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L'abuso di minoranza e la delibera negativa nelle s.p.a.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

L’abuso di minoranza e la delibera negativa nelle

s.p.a.

Relatore:

Chiar.mo Prof. Francesco Barachini

Candidato:

Riccardo Massai

ANNO ACCADEMICO 2017/2018

(2)

INDICE

INTRODUZIONE

p.1

CAPITOLO I

L’ABUSO DEL DIRITTO NELL’ASSEMBLEA

DEI SOCI DELLE S.P.A

p.5

Premessa “L’abuso del diritto” p.5

1. L’abuso della maggioranza nell’assemblea dei soci delle S.p.a. p.8

1.1 La teoria dell’abuso del diritto p.9

1.2 La teoria dell’eccesso di potere p.11

1.3 La norma sul conflitto di interessi del socio (art. 2373 c.c.) come espressione di un principio generale p.16

1.4 L’abuso di maggioranza: il richiamo ai principi di correttezza e

buona fede p.20

1.4.1 In dottrina : la teoria di A. Gambino p.20

1.4.2 (Segue) Critica alla teoria di Gambino e teoria di D. Preite p.26

1.4.3 L’abuso di maggioranza in giurisprudenza p.31 2. Una particolare forma di abuso: quello della minoranza p.36

2.1 La “nozione” di minoranza p.39

2.2 Le minoranze nelle società quotate e nelle società non quotate p.41

2.3 La “nozione” di abuso di minoranza: prodromo al secondo capitolo p.45

CAPITOLO II

ABUSO DI MINORANZA

Analisi di alcuni casi giurisprudenziali e

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Premessa. Perché si studiano queste ipotesi? p.49 1. L’ipotesi di abuso esterno all’adunanza assembleare: l’abuso del diritto di richiedere la convocazione da parte del socio ex art. 2367 c.c p.51 2. Ipotesi di abuso interno all’adunanza assembleare: le delibere “essenziali”, l’ostruzionismo e il “diritto” di voto della c.d. minoranza

di blocco p.55

2.1 I quorum costitutivi e quelli deliberativi come strumenti che regolano la dialettica assembleare p.57

2.2 Mancata approvazione di una delibera di aumento del capitale

sociale p.61

2.2.1 Il caso della minoranza che detiene un potere di blocco formale: il lodo arbitrale del 18 dicembre 2006 p.61

2.2.2 Il caso della minoranza che detiene un potere di blocco sostanziale: l’ordinanza del Tribunale di Milano del 28 novembre

2014 p.66

2.3 Diniego di una proposta di delibera di approvazione del bilancio: il caso trattato dai giudici del Tribunale e dalla corte di Appello di

Catania p.74

3. La dottrina in relazione alle ipotesi di abuso interne all’adunanza

assembleare p.85

4. (segue) la dottrina italiana, considerazioni conclusive e rinvio alle

ipotesi risolutive p.91

CAPITOLO III

LA DELIBERA NEGATIVA E LE SANZIONI IN

MATERIA DI ABUSO DI MINORANZA

p.93

Premessa. Cosa succede dopo che la delibera viene ad essere respinta? p.93

1. Inquadramento giuridico p.94

2. La struttura dell’atto deliberativo e la sua natura giuridica p.96

(4)

2.2 Le teorie procedimentali p.102

2.3 Teoria della duplice direzione della volontà dei soggetti agenti p.104 3. Il “perimetro” della fattispecie della “delibera negativa” p.107

4. Impugnabilità della delibera negativa p.111

4.1 Teoria che ritiene la delibera negativa non impugnabile p.112

4.2 Teoria che ritiene la delibera negativa impugnabile p.118 5. (segue). Effetti dell’impugnazione della delibera p.120 6. L’annullamento e il rimedio della sostituzione della delibera

rigettata con il provvedimento del giudice p.124

6.1 Il rimedio del c.d. mandatario ad hoc. Teoria e critica p.132 7. Delibera negativa e tutela cautelare d’urgenza p.136

CONCLUSIONI

p.140

BIBLIOGRAFIA

p.142

(5)

INTRODUZIONE

L’elaborato ha ad oggetto l’abuso di minoranza nell’assemblea delle S.p.A. e la c.d. “delibera negativa”. La prima questione problematica è emersa nel nostro ordinamento dal momento in cui sono stati introdotti degli strumenti di tutela per le minoranze che, se utilizzati in maniera abusiva, potrebbero causare un danno alla maggioranza; la seconda questione – la c.d. “delibera negativa” – già presente in relazione ad altre ipotesi, quali ad esempio il caso di voto contrario per conflitto di interessi, ha visto un’estensione dei propri confini a seguito dell’emersione di condotte di ostruzionismo della minoranza.

Nel primo capitolo, per meglio comprendere le soluzioni da adottare in caso di abuso di minoranza, sono state trattate in primo luogo le ipotesi di abuso di maggioranza ripercorrendo gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che hanno cercato di dare un inquadramento giuridico a questo fenomeno, per capire se questi siano estendibili alle ipotesi concernenti i soci minoritari. Siamo partiti dalle teorie dell’eccesso di potere tipiche del diritto amministrativo, passando per l’estensione analogica della norma prevista all’art 2373 c.c. - disposizione dalla quale una parte della dottrina ha cercato di modellare un principio generale - fino a giungere alle teorie di due esponenti della dottrina quali Gambino e Preite che, seppur con alcune differenze, hanno ritenuto di poter applicare anche alla fase esecutiva del contratto sociale i principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175 – 1375 c.c.

(6)

Successivamente siamo passati ad analizzare le correnti giurisprudenziali ponendo l’accento sulla sentenza della Corte di Cassazione, 26 ottobre 1995, n. 11151 che per la prima volta ha affermato anche all’interno dei tribunali l’idea per cui, ritenuto l’atto costitutivo un contratto, si debbano considerare come applicabili i principi suddetti all’ambito societario non solo nella fase di creazione della società, ma anche nella fase di esecuzione della stessa, limitandosi ad operare una trasposizione della c.d. buona fede in executivis all’interno della dialettica societaria. L’applicazione di questi principi, come abbiamo provato a spiegare, non dovrà essere considerata come il tentativo di funzionalizzare il diritto di voto dei soci, poiché ognuno ha la possibilità di perseguire, nell’esercizio delle prerogative sociali, i propri interessi, piuttosto la finalità di tali disposizioni sarà quella di evitare che venga persa di vista l’esigenza di dare applicazione al contratto sociale in modo corretto, nel rispetto del fine mediato previsto all’interno dell’atto costitutivo.

In seguito, siamo passati ad analizzare “l’altra faccia della stessa medaglia”: l’abuso di minoranza. In primo luogo, tentando di stabilire cosa debba intendersi per minoranza, o meglio per minoranze e come queste possano con le loro condotte integrare un’ipotesi di abuso; abbiamo studiato le differenze tra le tipologie di minoranze che possono prospettarsi nelle società quotate e nelle società non quotate ed infine introdotto il concetto di abuso di minoranza cercando di capire se in astratto possano essere individuati degli “elementi costitutivi” della fattispecie in questione.

Nel secondo capitolo, vista l’impossibilità di stabilire un concetto di abuso di minoranza chiaro ed applicabile a tutte le ipotesi concrete, abbiamo analizzato

(7)

le interessanti, seppur ancora oggi rare, pronunce in materia. Dopo aver delineato in astratto le varie ipotesi di abuso della minoranza, distinguendo tra quelle esterne all’adunanza assembleare, quale la richiesta “fraudolenta” di convocazione dell’assemblea da parte del socio ex art 2367 c.c. e quelle interne all’adunanza, quale la reiezione delle proposte assembleari da parte della c.d. minoranza di blocco, sono state affrontate in modo puntuale le seconde, tra le quali si annoverano i casi di ostruzionismo della minoranza. Proprio in relazione a questa peculiare condotta sono state fatte oggetto di approfondimento un’importante ordinanza del Tribunale di Milano, un lodo arbitrale e due sentenze “gemelle” - una di primo grado, una di appello - dei giudici delle corti di Catania.

