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L’abuso di maggioranza in giurisprudenza

1.4 L’abuso di maggioranza: il richiamo ai principi di correttezza e buona fede

1.4.3 L’abuso di maggioranza in giurisprudenza

Una volta terminata l’analisi della dottrina, possiamo passare allo studio delle decisioni giurisprudenziali che nel corso dei vari anni, a partire dall’entrata in vigore del codice del 1942, si sono succedute in materia di abuso di maggioranza.

Si può riscontrare come, anche per i giudici, il fondamento normativo dell’abuso non sia chiaro; è indubbio, però, che fra tali orientamenti vi siano degli elementi comuni74, ma soprattutto che vi sia stata una interessante evoluzione75.

Le prime decisioni76 fondano l’abuso di maggioranza sulla violazione di norme di ordine pubblico a tutela degli interessi generali. Si tratta però dei casi di illiceità di operazioni sul capitale derivata da falsità del bilancio; in un secondo

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Ad esempio, proviamo ad applicare questa nostra ipotesi conclusiva al caso della delibera di aumento del capitale da parte della maggioranza. Riteniamo che sussista l’abuso nel momento in cui la delibera è assunta, nonostante il socio di minoranza evidenzi una totale inutilità dell’operazione e nonostante evidenzi che quest’ultima sia finalizzata solo a diluire i soci minoritari, che non abbiano a disposizione la somma richiesta per l’esercizio del diritto di opzione per l’acquisto delle nuove azioni emesse. Questo perché, effettuando un bilanciamento tra gli interessi in gioco, si può notare come l’interesse della maggioranza, di aumento del capitale, non abbia un’utilità riconoscibile ed effettiva, ma sia preordinato a soddisfare l’esigenza di aumentare la propria partecipazione (interesse individuale) in danno alla minoranza (danno nei confronti di altri soci). Mentre l’interesse della minoranza, di non aumentare il capitale, sia motivato dal non vedere diluita la propria partecipazione sociale (interesse individuale), senza, però, causare un danno alla maggioranza (assenza di un danno nei confronti degli altri soci).

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Per gli elementi comuni alle sentenze in materia di abuso di maggioranza, interessante è la rassegna effettuata da NUZZO, op. cit., p. 47, il quale evidenzia la contraddittorietà degli orientamenti giurisprudenziali da lui menzionati ed avanza alcune critiche.

75

NUZZO, op. cit., p. 53.

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momento, la giurisprudenza77, si limita ad assumere l’applicabilità dei criteri desunti dalla teoria dell’eccesso di potere tipici del diritto amministrativo, senza però approfondire le ragioni che, da un punto di vista normativo, ne consentano l’estensione al diritto delle società. Infine, nella più recente giurisprudenza78

, prevale il richiamo ai canoni normativi di buona fede e correttezza che si consideranoapplicabili ai rapporti tra i soci.

È proprio quest’ultimo orientamento che ha segnato un’importante svolta in materia di abuso della maggioranza.

La Suprema Corte, con la sentenza n° 11151 del 199579, ha effettuato delle importanti affermazioni80. In primo luogo ha premesso “che non è più dubitabile, ad oggi, l’appartenenza all’area contrattuale dell’atto costitutivo della società, quando sia stipulato da più soggetti; che non può più ravvisarsi, nell’acquisizione della personalità giuridica da parte delle società di capitali, un ostacolo alla persistenza di un vincolo di natura contrattuale dopo la costituzione della società”.

Questo ci fa ritenere che ad oggi non vi sia più un problema di teorie contrattualiste e istituzionaliste, ma si possa ritenere che, non solo l’atto costitutivo sia un contratto, ma anche la fase di esecuzione dello stesso debba

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Vedi Cass. n. 818 del 1979; Cass. n. 3628 del 1986.

78

Vedi Cass. n. 2958 del 1993; Cass. n. 11107 del 1994; Cass. n. 11195 del 1995.

79

Per il testo vedi Giur. Comm, 1996, II, pp. 329 ss.

80

Le parti virgolettate e riportate sono prese dal testo della sentenza come riportato nella rivista sopra indicata (Giur. Comm, 1996, II, pp. 329 ss) e come commentate all’interno della sua monografia da NUZZO, op. cit., p. 152 , oltre che da P.G. JAEGER, C. ANGELICI, A. GAMBINO, R. COSTI, F. CORSI, Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, in

seguire, nei limiti della compatibilità con le disposizioni speciali, le norme contrattuali.

In secondo luogo, “non può ritenersi più sussistente la critica fondata sulla considerazione che il contratto di società dia luogo a situazioni di carattere strumentale, le quali richiedano ulteriori manifestazioni di volontà per tutta la durata del rapporto, che non potrebbero essere ricondotte nell’ambito dell’attività esecutiva che sarebbe disciplinata tramite il principio ex art. 1375 c.c.. Infatti anche le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo debbono essere considerate come veri e proprio atti di esecuzione perché preordinati alla migliore attuazione del contratto sociale”. Cade in questo modo ogni ostacolo all’applicazione in materia dell’art 1375 c.c. quale specificazione di un più generale principio di solidarietà (ex art 1175 c.c.) che abbraccia tutti i rapporti giuridici anche di origine non contrattuale.

