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Il linguaggio: fra amplificatio e ripetizioni

CAPITOLO 2 DA MACBETH A MACBETT: LO SHAKESPEARE

2.4 Il linguaggio: fra amplificatio e ripetizioni

Nei drammi assurdi di Ionesco, sostanzialmente privi di una vera e propria trama e abitati da personaggi piatti e fumettistici, l'analisi del linguaggio diventa di primaria rilevanza. L'utilizzo di un linguaggio distorto e perverso si aggiunge al vuoto dello spazio scenico, finendo per riflettere la distorsione e l'alienazione dell'universo esterno. Eppure, nel suo Macbett, Ionesco non utilizza in realtà, contrariamente alle sue abitudini, un

121 Ivi, p. 38.

122 Eugène Ionesco, Macbett, cit., p. 46

123 Edina Miskei, Contemporary Shakespearean rewritings in the theatre of the absurd, cit., p. 38. 124 Edith Kern, Ionesco and Shakespeare, cit., p. 8.

linguaggio totalmente insensato e incomprensibile. L'avere come base il dramma di Shakespeare fa sì che i dialoghi del Macbett risultino sempre portatori di un senso compiuto, socialmente accettabile e uniformemente riconosciuto, al contrario di quanto era accaduto nell'opera che lo ha reso internazionalmente celebre: La cantatrice calva.

Ma siamo comunque di fronte a un testo di Ionesco, di conseguenza non mancano sicuramente una moltitudine di elementi comici dai significati non consequenziali, di giochi di parole, di perversi sillogismi incompleti o assurdi e lunghe liste di ripetizioni che giustificano la classificazione di quest'opera nel novero del 'teatro dell'assurdo'. È proprio grazie alla peculiarità di questo linguaggio, infatti, che Ionesco riesce a trasformare il dramma shakespeariano in una grottesca farsa tragicomica e, d'altronde, come egli stesso sostiene: “renouveler le langage, c’est renouveler la conception, la vision du monde”125.

Elemento fondamentale per questa trasformazione è sicuramente l'uso ossessivo e spavaldo della ripetizione, che Ionesco utilizza in modo smodato e paradossale, non solo nel linguaggio ma anche nelle azioni stesse e nelle situazioni, spesso riproposte identiche. L'autore sembra così citare le ripetizioni tragiche del Macbeth di Shakespeare ma parodiandole e utilizzandole per creare un effetto comico.

Se nel dramma inglese, infatti, la ripetizione veniva sempre associata all'ineluttabilità del destino, in Ionesco questa si trasforma in semplice ripetitività vuota e senza senso, e disperde completamente il significato sacrale e rituale, in favore di uno sciocco e ossessivo gioco di suoni. Ne possiamo notare un esempio già nella prima scena, la quale vede protagonisti i due nuovi personaggi inseriti da Ionesco nel dramma di ispirazione shakespeariana, Glamis e Candor (personificazioni dei titoli del Macbeth shakespeariano) coinvolti in un dialogo serrato sulla necessità di detronizzare il re Duncan, per poter ottenere l'indipendenza e la tanto agognata libertà.

Un dialogo, questo, basato proprio sulla pedissequa ripetizione l'uno delle frasi dell'altro, senza alcun senso logico se non quello di destabilizzare il pubblico con la sua audacia provocatoria. E come se questo non bastasse, lo stesso scambio è ripetuto, praticamente invariato, qualche scena dopo, quando saranno Macbett e Banco a riunirsi per lo stesso scopo: detronizzare il re e prendere il suo posto.

GLAMISS: Non vogliamo essere gli zimbelli di nessuno soprattutto quelli di Ducan. Ah, ah! il nostro beneamato sovrano!

CANDOR: Né zimbelli, né grulli.

GLAMISS: Né grulli, né zimbelli. CANDOR: Persino nei miei sogni.

GLAMISS: Persino nei miei sogni s’insinua, come un incubo. CANDOR: Bisogna espellerlo.

GLAMISS: Bisogna espellerlo da per tutto. CANDOR: Da per tutto126.

