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La struttura: lo spazio e il tempo sulla scena

CAPITOLO 2 DA MACBETH A MACBETT: LO SHAKESPEARE

2.3 La struttura: lo spazio e il tempo sulla scena

Come prima e evidente differenza rispetto all'ipotesto, Ionesco non rispetta le regole canoniche del teatro classico, quali la divisione aristotelica dell'opera teatrale in cinque atti, utilizzandone solo quattro, e non numerandoli; lo stesso vale per la regola dell'unità del tempo, dello spazio e dell'azione scenica, assioma questo, però, che sembra essere stato aggirato anche dal grande Shakespeare, in molti casi. Il drammaturgo elisabettiano, infatti, rimane spesso vago, approssimativo, nelle proprie descrizioni del tempo e dello spazio in cui si svolge l'azione, e riguardo all'unità di azione, è noto come spesso Shakespeare si sia dilettato ad inserire nelle proprie opere delle specie di sotto-trame, quelle solitamente più comiche, incastonate all'interno di un'altra storia portante.

2.3.1 Una scena vuota

Se la tragedia shakespeariana è ambientata nella cupa Scozia del Basso Medioevo, il

Macbett di Ionesco si apre su un generico campo di battaglia, senza caratteristiche

116 Edith Kern, Ionesco and Shakespeare, cit., p. 8. 117 Ivi, p. 33.

particolari da cui si possa ricavare una qualsiasi indicazione spazio-temporale o tanto meno identificare un luogo specifico.

L'ambientazione di Ionesco è neutra: potrebbe trattarsi di un posto situato in qualsiasi punto del mondo, lo spazio è nero, vuoto, unici particolari riconoscibile sono i suoni, i rumori di guerra che impazzano da dietro le quinte. Ogni forma di scenografia teatrale è eliminata, il palco è brullo, un deserto inquietante, sul quale, significative, imperano solo urla e grida di guerra uniti al fragore della tempesta che, assieme ai rumori d'armi da combattimento, ai botti e alle fanfare, creano l'impressione e costruiscono l'atmosfera della battaglia, sostituendosi così, di fatto, alla scenografia.

La scelta di questo tipo di spazio brullo, deserto e oscuro non è una prerogativa solamente del teatro di Ionesco, si tratta infatti di un topos che possiamo ritrovare anche in molti altri drammi assurdi, basti pensare alla scenografia inesistente del famoso testo di Beckett Aspettando Godot, che, come il Macbett, si apre su un desolante spazio nero, con un solo albero triste e spoglio al centro della scena.

È evidente che con questo palcoscenico vuoto Ionesco vuole rappresentare specularmente il vuoto e la desolazione del tempo contemporaneo, prodotto a sua volta dall'aberrante e spersonalizzante società di massa; il buio profondo dello spazio scenico rimanda alle tenebre in cui sono caduti gli esseri umani moderni. Una scena che si pone, così, nuda di fronte al pubblico, non è che un urlo muto, a simbolo di un'umanità sparita dietro a vuote immagini, l'una uguale all'altra, che ha perduto il contatto profondo con la vita e con il mondo, un'umanità alienata nell'imperante era dei consumi, dove ogni gusto è pilotato, dove avere una personalità individuale, unica e particolare, è socialmente disincentivato, in favore della creazione di un coeso gruppo massificato che segua i gusti e i comportamenti imposti dal sistema.

È proprio questo che tentano di suggerire l'accozzaglia di suoni e di urla che riempiono la scena: la proiezione di un'umanità appiattita e degenerata in semplice rumore, in mere voci senza sostanza. Le didascalie che accompagnano le scene di Ionesco sono infatti piene di frasi che indicano queste modalità sonore e di luci, quali ad esempio: “si lancia verso sinistra, di dove giunge la voce di Macbett. Per un momento la scena resta vuota. La luce

muta, progressivamente invade la scena” oppure: “si ode il rumore di un corpo che

stramazza”, “la scena resta qualche istante vuota, poi il suono ridicolamente tronfio delle fanfare sopraffà il rumore della battaglia” e ancora: “si odono gli urrà dei soldati e della

folla. Soldati e folla non si vedono, a meno che si vogliano fare delle proiezioni”118. Questo pullulare di voci e stridori sembra davvero voler rappresentare, come scrive Edina Miskei, una “parody of human existence”119.

