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POLONIA: FRONTIERA DELL UNIONE EUROPEA. La politica d immigrazione nel contesto sociogiuridico

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Academic year: 2022

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BERGAMO

Facoltà di Lingue e Letterature straniere Corso di Laurea specialistica in

Lingue straniere per la comunicazione internazionale

POLONIA: FRONTIERA DELL’UNIONE EUROPEA.

La politica d’immigrazione nel contesto socio- giuridico polacco.

Relatore:

Chiar.mo Prof. Fabio Marazzi Correlatore:

Chiar.mo Prof. Remo Morzenti Pellegrini

Tesi di Laurea di Rosa PIROZZI Matricola n. 47501

ANNO ACCADEMICO 2005 /2006

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Indice

Introduzione 5

CAPITOLO I

1. L’idraulico polacco 11

2. La moratoria sui lavoratori dei PECO 12

3. La situazione al 1° maggio 2006 18

4. Le origini della paura per l’idraulico polacco 20

4.1 Storia della Polonia 20

4.2 Storia delle migrazioni dalla Polonia 30 5. Le migrazioni dalla Polonia dopo il 2004 39

CAPITOLO II

1. La politica d’immigrazione nell’Unione Europea 46

2. Accordi di Schengen 49

2.1 Convenzione di Schengen 50

3. L’acquis di Schengen 52

4. L’integrazione dell’acquis di Schengen nel quadro

dell’Unione Europea 54

5. Le frontiere esterne dell’Unione Europea 58

6. L’agenzia europea FRONTEX 62

7. Misure legislative in materia d’asilo e immigrazione 65

7.1 Asilo 65

7.2 Rimpatrio e Riammissione 66

7.3 Traffico umano 67

7.4 Ricongiungimento familiare 67

8. Recepimento dell’acquis da parte della Polonia 67 8.1 I pareri della Commissione dal 1997 al 2002 68 8.2 Valutazione della Commissione circa la situazione

della Polonia 69

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CAPITOLO III

1. La politica d’immigrazione in Polonia 76 2. La normativa polacca sull’immigrazione 79 3. La normativa del 13 giugno 2003 per garantire la

protezione dei cittadini stranieri sul territorio della

Repubblica polacca 84

3.1 Lo status di rifugiato 84

3.2 L’asilo 90

3.3 Il soggiorno tollerato 92

3.4 La protezione temporanea 94

4. Il caso dei rifugiati ceceni 97

4.1 I ceceni in Polonia 98

5. La struttura istituzionale 101

5.1 L’Ufficio per il Rimpatrio e gli Stranieri (URIC) 101

5.2 I centri d’accoglienza 102

6. Il confine ad est 104

7. Accordo di cooperazione bilaterale sulle condizioni

di viaggio 107

8. Le relazioni tra Polonia e Ucraina 108

8.1 Il caso di Dorohusk 111

9. Il programma europeo Interreg III 114

10. Le euroregioni in Polonia 116

Conclusione 119

Bibliografia e sitografia 121

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INTRODUZIONE

Questo elaborato prende spunto dal tentativo di conciliare tre argomenti di mio grande interesse: l’Unione Europea, la Polonia e le migrazioni.

L’Unione Europea è il progetto più costruttivo e ambizioso che abbia mai interessato il continente europeo. Il riuscire a superare gli individualismi nazionali dopo secoli di guerre per cercare più ciò che unisce che ciò che divide, è sicuramente il grande passo di questo millennio. L’Unione Europea, nata dopo un periodo di forte instabilità storico-politica, si offre oggi come soluzione necessaria di fronte ai cambiamenti che interessano la nostra società. In un mondo globalizzato caratterizzato da un ridimensionamento dello spazio e del tempo, dal predominio della tecnologia e della comunicazione, da una crescente omogeneizzazione e paradossalmente da un contemporaneo aumento di eterogeneità culturale, i confini nazionali, come sostiene il sociologo polacco Zygmunt Bauman, sono liquefatti.

La globalizzazione ha indubbiamente portato ad un decadimento dello Stato- nazione, che non è più in grado da solo di rispondere alle necessità della società attuale. Ecco che allora l’Unione Europea appare come la risposta più ovvia e la soluzione necessaria per questi eventi che interessano la nostra epoca:

un’istituzione sopranazionale in grado di realizzare l’arduo compito di coordinare e disciplinare stati nazionali, nel rispetto e nella tutela delle differenze che li caratterizzano. Queste differenze sono ben lontane dall’essere attutite, come emerge dalla mancanza, a tutt’oggi, di una costituzione europea che definisca non solo la normativa comune, ma soprattutto che delinei chiaramente ed esplicitamente i tratti comuni caratterizzanti i Paesi membri, in maniera da poter individuare le linee guida per future inclusioni di altri Paesi.

Fino ad oggi l’Unione ha continuato la sua corsa verso successivi allargamenti in modo quasi naturale: risulta ovvio, forse per ragioni storiche e geografiche, che gli attuali 27 Paesi membri siano parte dell’Unione e ancora si attende che altri Paesi, come ad esempio la Croazia, la Bosnia Erzegovina, l’Albania, raggiungano

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i necessari standard per esservi inclusi. Ma di fronte alle ormai storiche richieste della Turchia di partecipare a questo grande progetto, la domanda su che cosa sia l’Unione Europea rimane ancora aperta. E’ un’unione volta unicamente a facilitare gli scambi economici? E’ un’unione tra Paesi che hanno una storia comune e delle affinità socio-politiche? Per soddisfare queste domande è necessario che l’Unione Europea arresti la sua corsa verso ulteriori inclusioni per trovare prima delle risposte concrete e delle basi comuni. Per fare questo è importante che si superino effettivamente gli individualismi degli stati-nazione.

Ciò non implica necessariamente la perdita di identità. Dovrebbe verificarsi a mio parere una “seconda secolarizzazione”. Per secolarizzazione si intende quel processo che ha portato al declino dell’influenza della religione sulla società civile e ad una separazione tra la sfera del sacro e quella sociale, che come Max Weber disse, portò ad un “disincantamento del mondo”.

Tutti gli stati democratici hanno dichiarato il principio di laicità e di tolleranza religiosa. Questo indica che ciascun individuo ha la libertà di professare il proprio credo, che si può essere cristiani, mussulmani, buddisti, ecc. ma nell’ambito delle proprie scelte personali, mentre sulla scena pubblica, davanti allo Stato, si è tutti cittadini allo stesso modo. Prendendo a prestito in modo indubbiamente scorretto il termine “secolarizzazione”, quello che secondo la mia opinione sarebbe necessario è appunto un cambiamento di tale portata, una “seconda secolarizzazione”, ovvero un declino dell’influenza dell’identità nazionale su quella che è una società più estesa, la società europea. Ognuno sarebbe poi libero di dichiararsi italiano, tedesco, francese, olandese, polacco, bulgaro, ecc, ma in un ambito quasi “privato”, mentre dovrebbe crescere l’idea di essere sulla scena pubblica un cittadino europeo. Ciò che voglio mettere in luce con questa riflessione un po’ sui generis, è la necessità per il futuro dell’Unione Europea di rafforzare il sentimento di appartenenza dei cittadini. Nonostante gli sforzi dell’Unione Europea di avvicinarsi ai cittadini mediante figure di mediazione, canali televisivi europei d’informazione, la creazione di siti web aggiornati sulle novità dell’Unione, e altre iniziative, il sentimento di appartenenza ad una

“comunità” europea è ancora qualcosa di irrealizzato a livello sociale. E’

sufficiente considerare il no alla ratifica del Trattato per la Costituzione Europea

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da parte di Francia e Paesi Bassi nel 2005 per rendersi conto di come il senso di appartenenza ad una comunità europea sia ancora poco sviluppato.

Proprio i fatti di cronaca relativi alle votazioni di Francia e Paesi Bassi e le precedenti dispute politiche sono state lo spunto per la realizzazione di questo elaborato. Durante quel periodo, è emerso il timore di un’invasione di lavoratori provenienti dagli allora nuovi paesi entranti, identificati dalla figura emblematica dell’idraulico polacco, sfruttata poi ironicamente dall’Ufficio del Turismo polacco. Tale paura era senza dubbio sintomo della scarsa conoscenza della realtà economica e sociale dei nuovi paesi, oltre che di una scarsa lungimiranza.

Tuttavia, i timori hanno preso il sopravvento e hanno immobilizzato il processo di adozione della Costituzione comune.

Leggendo in quel periodo, soprattutto sulla stampa francese, le preoccupazioni verso i nuovi arrivati e scoprendo che la stessa paura interessava quasi tutti i paesi allora membri, non da meno l’Italia, ho cominciato a ricercare quale fosse l’origine della paura per l’“idraulico polacco”, argomento che mi incuriosiva molto visto il coinvolgimento della Polonia.

Il mio interesse per questo Paese risale ormai a 7 anni fa, quando, dopo una serie di viaggi da turista, ho cominciato a interessarmi alla storia e alla cultura di questo popolo, rimanendone profondamente affascinata.

