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N. 30-31
15 Marzo 1948
C O N S I G L I O DI R E D A Z I O N Ed o t t . A U G U S T O B A R G O N I prof. d o t t . A R R I G O B O R D I N prof. avv. ANTONIO C A L A N D R A d o t t . G I A C O M O F R I S E T T I p r o f . d o t t . S I L V I O G O L Z I O p r o f . d o t t . F R A N C E S C O P A L A Z Z I - T R I V E L L I prof. dott. L U C I A N O G I R E T T I D i r e t t o r e dott. A U G U S T O B A R G O N I C o n d i r e t t o r e r e s p o n s a b i l e
QUINDICINALE A CURA DELLA CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA E AGRICOLTURA DI TORINO
SOMMARIO:
Les accords de T u r i n ( C . Minola) . pag. I L a strada del C o n t e di C a v o u r
(L. G i r e t t i ) pag. 2
A u t o n o m i a e unità dell'Europa
(G. Cosmo) . . pag. 3
E c o n o m i a a t o m i c a o economia
nu-cleare? ( C . Sircana) pag. 4 L a crisi finanziaria inglese nella
dovuta prospettiva (A. Crespi) . pag. 6 Problemi di finanza locale (A.
Ga-rino Canina) pag. B I N C O P E R T I N A : « F O R N O E
L e esposizioni industriali di T o r i n o fino all'unità d'Italia ( A . Fossati) pag. I l Il primo m e r c a t o - c o n c o r s o tori e
torelli di razza piemontese (F.
C a n n a v i ) PaS- 1 9 Rosa dei venti pag. 21 Mercati Pag- 23 T e n t a t i v o di un bilancio
econo-m i c o del 1947 (S. Golzio) . . . . pag. 24 L'istituzione di una banca del
san-gue ( C . C e r r u t i ) pag. 26
Notiziario estero pag- 27 B o r s a compensazione pag. 29 Il mondo offre e chiede pag. 31 Breve rassegna della « G a z z e t t a U f
-ficiale» pag. 34 T r a t t a t o di amicizia, c o m m e r c i o e
navigazione fra la Repubblica Ita-liana e gli Stati U n i t i d ' A m e r i c a pag. 36 Disposizioni ufficiali per il
com-mercio con l'estero pag. 42 Produttori italiani pag. 45
D E L L A P I T T R I C E Z A R A N I N
IIIS 1 111
Pour orienter les naufragés d'une civilisation en crise et pour indiquer la voie pacifique de la pro-spérité à des populations réduites, par une politique économique absurde, aux limites extrêmes de l'in-digence, deux hommes illuminés de France et d'Ita-lie montrent à Turin la .volonté de répondre au cri de douleur de la misère et proposent d'éliminer, de l'unique manière possible, les mille peurs du chaos actuel.
Les commerçants, les industriels et les agriculteurs turinois saluent les deux Ministres que Turin a l'honneur de compter parmi ses hôtes illustres et souhaitent la meilleure des réussites à leur initiative de nobles citoyens d'Europe et du monde.
p a r C E S A R E M I N O L A
Président de la C h a m b r e de C o m m e r c e de T u r i nLes Ministres des Affaires Etrangères de France e d'Italie se rencontrent à Turin pour jeter les bases d'une œuvre destinée à transformer radicalement
l'a-venir de l'économie •— et non seule-ment de l'économie — des deux plus importants pays de la latinité.
Après trop d'années d'une politique économique qui, par un égoïsme mal compris, cherchait à détruire et non pas à construire, à isoler les forces créa-trices des peuples au lieu de les réunir pour atteindre des buts de bien-être commun, à tarir le courant fécond des échanges au lieu de l'alimenter de sources nouvelles, la France et l'Italie-,
en suivant le récent exemple de la Bel-gique, des Pays-Bas et du Luxembourg,
s'obligent par des accords à la réalisation future d'une union douanière.
En abattaht petit à petit les murailles chinoises de l'autarchie —• nourrisson malheureux du natio-nalisme économique — cette union rendra possible aux hommes, aux marchandises et aux capitaux de traverser librement des frontières enfin débarras-sées des tranchées économiques du protectionnisme douanier, qui est le principal responsable du
désor-dre, de la misère, de l'angoisse de cinq continents et de deux mille millions d'hommes.