La scenografia assente è quindi sempre, in realtà, sostituita da intensi effetti sonori e giochi di luci e ombre, caratteristici del 'teatro dell'assurdo', che riescono comunque a ricreare l'atmosfera desiderata anche senza bisogno degli onnipresenti oggetti concreti sulla scena, o degli antichi sfondi dipinti, tipici del teatro classico rinascimentale.

Se gli effetti sonori e i giochi di luce utilizzati come strumenti per sottolineare il cambio di scena erano una tecnica presente anche nel teatro classico – e che si può ritrovare quindi anche in Shakespeare, nei rumori delle trombe, delle fanfare... – l'utilizzo che ne fa qui Ionesco, è dunque funzionale anche a parodizzare il teatro classico e il suo modello! Un obiettivo che risulta ancor più evidente nella scelta dei pochi oggetti utilizzati, alle volte, sulla scena, come quando, nel vuoto totale del palcoscenico, sorge ad esempio una vera ghigliottina, o un attrezzo ridicolo come la portantina che fa da trono a Duncan, trasportato in giro per il palco da servi che la sostengono120.

2. 3. 2 Il tempo ciclico

Il tempo sulla scena del Macbett sembra essere scandito dal movimento del sole che segue l'azione e la delinea con il suo sorgere, crescere e morire. Le prime parole pronunciate sulla scena dai due baroni sono, infatti: “buongiorno Candor” e “buongiorno Glamiss”, ad indicare che l'azione si svolge nell'arco della mattinata, eppure, poco dopo, Ionesco scrive in didascalia: “si vede sul fondo un grande sole rosso che scende lentamente verso il tramonto”. Un sole che naturalmente, con la sua nascita e la sua morte, rappresenta simbolicamente il ciclo della vita e tutti i cicli naturali, in generale. Questo sole rosso, che, sullo sfondo di una scena di guerra, piena di morte e sangue, sembra riflettere il colore della violenza della battaglia, si trasforma coll'avanzare delle scene in una “specie di enorme luna, luminosissima, circondata da grandi stelle” che “si vede ingrandire, in sfondo”. Dunque, dopo una serie di scene che vedevano al centro la violenza e la brutalità dell'animo umano, Ionesco indica la presenza di una luna gigante, stereotipata e poco

118 Eugène Ionesco, Macbett, a cura di Gian Renzo Morteo, Einaudi, Torino 1973, pp.46, 33.

119 Edina Miskei, Contemporary Shakespearean rewritings in the theatre of the absurd: Stoppard and

Ionesco, tesi magistrale, University of Novi Sad, Novi Sad 2016, relatore Zoran Paunovic, p. 40.

realistica (“pretty kitschy”121, azzarda legittimamente Miskei) per contrastare e sottolineare l'impossibilità di una qualunque situazione idilliaca nella vita, parodiando il simbolo romantico per eccellenza. A conferma di questo provocatorio intento irrisorio, l'autore continua così nella descrizione della scena: “possibilmente mostrare anche la Via Lattea, simile ad un grande grappolo di uva”122.

Dunque, la storia sembrerebbe svolgersi nell'arco di un unico giorno in cui il sole sorge, tramonta e lascia spazio alla notte stellata, eppure ciò che veramente vuole dirci Ionesco, alludendo al ciclo solare di una giornata – più che voler pedissequamente seguire la classica regola dell'unità di tempo – è che distinguere e identificare un inizio e una fine in questa commedia non ha senso, come non avrebbe senso ricercarli in questo universo dove tutto è ciclico, dove gli eventi si ripetono uguali, così come si ripetono i cicli vitali in natura.

Come scrive Miskei:

The cycle of a day symbolizes the circle (cycle) of life, or of violence and innocence alternating, that is to say, the evercontinuing cycle of existence pertaining to be circular nature of the absurdist drama. Therefore, any reference point marking beginning or ending is futile and ambiguous, since everytihng starts all over again in a cyclical fashion, as the entire universe functions in the same way123.

Il Macbett di Ionesco è, infatti, come tutti i drammi assurdi, un'opera ciclica, con una struttura aneddotica che potrebbe essere spezzettata in vari eventi, e ipoteticamente ricominciare da capo e ripetersi così per sempre, come scrive Kern: “one might think of it almost as a series of events, each closed upon itself and, like links of a chain, repeatable ad infinitum”124.