Con l’obiettivo di ricercare e di approfondire le conoscenze sulla situazione attuale della Polonia, da ottobre a dicembre 2006 ho svolto un tirocinio presso l’Istituto Italiano di Cracovia. Il suddetto Istituto aveva partecipato dal 2004 a un progetto portato avanti dai ricercatori della Caritas Migrantes di Roma, pubblicato nel dossier Polonia. Nuovo Paese di frontiera. Da migranti a Comunitari (IDOS 2006) presentato a Roma il 4 luglio e a Cracovia l’8 novembre dello stesso anno.

Questo dossier è stato un punto di riferimento molto importante nel mio lavoro di ricerca e grazie a suggerimenti e consigli di alcuni dei ricercatori autori del libro, quali Antonio Ricci, Karolina Golemo e Szymon Wojtasik, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente a Cracovia, ho deciso quale sarebbe stata la struttura del mio lavoro. I timori per un’eventuale migrazione di massa dalla Polonia verso i Paesi più occidentali dell’Unione Europea sulla scia delle migrazioni che

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avevano caratterizzato la storia di questo Paese, hanno distolto l’attenzione da questioni altrettanto importanti.

La Polonia, da sempre percepita come Paese di migranti, era diventato il 1°

maggio del 2004 non solo membro, ma anche frontiera dell’Unione Europea. I Paesi già membri, preoccupati di poter essere meta d’arrivo dei lavoratori provenienti dalla nuova zona orientale dell’Unione, non si occupavano invece dei migranti non membri che avrebbero raggiunto l’Unione Europea attraverso la Polonia.

Mi sono già interessata a temi relativi alle migrazioni, sia durante il corso di studi che in un altro mio elaborato dal titolo Condizione femminile e immigrazione islamica: la tematica dei matrimoni forzati nel contesto socio giuridico francese.

L’aspetto più affascinante delle migrazioni, a mio parere, consiste nell’incontro-scontro tra culture diverse e in quella tensione tra assimilazione alla nuova cultura d’arrivo e tentativo di preservare e tramandare la propria cultura d’origine che viene vissuta dai migranti.

Questi fenomeni contribuiscono ad un aumento della complessità sociale e partecipano in modo rilevante alla creazione di una società globale.

Rispetto ad altri Paesi europei, come Francia, Germania, Regno Unito, Italia, ecc. la Polonia non può certo definirsi un Paese d’immigrazione, poiché i flussi migratori verso il territorio polacco sono molto recenti e la società polacca può ancora dirsi monoculturale. Tuttavia, questa situazione è destinata a cambiare, poiché dall’entrata nell’Unione Europea è stato registrato un aumento delle richieste di permesso di soggiorno.

Essendo un fenomeno recente per questo Paese ho voluto analizzare la normativa polacca attualmente in vigore sull’immigrazione, considerando dapprima la normativa europea sullo stesso tema, alla quale la Polonia si è dovuta adattare.

Ma chi sono gli immigrati che arrivano in Polonia?

L’immigrazione che noi conosciamo nei Paesi più occidentali dell’Europa è profondamente diversa da quella polacca. In questi stati, infatti, il maggior numero di migranti proviene da Paesi arabi o latini, mentre in Polonia dalla Federazione Russa (Cecenia, Kaliningrad) o dall’Ucraina e dai più lontani Paesi

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orientali, quali Cina e India. La Polonia è anche una via di accesso all’Unione per persone provenienti dall’Iran, Iraq, Afghanistan, Kazakhstan. La stragrande maggioranza dei migranti richiede il riconoscimento dello status di rifugiato o l’asilo.

Questo Paese si trova quindi a dover affrontare una realtà diversa rispetto agli altri Paesi dell’Unione e ha il compito di vigilare sul confine est.

Obiettivo di questo lavoro è di mettere in luce la necessità di allargare lo sguardo alla situazione migratoria e delle frontiere orientali polacche, in quanto oggetto di interesse comune all’intera Unione Europea.

Solo conoscendo chi sono i migranti che entrano dal confine polacco e il lavoro svolto dalla Guardia di Frontiera polacca sul fronte orientale, è possibile concertare le azioni per una sicurezza comune ed accrescere la fiducia reciproca tra i Paesi. Quello che accade in Polonia dal 1° maggio 2004 (così come in tutti gli altri Paesi comunitari) deve essere percepito di interesse comune.

Quanto fin qui detto è stato presentato in questo elaborato.

Il primo capitolo si propone di dare una spiegazione ai timori circa l’“idraulico polacco”, cui si accennava in precedenza, ripercorrendo la storia politica e migratoria di questo Paese e la sua attuale posizione nell’Unione Europea.

Nel secondo capitolo, dopo una spiegazione sugli accordi di Schengen, è stata analizzata, da un punto di vista giuridico, la normativa comunitaria sull’immigrazione, parte del cosiddetto “acquis communautaire”, piattaforma comune a tutti i Paesi membri, ponendo particolare attenzione alle frontiere esterne.

Nel terzo e ultimo capitolo segue un’analisi giuridica e sociologica della politica d’immigrazione in Polonia, della situazione di vigilanza alle frontiere orientali, degli accordi bilaterali che legano la Polonia ai vicini Stati confinanti non membri dell’Unione, delle iniziative proposte dall’Unione Europea per realizzare dei progetti in comune sulle frontiere, proponendo l’integrazione e il dialogo con i Paesi confinanti. I documenti a disposizione circa la situazione attuale alle frontiere orientali della Polonia sono stati difficili da reperire. La maggior parte delle notizie a proposito sono state rinvenute in articoli della stampa polacca o su qualche sito polacco specializzato, ma quasi nulla a livello

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internazionale ed europeo. Ciò evidenzia quanta poca attenzione sia stata destinata a questo specifico argomento sul fronte orientale.

Prima di concludere, ritengo necessari dei ringraziamenti.

Innanzitutto vorrei ringraziare il docente relatore, prof. Fabio Marazzi, e il docente correlatore, prof. Remo Morzenti-Pellegrini per la fiducia e il sostegno accordati sin dall’inizio al mio progetto.

Un ringraziamento particolare va all’addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, dott. Giovanni Sciola, che mi ha permesso di svolgere un tirocinio presso l’ente e che mi ha aiutata, creando preziose occasioni, a reperire le informazioni necessarie alla realizzazione di questo mio lavoro. Un grazie affettuoso anche alla dott.ssa Barbara Nowak, per i preziosi suggerimenti e informazioni circa la storia della Polonia.

Ringrazio i ricercatori della Caritas Migrantes per la realizzazione dello straordinario dossier “Polonia. Nuovo Paese di frontiera. Da migranti a Comunitari”, che si è rivelato essere molto utile ai fini della mia ricerca.

Ringrazio inoltre Karolina Golemo, Szymon Wojtasik, Tomasz Wójcikiewicz, Agnieszka Weinar per i consigli e per l’aiuto nell’attività di ricerca, soprattutto con i materiali in lingua polacca.

Un grazie di cuore, infine, alla mia famiglia per avermi permesso di compiere questo percorso di studi e per il costante sostegno.

Dedico questo lavoro a mio nonno, Luigi Caliendo, come simbolo della realizzazione di un sogno comune.

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CAPITOLO I

1. L’idraulico polacco

Nel luglio 2005 l’Ufficio del Turismo polacco ha presentato una campagna pubblicitaria destinata ad attirare gli stranieri in Polonia. Tale campagna pubblicitaria, ideata da Andzrej Kozlowski e Krzysztof Turowski, ritrae un bel giovane polacco, vestito da idraulico che dichiara sorridente: “Io resto in Polonia, venite numerosi”, mentre sullo sfondo si intravedono alcuni monumenti e paesaggi della Polonia. Con questa trovata pubblicitaria l’Ufficio del Turismo polacco ha deciso di sfruttare ironicamente la polemica sui lavoratori provenienti dai Paesi dell’Europa Centro Orientale, rappresentati dall’ormai famoso “idraulico polacco”, divenuto emblema della campagna referendaria per il “no” a ratificare il Trattato Costituzionale Europeo.

