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CAPITOLO 2 DA MACBETH A MACBETT: LO SHAKESPEARE

2.5 Ionesco e Shakespeare

Se da un lato è innegabile che Shakespeare sia autore fondante del canone teatrale classico occidentale, dall'altra, per alcuni suoi aspetti alternativi, la predilezione per la follia e il nonsense, Shakespeare viene spesso etichettato dai critici anche come una specie di iniziatore del 'teatro dell'assurdo'136.

Nel già citato testo di Martin Esslin sul 'teatro dell'assurdo', l'autore riflette anche sulle affinità che legano il nuovo teatro al grande William Shakespeare, mettendo in luce la presenza nelle sue opere di una miriade di personaggi-giullari che si permettono di esprimere la propria follia (vera o simulata che sia), i cosiddetti fools. Si tratta di personaggi comici, ma allo stesso tempo individui complessi e dalle profonde personalità, che si fanno portatori sulla scena di definizioni alternative della realtà che non potrebbero essere espresse da chi è parte integrante dell'universo sociale:

Most of us are too familiar with Shakespeare to notice how rich his plays are in precisely the same type of inverted logical reasoning, false syllogism, free association, and the poetry of real or feigned madness that we find in plays of Ionesco, Beckett, and Pinter137.

E di questa opinione è anche Ionesco in persona, che utilizza proprio queste parole per parlare del grande maestro: “l'ancêtre de ce théâtre qu'on appelle de l'absurde”138. Non sono pochi, infatti, i personaggi shakespeariani che ci ricordano, con le loro folli messe in scene e i linguaggi farseschi, le caratteristiche dei protagonisti-marionette creati da Ionesco e dagli autori del 'teatro dell'assurdo'.

Gli esempi sarebbero molteplici ma basterà qui citare i più rappresentativi, quali il malinconico personaggio shakespeariano de La dodicesima notte, Feste, il fool, il randagio suonatore che, attraverso le sue canzoni e un linguaggio assurdo, irrisorio, colmo di doppi sensi e volgarità nonsense, rivela in realtà grandi verità inesprimibili dagli altri personaggi raziocinanti e ben inseriti nel contesto sociale. Ancora la povera Ofelia dell'Amleto, quando è colta da un'esaltata follia, così come anche i re Riccardo III e Lear. È attraverso questi personaggi che, spesso e volentieri, Shakespeare ci ha lasciato i dialoghi più

136 Edina Miskei, Contemporary Shakespearean rewritings, cit., p.103.

137 Martin Esslin, The Theatre of the Absurd, Bloomsbury Publishing PLC, London 2014, p. 332.

138 Intervista concessa da Eugène Ionesco a Claude Cézan, in «Les Nouvelles Littéraires», 24 gennaio 1972, p. 22.

rappresentativi della propria visione del teatro, e dell'esistenza umana tutta. È per questo che Ionesco lo classifica, a ben vedere, fra i precursori del genere di teatro che si sta codificando all'inizio del secolo scorso: “Il faut ranger, parmi nos précurseurs, Shakespeare qui dit dans Macbeth: 'la vie est une histoire pleine de bruit et de fureur, racontée par un idiot, et qui ne signifie rien'. N'est-ce pas là une bonne définition du théâtre de l'absurde?”139.

Sono molte, dunque, le situazioni messe in scena nelle opere di Shakespeare che ci ricordano le tematiche esistenziali care ai drammaturghi 'assurdi' di inizio Novecento. Prima fra tutte la futilità stessa – e la conseguente assurdità – della condizione umana in sé, il non senso della vita umana, vista come una messa in scena senza trama, una folle corsa senza meta, dalla nascita fino alla morte. Condizione, questa, ben rappresentata da drammi come Troilo e Cressida, nel quale l'essenza stessa dell'amore e di sostanziali valori umani come la morale, l'eroismo, il coraggio di agire, sono talmente sviliti da rischiare di sfociare nella parodia.

La caratteristica fondamentale che lega subito i due autori è quindi che entrambi cercano, ognuno con i propri strumenti, di commentare la condizione esistenziale dell'uomo a loro contemporaneo, un uomo che sembra essere sempre invischiato, per entrambi, a distanza di secoli, in un'inspiegabile via di mezzo fra una farsa comica e un dramma assurdo. D'altronde, come esemplarmente scriveva Samuel Taylor Coleridge: “Shakespeare is of no age […] nor, I may add, of any religion, or party or profession. The body and substance of his works came out of the unfathomable depths of his own oceanic mind”140.

