• Non ci sono risultati.

Alla ricerca della felicità: fra sottomissione e libero arbitrio

CAPITOLO 2 DA MACBETH A MACBETT: LO SHAKESPEARE

2.6 La libido dominandi da Shakespeare a Ionesco: un tormento

2.8.2 Alla ricerca della felicità: fra sottomissione e libero arbitrio

Dopo aver riconosciuto come primaria una dinamica di relazione fra i personaggi basata sul binomio dominatore-dominato, come scrive Miskei, nel Macbett:

it appears to be two options of living: either we perform duties succumbing to somebody's authority and control, or we are the ones who take the role of the ruler. The third option remains a question, that is, if it is possible to break the shackels of society and set against the established rules and moral personified in the ruler of the country in question. The question if we have real control over our lives and action needs to be answered197.

Il Macbett è dunque un'opera che si interroga fortemente sul senso degli eventi nella vita dell'uomo; è l'essere umano libero nelle proprie scelte, nel proprio agire, o, come vorrebbe la tradizione classica, è sempre legato ad una forma di destino, di caso, o volontà divina che si voglia, che lo vincola? Queste sono domande che emergono prepotentemente dallo spettacolo di Ionesco, e sembrano anche trovare pessimisticamente una risposta nelle parole di Macbett:

Si vorrebbero fare certe cose, non si fanno. Se ne fanno altre, che non si sarebbero volute fare. La storia è sorniona. Tutto ti sfugge. Non si padroneggiano mica le cose che si provocano. Le cose si ritorcono contro di te. Tutto ciò che succede è il contrario di quello che avresti voluto succedesse198.

Ma la necessità di avere libertà di scelta l'avevamo vista già forte sul palco fin dal primo dialogo tra Candor e Glamiss, nel momento in cui cominciano a sentire l'esigenza di ribellarsi al re Duncan:

GLAMISS: L’indipendenza!

CANDOR: Il diritto di accrescer le nostre ricchezze. L’autonomia. GLAMISS: La libertà!

CANDOR: Unico padrone delle mie terre199.

Da queste parole inizia a srotolarsi una serie di lunghi elenchi di privazioni della propria autonomia che scadono anche nella paradossale rivendicazione di essere “qualcosa”, invece che “niente”, come vediamo da questo scambio di battute che dovrebbe suscitare un forte sdegno per il senso di ingiustizia, ma per la modalità ironica in cui è esposto, finisce invece per provocare il riso nello spettatore, o nel lettore:

197 Edina Miskei, Contemporary Shakespearean rewritings, cit., p.93. 198 Eugène Ionesco, Macbett, cit., p. 79.

GLAMISS: Non siamo delle nullità. CANDOR: Tutto il contrario. GLAMISS: Siamo qualcosa. CANDOR: Cioè non siamo cose.

GLAMISS: Non vogliamo essere gli zimbelli di nessuno soprattutto di Ducan. Ah, ah! il nostro beneamato sovrano!200.

Eppure, una volta raggiunta questa fantomatica “indipendenza”, questa libertà, i personaggi di Ionesco mostrano tutti la stessa reazione: una folle e incomprensibile paura. Una paura che deriva dal non poter più scaricare le proprie responsabilità al di fuori di se stessi, su qualcun altro, su un “superiore”, che in quel momento incarna il potere.

Ciò chiaramente porta angoscia e spaesamento in chi non è mai stato abituato a compiere delle scelte contando solo su se stesso, senza seguire degli ordini che gli vengono imposta dall'alto, come qui ben dimostra Macbett, ad esempio: “No, non ho rimorsi, visto che erano traditori. Mi sono limitato ad ubbidire agli ordini del mio sovrano. Missione di servizio”201. Macbett non prova rimorso ad aver ucciso, perché si sente come se avesse ucciso per, e al posto di, qualcun altro, senza volontà propria di farlo, ma scaricando la responsabilità su un mandante esterno.