In Francia, l’idraulico polacco (che i francesi chiamano “le plombier polonnais”) ha fatto irruzione nel dibattito sul Trattato Costituzionale Europeo in un dossier dell’ultimo numero di dicembre 2004 del settimanale diretto da Philippe Val, “ Charlie Hebdo”, dedicato alla direttiva Bolkestein1. In particolare,

1N. d. r.: È conosciuta come direttiva Bolkestein la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'Unione Europea relativa ai servizi nel mercato interno, presentata dalla Commissione Europea nel febbraio 2004. La proposta di direttiva è basata sugli articoli 47.2 e 55 del Trattato della Comunità Europea. La procedura legislativa di riferimento è la codecisione. Frits

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l’espressione “idraulico polacco” ha suscitato varie polemiche durante la primavera 2005, quando Philippe de Villier2 l’ha utilizzata nella dichiarazione che segue: “Questo argomento è molto importante, poiché la direttiva Bolkestein permette a un idraulico polacco o a un architetto estone di offrire il suo operato in Francia mantenendo il salario e le regole di previdenza sociale del suo paese d’origine. Su 11 milioni di persone impiegate in questo settore, un milione è minacciato da questa direttiva. Si tratta di uno smantellamento economico e sociale.” La stessa espressione è stata poi ripresa da Frits Bolkestein3 sul giornale

“Libération” ed è diventata rapidamente il simbolo delle polemiche sul referendum per il Trattato di una Costituzione Europea. In Francia la responsabilità di un uso distorto di questa espressione è rimbalzata tra i partigiani del “no” e quelli del”si”, i quali si sono accusati reciprocamente da una parte di aver sfruttato la metafora dell’idraulico polacco per imputare ai sostenitori del

“no” sentimenti xenofobi e dall’altra di avere inventato una caricatura destinata a screditare coloro stessi che l’avevano ideata. Il 29 maggio 2005, il 54,87% dei francesi ha votato “no” al referendum per la ratifica del Trattato costituzionale europeo, e dopo 3 giorni, il 61,6% dei voti della popolazione olandese ha confermato la scelta della Francia.

2. La moratoria sui lavori dei PECO

Le paure relative alla concorrenza in ambito lavorativo dei nuovi membri dell’Unione Europea non riguarda solo Francia e Olanda.

sostenuto questa direttiva, che per semplicità viene indicata con il suo nome. Il processo di approvazione della direttiva è stato interrotto in seguito alle forti polemiche che sono nate intorno ad essa; in particolare, la direttiva è stata indicata con la prova di una deriva liberista che, secondo la sinistra radicale, i verdi ed alcune formazioni sociali, starebbe investendo l’Unione Europea.

L’accesa discussione sulla direttiva ha avuto anche riflessi in altri campi: è stata individuata come una delle cause della disaffezione dei cittadini europei verso le istituzioni, ed è stata considerata una delle ragioni del fallimento del referendum francese sulla Costituzione europea.

2 N. d. r.: Philippe de Villiers è un uomo politico francese. Nasce nel 1949 a Boulogne, Francia.

Nel 1985 aderisce al partito repubblicano e nel 1994 fonda il Mouvement pour la France, un partito politico di destra. Candidato più volte alle elezioni presidenziali senza mai ottenere successo. Nel 2005 è stato uno dei più convinti sostenitori del “no” al referendum per la ratifica del Trattato per una Costituzione Europea.

3 N. d. r.: Frits Bolkestein, membro della Commissione Europea, con portafoglio relativo al Mercato Interno, Fiscalità e Unione Doganale.

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Il 18 gennaio del 2000, in occasione di un discorso tenuto a Wieden, una città di frontiera a circa 30 km dalla Repubblica Ceca, l’allora Cancelliere tedesco Gerhard Schröder, per tranquillizzare la popolazione tedesca preoccupata dal fatto che l’inclusione nell’U.E. dei Paesi dell’Europa Centro Orientale avrebbe causato un’invasione di lavoratori di quelle zone, annunciò che la Germania avrebbe chiesto alla Commissione Europea periodi transitori in materia di libertà di circolazione dei lavoratori. L’Austria si manifestò subito alleata della Germania in questa richiesta. Ben presto la quasi totalità dei paesi membri manifestò varie preoccupazioni circa l’allargamento ai Paesi dell’Europa Centro Orientale. In una relazione presentata nel 2002 alla Commissione Europea, allora presieduta da Romano Prodi, Wim Kok4 aveva condotto un’indagine su quali fossero le preoccupazioni e le aspettative dei cittadini dei 15 Stati membri. A tale proposito Wim Kok ha scritto5: « Fra le apprensioni che l’ampliamento desta fra i cittadini dell’U.E. figura al primo posto la sicurezza personale, cioè il rischio che aumentino la criminalità e l’immigrazione. Si temono altresì una riduzione del livello di protezione dei consumatori, specie per quanto riguarda le norme alimentari, e un aggravarsi dei problemi ambientali, tra cui i rischi potenziali connessi alle centrali dei futuri membri. Questa diffidenza è dovuta in parte alla scarsa conoscenza della situazione effettiva dei paesi interessati e in parte alla consapevolezza del notevole divario socioeconomico creatosi con i paesi dell’Europa centrale e orientale a mano a mano che venivano introdotte ad occidente norme sempre più rigorose.

A causa del divario economico e sociale, inoltre, gli Stati membri attuali temono che il livello salariale e previdenziale più basso dei nuovo Stati membri provochi un trasferimento degli investimenti e dell’occupazione, come è già successo in alcuni casi, e che la libera circolazione dei lavoratori nel mercato ampliato comporti un afflusso di lavoratori migranti. Naturalmente, queste

4N. d. r.: Wim Kok è nato a Bergambacht nel 1938. Prima di entrare in politica, è stato un esponente attivo del movimento sindacale come presidente della Federazione dei sindacati dei Paesi Bassi e della Federazione dei sindacati europei. Ha ricoperto la carica di parlamentare e di leader del partito laburista (PvdA) nei Paesi Bassi ed è stato vicepresidente dell’Internazionale socialista. Dal 1989 al 1994 è stato ministro delle finanze e vice primo ministro, mentre dal 1994 al 2002 ha guidato il governo dei Paesi Bassi.

5 W. Kok, L’ampliamento dell’Unione Europea. Risultati e sfide, relazione alla Commissione

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preoccupazioni specifiche relative all’ampliamento rientrano nell’apprensione generalizzata che desta nelle fasce più vulnerabili della società il processo di adeguamento mondiale connesso alla globalizzazione.

Gli interrogativi cambiano a seconda dei Paesi. Gli abitanti della Germania e dell’Austria, che confinano con i futuri membri, paventano l’impatto economico e sociale diretto dell’abolizione delle frontiere, mentre nei membri più lontani dal punto di vista geografico, i timori sono di natura più generica.

Dai sondaggi effettuati si evince che nel complesso la pubblica opinione dei 15 Stati membri è favorevole all’ampliamento. Nell’ultima inchiesta dell’Eurobarometro (pubblicata nel novembre 2002), il 66% degli interrogati dell’UE-15 si è detto favorevole all’ampliamento dell’UE, contro il 22% di contrari; gli altri non hanno risposto (9%) o hanno dichiarato che dipendeva dai Paesi (3%)».

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Questa serie di preoccupazioni hanno fatto sì che la libertà di movimento delle persone, specialmente dei lavoratori fosse una delle aree ove l’UE negoziasse misure provvisorie che facessero eccezione al principio dello acquis comunitario.

Tale eccezionalità è stata giustificata dal timore per due potenziali conseguenze negative che l’allargamento avrebbe potuto determinare, ovvero una migrazione in larga scala verso i Paesi occidentali già membri e un flusso importante di lavoratori dai Paesi dell’Europa Centro Orientale, tale da causare serie difficoltà al mondo del lavoro nei Paesi già membri.

Tuttavia, si è ritenuto opportuno chiarire che i cittadini dei Paesi dell’Europa Centro Orientale che possono fare affidamento sull’art. 43 del Trattato grazie alla loro partecipazione attiva alla vita economica del paese ospite hanno diritto ad un trattamento d’uguaglianza per quanto concerne i vantaggi sociali ed il loro diritto di residenza non va messo in discussione dalla circostanza che siano o possano in qualche modo dipendere finanziariamente dall’assistenza offerta dal Paese ospite.

Gli accordi provvisori (ai fini di allargamento) prevedevano che la libertà di stabilimento e la libertà di movimento dei servizi fossero complete al tempo dell’adesione; inoltre, prevedevano che le direttive in materia di libertà di movimento dei lavoratori avessero piena efficacia con l’ingresso.

Gli accordi provvisori quindi creavano diritti di libertà di movimento e di residenze a beneficio degli individui che fossero stati in grado di poter soddisfare il doppio requisito di possedere risorse economiche sufficienti ed avere un’assicurazione medica globale.

In tutti i casi avrebbe trovato piena applicazione il regime trans-frontiera per il coordinamento della sicurezza sociale.

In questo contesto l’accordo raggiunto tra l’UE ed i Paesi candidati sembra aver ristretto le opportunità di migrazione solo a coloro che non fossero qualificabili o come economicamente attivi o finanziariamente indipendenti.

La Corte di Giustizia ha sempre più enfatizzato la libertà di movimento quale diritto individuale non limitandola solo al mero beneficio economico del Mercato Unico, ma quale libertà inerente nel più ampio processo di integrazione europea.

In particolare è stata evidenziata la localizzazione di questi diritti legati alla libera circolazione entro un quadro più ampio di solidarietà sociale che definisce anche

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la responsabilità del cittadino dell’Unione nei confronti dello Stato Membro nel quale ritenga di voler prendere residenza.

L’UE non può garantire pieni diritti di residenza a tutti i propri cittadini semplicemente perché non può far fronte al conseguente costo sociale per quei cittadini, il cui collegamento con il Paese ospitante non sia in grado di giustificare i relativi costi sociali.