Della stessa opinione era il nostro autore, che nelle sue carte scrive, riguardo al grande drammaturgo inglese:

Perfino le opere teatrali che avevo avuto occasione di leggere non mi piacevano. […]. Shakespeare invece metteva in discussione la totalità della condizione e del destino dell’uomo. […]. Per esempio quando, perduto il regno, Riccardo II è prigioniero nella sua cella, non è Riccardo II quel che io vedo, ma tutti i re decaduti della terra; e non soltanto tutti i re decaduti, ma anche le nostre credenze, i nostri valori, le nostre verità sconsacrate, corrotte, logorate, le civiltà che scompaiono, il destino. Quando Riccardo II muore, assisto alla morte di ciò che ho di più caro, sono io stesso che muoio insieme a Riccardo II. […]. Effettivamente il capolavoro teatrale ha un carattere di superiore esemplarità: mi rinvia la mia stessa immagine, è specchio, è coscienza, è storia orientata di là dalla storia verso la verità più profonda141.

139 Marcel Croes, Conversazione con Ionesco, in «Clés pour le spectacle», 16 gennaio 1971, p. 34. 140 Terence Hawkes, Coleridge's Writings on Shakespeare, Capricorn Books, London 1959, p. 78. 141 Eugène Ionesco, Note e contronote, cit., pp. 19- 21- 22- 23- 34.

Attraverso l'utilizzo di un linguaggio tragico ma pieno di inserzioni grottescamente comiche, i due autori, dunque, presentano una visione del teatro e dell'esistenza stessa molto vicine, e cioè, a voler usare le parole dello stesso Macbeth: “la vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante, che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da uno sciocco, piena di strepito e di furore, ma senza significato alcuno”142. Questa amara definizione non può non rimandare alla mente gli scritti autobiografici di Ionesco sopra citati, come molti dialoghi di questo stampo, scritti per i suoi personaggi-marionette.

È chiaro, dunque, che se l'esistenza è sentita da entrambi come profondamente insensata e futile, le loro rappresentazioni di essa sul palco non potranno non essere, sotto alcuni punti di vista, altrettanto vuote di significato e di speranza. Se però Shakespeare riesce ancora, vivendo nell'era elisabettiana, e quindi essendo inserito in un contesto radicalmente diverso da quello del primo Novecento, a lanciare degli appelli di speranza al suo pubblico, a credere forse egli stesso ad una realtà onirica, dell'illusione, come superiore, o almeno pari, alla realtà fisica, Ionesco, al contrario, non crede nella responsabilità dell'artista di dover dare delle risposte, delle speranze al proprio pubblico, ma solo di esporre ciò che deriva dalla propria esperienziale percezione della realtà. Una realtà di cui, da entrambi gli autori, viene costantemente esaltata la componente del sogno, o a volte dell'incubo, dell'immaginazione creatrice.

Questa concezione sembra essere perfettamente incarnata da un altro famoso inno shakespeariano, espresso attraverso le parole di Prospero ne La tempesta: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è raccolta la nostra breve vita”143. E continua attraverso la discolpa di Puck, nella conclusione di Sogno di una

notte di mezza estate: “Se noi ombre vi abbiamo offeso, per poterci dare il perdono: fate

conto di aver dormito, mentre queste visioni apparivano e che a mostrarvi paesaggi immaginari sia stato un sogno”144.

Nonostante le rappresentazioni in sé dei due drammaturghi, di epoche così distanti, non possano che essere diverse sotto vari aspetti – per ovvi motivi – le affinità nella personalità dei personaggi, nelle situazioni alle volte quasi da cabaret, inserite, però, in contesti di

142 William Shakespeare, Macbeth, a cura di E. Chinol e R. Hill, Cideb, Genova 2000, Atto V, scena 5. 143 William Shakespeare, La tempesta, a cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2014, atto IV, scena I. 144 William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, a cura di G. Celenza, Sansoni, Firenze 1949,

amara e macabra brutalità, continuano a richiamarsi fra loro, portando all'associazione automatica fra i due autori.

Se però, in conclusione, in Shakespeare la trama del dramma si sviluppa dalla profonda e complessa vita interiore dei suoi personaggi, si può dire che le trame di Ionesco siano in sé le vite interiori stesse dei personaggi, senza che queste debbano muovere una trama esterna, la quale non sembra interessare particolarmente Ionesco, dato che, la maggior parte delle volte, le sue opere ne sono fondamentalmente prive.

2.6 La libido dominandi da Shakespeare a Ionesco : un tormento che