È per questo che, nel momento in cui l'autorità esterna viene a mancare – come sottolineava Girard analizzando opere di Shakespeare come il Giulio Cesare – coloro che prima erano sottomessi, dopo un momentaneo e fugace attimo di felicità, si rendono conto che la felicità anelata non si concretizza con la rottura dell'ordine sociale, ma, al contrario, le frustrazioni di prima vengono solo sostituite da altre, nuove angosce riguardo la necessità di dover agire secondo le proprie regole, la propria coscienza, e dover scegliere prendendosi poi la responsabilità delle proprie azioni. È questo che porta il Macbett, alla fine, a pronunciare queste incredibili parole, senza fare una piega: “Ero felice quando servivo fedelmente Duncan. Non avevo preoccupazioni”.

E Macbett non è il solo a ritrovare la felicità nella sottomissione, nel rapporto di sudditanza in cui può affidarsi ad un potere esterno e autorevole che lo comandi, su cui poter scaricare le proprie responsabilità, senza sentire alcun “rimorso” dei mali compiuti, come dimostra la rabbia e la frustrazione di queste parole urlate dal protagonista, una volta divenuto re a sua volta, allo spettro di Duncan, apparso durante la scena del banchetto: “Tu

200 Ibidem. 201 Ivi, p. 23.

non tornare prima d’essere stato perdonato dalle migliaia di soldati che ho ucciso in tuo nome”.

Gli stessi convitati, anche se per paura di ritorsioni da parte del loro nuovo sovrano, pronunciano di fatto queste parole: “I QUATTRO CONVITATI: Monsignore, noi ubbidiamo. La nostra gioia consiste nel sottometterci. QUARTO CONVITATO: La nostra più grande gioia è ubbidire”202. Come fa notare anche Sergio Torresani:

la funzione conta più della persona, la collocazione del personaggio agisce da forza determinante offuscando ragione e sentimento […]. Gli sciocchi (Duncan) sono vinti dai superbi, pronti a ricoprire il ruolo degli sciocchi, in un circolo senza fine. E la massa di coloro che vivono sotto la guida di questi falsi manovratori della storia non è meglio dei padroni […]. I loro evviva e i loro applausi sono pronti e sicuri, subito rivolti al vincitore, subito osannanti a chi ha avuto la meglio203.

2.9 Gli zanni e la commedia dell'arte: l'irruzione del comico

La parodia nel Macbett, come abbiamo notato, non è totale e dissacrante come quella di Alfred Jarry, ma è pur sempre una “parodia seria”, e lo possiamo constatare da vari meccanismi distintivi messi in atto da Ionesco.

Oltre al tipo di linguaggio, ai cambiamenti nella trama e nei personaggi, va sottolineata anche l'inclusione assurda di personaggi moderni completamente decontestualizzati all'interno dell'opera, e chiaramente assenti nell'antecedente shakespeariano. Accanto allo straccivendolo già nominato, che appare nella scena della ghigliottina, evidenziando con la sua assurda presenza comica e fuori luogo l'orrore della situazione, assistiamo, nel campo di battaglia, anche al passaggio di un cacciatore di farfalle, descritto in questi termini: “Un cacciatore di farfalle, reticella in mano, abito chiaro, paglietta in testa, entra da sinistra. Ha baffetti neri, occhiali a stringinaso, corre dietro ad una o due farfalle, poi esce da destra inseguendone una terza”204.

Ma ancor più assurdo e provocatorio è sicuramente il venditore di bevande, che, durante la battaglia, si presenta urlando slogan e prezzi per cercare di vendere “gazzose” dai millantati poteri miracolosi, lanciando grida da mercato:

202 Ivi, p. 83.

203 Sergio Torresani, Invito alla lettura di Eugéne Ionesco, cit., p. 101. 204 Eugène Ionesco, Macbett, cit, pp. 48-49.

Gazzose fresche! Gazzose per i civili! Gazzose per i militari! Avanti, avanti, chi vuole rinfrescarsi la gola? Approfittiamo della tregua! Gazzose dolci! Gazzose per guarire le ferite, gazzose per combattere la paura, gazzose per militari! Un franco la bottiglia, quattro per tre franchi. Speciali anche per i piccoli graffi, punture ed escoriazioni.

Questi personaggi totalmente ridicoli possono sembrare, a prima vista, solo una buffa provocazione da parte dell'autore, per smorzare i toni della tragedia shakespeariana. È evidente, però, ad un'analisi più dettagliata, che questi si fanno rappresentanti, in qualche modo, anche della società dei consumi moderna, che, prepotentemente, si impone in ogni situazione, sopra ogni logica, scavalcando anche la dinamica della morte e della violenza.