“I cittadini dei Paesi dell’Europa Centro Orientale non devono costituire un onere irragionevole per le finanze del Paese ospitante”; il requisito dell’assicurazione medica e di risorse economiche sufficienti è il punto di partenza per declinare concretamente tale concetto, anche se esso è comunque soggetto al principio di proporzionalità al fine di assicurare che gli Stati membri non eccedano oltre quanto sia necessario per proteggere i propri legittimi interessi.

I cittadini dei Paesi dell’Europa Centro Orientale con mezzi (quasi) indipendenti avranno così diritto ad un trattamento di eguaglianza nel Paese ospitante, in base all’art. 12 CE, compreso il diritto a non essere discriminati nell’accesso, in generale, a vantaggi sociali.

La Corte di Giustizia sembra aver adottato la posizione per cui l’art. 18 CE conferisce diritti alla residenza solo a persone che siano, in senso lato, o economicamente attive o finanziariamente indipendenti e perciò esclude quelle categorie residue di cittadini dell’Unione che in qualche misura dipendono dalle risorse pubbliche del Paese Membro (esempio disabili, poveri, o anziani).

Il secondo timore era che la libertà di movimento dei lavoratori potesse portare i cittadini dei Paesi dell’Europa Centro Orientale a creare difficoltà al mercato del lavoro degli Stati membri. Con riguardo a tale timore, gli economisti neoliberali sottolineavano i benefici dell’avere differenze di reddito tra differenti componenti del Mercato Unico e del permettere che le forze di mercato interagissero, al fine di ottenere il migliore equilibrio tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro.

Dall’altra parte, sembrava che i politici ne temessero gli effetti socio-politici; ad esempio era diffuso il timore popolare che un flusso massiccio di lavoratori dai Paesi dell’Europa Centro Orientale potesse abbassare il livello medio delle retribuzioni, ovvero che potesse mettere a rischio la solidarietà sociale.

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Il Trattato di adesione prevedeva per gli otto Paesi dell’Europa Centro Orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Slovenia) un regime transitorio.

A partire dal momento dell’ingresso, vi era un periodo di base di 5 anni, durante il quale ogni Stato membro poteva continuare ad applicare le proprie norme nazionali relative all’accesso al mercato del lavoro, il che poteva voler dire non offrire alcuna possibilità di accesso ai Paesi dell’Europa Centro Orientale.

In ogni caso i cittadini dei Paesi dell’Europa Centro Orientale ammessi al mercato del lavoro di uno Stato membro per un periodo ininterrotto di almeno dodici mesi, avevano pieno diritto di accesso al mercato del lavoro di quel Paese membro.

Le dichiarazioni allegate all’Atto Finale esortavano i Paesi membri a liberare il mercato del lavoro, ma soprattutto inizialmente, sono rimaste inascoltate; tredici dei quindici Paesi (fatta eccezione per Regno Unito, Irlanda e Svezia) hanno voluto imporre limiti alla libertà di movimento dei lavoratori provenienti dai Paesi dell’Europa Centro Orientale.

Al trascorrere del quinquennio, dunque nel 2009, la libertà di movimento dei lavoratori sarà totale, ma con due eccezioni:

1. quei Paesi Membri che stiano ancora applicando le proprie norme sull’immigrazione, potranno continuare a farlo per un periodo ulteriore di due anni, se vi siano disturbi seri (o pericolo reali) sul mercato del lavoro domestico, previa comunicazione alla Commissione.

2. qualsiasi Stato Membro che applichi l’acquis comunitario sulla libera circolazione dei lavoratori, può invocare una clausola di salvaguardia, sino alla fine del 7° anno di adesione, per far fronte a situazioni eccezionali che mettano in pericolo lo standard di vita o il tasso di impiego in una certa regione.

Altre norme prevedono che dopo l’adesione, uno Stato Membro non possa adottare norme più restrittive di quelle in vigore al tempo dell’adesione. Inoltre i lavoratori dei Paesi dell’Europa Centro Orientale devono avere un trattamento preferenziale rispetto ai lavoratori di Paesi Terzi e devono avere garanzie non meno favorevoli di quelle dei lavoratori dei Paesi Terzi, legittimamente assunti nel territorio domestico. Infine deve esservi garanzia di non discriminazione in

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base alla nazionalità (eguale trattamento non solo per ciò che concerne termini e condizioni di impiego, ma anche per i benefici sociali fiscali). Inoltre gli stessi diritti al lavoro spettano alla famiglia del cittadino PECO che già legittimamente risieda in uno Stato Membro.

Da ultimo, trova applicazione il principio di reciprocità: se un Paese Membro adotta misure restrittive contro lavoratori dei Paesi dell’Europa Centro Orientale, il Paese di questi ultimi può adottare misure equivalenti.

3. La situazione al 1° maggio 2006

Dopo tre anni dall’applicazione delle restrizioni in ambito di libertà di movimento per i nuovi otto membri dell’UE, il 1 maggio 2006 i Paesi che hanno posto tali restrizioni hanno fatto il punto della situazione e UK, Irlanda e Svezia hanno confermato la loro intenzione di lasciare aperta le frontiere ai lavoratori, decisione abbracciata da altri quattro membri: Finlandia, Grecia, Spagna e Portogallo.

Gli altri Paesi hanno preso decisione diverse6:

Danimarca: dal 2004 la Danimarca ha permesso ai lavoratori degli otto Paesi dell’Europa Centro Orientale di cercare un lavoro semestrale. Qualora ne avessero trovato uno, avrebbero potuto ottenere la residenza e il permesso di lavorare Tale sistema sarà mantenuto tra il 2006 e il 2009. Tuttavia il parlamento ha preso la decisione di rendere progressivamente il mercato del lavoro più flessibile.

Belgio: per il momento il Belgio non ha intenzione di abolire le restrizioni, ma renderà più facile l’accesso ad alcune aree del mercato del lavoro. Ad esempio la regione di Bruxelles ha richiesto trattamenti privilegiati per infermiere, idraulici, elettricisti, meccanici, architetti, muratori, contabili, etc.

Francia: la Francia ha intenzione di ridurre parzialmente le restrizioni concedendo permessi di lavoro rapidamente in certi settori particolari in cui il reclutamento di personale è problematico, vale a dire nell’ambito dei servizi di ristorazione, nel settore industriale, edile, sanitario e pubblico.

6 Dati ricavati da un articolo della BBC news, Tuesday, May 2nd 2006

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Lussemburgo: il Lussemburgo manterrà le restrizioni ma rilascerà più facilmente permessi di lavoro in particolari settori del mercato dl lavoro.

Paesi Bassi: il governo olandese aveva dichiarato che avrebbe abolito ogni restrizione a partire dal 1 gennaio 2007, ma è stato costretto dal parlamento a indietreggiare. La questione sarà rivista alla fine del 2006. I Paesi Bassi avevano già consentito a facilitazioni di rilascio di permesso di lavoro in determinati settori del mercato.

Le restrizioni sono invece state completamente rinnovate da Germania e Austria almeno fino al 2009. Entrambi i Paesi giustificano tale chiusura evidenziando i gravi problemi occupazionali che interessano i due Paesi e per il fatto di essere geograficamente confinanti ai nuovi arrivati.

Tuttavia, durante questi anni la Germania ha concesso 500,000 permessi di lavoro ai lavoratori provenienti dai Paesi dell’Europa Centro Orientale. A tal proposito il Commissario europeo dell’Occupazione, degli Affari Sociali e delle Pari Opportunità, Vladimir Spidla, ha commentato: “In pratica la Germania ha concesso permessi di lavoro a tanti lavoratori quanto hanno fatto tutti gli altri Paesi.”

L’Italia al 1° maggio 2006 aveva dichiarato che avrebbe mantenuto le precedenti restrizioni e si sarebbe limitata ad aumentare la quota dei lavoratori che avrebbero potuto ottenere il permesso di lavoro a 170,000. Il 21 luglio 20067, però, il governo Prodi ha rinunciato alla moratoria e l’Italia è l'unico paese confinante con la “nuova” Europa ad avere abbattuto le barriere alla libera circolazione, portando così ad 8 su 15, ovvero la maggioranza, i Paesi che hanno aperto completamente i confini ai nuovi Paesi membri. L’Italia ha scelto dunque una strada diversa rispetto all’Austria e soprattutto alla Germania, spaventata dal gigante polacco, che con i suoi 38 milioni di abitanti pesa da solo quanto gli altri 9 nuovi membri messi assieme.

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4. Le origini della paura per l’idraulico polacco

Ma da dove nasce la paura per l’immigrazione di lavoratori, in particolare, lavoratori provenienti dalla Polonia, il paese più popolato tra gli otto facenti parte dei Paesi dell’Europa Centro Orientale?