La scelta di studiare queste pronunce è stata dettata anche dal fatto che esse hanno ad oggetto il rigetto di due tipologie di delibere differenti; una riguarda le ipotesi di reiezione delle delibere di approvazione del bilancio sociale, l’altra, invece, ha ad oggetto un caso di rigetto delle delibere di aumento del capitale sociale. Ipotesi che, seppur siano uguali per quanto riguarda il risultato assembleare, differiscono sia per la discrezionalità imprenditoriale propria dei soci votanti, sia per la natura dell’assemblea in seno alla quale è presa la decisione.

Nell’ultima parte del secondo capitolo abbiamo cercato di rileggere le impostazioni dottrinali alla luce delle conclusioni tratte dalle pronunce giurisprudenziali prese in esame, rinviando al capitolo successivo la ricerca dei rimedi prospettabili ai fini di garantire una tutela ai soci maggioritari eventualmente danneggiati.

Infine, il terzo capitolo si apre con l’analisi della natura delle delibere assembleari in generale e delle c.d. “delibere negative” in particolare. Abbiamo

(8)

ripreso l’interessante, seppur complessa, disamina di Autori del calibro di Marco Cian, cercando di comprendere se anche la delibera negativa è o meno classificabile come delibera assembleare e nel caso quale sia l’estensione del suo perimetro. Siamo passati successivamente allo studio della possibilità di ricercare un rimedio alle ipotesi di reiezione delle proposte assembleari da parte della minoranza, cercando di capire se anche queste c.d. “delibere negative” siano o meno impugnabili e quali possano essere gli effetti conseguenti alla loro impugnazione. Abbiamo visto come parte della dottrina non ritenga possibile l’applicazione dell’art. 2377 c.c. neanche a queste ipotesi peculiari, mentre altra parte ammetta un’estensione analogica della disposizione. In seno a questi ultimi è possibile distinguere due ulteriori correnti di pensiero, da un lato, coloro che fanno discendere dall’impugnazione solo effetti caducatori e propongono come tutela il mero risarcimento del danno, dall’altro lato, chi, oltre agli effetti caducatori, ritiene di far discendere dall’impugnazione anche rimedi in forma specifica.

Infine, è stato possibile giungere alla conclusione che, visto il mancato intervento del legislatore, tenute in considerazione le disposizioni oggetto dello studio e i principi che regolano il nostro ordinamento, una soluzione intermedia, che prevede in alcuni casi la possibilità di aggiungere agli effetti caducatori anche rimedi in forma specifica e in altri solo rimedi per equivalente, sia da preferire.

(9)

CAPITOLO I

L’ABUSO DEL DIRITTO NELL’ASSEMBLEA

DEI SOCI DELLE S.P.A.

SOMMARIO: Premessa “L’abuso del diritto” - 1. L’abuso della maggioranza nell’assemblea dei soci delle S.p.a. - 1.1 La teoria dell’abuso del diritto - 1.2 La teoria dell’eccesso di potere - 1.3 La norma sul conflitto di interessi del socio (art. 2373 c.c.) come espressione di un principio generale - 1.4 L’abuso di maggioranza: il richiamo ai principi di correttezza e buona fede - 1.4.1 In dottrina: la teoria di A. Gambino - 1.4.2 (Segue) Critica alla teoria di Gambino e teoria di D. Preite - 1.4.3 L’abuso di maggioranza in giurisprudenza - 2. Una particolare forma di abuso: quello della minoranza - 2.1 La “nozione” di minoranza. - 2.2 Le minoranze nelle società quotate e nelle società non quotate - 2.3 La “nozione” di abuso di minoranza.

Premessa: “L’abuso del diritto”

Le fattispecie oggetto di questo studio, l’“abuso della maggioranza” e, più approfonditamente, l’“abuso della minoranza”, sono così qualificate, con la finalità di evidenziare l’apparente contraddizione derivante dall’esercizio di un diritto o di un potere che, formalmente, risulta in conformità con il disposto normativo, ma sostanzialmente è lesivo dei diritti altrui.

(10)

La prima questione che la dottrina si è posta, è stata quella di comprendere se fosse possibile riferire a questi fenomeni societari la categoria dell’abuso del diritto; ciò al fine di soddisfare l’esigenza di procedere ad un sindacato giudiziale dei comportamenti abusivi posti in essere nell’esecuzione del rapporto sociale.

Questo ci porta a dover accennare, seppur in via preliminare e necessariamente non esaustiva, vista l’ampiezza del problema, alla sussistenza della problematica, nel nostro ordinamento, di un divieto di abuso del diritto1.

Nato in relazione alla materia dei diritti assoluti, poi estesosi al diritto delle obbligazioni e dei contratti, il concetto di abuso è stato elaborato per disciplinare una particolare area di confine tra il consentito e l’illecito dove, seppur la premessa sia un’ipotesi di legittimità, vi sono elementi di ingiustizia nel comportamento delle parti.

In sintesi l’abuso riguarda quell’area dei rapporti sociali in cui “il diritto dell’uno e il diritto dell’altro, non si possono dividere con un taglio netto”2

. Non si possono non menzionare le parole con cui Rotondi tentò di qualificare tale peculiare e complessa zona grigia: “il vero fondamento e la vera chiave di volta del fenomeno e del concetto di abuso del diritto si trova proprio nel carattere mutevole ed evolutivo dello stesso”3

; nel momento in cui il legislatore detta delle norme di diritto positivo, viene meno la necessità di ricercare una soluzione nelle

1

Per un approfondimento vedi ROTONDI, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923, pp. 105 ss.; RESCIGNO, L’abuso del diritto, il Mulino, Bologna, 1998; MONTALENTI, L’abuso del

diritto nel diritto commerciale, in Riv. dir. civ., 4/2018, pp. 873 ss; NUZZO, L’abuso della minoranza. Potere, responsabilità e danno nell’esercizio del voto, Giappichelli, Torino, pp. 74 ss;

ANGELICI, L'abuso del diritto nel diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 2017, pp. 365 ss.

2

ROTONDI, op. cit., p. 112

3

(11)

varie teorie giuridiche, ma ove egli non intervenga, è in questo caso che si è cercato di trovare, nel concetto di abuso del diritto, “un’ancora di salvezza”. Infatti “l’evoluzione continua del diritto nella coscienza giuridica del popolo, anche dopo che il diritto fu riprodotto e quasi cristallizzato nelle norme, fa sì che i confini di quest’ultimo non si possano considerare come stabili ed immutabili, ma anzi come eminentemente mutevoli sotto l’impulso di forze svariate, che sono nuove concezioni etiche, nuovi sentimenti, nuove condizioni psicologiche, non meno che nuove condizioni fisiche, tecniche ed economiche”4.

Come si può intuire da queste poche righe, la questione dell’abuso del diritto è molto complessa e, di conseguenza, è difficile delinearne una soluzione. In ciò non aiuta sicuramente la mancata disciplina da parte del legislatore in vari ambiti del diritto, che ha così scaturito un dibattito all’interno del nostro ordinamento, ancora oggi vivo e articolato in vari orientamenti5.

Proprio da questa mancata regolamentazione è nata, nella dottrina e nella giurisprudenza societaria, l’esigenza di comprendere come tentare di arginare i comportamenti abusivi che, la maggioranza, in virtù della sua posizione di prevalenza economica ed organizzativa, esercita nei confronti della minoranza. Comportamenti, che hanno portato allo sviluppo di contrasti tra gli interessi dei

4

ROTONDI, op. cit., p. 114.

5

Come diremo più avanti, nel nostro caso, non è prevista una norma che identifichi espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni assembleari, né sotto forma di divieto di abuso da parte dei singoli soci, o dei soci unanimi, né sotto forma di divieto di abuso di maggioranza.

