittimazione della sua appartenenza al ‘teatro

dell'assurdo’: “gli autori dell'avanguardia, i drammaturghi del ‘teatro dell'assurdo’ lo riconoscevano come uno dei loro”38.

Eppure, nonostante la lucida teoria presentata pubblicamente, e il sostegno dichiarato di molti colleghi, i dubbi rimangono sempre opprimenti nelle riflessioni private di Ionesco, ad esempio, quando lo vediamo scrivere nelle pagine del suo diario: “la mia tristezza, la mia disperazione è comunicabile? No, non può avere significato per nessuno. Nessuno mi conosce. Non sono nessuno. Se fossi uno scrittore, una figura pubblica potrebbe essere forse di qualche interesse. Eppure io sono come tutti gli altri. Chiunque si può riconoscere in me.”39.

Il dubbio di una totale, insanabile incomunicabilità, quindi, sembra rimanere comunque sempre in agguato. D'altronde il ‘teatro dell'assurdo’ è anche e soprattutto un teatro della solitudine, dell'incompatibilità, che ricerca “una realtà essenziale, dimenticata, taciuta”40, e che ha bisogno di creare uno choc nel suo pubblico, per tentare di sfuggire al grigiore del non senso dell'esistenza. Le convenzioni quotidiane della massa, che velano e procrastinano queste domande, sono il nemico principale di Ionesco, la negazione stessa del senso della vita; prime responsabili dell'alienazione moderna, accanto alle false ideologie e alle rassicuranti convinzioni politiche.

Cercando di superare il mero aspetto sociale e politico, Ionesco affronta tematiche più profonde, che riguardano l’interiorità dell’individuo, gli arcani e reconditi abissi di ogni essere umano. Una perenne ricerca – per usare le sue parole – dell'«intuizione dell'esistenza» è il filo conduttore della maggior parte delle sue opere, in nome di quell'umanità che invece sembrava aver definitivamente e tragicamente perso il senso del mistero di esistere, riducendosi ad una fioca e debole imitazione dell’essere umano.

Questo tentativo avviene attraverso mezzi nuovi, sperimentati ripetutamente nelle sue opere. Innanzitutto è bene ricordare, che il mondo drammatico di Ionesco è un mondo

37 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 53.

38 Gian Luigi Falambrino, Ionesco, La nuova Italia, Firenze 1967, citato in Attilio Mauro Caproni, Tre

ipotesi sceniche, cit., p.15.

39 Eugène Ionesco, Printemps 1939 in La foto del colonnello, Spirali, Milano 1987, p. 98. 40 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 147.

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immerso in un'atmosfera onirico-simbolica, che non poggia sugli elementi realistici della vita quotidiana. È quindi per questo, necessariamente, che il tentativo di comunicazione avviene spesso attraverso altre modalità, oltre a quella della sola parola. Infatti, nonostante l'assurda estremizzazione della finzione, la ricerca continua della massima autenticità possibile sulla scena è l’aspetto fondamentale di tutti i suoi spettacoli. Anche nell'atto stesso della creazione delle proprie commedie Ionesco rivela come la spontaneità sia l'ingrediente principale della propria invenzione, senza la quale non potrebbe esistere l'intera l'opera:

Non ho idee prima di scrivere una commedia; ne ho dopo che ho scritto la commedia, quando non ne scrivo. Credo che la creazione artistica sia spontanea. Per me lo è. Ancora una volta tutto ciò è valido specialmente per me; ma se io potessi credere d'aver scoperto in me stesso gli schemi istintivi e permanenti della strutta oggettiva del teatro, sarei molto fiero. Ogni ideologia deriva da una conoscenza indiretta, secondaria, sviata, falsa; per l'artista invece è vero soltanto ciò che egli non desume dagli altri. Come autore appartenente alla cosiddetta «avanguardia» corro il rischio di essere rimproverato per non aver inventato nulla. Io penso che la scoperta proceda di pari passo con l'invenzione e che s'inventi quando si scopre o si riscopre [...]41.

La fantasia che scaturisce dall'immaginazione libera non è solo un gioco creativo, ma è essa stessa un momento per conoscere, senza dover ricorrere al processo logico-deduttivo:

La fantasia è rivelatrice; è un metodo conoscitivo; tutto ciò che è immaginario è vero; niente è vero se non è immaginario. […]. La ragione è che, in certo senso, tutti sono filosofi: cioè tutti possono scoprire un aspetto del reale e precisamente quello che possono scoprire con le loro forze. Dicendo filosofo, non intendo il tecnico della filosofia, il quale si limita a sfruttare l'altrui visione del mondo. In questo senso, poiché l'artista afferra direttamente il reale, è un vero filosofo. Dall'ampiezza, dalla profondità, dall'acume della sua visione veramente filosofica, dalla sua vivente filosofia, deriverà la sua grandezza42.