La Polonia è normalmente percepita come terra di emigranti. Per comprendere come si sia formata una tale opinione e per capire la storia delle migrazioni dei polacchi, non si può prescindere dalla storia politica del Paese e più in generale dalla storia della Polonia. Per tale ragione proporremo nei prossimi paragrafi un breve riassunto della storia di questo Paese che ci permetterà, in seguito, di contestualizzare la storia delle migrazioni del popolo polacco.

4.1 Storia della Polonia

Alcune tribù polacche tra il IX e X secolo estesero il proprio dominio a tutto il territorio della Vistola, una pianura estesa e fertile. Intorno al 966 d.C. queste tribù si convertirono al Cristianesimo e nel 1024 costituirono il Regno di Polonia.

Le numerose invasioni mongole determinarono un lungo periodo di decadenza, ma grazie a Casimiro III il Grande la monarchia tornò ad un nuovo splendore.

Alla morte di Casimiro il Grande la dinastia passò agli Jagelloni, granduchi di Lituania, che estesero il proprio dominio alla Pomerania e alla Prussia occidentale. A partire dalla fine del Quattrocento il potere centrale prese ad indebolirsi a causa dell’emergere della piccola nobiltà e la costituzione della Dieta (Sejm) che limitava progressivamente il potere del sovrano. La dinastia degli Jagelloni si estinse definitivamente nel 1572 e la Polonia divenne monarchia elettiva. A quel punto il Paese non fu più in grado di resistere agli assalti delle potenze vicine, ovvero Russia, Prussia e Austria, che in tre riprese si divisero il territorio, malgrado l’eroica resistenza organizzata dal generale Kościuszko.

La prima spartizione avvenne nel 1772 e assegnò la Galizia all’Austria, la Prussia polacca alla Prussia e la regione a Est del Danubio e del Dniepr alla Russia.

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La seconda spartizione avvenne nel 1793 e assegnò alla Russia parte della Lituania, della Volinia e della Podolia. Alla Prussia andarono invece Danzica, Toruń e Poznań.

La terza spartizione avvenne 1795 e vide la Russia impossessarsi della parte residua della Lituania e della Volinia, l’Austria di Cracovia e Lublino mentre alla Prussia furono assegnati il territorio di Niemen e Varsavia.

Dopo la breve parentesi napoleonica, caratterizzata dalla costituzione del granducato di Varsavia tra il 1806 e il 1815, la Polonia rimase soggetta alle tre potenze partitrici, nonostante rivolte e ribellioni come quelle del 1830-31 e del 1863-64 contro la Russia e

del 1848 contro la Prussia. La Polonia rimarrà così divisa fino alla prima guerra mondiale. Questi brevi cenni storici ci aiutano a comprendere i forti sentimenti antirussi e antitedeschi che hanno attraversato per oltre due secoli la società polacca. E’ proprio in questi anni, inoltre, che si consolida il concetto della Polonia come “bastione del Cattolicesimo” in un’area egemonizzata dagli slavi ortodossi o dai protestanti. Infatti, l’identificazione con il cattolicesimo viene assunta come elemento fondante dell’identità nazionale e ne consentirà il mantenimento, nonostante i ripetuti e drammatici tentativi di snazionalizzazione messi in opera dalle potenza partitrici prima della ricomposizione dello Stato polacco ad opera del maresciallo Piłuduski.

Il maresciallo Piłuduski partendo dalla Galizia dove le autorità austriache tolleravano il movimento socialista polacco, lavorò per tutto il decennio antecedente allo scoppio della prima guerra mondiale per organizzare, in modo più o meno clandestino associazioni paramilitari e soprattutto un comitato di coordinamento tra le organizzazioni del Partito Socialista e i conservatori di

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Democrazia Nazionale. La costituzione di un comando unico costituì un risultato non secondario in una Polonia territorialmente divisa in tre parti.

Il 6 agosto 1914 Piłuduski attaccò la Russia e aprì uno dei periodi più confusi della politica polacca. Nel frattempo il Comitato Nazionale polacco fu riconosciuto da tutti e tre i governi dell’Intesa. Il 3 marzo del 1918 la Russia, ormai bolscevica, cedette tutti i suoi territori polacchi agli Imperi centrali, destinati a crollare prima della fine dell’anno. L’11 novembre 1918 la Polonia venne proclamata Repubblica e fu riconosciuta internazionalmente il 30 marzo 1919.

Il trattato di Versailles del 23 giugno 1919 ridisegnò l’Europa e riconobbe in pieno il governo di Varsavia, ma contestualmente cominciarono una serie di contrasti relativi ai confini, che portarono a condizioni di aperto conflitto con l’Unione Sovietica e di forte tensione con la Germania. Nel dopoguerra i polacchi occuparono Vilnius, capitale della Lituania, e altre zone della Bielorussia e dell’Ucraina che le vennero riconosciute dal trattato di pace di Riga nell’ottobre del 1920. Attraverso un arbitrato internazionale, dopo sanguinosi scontri e l’intervento della Società delle Nazioni venne assegnata l’Alta Slesia sudorientale alla Polonia e la parte nordorientale alla Germania. La città libera di Danzica, legata alla Polonia da un corridoio garantito dalla Società delle Nazioni, permetteva alla Polonia l’accesso al mare e divideva di fatto la Germania.

Durante gli anni Venti e Trenta tutti i governi europei cercarono di consolidare quanto già era stato stabilito dalla Società delle Nazioni attraverso intense e laboriose trattative. Il quadro europeo si presentava tuttavia instabile e la terribile crisi economica e finanziaria del 1929 finì per sconvolgere i fragili equilibri sociali e quelli internazionali. nel caso della Polonia, inoltre, i problemi territoriali irrisolti saranno destinati a diventare il punto di partenza della seconda guerra mondiale. Nel maggio del 1935 morì Piłuduski e la sua scomparsa determinò una forte crisi politica interna.

Da questo momento comincerà per la Polonia uno dei periodi storici in assoluto più difficili, in quanto ancora una volta questo Paese si ritrovò diviso tra due potenze, quella tedesca e quella russa, che avanzarono contemporaneamente le proprie pretese sul Paese.

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Il 23 agosto 1939 venne firmato il patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica, anche noto come

Molotov-Ribbentrop, con il quale i nazisti acquisirono ampia possibilità di muoversi militarmente. Una clausola segreta attribuì alla Russia la parte orientale della Polonia e libertà di movimento verso la Bucovina, la Dobrugia, l’Estonia, la Lituania e la Finlandia. La Germania invase la Polonia da ovest il 1º settembre 1939 e la Russia aspettò circa due settimane, poi entrò nel Paese il 17 settembre, con la formale scusa di difendere le

minoranze di confine. Il governo russo infatti non formulò mai una formale dichiarazione di guerra nei confronti della Polonia. “L’espressione contenuta nella nota sovietica al governo polacco - scrive Zaslavsky8 - secondo la quale le truppe avevano attraversato il confine per offrire una mano fraterna al popolo polacco, rimase nella lingua russa come un’ironica epitome della politica staliniana nei confronti dell’Europa orientale”. Gli eserciti delle due potenze si fermarono nel punto concordato e si spartirono il paese aggredito. Dopo solo vent’anni dalla sua ricostruzione, lo Stato polacco venne di nuovo cancellato dalle carte geografiche.

“La Polonia, - dichiarò in quei giorni Molotov davanti ai membri del Soviet supremo - questo bastardo nato dal trattato di Versailles, ha cessato di esistere!”.

Il prezzo che la Polonia, divisa e occupata, dovette pagare in termini di distruzioni fisiche e morali fu altissimo, basti ricordare la distruzione di Varsavia alla quale i polacchi cercarono di opporsi in ogni modo con le eroiche cariche di cavalleria contro i moderni carri armati o, ancora, la costruzione di campi di sterminio

8N. d. r: Nato a San Pietroburgo il 26/09/1937. Laurea in Storia presso l’Università di San Pietroburgo. Professore Ordinario di Sociologia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli. Ha insegnato anche all'Università di Leningrado, all'Università di California, Berkeley, alla Stanford University, alla Memorial University, Canada, alle Università di Venezia, Firenze, Napoli e Bergamo.

Autore de “Pulizia di classe. Il massacro di Katyn ”, ed. Il Mulino, 2006.

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tristemente noti quali quelli di Auschwitz, Birkenau, Majdanek e di molti altri meno noti. Accanto alla ferocia nazista di quegli anni, che oggi noi tutti conosciamo, in Polonia si aggiunse quella sovietica, che si è spesso cercato di occultare o di non consegnare al giudizio della storia. E’ il caso ad esempio del massacro di Katyn, sul quale, in questo breve excursus storico, ci soffermeremo al fine di dare al lettore ulteriori elementi per comprendere la tragicità della

situazione in Polonia durante questi anni.

9Con il patto Molotov- Ribbentrop più della metà del territorio polacco finì sotto il dominio sovietico e con essa 250.000 soldati e ufficiali dell’esercito polacco, come scrive Zaslavsky “prigionieri di una guerra non dichiarata”.