Ad osservare attentamente questa scena ci si rende subito conto che a ripetersi non sono solo le parole, ma i personaggi stessi, che sembrano sdoppiarsi sulla scena, senza mantenere nessun tratto di individualità, ma solamente il loro rassicurante ruolo. È il drammaturgo stesso a lasciare queste indicazioni agli attori nelle sue didascalie, quando scrive che i due interpreti di Macbett e Banco devono essere simili anche nell'aspetto, vestiti uguali e con la stessa barba. E lo stesso accade anche in altre scene dove ad entrare dalle quinte sono sempre gli stessi attori, a ripetizione, che interpretano una dopo l'altra parti diverse, così da sottolineare l'intercambiabilità non solo dei ruoli in una società, ma anche delle personalità stesse degli uomini moderni. Così, ad esempio, scrive Ionesco in una didascalia: “uno dopo l’altro – in pratica sempre gli stessi attori – passando e ripassando rapidamente, in fondo i soldati di Candor si fanno tagliare la testa dalla ghigliottina” e ancora: “i due soldati escono da destra. Due altri entrano da destra. Possono essere gli stessi salvo che quello che portava l’uno adesso è portato dall'altro”127.

Questa serie di situazioni che si ripetono sempre uguali sulla scena insinuano nel pubblico un'idea di circolarità senza fine, e sembrano suggerire che Ionesco non creda, realmente, in nessuna possibilità di progresso, di via d'uscita da questa folle circolarità infinita. È lo stesso autore, effettivamente, ad affermare che le sue ripetizioni esprimono davvero “un comique dur, sans finesse, excessif ”128.

Anche il Macbeth di Shakespeare era scandito e sostenuto da un linguaggio che si ripeteva e veniva ripreso nelle varie scene, basti pensare alle parole delle tre streghe e alle loro profezie per averne una riprova. Ma se quella di Shakespeare era una ripetizione tragica, che sottendeva un tono sacrale e aulico, quella di Ionesco, con la sua eccessiva e ossessiva ripetitività, invece che intensificare il significato delle parole pronunciate, lo distrugge completamente, rendendo le parole semplici suoni vuoti.

Il termine 'vittoria', ad esempio, viene ripetuto talmente tante volte durante lo spettacolo da diventare solamente un suono vago e ridondante, quasi arbitrario. E questo è proprio lo

126 Eugène Ionesco, Macbett, cit., p. 15. 127 Ivi, p. 20.

scopo ambìto dal drammaturgo che, con le sue didascalie, annota proprio la modalità di utilizzo delle parole in questi termini: “Si odono, provenienti dal fronte, cioè dalle quinte di destra e di sinistra, grida: «Vittoria, vittoria, vittoria!...» queste grida, modulate, orchestrate, si ripeteranno sino alla fine della scena che segue”129. È evidente, quindi, come il testo qui perda una parte del suo significato letterale, in favore di un altro, più simbolico.

La vuota iterazione degli stessi termini abusati più e più volte, infatti, invece che consacrarli e imprimerli nelle menti del pubblico finisce per interrompere la logica del discorso e frenare il flusso del racconto, distraendo l'audience dalle fila della storia. Il termine 'arciduca', per dare un altro esempio concreto, nell'accogliere l'arrivo del re Duncan dopo la vittoria sui ribelli Glamis e Candor, è ripetuto talmente a lungo (ben diciannove volte) da diventare inevitabilmente triviale e comico:

Soldato: l'arciduca! Macbett: l'arciduca!

Lady Duncan: arriva l'arciduca! Voce di Banco: l'arciduca! Soldato: l'arciduca! Macbett: l'arciduca!

Lady Duncan: Arriva l'arciduca! Testa di Banco: l'arciduca!

Soldato: l'arciduca!

Lady Duncan: Arriva l'arciduca!130.