La corte, inoltre, ribadisce che “oltre che dalle disposizioni in materia di diritto delle obbligazioni, l’esistenza di un dovere di lealtà e correttezza a carico dei soci è desumibile dalle norme che riguardano il diritto societario. Nel contratto sociale la realizzazione dell’interesse dipende, per ognuno, dal conseguimento di una finalità mediata, comune per tutti; perciò la comunione di interessi costituitasi, esclude che il voto stesso possa essere legittimamente esercitato per realizzare le finalità particolari dei soci”. Ciò è confermato dall’art 2373 c.c., che “non assume carattere di norma eccezionale, ma che esprime l’esigenza affinché i rapporti all’interno della società si realizzino attraverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il contratto sociale è stato stipulato”.

Il quadro definito dalla Cassazione, con la sentenza sopra menzionata, è stato condiviso dalla maggior parte degli studiosi; alcuni, però, persistono con un atteggiamento critico. Questo viene ad essere giustificato, per un verso, da una mancata considerazione, da parte dei giudici della Suprema Corte, dell’evoluzione legislativa, che ha posto norme che prescindono dall’originaria esistenza di un contratto costitutivo della società di capitali81; per altro verso, senza negare l’applicazione dell’art. 1375 c.c., si è voluto scoraggiare l’ampliamento dei principi di buona fede e correttezza, senza adeguata giustificazione, negli ambiti di applicazione dell’art 2373 c.c.. Poiché, secondo gli autori della critica, l’art 2373 c.c. prevedrebbe una tutela delle minoranze più efficace di quella ex artt. 1175 e 1375 c.c.82.

Questa critica è mossa dalla preoccupazione che un’applicazione pura e semplice dei principi di buona fede e correttezza in materia societaria porti ad una funzionalizzazione del diritto di voto.

Paura già incontrata nell’analisi del Gambino83

, che potrebbe essere fugata definendo, in concreto, le modalità operative di applicazione di detti principi alla fase attuativa del contratto sociale. Ed allora il problema si sposta, ancora una volta, sul contenuto che può essere dato agli artt. 1175 e 1375 in ambito societario.

81

GAMBINO, Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, in Giur. Comm., 1996, II , p. 343.

82

COSTI, Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?, in Giur. Comm., 1996, II p. 350.,

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Problema che potrebbe essere a sua volta risolto, attraverso la applicazione del c.d. obbligo di salvaguardia84, cioè della previsione sì, di alcuni doveri positivi per i soci, ma doveri che risultano neutri da un punto di vista finalistico, non rilevando il fine dell’azione del socio di maggioranza, ma solo il carattere oggettivo della stessa85

Per una maggior completezza di indagine si sottolinea che la sentenza della Cassazione del 1995 è stata ripresa successivamente da un’altra pronuncia della Suprema Corte del 200586. Anche in questo caso, i giudici, chiamati a decidere sull’invalidità della deliberazione di scioglimento anticipato di una società, confermano e aggiungono dei concetti fondamentali in materia. Due sono, infatti, le puntualizzazioni che la pronuncia del 2005 fa rispetto a quella del 1995. La prima, consiste nel ritenere che “il canone di buona fede in senso oggettivo non impone ai soci un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all’esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi i quali, nel dinamismo proprio dell’ordinamento societario, sono destinati a trovare adeguata composizione nell’ambito del procedimento deliberativo”. La seconda ritiene che sia indispensabile “la dimostrazione di un esercizio fraudolento ovvero ingiustificato del potere di voto. L’abuso non può consistere nella mera valutazione discrezionale del socio dei propri interessi, ma deve concretarsi nella

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NUZZO, op. cit., p. 155. “L’obbligo di salvaguardia sussiste quando il comportamento di un socio leda di fatto un legittimo interesse di un altro socio, verso il quale si è legati da un rapporto obbligatorio”, nel nostro caso, il contratto sociale.

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Cioè valutare se il suo comportamento sia o meno “corretto”

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intenzionalità specificamente dannosa del voto, ovvero nella compressione degli altrui diritti in assenza di un apprezzabile interesse del votante”.

Anche in ambito giurisprudenziale, quindi, si è giunti a condividere l’impostazione dottrinale che ritiene necessaria applicare detti principi, come parametri di valutazione del rispetto di un obbligo di salvaguardia, nella fase di esecuzione del contratto e non come elementi integrativi dello stesso. Se poi si accetta l’impostazione87

che ritiene l’esercizio del voto da parte dei soci, come un’attività svolta in esecuzione del contratto, si potrà allora valutare, anche tale situazione, in relazione a detti principi generali ex artt. 1175 e 1375.