Le condizioni di questi prigionieri era pessima, e gli stessi vertici militari russi dislocati in Polonia chiedevano informazioni a Mosca su come organizzare la prigionia dal momento che mancava addirittura il cibo per sfamarli. A Mosca si organizzò una commissione speciale per gestire il caso e la prima decisione della commissione fu quella di liberare i prigionieri ucraini e bielorussi, e di trattenerne 25.000 per la costruzione della strada Novgorod-Volynski-Leopoli. Gli ufficiali polacchi vennero così smistati nei campi presso Kozelsk, Starobelsk, Ostaskov.

Nel frattempo la collaborazione con i nazisti era efficientissima. Nell’autunno del 1939 i due regimi alleati si scambiarono molti prigionieri: 43.000 e 14.000 soldati polacchi furono i rispettivi scambi che nazisti e sovietici effettuarono vicendevolmente. Gli ufficiali polacchi prigionieri furono sottoposti, oltre che a

9Riferimenti a Il massacro di Katyn, di Ferruccio Gattuso http://cronologia.leonardo.it/mondo24m.htm

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un controllo e a uno spionaggio assiduo, anche ad un’opera di rieducazione politica attraverso una propaganda martellante, colloqui, proiezioni di film esaltanti la Rivoluzione: fu tentato di tutto per arruolare nuove spie e cercare di ammaestrare quegli uomini definiti socialmente alieni, in quanto provenivano dalla migliore borghesia polacca. Nella primavera del 1940, nella foresta di Katyn, in Polonia, ne vennero giustiziati più di 22.000. Legati con speciali nodi che bloccavano i polsi e la gola, vennero tutti freddati con un colpo alla nuca e gettati in diverse fosse comuni. Si trattava di un’intera generazione di ufficiali appartenenti alla borghesia e all’intellighenzia polacca, la maggior parte della dirigenza militare del Paese. Questa operazione “scientifica”, realizzata da abilissimi professionisti dell’esecuzione, è rimasta ignota all'opinione pubblica per tre anni. L’eccidio fu reso noto al mondo nella primavera del 1943 dalla radio tedesca. Quando la notizia del massacro di Katyn venne diffusa dalla radio tedesca, furono in molti a dubitarne. I nazisti, nel 1943, erano in chiara difficoltà su molti fronti. Gli occidentali sospettavano che questa fosse una prevedibile mossa per cercare di indebolire il fronte nemico. I nazisti, comunque, organizzarono una commissione investigativa, formata da medici provenienti da diversi Paesi e suggerì inoltre alla Croce Rossa internazionale di inviare propri membri a controllare le vittime dell'eccidio. La commissione creata dai tedeschi imputò ai sovietici la responsabilità del massacro: le vittime - spiegava la risoluzione finale - erano state uccise nella primavera del 1940, quando ancora i russi occupavano la zona, prima dell'avanzata tedesca verso la Russia nell’Operazione Barbarossa. Tuttavia sulla questione di chi fosse la responsabilità dell’eccidio di Katyn si è continuato ad indagare durante i successivi 50 anni, in quanto la Russia si ostinava ad attribuire la responsabilità ai nazisti. Solo nel maggio del 1988, grazie anche a documenti ritrovati in U.R.S.S. tra gli archivi segreti, in una cerimonia a Katyn, ufficiali sovietici e polacchi assistettero al formale riconoscimento sovietico della responsabilità dell’eccidio.

La Polonia uscì dalla seconda guerra mondiale con pesantissime perdite umane (proporzionalmente le più alte nel mondo, circa sei milioni di persone, ovvero un quinto della popolazione) ed economiche (tutte le principali città, eccetto Cracovia, furono rase al suolo). Il territorio fu ridotto per le cessioni a favore

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dell’URSS (181 mila kmq), non compensate dagli acquisti a danno della Germania (101 mila kmq). Le province acquisite, però, aumentarono notevolmente le risorse minerarie e ed elettriche della Polonia.

Dopo il 1945

Dopo il 1945 sui Paesi dell’Europa Centro Orientale gravava la presenza determinante dell’Unione Sovietica la cui politica di sicurezza nei confronti del blocco occidentale comporta la formazione delle cosiddette democrazie popolari proprio in quelle fasce di Paesi deputati a costituire l’area geografica di interposizione con la Germania.

In tale zona, il Partito Comunista si impose quasi dovunque nonostante non godesse dello stesso prestigio o dello stesso potere assoluto in tutti i Paesi. In Polonia, ad esempio, durante il primo biennio post-bellico fu ancora importante la presenza del partito Contadino che subì un decisivo tracollo solo nel 1947 determinato dalle pesanti e continue intimidazioni.

Con la nuova costituzione si inaugurò nel 1952 la repubblica popolare polacca, che di fatto risultò essere una finta democrazia dietro la quale si nascondeva la dittatura del Partito Comunista sul popolo. Il segretario del Partito, nonché presidente della repubblica popolare e dal 1952 capo del governo, Bolesław Bierut, si propose come lo “Stalin polacco”. Tuttavia, durante l’epoca delle purghe staliniane10 la Polonia non conobbe i “processi-farsa”, forse per la capacità dei suoi dirigenti di mantenere un margine limitato di autonomia rispetto alle

10http://digilander.libero.it/falcemar/Storia/urrs.htm Purghe staliniane: nel 1934, con il pretesto dell'assassinio per mano di presunti trotzkisti di Sergej Kirov, suo vecchio alleato e segretario del Comitato centrale, Stalin, per rafforzare ulteriormente la propria egemonia, diede avvio a una nuova stagione di epurazioni interne al partito. Chiunque fosse sospettato di essere oppositore del regime veniva imprigionato e quindi deportato in Siberia o direttamente eliminato. Le "purghe"

staliniane andarono a colpire soprattutto i membri del Comitato centrale del Partito comunista, tra cui importanti dirigenti come Zinov'ev e Nikolaj Bucharin, e gli ufficiali dell'Armata Rossa.

L'operazione di sistematico sterminio a fini politici provocò la generale condanna della comunità internazionale nei confronti dell'URSS e indebolì la nazione alla vigilia della seconda guerra mondiale. Terribili strumenti di questa politica repressiva furono i gulag, nati all'epoca della rivoluzione bolscevica come campi di lavori forzati in cui venivano reclusi detenuti comuni e controrivoluzionari. Con le purghe staliniane, nel corso degli anni Trenta, vi furono internate circa dieci milioni di persone, in parte utilizzate come manodopera per realizzare le grandi opere di modernizzazione del paese.

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pressioni di Mosca. E’ anche per questo che nel caso della Polonia molti studiosi preferiscono parlare non tanto dell’istituzione di un regime totalitario, ma di autoritarismo comunista molto vicino allo stato di polizia.11

Nel 1950 fu stipulato un accordo tra Episcopato e Stato polacco, ma nonostante questo i rapporti del regime con la Chiesa Cattolica nazionale e con la Santa Sede si fecero tesi fino ad arrivare all’espulsione di amministratori apostolici, alla confisca di beni ecclesiastici e all’arresto di numerosi religiosi. La società civile dimostrò una estrema resistenza alla penetrazione ideologica e alle strategie di mobilitazione di massa. Una conferma di ciò proviene proprio dal ruolo rivestito dalla Chiesa che in assenza di un’organizzazione statuale, si fece depositaria della cultura e delle istituzioni della nazione polacca.

La morte di Stalin nel 1953 non pose fine immediatamente all’esperienza iniziata negli anni Quaranta, tuttavia sembrò avviare una parziale liberalizzazione sia nell’Unione Sovietica che nei Paesi satelliti. Durante il periodo della

“destalinizzazione” il controllo sovietico sui Paesi satellite venne seriamente minacciato da una serie di rivolte scoppiate nel 1956 in Polonia e in Ungheria. Il malcontento popolare polacco sfociò nelle sommosse operaie di Poznań, che innescarono a loro volta numerose dimostrazioni. Minacciando dapprima un intervento militare, Mosca riuscì a risolvere la crisi imponendo un cambiamento forzato nel governo, e offrendo alla Polonia la cancellazione di parte dei debiti e la concessione di ulteriori crediti. Durante lo stesso anno, Gomułka succedette a Bierut, recentemente scomparso, e trasformò la Repubblica Popolare Polacca da Stato fantoccio a Stato satellite, emarginando l’ala stalinista e rimuovendo il maresciallo sovietico Rokossovskij dall’incarico di comandante supremo dell’esercito. Nonostante Gomułka avesse avviato importanti processi di liberalizzazione in Polonia , il modello entrò in crisi nel corso degli anni Sessanta e la sua popolarità decrebbe notevolmente. Nel 1968 si moltiplicarono le manifestazioni di dissenso, soprattutto negli ambienti intellettuali e studenteschi, ma anche negli ambienti operai che ottennero la protezione della Chiesa. Non

11 La locuzione Stato di polizia viene oggi usata prevalentemente per indicare un sistema totalitario e oligarchico nel quale le forze di polizia sono investite di poteri eccezionali, con conseguente limitazione dei diritti dei cittadini. (Da Wikipedia, l'enciclopedia libera, www.it.wikipedia.org)