Ancora più chiaramente notiamo questa perdita di importanza del testo nelle frequenti serie di liste, esageratamente lunghe, di sinonimi, come la sfilza di insulti rivolta a Duncan da uno dei traditori: “Un tiranno, un usurpatore, un despota, un dittatore, un miscredente, un orco, un asino, un’oca e peggio ancora”131. Questa sequenza ridondante di improperi fra due personaggi che si imitano l'un l'altro senza alcuna esitazione, sempre allo stesso modo e sempre più ironicamente, non può non suscitare una forma di confusione, ma anche di divertimento nel pubblico, rammentando una specie di sketch comico da cabaret.

Effettivamente, come fa notare Miskei, gli urli alternati di Macbett e Banco rivolti contro Duncan: “B: Delle nostre pecore. […] M: Dei nostri porci. B: Che porco! M: Del nostro pane. […] M: Ci deve tutto. B: E non basta. M: Senza contare il resto. B: Il mio onore... M: La mia gloria… B: I miei diritti aviti… M: I miei beni”132, sembrano proprio

129 Eugène Ionesco, Macbett, cit., p. 30. 130 Ivi, p. 32.

131 Ivi, p. 18. 132 Ivi, p. 65.

essere ricavati dagli antichi repertori usati dagli attori della commedia dell'arte, i cosiddetti

generici, raccolte di fonti dai quali gli attori attingevano concetti, battute o interi

monologhi per cercare ispirazione e poter creare gli intrecci delle loro improvvisazioni sulla scena. È lo stesso Ionesco, con la seguente didascalia in apertura dell'opera, a confermare questa suggestione: “Glamiss e Candor sono in collera, la loro collera ed il loro atteggiamento beffardo aumenteranno progressivamente. Il testo serve di appoggio a tale progressione”133.

Un altro strumento parodico usato da Ionesco è quello dell'amplificatio, dell'esagerazione. Non sono rari i momenti in cui l'autore si lascia andare a liste sproporzionate e irrealistiche di numeri improbabili, e chiaramente esasperati a dismisura. Vediamo un esempio, preso dalle parole del discorso di Macbett che racconta come ha schiacciato l'esercito ribelle dei nemici Candor e Glamiss:

Ne ho uccisi a dozzine di mia mano. Dodici dozzine di ufficiali e di soldati che non mi avevano fatto niente. Altre centinaia e centinaia ho fatto fucilare dai plotoni d’esecuzione. Altre migliaia sono morti, bruciati vivi […]. Decine di migliaia, uomini donne, bambini, sono morti soffocati nelle cantine […]. Centinaia di migliaia sono morti annegati nella Manica che, in preda al panico, cercavano di attraversare. Milioni sono morti di spavento o si sono suicidati. Decine di milioni d’altri sono morti di collera, apoplessia o tristezza. Non c’è più abbastanza terra per seppellire tutti i corpi gonfi degli annegati, hanno bevuto tutta l’acqua dei laghi in cui s’erano gettati. Non c’è più acqua. Gli avvoltoi sono troppo pochi per liberarci di tutti questi cadaveri134.

Per concludere, questo utilizzo del linguaggio in maniera confondente e ridondante si può riscontrare anche nella scelta, alle volte, di far parlare i personaggi in lingue diverse, come ad esempio il latino. È infatti in latino che le due streghe di Ionesco profetizzano ai protagonisti il loro destino, dopo aver esordito in questa lingua con un elenco di tutte le questioni esistenziali fondamentali (“Quis, quid, ubi…quibusauxiliis, cur, quomodo,

quando”). Da questo momento in poi, molte delle sentenze pronunciate dalle due donne in

veste di streghe, saranno riferite proprio in questa lingua antica, contornandosi così ancor di più di mistero e fascino, ma rendendosi, evidentemente, incomprensibili ai personaggi e indecifrabili per la stragrande maggioranza del pubblico, che ne rimane totalmente estraniato, tanto da poter, ad esempio, banalizzare famosi proverbi a loro piacimento, come in questo esempio: “Ad augusta, ad augusta per augusta”135.

133 Ivi, p. 13. 134 Ivi, p. 22. 135 Ivi, p. 54.