Al riguardo bisogna ora ricordare come, dalla seconda metà del ventunesimo secolo si stava affermando quello che verrà poi definito un teatro cosiddetto 'postdrammatico', cioè un teatro senza dramma, nonostante questa possa sembrare una contraddizione in termini. Le parole 'teatro' e 'dramma', infatti, sono sempre state accomunate nella tradizione teatrale – spiega il critico tedesco Hans-Thies Lehmann43 – mentre nel Novecento, per la prima volta, viene operata una distinzione fra testo teatrale, fabula e pura rappresentazione teatrale.

41 Ivi, pp. 36-37. 42 Ivi, pp. 36-38.

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Lo studioso Lehmann aveva distinto tre grandi periodi della storia del teatro: una prima fase che chiama predrammatica, corrispondente alla tragedia antica. Una seconda fase rappresentata dal dramma classico, tradizionale, che tutti noi oggi generalmente associamo al concetto di ‘opera teatrale’ (il dramma di Racine, e dei grandi drammaturghi del Seicento, per intenderci). E un'ultima fase, quella della contemporaneità, che è ciò che qui ci interessa direttamente e che vede un teatro postdrammatico appunto, cioè che viene dopo, nel senso che supera il concetto di dramma. In questa fase “per produrre teatro si può rinunciare all'azione, alle dramatis paersonae, vale a dire ai personaggi...” scrive lo stesso Lehmann44.

Il modello più vicino all'obiettivo che si cerca di raggiungere con questo nuovo teatro è quindi sicuramente l'arte visiva, la pittura, la scultura. Si tratta di un'esperienza estetica che richiede perciò una percezione pura, indipendente dalla realtà che si sta rappresentando. Ma, con il teatro, tutto ciò è naturalmente più complesso. Con i suoi attori in carne ed ossa di fronte al pubblico, le sue parole e le sue azioni, la messa in scena è troppo diretta e “umanamente reale”45.

Dagli anni '80, lo studioso Michael Kirby parlerà della possibilità di un nuovo teatro, che chiama “Teatro formalistico”46, dove l'azione è astratta e può prendere il posto della

recitazione vera e propria. In un teatro in cui l'azione è minima, se non addirittura inesistente, il testo si trasforma, così, in un testo lirico. In questo modo il nuovo teatro cerca la sua dimensione essenziale.

Un teatro, per usare le parole di Davide Astori, “irrazionalista”47. D'altronde, se l'essere umano, abbandonato sulla terra senza uno scopo, senza un senso, sembra essere, agli occhi dell'autore, niente meno che un pupazzo nelle mani dell'universo o, nel migliore dei casi, il “buffone di Dio, un saltimbanco metafisico”, la marionetta-Ionesco non può che finire per accettare, quando riesce, quel “ridicolo metafisico del [suo] stato di uomo”48, ridendo. È da affermazioni come questa che non possiamo non accorgerci di come il dramma di questo commediografo sia evidentemente ontologico, prima ancora che estetico.

44 Ivi, p. 35. 45 Ivi, p. 37.

46 “Kirby nella sua analisi del teatro che definisce formalistico propone di differenziare modelli delle avanguardie tra antagonista ed ermetico. Egli ritiene, a ragione, che la diffusa convinzione che il teatro d'avanguardia abbia avuto inizio nel 1896 con lo scandalo teatrale per l'Ubu Roi, di Alfred Jarry a Parigi sia quantomeno incompleta. Qui ad avere inizio è solo la linea antagonista[...] con il simbolismo cominciò però ciò che Kirby definisce come avanguardia ermetica.”; Ivi, p.62.

47 Davide Astori, Ionescu prima di Ionesco in La cantatrice calva e le poesie giovanili, cit, p. 14. 48 Ibidem.

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In Vittime del dovere, dramma in un solo atto di Ionesco, in cui il tema centrale vuole essere il teatro stesso, troviamo uno scrittore sottoposto ad un martellante interrogatorio da parte di un poliziotto. Dopo una generica parodia della psicoanalisi e della teoria freudiana dell'inconscio, non riuscendo a tornare tanto indietro con la memoria e a trovare alcune risposte alle incessanti domande, che fanno il verso alle difficili, talvolta impossibili, risposte da trovare dentro di sé, un personaggio si troverà paradossalmente costretto ad eliminare fisicamente il torturante inquisitore. Eppure questa risposta – vuole far intendere Ionesco – è necessario continuarla a cercare, incessantemente, è un dovere categorico dell'uomo, nonostante esso sia destinato a rimanerne però sempre vittima, dato che una risposta definitiva è tragicamente introvabile.