Osserviamo, ad esempio, il dialogo inverosimile che si instaura fra il venditore ambulante e un soldato:

VENDITORE DI BEVANDE: Gazzose fresche! Gazzose militari1 gazzose contro la paura, per il cuore! (un altro soldato entra da destra) Bevande fresche!

L’ALTRO SOLDATO: Cosa vendi?

VENDITORE DI BEVANDE: Gazzosa dolce, cura le ferite. SOLDATO: Non sono ferito.

VENDITORE DI BEVANDE: Combatte la paura. SOLDATO: Io non ho mai paura.

VENDITORE DI BEVANDE: Un franco la bottiglia. Fa bene anche al cuore. SOLDATO: (battendo contro l’armatura) Ne ho sette sotto la corazza. VENDITORE DI BEVANDE: Buona anche per le graffiature. SOLDATO: Graffi, certo che ne ho. Ce le siamo date!205.

Non serve aggiungere altro a questo passaggio, se non che il venditore si pone come una esibita critica alla società moderna, fondata sulla pubblicità, e sul potere ingannatore delle merci di consumo.

Dunque, questi personaggi fuori contesto, come macchiette, ruoli personificati, senza alcuna identità, con le loro brevi apparizioni sul palcoscenico, quasi piccole pause da carosello, con i loro fulminei lazzi, i discorsi improvvisati su un canovaccio di battute e di insulti, associati a movimenti e gesti ridicoli volti solamente a far ridere il loro pubblico ricordano, ancora una volta, i brevi sketch della commedia dell'arte classica.

Sketch talvolta talmente esagerati e paradossali da risultare davvero degni eredi della maschera dello Zanni, il personaggio stereotipo del servo della commedia dell'arte, poi sdoppiato in due servi, uno furbo e l'altro, destinato agli intermezzi burleschi, più sciocco.

Allo stesso modo in cui avevamo visto duplicarsi il personaggio di Macbett in quello dell'amico identico Banco, durante i loro discorsi, come scrive Kern: “in their near-identity

of exterior and action, they resemble zanni, the comic double figures of the commedia dell'arte”206.

Nella scena finale, però, dopo la megalomane auto-descrizione di Macol, colui che dovrebbe salvare il paese e mettere fine alla catena di violenza e di omicidi – o almeno questo è quello che dovrebbe accadere nel testo originale di Shakespeare – il cacciatore di farfalle si presenta in chiusura, uscendo dalla nebbia, quasi come una miracolosa epifania.

Questa inserzione conclusiva, come suggerisce Miskei, sembra voler suscitare un senso di leggerezza sul finale, un appello alla vittoria della fantasia, simboleggiata dalle farfalle, sopra le brutture della guerra e dell'uomo appena descritte.

E infatti l'ultima frase dell'opera è proprio la didascalia di Ionesco: “La nebbia si dissipa. Il cacciatore di farfalle attraversa il palcoscenico”.

Dopo ben quattro secoli, passando per il rifacimento di Alfred Jarry, Ionesco con il suo

Macbett rimette in scena una “parodia seria” del Macbeth di Shakespeare, riadattandolo

secondo i caratteri propri del 'teatro dell'assurdo'.

Varie sono le modifiche strutturali e concettuali dovute ad un contesto storico di realizzazione molto diverso, ma molte sono ancora le coincidenze tematiche che lo avvicinano al pensiero dell'autore vittoriano, tanto da farne un degno “epigone”.

Riconosciamo, dunque, in entrambi gli autori il profondo interesse per la natura umana, anche quella più istintuale e violenta; il continuo gioco con la linea sottile che separa ciò che chiamiamo mondo reale dal mondo fantastico dell'immaginazione e del sogno; l'utilizzo di figure comiche tipizzate, come i fools.

Eugène Ionesco, appellato negli anni come il “clown tragico”, lo “Shakespeare dell’assurdo”, con il suo rifacimento del Macbeth mostra come anche dopo secoli, sotto molti punti di vista, si può ancora trovare in Shakespeare “un nostro contemporaneo”, per citare il titolo del famoso libro di Jan Kott.