(12)

soci all’interno della società, differenti da quelli, “tradizionali”, regolamentati dall’art. 2373 c.c.6

Nei successivi paragrafi ci accingeremo a delineare lo sviluppo delle più importanti teorie, dottrinali e giurisprudenziali, in materia di abuso della maggioranza, per poi concentrarsi sul tema opposto, meno dibattuto, ma altrettanto importante, dell’abuso della minoranza.

1. L’abuso della maggioranza nell’assemblea dei soci delle S.p.a.

All’interno del diritto societario le situazioni di conflitto tra maggioranza e minoranza sono una conseguenza della fisiologica dialettica assembleare.

La problematica dell’abuso di maggioranza sorge nel momento in cui, tale situazione di conflitto, veda la maggioranza approvare una delibera che, seppur non espressamente contra legem, sia volta a creare un pregiudizio nei confronti della minoranza. Quest’ultimo caso non è altro che un esercizio eccessivo del potere, rispetto al limite interno posto dal principio maggioritario7.

6

Come meglio spiegheremo nei paragrafi successivi, l’ipotesi dell’abuso di maggioranza non potrà esser fatta rientrare nell’alveo del conflitto di interessi. Perché, mentre in quest’ultimo, il socio persegue un interesse individuale extra sociale; nelle ipotesi di abuso di maggioranza, il socio persegue un interesse, sì individuale, ma formalmente sociale. Il problema sussisterà piuttosto nel contrasto che il suo interesse sociale avrà con quello degli altri soci e nell’eventuale danno causato a questi.

7

CERRAI – MAZZONI, La tutela del socio e delle minoranze, in Riv. Soc., 1993, p. 2. Il principio maggioritario è un momento in cui viene ad essere esercitata “un’autorità” in grado di far funzionare un contesto ove non può operare il criterio del consenso. È proprio in forza di tale principio che la delibera si ritiene adottata. Quest’ultima è approvata quando in un’assemblea si ha una maggioranza di voti favorevoli secondo le disposizioni di legge o di statuto. Perciò le decisioni o le deliberazioni assembleari si fondano su di un consenso parziale dei soci che vi partecipano, è la volontà della maggioranza che si impone alla minoranza. Ad oggi, l’inderogabilità del principio

(13)

Nel nostro ordinamento non è prevista una norma che identifichi espressamente una fattispecie di abuso nelle deliberazioni assembleari, né sotto forma di divieto di abuso da parte dei singoli soci, né sotto forma di divieto di abuso di maggioranza8

Dobbiamo quindi, in questa prima parte del nostro studio, andare a ricercare quegli orientamenti dottrinali attraverso i quali si è cercato, sia di dare una qualificazione giuridica all’ipotesi di abuso della maggioranza, sia di creare uno strumento risolutivo di tale comportamento abusivo.

1.1 La teoria dell’abuso del diritto

Dopo aver accennato, nella premessa, alla funzione generale che il concetto di abuso del diritto ha nel nostro ordinamento, passiamo ora ad analizzare la possibilità, studiata in dottrina, di adoperare tale teoria per risolvere il problema dell’abuso della maggioranza nell’assemblea dei soci delle s.p.a.

Questo concetto è stato elaborato in relazione al diritto di proprietà, ma possiamo comprendere come, l’esercizio di tale diritto reale ai fini di conseguire un’utilità personale, non possa considerarsi abusivo; risulterebbe, peraltro, maggioritario è indiscutibile, come stabilito dalla Corte di Cassazione (vedi Cass. 15 aprile 1980, n. 2450, in Foro.it. 1980, I, p. 1914), la quale, in varie occasioni, ha considerato invalida la clausola dello statuto di società per azioni che preveda l’unanimità dei consensi dei soci, presenti in assemblea o titolari dell’intero capitale sociale, per ogni mutamento dello statuto stesso. Come afferma autorevole dottrina (vedi ASCARELLI, Studi in tema di società, Giuffrè, Milano, 1952, p. 150) l’imposizione della maggioranza sulla minoranza trova giustificazione nel c.d. concetto di rischio: chi corre un maggior rischio (avendo un numero più elevato di partecipazioni) ha un potere decisorio maggiore.

8

PREITE, L’“abuso” della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle

(14)

giuridicamente irrilevante il danno provocato a terzi nell’esercizio di tali diritti soggettivi9.

Piuttosto, la nozione di abuso è stata configurata con la finalità di sanzionare, non essendoci norme espresse in tal senso, un comportamento opposto a quello prima descritto: l’esercizio del diritto, senza la volontà di perseguire un vantaggio personale, ma con lo scopo esclusivo di nuocere ad altri. Si vuole perciò reprimere gli atti di esercizio, che abbiano caratteristiche analoghe agli atti di emulazione10.

Nel diritto societario il problema è differente, le ipotesi in cui il socio esercita il diritto di voto, senza la volontà di ottenere alcuna utilità e solo con la finalità di nuocere agli altri, sono marginali; piuttosto, interessano le situazioni in cui, egli, ha lo scopo di perseguire un vantaggio personale, dal quale derivi un danno ad altri che sia giuridicamente rilevante.

Quindi, ciò che interessa, è il caso in cui il socio intenda perseguire un interesse personale, ma da tale comportamento sorga una incompatibilità con l’interesse sociale o con gli interessi degli altri soci11

. Questo risultato non può essere fondato sui principi dell’abuso del diritto. Piuttosto a fondamento del rimedio vi è la necessità che i rapporti all’interno della società si realizzino attraverso comportamenti ispirati ad un principio di lealtà e correttezza12.

9

GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni (abuso di

potere nel procedimento assembleare), Giuffrè, Milano, 1987, pp. 71 ss 10

GAMBINO, op. cit., p. 72

11

Cfr. FERRARI, L’abuso del diritto nelle società, CEDAM, Padova, 1998, il quale ritiene che il giudice in questi casi non dovrà sindacare il modo in cui la maggioranza intende perseguire l’interesse comune, bensì decidere se l’interesse perseguito è comune.

12

(15)

Possiamo concludere che non si può accogliere la teoria dell’abuso del diritto, come criterio per la risoluzione delle diverse situazioni che si hanno all’interno della società, ma sicuramente si può ritenere non abusivo il comportamento del socio, che faccia prevalere il proprio interesse personale su quello del gruppo sociale, se ciò avviene nel rispetto delle forme legislativamente prescritte13.

Tale inapplicabilità deriva anche dalla natura camaleontica del concetto in questione, che, in quanto inespresso, obbligherebbe coloro che lo volessero applicare ai casi di specie, a trattare temi ancor oggi privi di certezza giuridica.

Del resto, è stato autorevolmente affermato, che l’abuso “è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi è uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un pericolo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica e ciò per la contraddizione che non lo consente”14

.

1.2 La teoria dell’eccesso di potere

La teoria dell’eccesso di potere è la seconda impostazione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana con il fine di ricavarne una tutela per le minoranze assembleari.

13

GAMBINO, op. cit., p. 76.

14

(16)

Maggioritaria nel periodo antecedente al 194215, quando in vigore vi era il codice del commercio, viene messa in discussione dalla dottrina dopo l’entrata in vigore del nuovo codice e diviene minoritaria con il cambiamento economico sociale del paese e l’affermarsi di nuove teorie relative all’interesse sociale. Essa ha conservato, tuttavia, la sua centralità all’interno della giurisprudenza16, dove ha continuato ad essere puntualmente riproposta, salvo poi lasciare il posto all’applicazione dei principi di buona fede e correttezza17

, al termine di un’evoluzione culminata a metà anni novanta.

Per quanto riguarda la formulazione di tale teoria, si può partire dalla considerazione, che essa derivi dal modello elaborato dalla giurisprudenza amministrativa; quest’ultima ritiene che, nel momento in cui un soggetto (il socio) è investito di un potere (quello di voto) per la soddisfazione di un interesse non esclusivamente proprio (l’interesse sociale), egli ha il dovere di non danneggiare gli interessi dei soggetti che sono sottoposti al suo potere, salvo che ciò non sia necessario per il perseguimento dell’interesse comune.