Le pungenti idee critiche esposte da Ionesco nei confronti del teatro analitico, “poliziesco”, come lo definisce ridicolizzandolo, vengono per la prima volta elaborate nel 1943, e cioè prima della Cantatrice Calva, nell'opera, composta in romeno, Lezione senza

professore. Ionesco è contrario ad un teatro classico che “deve raccontare una storia”49. Per quello, come abbiamo già evidenziato, ci sono altre forme d'arte più adatte e, chiaramente, insuperabile, qui, è la letteratura. Il drammaturgo contrasta un teatro che si costruisce su delle premesse, dei fatti già avvenuti, che guidano la trama presente, sulla scia delle grandi tragedie greche, prima fra tutte l'Edipo re. Rifiuta energicamente “il lavoro teatrale razionale costruito come un sillogismo nel quale l'ultima scena è la logica conseguenza della prima, che ne è la premessa”50.

Un primo meccanismo ricorrente nella drammaturgia di Ionesco, per ovviare al classico svolgimento di una trama, è il gioco basato sulla graduale e crescente intensificazione dell'azione. Un’azione di estremizzazione assurda, che spinge verso il parossismo più assoluto, così descritto dall'autore:

Nella Lezione ad esempio, non c'è alcuna storia, ma esiste un'evoluzione progressiva; io tento di introdurre questa progressione attraverso una graduale condensazione degli stati d'animo, delle sensazioni, delle situazioni, delle ansietà. Il copione è unicamente un pretesto per la recitazione, che deve partire dal comico, intensificandosi poi progressivamente. Il testo è soltanto un pretesto per questa intensificazione51.

49 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 231.

50 Eugène Ionesco, Théâtre et anti-théâtre, in «Cahiers des Saisons», n. 2, ottobre, 1955, citato in Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 183.

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È questo lo schema di fondo di tutte le commedie di Ionesco, e risulta chiaro a questo punto come il linguaggio venga necessariamente ad occupare un ruolo minore. E per “minore” non si intende di minor peso, perché le parole sono comunque sempre centrali all'interno della tragicommedia assurda di Eugéne Ionesco, ma non hanno il ruolo che gli viene di solito destinato, cioè quello di porsi come messaggere di un significato codificato. Le parole vengono qui sfruttate per la loro forma astratta, per il loro suono, e per le suggestioni che questo ispira.

Non scrivo teatro per raccontare una storia. Il teatro non può essere epico..., poiché è drammatico. Secondo me, il teatro non consiste nella descrizione dello svolgimento di una certa storia: esso non deve sostituirsi al romanzo o al film.

Un opera di teatro è una costruzione, costituita da una serie di stati di coscienza o di situazioni che s'intensificano, si infittiscono, poi si intrecciano, sia per risolversi, sia per finire in un inestricabile e insostenibile groviglio52.

Sfidando il teatro a lui contemporaneo, Ionesco propone, per raggiungere l'effetto di intensità desiderato, una moltiplicazione, un'invasione, non solo degli stati d'animo umani, ma anche delle situazioni e degli oggetti fisici sulla scena, senza tenere conto di nessuna regola o forma di restrizione. Tutti i mezzi disponibili sulla scena sono ammessi all’azione, e anzi incentivati, nel teatro di Ionesco:

Tutto è permesso a teatro: dar corpo ai personaggi, ma anche materializzare le angosce, le presenze interiori. È dunque non soltanto permesso ma consigliabile far recitare gli accessori, far vivere gli oggetti, animare gli scenari, concretizzare i simboli. Nello stesso modo in cui la parola si prolunga nel gesto, nel movimento, nella pantomima, da cui si fa sostituire quando di per se stessa diventa insufficiente, così gli elementi scenici possono a loro volta ampliarla53.

Ponendosi sulla scia dell'antica commedia dell'arte, Ionesco propone, quindi, un teatro che può fare a meno del linguaggio come forma di comunicazione dell'esperienza, come mezzo di contatto fra esseri umani. Centro della scena è l'azione, è il gesto, gli oggetti, con la loro disposizione sul palco e la loro progressiva intensificazione. La trasmissione di informazioni non è più, di conseguenza, il punto centrale, il fine della rappresentazione teatrale, ma solo uno dei vari e molteplici elementi.