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possiamo inoltre dimenticare che nel marzo 1968, la Polonia comunista di Gomulka buttò fuori dai suoi confini, in seguito ad una campagna antisemita di Stato che peraltro fu molto popolare, circa 20 mila cittadini ebrei. La storia cominciò con una pièce teatrale anti sovietica del Teatro Nazionale Polacco alla fine del '67. Quanto a vendita di biglietti, andò benissimo; ma Gomułka decretò l'immediata sospensione degli spettacoli. Fu da qui che prese piede la protesta studentesca che dilagò nel '68, quando migliaia di studenti si barricarono nell'Istituto Tecnico di Varsavia attaccati dalla polizia. Presto tutta la vicenda assunse anche un carattere politico interno al partito comunista, in cui la "seconda fila" dei dirigenti prese spunto dalla rivolta studentesca per attaccare la prima generazione. Si dà il caso che fra i giovani studenti in rivolta si trovassero alcuni figli della "seconda fila" e che fra loro alcuni fossero di origine ebraica. La campagna di Gomułka cominciò a prendere un tono antisionista, e diventò quasi una battaglia fra "aborigeni e stranieri". Gli slogan di strada nelle dimostrazioni di massa e nei posti di lavoro presero un tono nettamente antisemita. 12 In breve, chi aveva del sangue ebraico, anche tre generazioni prima, fu buttato fuori dal posto di lavoro; persero la loro sedia professori universitari ed alti dirigenti di aziende e di uffici. Ma anche semplici operai ed impiegati si trovarono in mezzo alla strada solo perché ebrei o di origine ebraica. E proprio Łódz, la città in cui la storia del proprio ghetto è una delle più tragiche della Shoah, compì la più grande crociata antisemita, promulgando una risoluzione comunale che espelleva tutti i suoi ebrei entro tre mesi. Anche i bambini piccoli su cui pendeva il dubbio dell'origine ebraica furono cacciati dai giardini d'infanzia. Così nel '68, 20 mila ebrei furono costretti a lasciare la Polonia. Circa un quarto emigrò in Israele, gli altri se ne andarono in Svezia, Danimarca e negli Stati Uniti. Nel 1970 Gomułka venne sostituito dal tecnocrate Edward Gierek, il quale non riuscì ad imprimere svolte di rilievo né sul piano politico né su quello economico. La situazione economica si rivelò essere sempre più drammatica e nel 1976, a seguito del rincaro dei generi alimentari, si susseguirono numerose dimostrazioni operaie che già evidenziavano chiaramente la crisi irreversibile del comunismo in Polonia.

12 N. d. r.: In quegli anni uno degli slogan che circolava per la Polonia era: “ Żydzi do Izraela”, ovvero, “(Rimandiamo) gli Ebrei in Israele”.

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Verso il declino del regime comunista

L’elezione a Pontefice di Karol Wojtiła, nel 1978, rinvigorì l’opposizione contro il sistema comunista. La nascente opposizione registrò il suo primo e determinante successo nel 1980 con l’occupazione delle fabbriche e la fondazione di un sindacato dallo stragrande seguito e deciso ad avere il peso politico di un movimento o partito, il cui nome Solidarność, solidarietà, volle essere un omaggio alla predominante cattolica. Con esso si completò l’unità d’azione di ceti operai, contadini e intellettuali con la Chiesa cattolica. Negli anni tra il 1976 e il 1988 la società civile polacca dimostrò di essere in grado di autorganizzarsi e gli scontri con il Partito comunista furono particolarmente duri durante questi anni. Secondo una nota espressione attribuita al dissidente anticomunista Adam Michnik, dopo la nascita di Solidarność il popolo polacco ebbe “l’ardire di organizzare, agire, pensare e vivere come se fosse libero”. A partire dal 1980-81 la società civile coincide pienamente con Solidarność e per la prima volta nell’Europa dell’Est i dirigenti comunisti riconoscono Solidarność sotto il profilo legale e prima ancora come interlocutore politico. Mentre si aggravava la crisi economica, la palpabile dissoluzione del partito comunista sembrava rendere inevitabile un intervento sovietico che però fu scongiurato grazie al colpo di stato guidato dal generale Jaruzelski nel dicembre del 1981. Il generale Jaruzelski si addossò la responsabilità della normalizzazione con l’arresto di diecimila militanti di Solidarność, tra i quali il fondatore e capo carismatico, Lech Wałęsa. E’ ancora una volta un’autorità militare, così come avvenne per il maresciallo Piłsudski degli anni Venti e Trenta, a farsi carico di provvedimenti anche impopolari per risparmiare a un paese già sofferente, il peso e l’umiliazione di una nuova e ulteriore invasione. Non mancarono episodi spiacevoli, come l’uccisione del sacerdote Jerzy Popiełuszko ad opera delle forze di polizia. Tuttavia Jaruzelski non si dimostrò chiuso al dialogo né disponibile a coprire qualsiasi abuso di potere e il colpo di stato non arrestò, dunque, il processo di rinnovamento.

Solidarność ricostruì rapidamente la sua struttura clandestina e finì per essere, anche se non ufficialmente, il maggiore interlocutore politico del governo. Nel 1983, Lech Wałęsa, appena uscito di carcere venne insignito del Premio Nobel per la pace. Nel 1989 Solidarność venne legalizzato e invitato a partecipare alla

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“tavola rotonda” sul futuro del Paese, che riformò la legge elettorale introducendo un maggioritario a due turni. Nel giugno 1989 si tennero le prime elezioni libere e Solidarność ottenne il 90% dei seggi al Senato e l’aliquota massima del 35%

prevista alla Camera, dove i comunisti detenevano a tavolino la maggioranza di due terzi dei seggi. Wojciech Jaruzelski, grazie al realismo e alla moderazione di Wałęsa, venne confermato presidente della repubblica, ma nel settembre del 1989 dovette accettare il primo governo non comunista in un Paese dell’Est, guidato da Tadeusz Mazowiecki, nominato all’unanimità. Nel 1990 Jaruzelski si dimise e Wałęsa fu eletto presidente della repubblica, mentre Mazowiecki uscì pesantemente sconfitto e si dimise da capo del governo anche per l’evidente rottura con Wałęsa. Al suo governo successe quello tecnico di Jan Bielecki che proseguì nella faticosa strada della transizione. Seguirono diversi governi poco stabili ma nel 1993 una coalizione di ex comunisti ottenne la vittoria guidata da Kwaśniewski che nel 1995 divenne presidente della repubblica. In questo modo ebbe inizio il quindicennio della transizione alla democrazia e all’economia di mercato non privo di tensioni e contraddizioni che tuttavia non influirono sul percorso che portò la Polonia nella Nato e nell’Unione Europea e dunque ad una indipendenza questa volta reale e garantita nell’ambito di strutture sopranazionali di rilievo.

Questi, molto sinteticamente, sono i fatti storici che hanno riguardato la Polonia prima che fosse riconosciuta membro dell’Unione Europea e che ci serviranno nel prossimo paragrafo per comprendere quale fosse il contesto politico, economico e sociale che ha determinato i flussi migratori polacchi durante gli ultimi secoli.

4.2 Storia delle migrazioni dalla Polonia

L'analisi della storia dell'emigrazione dei polacchi va fatta cominciare a partire dal XIX secolo. E’ bene sottolineare che il suo percorso è un po' diverso da quello dei Paesi occidentali dell’Unione Europea. Questa specificità nasce in gran parte dal fatto che le migrazioni internazionali di questo popolo sono state molto spesso condizionate da fattori politici, oltre che, naturalmente, da quelli economici.

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La Polonia, come altre aree di questa parte d'Europa, a partire dal XIX secolo è stata protagonista di un'intensa emigrazione la cui peculiarità risiede soprattutto nel fatto che questo Paese per lungo tempo non ha costituito uno Stato indipendente (dall'inizio del XVIII secolo fino al 1918). Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, all'epoca il territorio polacco si trovava spartito tra Russia, Monarchia austro-ungarica e Prussia (dal 1871 Impero della Germania). Questa situazione politica ha influito notevolmente sulla mobilità dei polacchi, giustificabile sia con ragioni di carattere politico, quali la ricerca della libertà, sia di carattere economico, ovvero per garantirsi l’indispensabile che non potevano ottenere nel territorio polacco, fortemente in ritardo nello sviluppo economico.

Dopo l'insurrezione del 1830 circa 9 mila persone sono emigrate, dirette soprattutto in Francia. Questa ondata migratoria, chiamata anche "Grande Emigrazione", ha avuto una vitale importanza non tanto per la sua portata quanto per il fatto che all'epoca è nata, soprattutto in Francia, la prima diaspora polacca e il primo centro polacco all'estero. Altri flussi migratori, sempre per motivi politici, sono stati provocati dalle insurrezioni successive del 1848 e del 1863. Non si trattava solo di migrazioni volontarie ma anche di deportazioni dei membri dei movimenti per la liberazione nazionale nella Russia più lontana.