La conseguenza di tutto ciò, consiste nel definire cosa si intenda per eccesso di potere e capire quale sia il perimetro del potere, infatti, per stabilire quando si eccede, occorre conoscere il limite posto al confine dell’eccesso.

15

Vi erano molti autori favorevoli alla trasposizione della figura pubblicistica dell’eccesso di potere nell’ambito privatistico e in quello societario. Vedi CARNELUTTI, Eccesso di potere nelle

deliberazioni delle assemblee anonime, in Riv. dir. comm., 1926, I, p. 176; FERRI, Eccesso di potere e tutela delle minoranze, in Riv. dir. comm., 1934, I, p. 723; MAISANO, L’eccesso di potere nelle deliberazioni di società per azioni, Giuffrè, Milano, 1968.

16

Cass. 7 febbraio 1979, n. 818 (caso Soc. Zanasi – Nigris), in Foro.it, 1980, I, 440; Cass. 29 maggio 1986, n. 3628 (caso Soc. coop. edili Acli comunali), in Società, 1986, 1087; Cass. 4 maggio 1994, n.4323 (caso Soc. Cine Corallo), in Foro.it, 1995, I, 2219.

17

(17)

Con riferimento al diritto di voto questa teoria ritiene che il limite a quest’ultimo sia fissato dall’interesse sociale. Il socio non potrebbe esercitare il diritto di voto per il perseguimento di un interesse individuale, egoistico, ma solo per il raggiungimento e la realizzazione dell’interesse sociale.

Si constata, però, la indeterminatezza della nozione di eccesso di potere, perché essa cambia al mutare della nozione di interesse sociale18; si può ritenere,

18

Qui si apre la complessa questione relativa alla natura dell’interesse sociale nelle società per azioni. (Per comprendere l’importanza che la nozione di interesse sociale aveva nella disciplina del diritto commerciale vedi MERUZZI, L’Exceptio doli, dal diritto civile al diritto commerciale, CEDAM, Padova, 2005, p. 405). Questione che non potremo trattare in maniera esaustiva vista la sua ampiezza. Possiamo, però, accennare all’evoluzione storica che ha avuto la teoria dell’eccesso in relazione al mutare della concezione dell’interesse sociale prima e dopo il 1942. La teoria dell’eccesso di potere era già presente durante la vigenza del codice del commercio, quando sorge la concezione istituzionalista (per una ricostruzione delle teorie istituzionaliste vedi PREITE, op.

cit., pp. 8 ss.). Quest’ultima è caratterizzata dall’attribuire alla società un interesse proprio

superiore rispetto agli interessi dei soci stessi e di conseguenza indisponibile per questi. La ratio di questa dottrina è giustificata da vari autorevoli autori. Alcuni (ASCARELLI, Interesse sociale e

interesse comune nel voto, in Studi in tema di società, Giuffrè, Milano, 1952, p. 115), ritenevano

che, avendo la società personalità giuridica, essa dovesse perseguire un interesse a contenuto patrimoniale affinché il suo patrimonio non venga danneggiato con le deliberazioni. Così l’eccesso di potere poteva essere ravvisato dal giudice anche attraverso un’analisi del merito delle scelte discrezionali dei soci in assemblea, per comprendere se l’interesse dei soci si fosse o meno allineato all’interesse della società (CASSOTTANA, L’abuso di potere della maggioranza a

danno della minoranza assembleare, Giuffrè, Milano, 1990, p. 37). Altri (ASCARELLI, Studi in tema di società, cit., p. 162 e passim. 71) ritengono, piuttosto, che la teoria istituzionalista si

dovesse fondare, non tanto sulla personalità giuridica della società, ma piuttosto sulla disposizione del codice del commercio relativa all’annullamento della delibera assembleare, nella quale, si disponeva che fosse legittimato ad impugnare, per proporre l’annullamento, anche l’azionista assenziente; ciò faceva trapelare che il voto avesse una funzione differente dalla volontà individuale del socio. Entrambe queste premesse però andavano inevitabilmente a considerare il voto come un dovere e non come un diritto, andando di fatto a funzionalizzare l’esercizio di tale prerogativa sociale alla realizzazione l’interesse sociale superiore ed autonomo (CARNELUTTI,

(18)

allora, che questa teoria non sia idonea ad identificare l’interesse sociale che, nell’esercizio del dovere (o diritto?) di voto, il socio deve perseguire.

Essa è “incapace di fornire dei criteri di scelta tra gli interessi e tra le diverse e possibili nozioni oggettive di abuso di maggioranza”19

. Questi criteri, allora, dovrebbero essere identificati dalle norme di diritto societario o dai principi di buona fede e correttezza, ma, così facendo, si farebbe venir meno la centralità stessa della teoria dell’eccesso di potere20

.

Si è, inoltre, rilevato come il fondamento giuridico di questa teoria non sia tanto connesso con l’adesione alle posizioni istituzionaliste o contrattualiste21

, ma piuttosto necessiti della qualificazione del voto assembleare come dovere di perseguire l’interesse sociale; infatti, la sua peculiarità, consiste proprio nell’applicare ai rapporti societari quei principi amministrativi sulla base dei quali un potere deve essere esercitato in funzione del perseguimento di un interesse generale (nel nostro caso quello sociale)22.

cambiamento della struttura economica della società. Il diffondersi di piccole medie imprese e l’aumentare delle società che facevano ricorso al mercato del capitale di rischio non permetteva di applicare loro il paradigma che riteneva coincidere l’interesse sociale con quello pubblico. In secondo luogo l’introduzione dell’art 2377 c.c. comma 2, che non attribuiva la legittimazione di impugnare la delibera assembleare al socio consenziente, insieme ad altri indici normativi, escludeva che il voto potesse perseguire un interesse sociale superiore.

19

PREITE, op. cit., p. 116.

20

PREITE, op. cit., p. 116.

21

Cfr. BIGLIAZZI GERI, Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 307 – 308, MAISANO, L’eccesso di potere nelle deliberazioni

assembleari di società per azioni, Giuffrè, Milano, 1968, GAMBINO, op. cit., pp. 77 ss., i quali

criticano la contraria ipotesi di MENGONI, Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di

interessi nelle deliberazioni di assemblea delle società per azioni, in Riv. Soc., 1956. 22

(19)

La qualificazione del voto come dovere, però, non può essere desunta dalla natura del contratto di società per azioni; il potere esercitato dalla maggioranza non persegue solo un interesse sociale generale, ma anche un interesse proprio della stessa maggioranza e ciò lo differenzia fortemente dalle ipotesi delle potestà amministrative. Anzi, al riguardo, l’orientamento prevalente ritiene di escludere che il voto debba essere esercitato per perseguire un interesse diverso da quello del suo titolare; infatti il socio può manifestare la propria volontà sulla base del proprio egoistico interesse23, con il limite, dell’art 2373 c.c.24 e, come proveremo a dire, dei principi generali di buona fede e correttezza.

Infine, per riscontrare una conformità del voto all’interesse sociale, si richiederebbe un’istruttoria sulle motivazioni del voto e, quindi, un sindacato nel merito della deliberazione assembleare25; questa attività, solitamente, si considera inammissibile26, dato che ogni decisione di opportunità aziendale, è rimessa alla volontà dell’assemblea.

Non si può, allora, attraverso questa teoria, andare a dimostrare la natura del voto come un dovere del socio; e, anche se questo fosse provato sulla base dei principi e delle norme di diritto societario, non sarebbe ritenuta dimostrata la applicabilità della teoria dell’eccesso di potere. Anzi, si può ritenere, come diremo

23

CERRAI – MAZZONI, La tutela del socio e delle minoranze, in Riv. Soc., 1993, pp. 1 ss.