Non è la morale concettuale ciò che Ionesco cerca di comunicare, è, invece, la sua esperienza, ciò che si ritiene di dover fare in quella specifica situazione. Il suo teatro è diretto proprio contro la falsità dell'idea che i frutti dell'esperienza umana possano essere trasmessi sotto forma 52 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., p. 231.

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di eleganti e ben confezionati concetti. Questo è il motivo per cui la sua critica, la sua satira feroce cercano di distruggere l'errore razionalistico per il quale il linguaggio da solo, separato dall'esperienza, può comunicare l'esperienza umana da una persona ad un'altra. Tutto ciò può essere ottenuto (se può in alcun modo essere ottenuto) solo attraverso l'opera creativa dell'artista, del poeta che riesce a trasmettere la sua personale esperienza rendendo un altro essere umano capace di «sentire» ciò che il poeta, l'artista ha sperimentato su di sé54.

Così facendo però, come evidenziava Drace-Francis, eliminando la possibilità di un messaggio che può essere comunicato secondo regole e codici condivisi, anche la solitudine – l'altra faccia di questo meccanismo – diventa un tratto evidentemente ben presente, se non protagonista, nell'immaginario teatrale di Ionesco. Questa situazione emotiva viene proposta quasi sempre come naturale alternativa alla schiacciante identità collettiva, che si basa su una rassicurante, ma deleteria, ideologia comune.

Alternando slanci comunicativi a più melanconici fatalismi, Ionesco infatti si barcamena costantemente fra la genuina gioia nello scoprire di poter lanciare un messaggio umano, attraverso la messa in luce della propria interiorità, e un angosciato isolamento senza rimedio. A rendere ancor più esplicita questa condizione, Esslin evidenzia come nei drammi di Ionesco i personaggi siano quasi sempre una coppia, spesso sposata, o comunque unita da un forte sentimento di amore. La sensazione di solitudine che ne scaturisce per contrasto è, per questo motivo, ancor più disperante, emergendo dalla condizione umana che dovrebbe rappresentare per eccellenza il contrario della solitudine, il simbolo, per antonomasia, dell'unione e della comprensione. Non quindi emarginati e reietti come i vagabondi dei drammi di Beckett e Adamov, ma, “soli nonostante che siano membri della comunità umana”55, i personaggi di Ionesco rappresentano il dramma disperante dell'uomo comune.

Una profonda sensazione di solitudine accompagna Ionesco sin da bambino, e non lo abbandonerà con la crescita, rivelandosi in vari modi nell'esperienza adulta. Già nel suo progetto di tesi di dottorato, per il quale nel 1938 vince una borsa di studio dal governo francese per studiare a Parigi, l'argomento affrontato era la poesia di Baudelaire; ma non sono evidentemente i problemi estetici della scrittura del grande autore francese a interessare maggiormente lo studioso, bensì quelle profonde e intime riflessioni sulla morte, sul concetto di peccato e di male, con cui non ha mai finito di confrontarsi.

“Così l'ho conosciuto: esuberante o angosciato, donarsi con altruismo o rinchiudersi sopra il proprio abisso, generoso e insieme avido di sostegno. Non era fatto per stare solo.

54 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., pp. 185-186. 55 Martin Esslin, Il teatro dell'assurdo, cit., p. 191.

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Soffriva della mancanza di amicizie”, così lo ricorda l'amico Mihai Șora, nella postfazione a La cantatrice calva e le poesie giovanili, nel 2006. È quindi evidentemente la problematica esistenziale, morale e, se vogliamo, metafisica, ad interessare sopra ogni altra il nostro autore. E sarà sempre ed esclusivamente in nome di questa “sete non spenta di Assoluto”56 con la 'A' maiuscola, che andrà avanti l'affannosa ricerca del drammaturgo. Affannosa, e necessariamente dolorosa, la ricerca di Senso accompagnò Ionesco lungo tutto l'arco della sua esistenza.