L’altro fattore che ha favorito l'emigrazione è stato il fatto che in seguito alle spartizioni il territorio polacco si è ritrovato al confine di tre imperi e ha subìto le conseguenze di questa perifericità risentendone nel ritardo dello sviluppo economico. In seguito alle trasformazioni avvenute in campagna, ossia l'affrancamento dei contadini e la spartizione dei fondi rustici, e a causa dell’assenza di un'industria che potesse assorbire il proletariato contadino, sempre più numeroso in tutti i territori occupati, schiere di persone sono state costrette a cercare lavoro all'estero. L'emigrazione dalla Polonia a scopo di lavoro ha cominciato ad intensificarsi a partire dalla metà del XIX secolo. È all'epoca che si sono cristallizzate due principali tipologie e direzioni dell'emigrazione, che sarebbero durate quasi fino al XX secolo. Il primo caso è quello dell'emigrazione diretta negli Stati Uniti. Si valuta che dall'inizio della prima guerra mondiale oltre 2 milioni di persone siano emigrate oltreoceano.

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La seconda tipologia migratoria consiste nelle migrazioni stagionali dirette il più delle volte in Germania. Lo sviluppo dell'industria tedesca ha causato il deflusso di manodopera dalla parte agricola orientale; questa nicchia è stata riempita da lavoratori stagionali polacchi, prima provenienti dai territori occupati dalla Prussia, successivamente da quelli della Russia e dell'Austria. Le migrazioni stagionali sui territori tedeschi sono iniziate negli anni Settanta del XIX secolo e nei decenni successivi hanno acquistato la dimensione di massa.

Il numero dei migranti stagionali provenienti soltanto dai territori occupati dalla Prussia durante gli anni Novanta del 1800, ha superato le 90 mila persone, mentre dal 1909 al 1911 oltre 220 mila persone sono emigrate dalla Galizia. In quel periodo il numero medio annuale di lavoratori stagionali provenienti dal Regno Congressuale ha oscillato attorno ai 300 mila.

L'inizio della prima guerra mondiale ha modificato durante i successivi quattro anni la tipologia e le ragioni di migrazione dei popoli europei. Le migrazioni sono state sostituite da fughe, evacuazioni, deportazioni e confini per i lavori forzati.

Con il trattato di Versailles si è ridisegnata la nuova cartina del continente e questo ha indubbiamente avuto un'enorme influenza sugli spostamenti dei cittadini dell'Europa centrale. Il cambio delle frontiere e la nascita dei nuovi Paesi hanno fatto scattare movimenti di massa di popoli alla ricerca della propria patria, come nel caso della Polonia. Dopo la recuperata indipendenza del 1918, sono rimpatriati sia i rifugiati e i prigionieri di guerra, sia le persone di nazionalità polacca che dopo il cambiamento delle frontiere si sono trovate fuori dal territorio della Polonia. Si stima che durante i primi 5 anni dell'indipendenza oltre 1,2 milioni di rifugiati e oltre 100 mila emigranti sono ritornati in Polonia da oltreoceano.

Tuttavia, poco dopo la formazione del nuovo Stato, l'emigrazione dalla Polonia è ripresa a causa di varie ragioni, quali la difficile situazione economica del Paese, la sovrappopolazione della campagna, la mancanza di posti di lavoro in un'industria debole e distrutta dalla guerra. Si valuta che entro il 1938 sono emigrate oltre 2,2 milioni di persone.

Dal 1932, infatti, oltre 1,6 milioni di persone hanno lasciato la Polonia cer- cando un lavoro o un nuovo posto dove stabilirsi.

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Le migrazioni del periodo tra le due guerre si possono considerare una continuazione dell'emigrazione del periodo precedente. In gran parte vengono conservati i tipi e le direzioni dell'emigrazione: quella oltreoceano a lungo termine e finalizzata all'insediamento, nonché le migrazioni stagionali all'interno dell'Europa.

Negli anni 1919-1921 la più numerosa emigrazione è stata quella oltreoceano, diretta soprattutto negli Stati Uniti; durante quel periodo sono emigrati circa 200 mila polacchi. Nel 1922, dopo l'introduzione dei limiti sull'emigrazione negli USA, la migrazione extraeuropea è diminuita globalmente mentre è aumentato l'espatrio in altri Paesi del continente americano, ad esempio in Canada, Argentina e Brasile.

I limiti imposti all'emigrazione oltreoceano non hanno fatto abbassare il flusso migratorio globale dalla Polonia, ma lo hanno indirizzato verso i Paesi europei.

Negli anni 1918-1932 i flussi continentali, in gran parte di carattere stagionale, hanno raggiunto il milione, pari a circa il 60% del totale delle migrazioni di quel periodo e il numero degli espatri ha superato nel 1926 quota 100 mila.

In quel periodo sulla cartina delle migrazioni europee è apparso un altro Paese importante, la Francia. Negli anni 1921-1932 l'emigrazione in Francia ha superato la metà delle migrazioni continentali. Le migrazioni dei polacchi verso la Francia differisce rispetto a quella verso la Germania sia per i settori di lavoro che i polacchi sono andati ad occupare sia per la tipologia stessa della migrazione. Gli emigranti polacchi in Germania, sia prima della guerra sia nel periodo tra le due guerre si sono indirizzati in gran parte ai lavori agricoli, di solito di natura stagionale. In Francia, invece, benché il reclutamento degli emigranti polacchi dovesse in teoria mirare a soddisfare la domanda di manodopera nel settore agricolo, in realtà la maggior parte dei polacchi ha svolto dei lavori non agricoli, prevalentemente nel settore dell'industria mineraria. Questo tipo di lavoro, relativamente stabile, ha portato tanti emigranti a stabilirsi definitivamente nel Paese d'arrivo. Durante gli anni 1919-1932 soltanto il 9% del totale delle persone che sono emigrate in Francia è ritornata in Polonia.

La crisi economica degli anni Trenta ha frenato notevolmente i processi migratori in tutto il mondo, comprese le migrazioni oltreoceano e quelle

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continentali. Nel caso della Polonia una barriera particolarmente grave è stata rappresentata dal divieto assoluto di emigrazione in Germania, causato non solo da motivi economici ma anche politici. Nel 1932 appena 21 mila persone sono emigrate dalla Polonia, circa il 10% dell'emigrazione del 1930. Oltre un terzo erano gli emigrati in Francia, circa 1.400 persone sono emigrate negli Stati Uniti, mentre in Germania appena 388 persone. Soltanto nel 1937 la Germania ha accettato di accogliere 10 mila lavoratori stagionali dalla Polonia.

Dal 1931 anche la Lettonia è diventata una nuova meta per gli emigranti stagionali polacchi.

Dopo la seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale ha causato spostamenti di popolazioni su vasta scala. Si trattava più che altro di migrazioni forzate, fughe, trasferimenti in massa o deportazioni dei cittadini di tanti Paesi europei. Secondo le valutazioni degli storici, tra il 1° settembre 1939 e 1'8 maggio 1945 oltre 5 milioni di polacchi, ovvero un sesto degli abitanti del territorio della Polonia del 1938, ha abbandonato le proprie dimore.

I processi migratori dei 50 anni successivi sono stati in qualche modo conseguenza del trattato di Jalta13 con il quale si e’ sancita la fine della guerra e si e’ stabilito un nuovo ordine per la Polonia. Due sono i fattori che hanno determinato la maggior parte delle migrazioni dalla Polonia in questo periodo: il primo è stato il cambiamento dei confini. In virtù degli accordi di Potsdam14ed

13 N. d. r.: La Conferenza di Jalta (o Yalta) è il nome dato ad un incontro fra Roosevelt, Churchill e Stalin, capi dei governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell'Unione Sovietica.L'incontro fu tenuto in Crimea, nel palazzo imperiale di Jalta, fra il 4 e l'11 febbraio 1945, pochi mesi prima della sconfitta della Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Esso fu il secondo ed il più importante di una serie di tre incontri fra i massimi rappresentanti delle grandi potenze alleate, iniziati con la Conferenza di Casablanca (14-24 gennaio 1943) e conclusisi con la Conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945). Questi incontri si proponevano di stabilire l'assetto

internazionale post-bellico, ed effettivamente gran parte delle decisioni prese a Jalta (ad esempio la divisione dell'Europa in sfere di influenza) ebbero profonde ripercussioni sulla storia mondiale, perlomeno fino alla caduta dell'Unione Sovietica del 1991. Per quanto nei mesi immediatamente successivi russi ed anglo-americani proseguissero con successo la loro lotta contro tedeschi e giapponesi, molti vedono nella conferenza di Jalta il preludio della Guerra fredda. (Da Wikipedia, l'enciclopedia libera, www.it.wikipedia.org)

14 N. d. r.: La Conferenza di Potsdam è il nome dato all'ultimo dei vertici interalleati tenutosi dal 17 luglio al 2 agosto 1945. Nel corso dell'incontro i leader delle potenze vincitrici della seconda

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