24

NUZZO, op. cit., p. 90 nt. 152

25

MAISANO, L’eccesso di potere nelle deliberazioni assembleari di società per azioni, Giuffrè, Milano, 1968

26

NUZZO, op. cit., p. 92 nt. 155 salvo il “sindacato giudiziario del merito della deliberazione […] consentito quando sia necessario per accertare un vizio di legittimità della deliberazione” così GALGANO, Il nuovo diritto societario, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. dell’economia, diretto da Galgano, vol 29, Padova, 2003, p. 232.

(20)

meglio dopo, che proprio gli articoli 1175 e 1375 c.c., riguardo la correttezza e la buona fede, forniscano, a prescindere dalla qualificazione giuridica del voto, strumenti di tutela più idonei per le minoranze27.

1.3 La norma sul conflitto di interessi del socio (art. 2373 c.c.) come

espressione di un principio generale28

Una terza linea di pensiero, non essendoci specifiche norme espresse che limitino l’esercizio del diritto di voto, ha ritenuto che la soluzione al problema, potesse essere riscontrata nell’art 2373 c.c.29

. Da questa norma, che regola il conflitto di interessi del socio, si è voluto ricavare un principio generale, di buona fede e correttezza, secondo cui, il voto, è attribuito per la tutela dell’interesse sociale ovvero trova in questo un limite giuridico30.

La disposizione sopra menzionata è ritenuta, da questa dottrina31, l’unica possibilità di applicare tale principio nel procedimento assembleare e, questo rimedio, dovrebbe ricomprendere “qualunque situazione in cui il potere decisionale della maggioranza, si esplichi in modo tale da minacciare la

27

PREITE, op. cit., p. 118.

28

GAMBINO, op. cit., pp. 92 ss.; PREITE, op. cit., pp. 119 ss.; CASSOTTANA, L’abuso di

potere a danno della minoranza assembleare, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 57 ss. 29

Nella formulazione testuale precedente alla riforma del 2003 che è oggetto di un’approfondita analisi da parte di CASSOTTANA, come indicato nella nota che precede.

30

GAMBINO, op. cit., p. 92

31

(21)

realizzazione dello scopo lucrativo comune con pregiudizio riflesso degli altri soci”32

Tale orientamento ha affermato, ad esempio, che il socio è tenuto ad astenersi

ex art 2373 c.c., se titolare di un interesse personale in conflitto con quello sociale,

che realizzi l’unica finalità della deliberazione e contemporaneamente, con essa, soddisfi un proprio beneficio economico non giustificato a discapito degli interessi degli altri soci. Riprendendo le parole di Cassottana: l’astensione dovrebbe avvenire nel momento in cui, il socio è portatore di un interesse “non giustificabile sulla base dell’interesse istituzionalistico della società, oppure di un contrapposto interesse corporativo riconosciuto alle posizioni di maggioranza”33

. Quindi, sarebbero delibere abusive quelle in cui, la maggioranza persegua una finalità di prevaricazione rispetto alla minoranza, sulla base di quanto emerge dal contenuto della delibera stessa o dal contesto sociale in cui essa viene presa o viene attuata34.

Anche questa tesi, però, non è esente da critiche; in primo luogo, si suppone la sussistenza di un conflitto tra un interesse del socio (o di un gruppo di soci) e

32

GUERRERA, Abuso del diritto e controllo “di correttezza” sul procedimento deliberativo

assembleare, in Riv. Soc., 2002, pp. 181 ss., inoltre come specificato da NUZZO, op. cit., p. 93 nt.

159, il quale cita GUERRERA, qui l’Autore fa una interessante distinzione tra l’abuso della maggioranza a danno della società, da intendere come “l’insieme degli interessi dei soci in quanto tali”, per il quale si applicherebbe direttamente l’art 2373 c.c., facendo sì che il danno potenziale causato dall’abuso diventi un elemento strutturale della fattispecie, e l’abuso della maggioranza a danno della minoranza, per il quale si applicherebbe il generale principio di correttezza e buona fede.

33

CASSOTTANA, op. cit., p. 155

34

CASSOTTANA, op. cit., p. 114 e 156, così affermando ancora la valutazione a parametri oggettivi, a differenza di quelli soggettivi che erano stati elaborati dalla giurisprudenza.

(22)

l’interesse sociale, quando potrebbe, piuttosto, sussistere un conflitto tra interessi di gruppi di soci opposti (senza ricomprendere quello sociale) e, in questo caso, la teoria appena menzionata, non ci sarebbe di aiuto35.

In secondo luogo, tramite un’attività interpretativa, si riconduce la nozione di conflitto di interessi fra soci, all’interno della nozione di interesse sociale e la nozione di danno al patrimonio dei soci, all’interno della nozione di danno alla società. Così facendo, però, si finisce per effettuare una analogia iuris non ammissibile, visto che essa porterebbe all’elaborazione di un principio sulla base di un’unica disposizione36

. Allora si potrebbe provare a procedere mediante lo strumento dell’analogia legis, ma in questo caso si dovrebbe dimostrare l’identità di ratio. Identità, appunto, che l’autore della critica smentisce37

.

In terzo luogo, anche la difficoltosa questione dell’onere della prova, con cui si è scontrata la giurisprudenza, non viene ad essere risolta con l’ipotesi dell’art 2373 c.c.; l’impugnante dovrebbe dimostrare “l’unicità della finalità fraudolenta o dell’intento antisociale, anche se questa difficilmente potrà essere provata in

35

PREITE, op. cit., p.120. Più volte l’Autore fa notare che la fattispecie dell’art. 2373 cod. civ. ricomprende sia interessi comuni, sia non comuni, perciò all’interno della disposizione la nozione di interesse sociale viene contrapposta solo ad interessi del tutto extrasociali; NUZZO, op. cit., p. 96;

36

A tale risultato si potrebbe giungere solo se si dimostrasse l’esistenza di un orientamento generale del sistema giuridico, emergente da varie norme e tutte riferibili a quel principio.

37

GAMBINO, op. cit., p. 96, il quale sostiene che per l’art 2373 c.c. il contrasto con l’interesse dei soci di minoranza è irrilevante e può anche mancare. Infatti, l’art. 2373 c.c. ha quale finalità primaria la tutela del gruppo sociale e ha come elemento oggettivo essenziale una situazione di conflitto dell’interesse di un socio con quello della società; invece, il caso di abuso della regola di maggioranza richiede una tutela specifica per la minoranza e presenta un elemento essenziale soggettivo, fondato sui motivi consistenti nel perseguire un vantaggio particolare a danno degli altri soci.

(23)

modo diretto; infatti, il più delle volte, siffatta deduzione trova esclusivo fondamento nella prova per presunzioni […]”38

.

Ad oggi, inoltre, la tesi sulla autonoma portata precettiva del comma 1 dell’art 2373 c.c. è contraddetta dalla riforma delle società di capitali39

; mediante quest’ultima si è apportata una modifica all’articolo stesso, riassorbendo il primo comma all’interno del secondo40

. Il legislatore ha fatto così proprio il prevalente orientamento giurisprudenziale. Egli ha ritenuto che la norma contenente l’obbligo di astensione non ha contenuto inibitorio alla luce dei requisiti per l’impugnazione41

.

38

CASSOTTANA, op. cit., p. 115.

39

Riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003

40

Testo dell’art 2373 c.c. previgente alla riforma del 2003 (quello oggetto della interpretazione di CASSOTTANA) : “Il diritto di voto non può essere esercitato dal socio nelle deliberazioni in

cui egli ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società.

In caso d'inosservanza della disposizione del comma precedente, la deliberazione, qualora possa recare danno alla società, è impugnabile a norma dell'art. 2377 se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza.

Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. Le azioni per le quali, a norma di questo articolo, non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell'assemblea.”. Testo successivo alla riforma

del 2003: “La deliberazione approvata con il voto determinante dei soci [dopo il 2010 sostituito con l’espressione “di coloro”] che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in

conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'articolo 2377 qualora possa recarle danno.

Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza”.