Questa solitudine emerge nel momento in cui il linguaggio, che dovrebbe essere veicolo di messaggi, finisce per rivelarsi invece, nella sua componente sociale, un ostacolo alla comunicazione. Esso infatti, in tutte le pièce del drammaturgo, è sempre simbolo dell'immobile mentalità, del “pensiero morto” borghese. Continua Mihai Șora, nell'introduzione già citata:

Egli non si è mai sforzato di «mettere in forma», per così dire, quello che aveva da comunicare (e non era poco!) in un discorso di tipo dimostrativo, in cui si incatenavano idee deboli […]. Con la superba incoscienza che gli conferiva la forza del suo genio, Eugène Ionesco ha gettato dall'inizio il velo della derisione sopra una «messa in forma» del discorso […]. Tutto è stato vissuto sempre, e sempre è stato rivissuto: sotto forma di espressione. I suoi testi più recenti, in un certo modo chiaramente tutti egocentrici, ci riguardano in realtà tutti, nell'insieme e singolarmente in parte, e risuonano in noi fin nei segreti più reconditi della nostra essenza vera, che abitualmente nascondiamo. Benché sembrino costituire una (semplice?) analisi del caso, esse circoscrivono di fatto, con un'acutezza di cui non sarebbe capace neanche un testo teorico, la problematica d'insieme della condizione umana. Una problematica di cui, quando accade di accluderla, ogni ideologia (nella definizione riduttiva in quel massimo grado, e non permissibile, di semplificazione) elimina solo ciò che gli conferisce vita, ricchezza e interesse57.

Eppure tutte queste forme di impasse non devono lasciar credere a un abbandono, da parte dell'autore, della speranza – sempre invece in agguato – di poter raggiungere una forma di liberazione, di catarsi. E ciò anche grazie e attraverso uno dei mezzi più potenti concessi all'uomo: il riso. Il comico di Ionesco, infatti, – scrive Esslin – non è mai puro e semplice divertissement, ma gioco serio per dare una forma al ridicolo che è nella condizione naturale dell'uomo. Il drammaturgo non può che illustrarla, attraverso i propri mezzi, ma questo tema sarà approfondito più avanti.

56 Mihai Șora, L'incomparabile Ionesco, cit., p. 6. 57 Mihai Șora, L'Incomparabile Ionesco, cit.

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1.3 Ionescu prima di Ionesco: le origini romene e l'identità ebraica

Nonostante la critica tenda sempre a riconoscere come atto di nascita del grande Ionesco la messa in scena a Parigi, nel 1950, de La cantatrice calva, bisogna ricordare che, all'epoca, Ionesco non era un giovane ragazzo senza passato, ma aveva già ben quarantun anni. Dunque non è sbagliato proporre un passo indietro, come ha fatto, tra gli altri, Giovanni Rotiroti, e guardare il passato del famoso Eugène Ionesco, fino ad arrivare al romeno Eugen Ionescu. Dietro al velo onirico dei drammi ioneschiani così ben inseriti nell'orizzonte delle avanguardie europee, infatti, si cela sempre “la figura spettrale della storia della Romania”58.

È Davide Astori a parlarci, nel suo saggio Ionescu prima di Ionesco, delle spesso dimenticate origini dell'autore, origini che hanno fortemente segnato il destino e il futuro dell'artista. Nonostante la nascita a Slatina, nel 1909, Ionesco e la famiglia si trasferiscono dopo soli due anni a Parigi, nel paese d'origine della madre Marie-Thérèse Ipcar. È qui che il giovane Ionescu passerà tutta la sua infanzia e giovinezza. Dopo cinque anni trascorsi nella capitale, però, nel 1916, il padre ruppe ogni rapporto con la famiglia tornando in Romania, dove collaborò con il governo di occupazione tedesco e si risposò con un'altra donna, lasciando credere a Marie-Thérèse di essere rimasto ucciso durante la guerra. Così Ionesco passò la sua infanzia in Francia.

Di questo periodo, cui Ionesco si riferisce spesso negli scritti autobiografici come ad un “paradiso perduto”, abbiamo molte testimonianze dirette, in cui emergono alternanze di ricordi idilliaci a momenti più bui e traumatici. Da un lato c'è la tristezza e la solitudine della madre abbandonata e in difficoltà economiche, ma dall'altro anche l'incanto e la meraviglia della vita di campagna a La Chapelle-Anthenaise, dove Ionesco passa due anni con la sorella, sotto la tutela di una famiglia del paese. Solo nei primi anni Venti il padre riappare, riottenendo – dopo un divorzio di cui la moglie non era neanche a conoscenza – la custodia tutelare del figlio. Così Ionesco, nel 1925, fu costretto a tornare in Romania con la sorella, e vivere in casa del padre.

La relazione con il padre fu sempre molto turbolenta e difficile. Non è superfluo indicare come anche a questo complicato legame si può ricollegare il rapporto ambiguo che Ionesco mantenne costantemente con la propria patria, la stessa del padre rifiutato. In

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