41

NUZZO, op. cit., p. 95 nt. 164, requisiti che consistono nel provare che quel determinato voto è stato determinate per l’approvazione della delibera (c.d. prova di resistenza) e nel pericolo di danno alla società

(24)

1.4 L’abuso di maggioranza: il richiamo ai principi di correttezza e buona fede

1.4.1 In dottrina: la teoria di A. Gambino

Tenuto in considerazione che il rimedio per l’abuso della maggioranza è ricercato, affinché “i rapporti all’interno degli ordinamenti associativi si realizzino attraverso comportamenti conformi ad uno spirito di lealtà e correttezza”42

, visto che tale rimedio non è stato fondato, né sulla teoria dell’eccesso di potere, né sulla teoria dell’abuso del diritto, né sul principio della parità di trattamento43

, né sulla norma ex art 2373 c.c., un ultimo orientamento ha proposto di fondare tale ipotesi abusiva sui principi riscontrati negli artt. 1175 e 1375 c.c.

Applicare tali principi generali del diritto delle obbligazioni, ai rapporti societari, necessiterebbe, però, di una “precisa determinazione del loro fondamento nel caso specifico, dei loro caratteri differenziali e della loro diversa tecnica operativa”44

.

È proprio questo che Gambino ha cercato di fare all’interno della sua opera monografica; egli è giunto a conclusioni che, seppur non prive di obiezioni ad opera di altri studiosi45, sono però risultate di fondamentale importanza per fare un passo avanti nella soluzione del problema relativo all’abuso di maggioranza.

42

GAMBINO, op. cit., p. 98.

43

Per vedere la critica a tale teoria, non menzionata all’interno della nostra trattazione vedi GAMBINO, op. cit., pp. 85 ss.

44

GAMBINO, op. cit., p. 155.

45

Vedi successivamente alcune critiche che vengono qui riportate, rifacendosi alle opere monografiche di PREITE, op. cit., pp. 126 ss. e di GUERRERA, op. cit., pp. 270 ss.

(25)

Come precedentemente sottolineato, anche l’Autore ha ritenuto che l’ambito di applicazione dell’art 237346

non si estende a vari casi di abuso dei soci nell’esercizio del voto.

Un gruppo di comportamenti abusivi, non riferibili alla fattispecie dell’art 2373 c.c., si ha nel momento in cui un socio di maggioranza ha un interesse specifico che non contrasta con l’interesse della società, ma piuttosto con l’interesse di un altro gruppo di soci. La deliberazione approvata con il voto del socio maggioritario, “pur non essendo dannosa per la società, comunque non comporta una conseguenza positiva per l’interesse del gruppo”47

. Quindi, in questo caso specifico, non c’è un conflitto di interessi tra il socio maggioritario e la società, ma un’assenza di interesse per la società.

Una ipotesi, che rientra nei comportamenti sopra descritti, consiste nel caso in cui la maggioranza ha un particolare interesse a ridurre o eliminare la partecipazione delle minoranze mediante un aumento di capitale, ovvero attraverso una reintegrazione eccessiva rispetto all’interesse sociale. In questa ipotesi, essa sfrutta la consapevole impossibilità da parte della minoranza di sottoscrivere le nuove azioni48. I soci di maggioranza, perciò, si servono della deliberazione per raggiungere un interesse proprio in pregiudizio degli altri soci, piuttosto che per realizzare l’interesse sociale. Si ha la consapevolezza che proponendo un aumento di capitale in quel determinato momento storico, i soci minoritari non avranno le risorse economiche adeguate per esercitare il loro

46

Per un’attenta analisi dell’ambito di applicazione dell’art. 2373 c.c. e la disciplina del conflitto di interessi del socio, vedi GAMBINO, op. cit., pp. 179 ss.

47

GAMBINO, op. cit., p. 274

48

(26)

diritto di opzione e, di conseguenza, i soci di maggioranza potranno acquisire le nuove azioni emesse e “diluire” i soci minoritari.

Una seconda ipotesi è individuata nei casi di aumento del capitale, mediante conferimento in natura, deliberato con l’esclusivo interesse di rafforzare la posizione di controllo e senza che vi sia un interesse reale all’acquisizione del bene49. Si sottolinea, ancora una volta, che l’acquisizione del bene non è in conflitto con l’interesse della società, ma, piuttosto, con l’interesse della minoranza. Infatti, un tale aumento di capitale, attraverso il conferimento di un bene che non interessa realmente alla società, è finalizzato solo ad aumentare le proprie partecipazioni a discapito della minoranza.

Una terza ed ultima ipotesi è quella che prende in considerazione le ipotesi di fusione della società. Sono molte le tecniche economiche con le quali si può giungere ad ottenere un vantaggio in danno ai soci minoritari mediante una fusione. Prendendo ad esame una di queste50, si può menzionare il caso in cui, il socio di maggioranza proponga una fusione con un’altra società nella quale egli ha, a sua volta, delle partecipazioni. Anche in questo caso non si può ritenere che il socio stia perseguendo un interesse personale extra sociale confliggente con l’interesse sociale. Quindi non si può applicare l’art. 2373 c.c. Piuttosto, il socio maggioritario sfrutta il fatto di avere delle partecipazioni in entrambe le società per andare a rafforzare la posizione di controllo in danno alla minoranza. Egli determina un rapporto di cambio non conforme all’effettivo rapporto di valore tra i patrimoni delle società, cioè un rapporto di cambio sfavorevole ai soci della

49

GAMBINO, op. cit., p. 275.

50

(27)

società in cui egli ha minori partecipazioni. Così facendo, è vero che vede sottovalutate le sue azioni in una società, ma, in primo luogo, sottovaluta anche le partecipazioni della minoranza e, in secondo luogo, recupera il “danno subito” dalla maggiore sopravvalutazione delle quote nella società dove ha più azioni.

Come si può percepire da questi tre esempi, molti sono i casi di comportamenti abusivi che necessitano di trovare una soluzione che miri ad evitare il crearsi di tali situazioni51.

“Per individuare una sanzione nel diritto vigente a tali fattispecie, si pone l’esigenza di enucleare un limite all’agire dei soci più ampio di quello stabilito dall’art 2373 c.c. e tuttavia coerente con la tecnica operante nella società capitalistiche”52.

Un importante risultato a cui si è giunti, è stato quello di comprendere che la tecnica operativa del principio di correttezza, in materia societaria, è analoga a quella fissata nell’art 2373 c.c.. Questa disposizione “sancisce il superamento di una concezione individualistica della società di capitali […] e garantisce la rilevanza giuridica dei principi di solidarietà nell’ambito del gruppo sociale, proponendo una diversa considerazione dell’istituto della società per azioni rispetto al modello tradizionale previsto nella abrogata disciplina del codice del commercio”53

.

L’art. 2373 c.c. esclude la possibilità di imporre al socio di tenere un determinato comportamento e di esercitare in un determinato modo il suo diritto

51

Per un approfondimento vedi GAMBINO, op. cit., pp. 277 ss.

52

GAMBINO, op. cit., p. 285.

53

(28)

di voto, evitando una funzionalizzazione di quest’ultimo all’interesse sociale concreto. Così anche l’introduzione del principio di correttezza per la risoluzione di queste ipotesi abusive, non esige una funzionalizzazione delle posizioni giuridiche, ma incide nell’esecuzione negoziale, dove è previsto lo specifico criterio della buona fede contrattuale. Si può concludere che il principio di correttezza applicato alle S.p.a. non trova un limite nell’art 2373 c.c., ma, al contrario, esprime un contenuto normativo conforme all’orientamento che si è venuto ad affermare nella disciplina delle società per azioni54.

Dato ciò per premesso, si deve ora sottolineare come, la tecnica normativa mediante la quale si utilizza il principio di correttezza, nell’ambito delle società per azioni, non può essere la stessa con cui essa opera all’interno dei rapporti obbligatori.

In primo luogo, il principio è applicato all’interno di un procedimento deliberativo; ciò fa sorgere il problema della formazione di una decisione collegiale, vincolante per tutti i membri del gruppo, che ha un contenuto autonomo rispetto alla norma contrattuale. Perciò, secondo l’Autore, è necessario spostare l’applicazione del principio al momento del giudizio, stabilendo un limite all’esercizio del voto e cercando di soddisfare un’esigenza di legalità sostanziale del procedimento. Il principio di correttezza, riferendosi all’iter deliberativo, agisce sul voto in quanto elemento essenziale del procedimento e sanziona, così, l’esercizio abusivo dello stesso. Si vuole quindi sanzionare il socio di maggioranza che, seppur non agisca in contrasto con l’interesse della società, comunque si comporta in maniera scorretta nei confronti di un socio minoritario.

54

(29)

Una violazione di tale limite, se quel voto ai fini dell’approvazione è determinante (c.d. prova di resistenza), comporta la invalidità della delibera per illegittimità nel procedimento55.

In secondo luogo, in relazione alla valutazione che deve essere effettuata dal giudice, il principio serve a quest’ultimo per delimitare, nell’esecuzione del rapporto obbligatorio o contrattuale, gli interessi concreti di quell’attività, che altrimenti non sarebbero determinabili ex ante56. Tutto questo è necessario in quanto mancano delle norme di diritto positivo, che ci permettano di apprezzare le modalità di attuazione del procedimento esecutivo e di arginare la lesione dell’interesse altrui.

Inoltre, tale criterio di correttezza non può portare ad un esame del merito della decisione, se non sussistono indici specifici dell’abuso. Indici che devono essere individuati in conformità con l’autonomia che si deve garantire in assemblea e che è prevista dall’art 2373 c.c.57

.

Un primo indice, di un possibile comportamento abusivo, si ravvede nella carenza di un apprezzabile interesse e, piuttosto, nel perseguimento di un interesse ad un vantaggio particolare, che incida negativamente sulla posizione dei soci di minoranza.

Un secondo indice, richiesto dalla correttezza, è la ricorrenza di un danno altrui. Requisito già presente nell’ipotesi del conflitto di interessi dove a rilevare è un danno alla società, ma, che nel nostro caso, deve essere individuato nel

55

Delibera che sarà impugnabile ex art. 2377 c.c.

56

GAMBINO, op. cit., p. 304.

57

(30)

pregiudizio nei confronti degli altri soci. “Così, come già rilevato dalla dottrina per il conflitto di interessi, la sola sussistenza di un interesse particolare non comporta un limite all’esercizio del diritto di voto, né consente al presidente dell’assemblea di escludere il socio. […] La maggioranza, pur se ha un interesse particolare, vota legittimamente se, nel voto, evita l’altrui danno”58

.

Inoltre, secondo l’Autore, non sarebbe opportuno andare ad applicare un principio di buona fede che integri il contratto sociale; piuttosto sarebbe sufficiente andare ad applicare un principio di correttezza che, ex post, permetta al giudice di valutare se, i comportamenti della maggioranza, siano o meno preordinati a perseguire un interesse personale e a creare un danno alla minoranza. Si realizza così, accanto alla tutela data dall’art 2373 c.c., una “garanzia delle minoranze”59

. Si riconosce una parità sostanziale di trattamento, attraverso la previsione di una sanzione giuridica in caso di abuso di potere esercitato dal socio di maggioranza nell’ambito del procedimento deliberativo60

.

1.4.2 (Segue) critica alla teoria del Gambino e teoria di D. Preite

Anche a questa interessante e fondamentale teoria non sono mancati, però, dei rilievi critici da parte di un altro importante autore: Disiano Preite61.

Quest’ultimo ripropone i due argomenti principali che Gambino pone alla base della sua teoria62 criticandoli.

58

GAMBINO, op. cit., p. 306.

59

GAMBINO, op. cit., p. 307.

60

Inoltre per comprendere meglio l’estensione della sfera di operatività del principio di correttezza si veda GAMBINO, op. cit., pp. 311 ss.

61

(31)

Per quanto riguarda il primo argomento63, sostiene, che non si possa ritenere non applicabile alle società il principio di buona fede, sulla base di una sua presunta inidoneità a risolvere i problemi che sorgono con la regola maggioritaria nelle delibere assembleari.

Inoltre egli critica, che nella tesi del Gambino, il perseguimento dell’interesse particolare, sarebbe vietato a prescindere da una verifica dei suoi riflessi sull’interesse sociale, subordinando di fatto il primo interesse al secondo. Ma se si ammette che nelle S.p.a. è lecito perseguire interessi sociali, il divieto per la maggioranza di perseguire i suoi interessi particolari, deve essere limitato ai casi in cui non si realizzino interessi sociali e non deve mai prescindere da un esame delle finalità e degli effetti della delibera. Tutto ciò perché, altrimenti, si rischierebbe di vietare delibere che perseguano gli interessi individuali, seppur realizzino anche gli interessi sociali. Se così fosse, si dovrebbe concludere che la soddisfazione dell’interesse sociale sia subordinato alla mancata realizzazione

62

Il primo argomento afferma che: “Il carattere di organizzazione proprio delle S.p.a. escluderebbe la pertinenza di qualsiasi regola che imponesse una congruenza dell’attività ad un fine contrattualmente predeterminato. Ne seguirebbe la inapplicabilità della regola di buona fede e l’applicabilità solo di quella di correttezza, che appunto prescinderebbe da tale congruenza, limitandosi a regolare il procedimento di continua riformazione dei fini, cui provvederebbe l’assemblea”. Il secondo argomento invece sostiene che : “Il criterio della correttezza non si risolve nell’esclusivo rinvio a una realtà extra normativa, ma trova nella legge indici interpretativi, esso si determina in dipendenza delle specifiche caratteristiche giuridiche dell’ordinamento sociale; ne seguirebbe che il principio sarebbe destinato ad agire nell’ambito del procedimento deliberativo, secondo una tecnica operativa analoga a quella dell’art, 2373 c.c.; sarebbe infine proprio questa norma ad indurre a specificare il requisito della carenza di un apprezzabile interesse in un interesse a un vantaggio particolare, che incida sulla libera determinazione dell’interesse comune al gruppo”. Per questi due criteri v. PREITE, op. cit., p. 126 il quale riprende GAMBINO,

op.cit., pp. 177, 298 ss., 302, 303 e 305. 63

(32)

degli interessi particolari, ma ciò contraddice con l’art 2373 c.c., che stabilisce una preminenza dell’interesse sociale sugli interessi extra sociali, solo in caso di conflitto tra i due.

Per quanto riguarda il secondo argomento64, invece, Preite evidenzia come il contenuto del principio di correttezza non può essere desunto in toto da elementi extra normativi. Perciò, esso deve essere determinato anche tenendo in considerazione le peculiarità dell’ordinamento sociale, non riferendosi solo all’art 2373 c.c., ma piuttosto a tutte le norme di diritto societario.

Quindi, se si considera l’interesse sociale comune a tutti i soci, non ha senso ritenere violato il principio di correttezza, solo relativamente alle delibere assunte dalla maggioranza in presenza di un suo interesse extra sociale. Così si limiterebbe la nozione civilistica del principio di correttezza e si desumerebbe, in maniera indebita, che il contenuto di tale principio derivi dell’art 2373 c.c.

Questa disposizione è sì importante per dimostrare la applicabilità alle società dei principi previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., ma non può limitarne il contenuto.

Egli, di conseguenza, ritiene che vi sia la necessità di una nuova riflessione per individuare i contenuti di buona fede e correttezza65.

È proprio Preite che, nel tentativo di portare avanti questo suo studio, giunge ad identificare un sistema di valori predefiniti. Sistema al quale l’interprete può fare riferimento nella valutazione della condotta concreta dei soci. Per evitare di

64 PREITE, op. cit., pp. 129 ss. 65

(33)

dilungarsi ulteriormente in queste complesse seppur interessanti teorie, ripropongo qui solo la conclusione del ragionamento dell’Autore66

.

Egli ritiene che si debba far ricorso a teorie etiche per individuare il contenuto del giudizio di buona fede e correttezza. Sulla base di tali teorie si possono poi identificare alcune regole che evidenziano l’equilibrio che dovrebbe sussistere fra i vari interessi sociali67. Identificati questi interessi sociali, sarebbe considerato contrario a buona fede e correttezza il comportamento tenuto dal socio che violi una delle regole elencate. E, come conseguenza di tale violazione, si avrebbe la invalidità (ex art 2377 c.c.) della delibera approvata con il voto determinante dei soci che abbiamo tenuto tale condotta. La invalidità consentirebbe di richiedere un risarcimento del danno subito dalla minoranza a carico, sia della società, sia dei soci di maggioranza, con il diritto della prima a rivalersi sui secondi68.

Comunque si ritiene che spetti al giudice verificare se vi siano le condizioni oggettive, che consentano di supporre la sussistenza di una violazione del

66

Per un maggiore approfondimento vedi PREITE, L’ “abuso” della regola di maggioranza, cit., pp. 133 ss. e PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nella società per

azioni, in Trattato della società per azioni, diretto da Colombo e Portale, vol. 3, t. 2, Assemblea,

Torino, 1993, 1 ss.

67

PREITE, L’ “abuso” della regola di maggioranza, cit., p. 156; PREITE, Abuso di

maggioranza e conflitto di interessi, cit., pp. 100 ss, Riportando testualmente, queste regole sono:

“a) la massimizzazione del valore globale delle azioni; b) la distribuzione del profitto sociale in proporzione al conferimento del capitale; c) l’obbligo di pagamento collaterale da parte della maggioranza alla minoranza qualora il perseguimento del primo obiettivo non consenta il rispetto della seconda regola; d) il divieto di modificare la quota di potere delle minoranze o di bloccare le scalate societarie [salvo che questo non sia giustificato dall’esigenza di massimizzazione del valore globale indicato nel pt. a) e sempre pagando una somma alla minoranza a titolo di risarcimento del valore corrispondente alle azioni perdute]”.

68

(34)

principio di buona fede e correttezza; solo nel caso in cui tali condizioni siano presenti, si permette al giudice di effettuare un riesame nel merito della deliberazione assembleare, per appurare il rispetto di tali regole69.

Detti principi sarebbero quindi applicabili nella disciplina societaria in quanto i soci, stipulando il contratto di società, divengono parti di una struttura organizzata di origine contrattuale70

La ricostruzione di Preite ha sicuramente il merito di evitare il ricorso a valori puramente intuitivi, ma i valori etici individuati, seppur condivisibili, non possono costituire i confini del potere attribuito ai soci, né conferire al giudice il potere di correggere l’equilibrio negoziale convenuto tra gli stessi71

. Le regole etiche possono aiutarci a comprendere i meccanismi societari, ma non possono sostituirsi all’equilibrio stabilito dalle parti nel contratto sociale e in conformità con la legge. Possiamo concludere, ritenendo che questo “equilibrio” tra gli interessi in gioco, deve essere ricercato in relazione alla concreta delibera, senza integrare con i principi il piano negoziale, ma applicando questi ultimi alla fase esecutiva del contratto72. Si deve, perciò, comprendere se, nel caso di specie, il socio di maggioranza abbia agito, o meno, con l’intento di perseguire un interesse personale e di creare un danno al socio di minoranza, perché se così fosse, il suo

69

PREITE, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi, cit., p. 100

70

FRISOLI, La clausola generale della buona fede in ambito societario, in Giur. Comm., I, 2007, p. 85 origine contrattuale che gli impone di eseguire il contratto nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.

71

NUZZO, op. cit., p. 160.

72

(35)

comportamento sarebbe sicuramente contrario ai principi suddetti e, quindi, meriterebbe una sanzione da parte del giudice73.

1.4.3 L’abuso di maggioranza in giurisprudenza

Una volta terminata l’analisi della dottrina, possiamo passare allo studio delle decisioni giurisprudenziali che nel corso dei vari anni, a partire dall’entrata in vigore del codice del 1942, si sono succedute in materia di abuso di maggioranza.

Si può riscontrare come, anche per i giudici, il fondamento normativo dell’abuso non sia chiaro; è indubbio, però, che fra tali orientamenti vi siano degli elementi comuni74, ma soprattutto che vi sia stata una interessante evoluzione75.

Le prime decisioni76 fondano l’abuso di maggioranza sulla violazione di norme di ordine pubblico a tutela degli interessi generali. Si tratta però dei casi di illiceità di operazioni sul capitale derivata da falsità del bilancio; in un secondo

73

Ad esempio, proviamo ad applicare questa nostra ipotesi conclusiva al caso della delibera di aumento del capitale da parte della maggioranza. Riteniamo che sussista l’abuso nel momento in cui la delibera è assunta, nonostante il socio di minoranza evidenzi una totale inutilità dell’operazione e nonostante evidenzi che quest’ultima sia finalizzata solo a diluire i soci minoritari, che non abbiano a disposizione la somma richiesta per l’esercizio del diritto di opzione per l’acquisto delle nuove azioni emesse. Questo perché, effettuando un bilanciamento tra gli interessi in gioco, si può notare come l’interesse della maggioranza, di aumento del capitale, non abbia un’utilità riconoscibile ed effettiva, ma sia preordinato a soddisfare l’esigenza di aumentare la propria partecipazione (interesse individuale) in danno alla minoranza (danno nei confronti di altri soci). Mentre l’interesse della minoranza, di non aumentare il capitale, sia motivato dal non vedere diluita la propria partecipazione sociale (interesse individuale), senza, però, causare un danno alla maggioranza (assenza di un danno nei confronti degli altri soci).

74

Per gli elementi comuni alle sentenze in materia di abuso di maggioranza, interessante è la rassegna effettuata da NUZZO, op. cit., p. 47, il quale evidenzia la contraddittorietà degli orientamenti giurisprudenziali da lui menzionati ed avanza alcune critiche.

75

NUZZO, op. cit., p. 53.

76

(36)

momento, la giurisprudenza77, si limita ad assumere l’applicabilità dei criteri desunti dalla teoria dell’eccesso di potere tipici del diritto amministrativo, senza però approfondire le ragioni che, da un punto di vista normativo, ne consentano l’estensione al diritto delle società. Infine, nella più recente giurisprudenza78

, prevale il richiamo ai canoni normativi di buona fede e correttezza che si consideranoapplicabili ai rapporti tra i soci.

È proprio quest’ultimo orientamento che ha segnato un’importante svolta in materia di abuso della maggioranza.

La Suprema Corte, con la sentenza n° 11151 del 199579, ha effettuato delle importanti affermazioni80. In primo luogo ha premesso “che non è più dubitabile, ad oggi, l’appartenenza all’area contrattuale dell’atto costitutivo della società, quando sia stipulato da più soggetti; che non può più ravvisarsi, nell’acquisizione della personalità giuridica da parte delle società di capitali, un ostacolo alla persistenza di un vincolo di natura contrattuale dopo la costituzione della società”.

Questo ci fa ritenere che ad oggi non vi sia più un problema di teorie contrattualiste e istituzionaliste, ma si possa ritenere che, non solo l’atto costitutivo sia un contratto, ma anche la fase di esecuzione dello stesso debba

77

Vedi Cass. n. 818 del 1979; Cass. n. 3628 del 1986.

78

Vedi Cass. n. 2958 del 1993; Cass. n. 11107 del 1994; Cass. n. 11195 del 1995.

79

Per il testo vedi Giur. Comm, 1996, II, pp. 329 ss.

80

Le parti virgolettate e riportate sono prese dal testo della sentenza come riportato nella rivista sopra indicata (Giur. Comm, 1996, II, pp. 329 ss) e come commentate all’interno della sua monografia da NUZZO, op. cit., p. 152 , oltre che da P.G. JAEGER, C. ANGELICI, A. GAMBINO, R. COSTI, F. CORSI, Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, in

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