LA STRADA DEL CONTE DI CAVOUR
L'11 ottobre 1850 Camillo Benso di Cavour veniva
nominato ministro dell'agricoltura e del commercio
nel gabinetto D'Azeglio e iniziava la sua opera
d'uomo di governo in Piemonte. A meno di un mese
di distanza, il 5 novembre, il governo sardo
sotto-scriveva il trattato di commercio con la Francia,
che si impegnava a ridurre ,i suoi dazi sulla frutta
fresca, il bestiame e il riso, mentre da parte
pie-montese venivano principalmente ridotti quelli sul
vino e altri alcoolici. Era, questo, il primo successo
dell'azione cavouriana, la prima pietra della
costru-zione mirabile che doveva svettare nell'unità d'Italia.
Le trattative da tempo iniziate pel tramite del
Cibrario erano andate alquanto a rilento,
soprat-tutto per gli ostacoli ad esse frapposti, da certi
ve-sted interests di protezionisti francesi e piemontesi,
e il parlamento sardo si decise a votare il trattato
soltanto perchè il ministero ne fece questione di
gabinetto e Cavour, in un discorso del 21 gennaio
1851, ebbe a sostenerlo vigorosamente, appellandosi
a considerazioni anche politiche. « Io non reputo
probabile, ma pur possibile —• egli disse allora •—
che qualche fatto renda molto opportuno l'avere
l'appoggio, se non materiale, almeno morale della
Francia » (1).
Come fu rilevato dal Treitschke, Cavour — allora
molto osteggiato, e anche calunniato e vilipeso dai
rappresentanti degli interessi lesi dalla sua politica
di^ibertà commerciale — mirava soprattutto a
in-trodurre di nuovo « la solitaria e proscritta corte
di Torino nella comunione degli Stati » e a rendere
per lei più amichevoli i sentimenti delle potenze
occidentali (2).
Al trattato di commercio con la Francia
segui-rono ben presto, rispettivamente il 24 gennaio e il
27 febbraio 1851, trattati con il Belgio e con
l'In-ghilterra; ambedue improntati ai principi liberisti.
Quello tra gli Stati Sardi e il Regno Unito
contem-plava addirittura la concessione di reciproca libertà
di comimercio e l'adozione della clausola della
na-zione più favorita.
Il Conte di Cavour iniziava in tal maniera, con
l'arma pacifica degli accordi commerciali, la strada
forse difficile, ma sicura, della libertà e del
benes-sere economico, dimostratisi poi forieri di successi
politici incomparabili. Già in un discorso
pronun-cato la sera del 24 maggio 1847, all'albergo Europa
di Torino, in occasione della visita torinese del
grande apostolo del libero scambio Riccardo Cofoden,
il giovane Cavour si era dimostrato ben conscio"
dell'importanza della libertà commerciale, non solo
per arrecare il progresso materiale, ma anche per
concedere quello morale e civile dei popoli. « L'Italie
— aveva detto — qui a vu éclore dans son sein la
science économique, ce pays où Genovesi et Verri
ont écrit, où Scialoja professa, ne sera pas des
der-niers à mettre pleinement d'accord les principes
scientifiques avec les préceptes de la pratique. La
liberté du conmmerce doit avoir pour l'Italie des
conséquences dont il est impossible d'exagerer
l'importance. Si elle est utile dans un grand pays
qui possède un vaste marché, elle est indispensable
au développement de l'industrie ét du commerce
d'une contrée divisée par de nombreuses lignes de
douane ou les produits du sol et du travail
rencon-trent à or.iaque pas des obstacles fiscaux qui les
re-poussent et qu'ils ne peuvent surmonter. Mais cette
liberté aussi avoir pour notre pays des résultats d'un
ordre plus élevé. C'est pourquoi nous sommes
con-vaincus qu'en travaillant à abaisser les barrières
qui nous divisent, en travaillant à étendre nos
rela-tions commerciales extérieures,
nous travaillons au
progrés intellectuel et moral de l'Italie aussi bien
qu'à sa prospérité matérielle » (1).
Oggi, mentre tutti parlano di strade d'ogni
ge-nere — prima, seconda e terza — e non sempre
sembrano ben comprendere per quale ragione sia
preferible l'uno o l'altro cammino (sicché sorge
in molti il dubbio che preferenze ed esortazioni,
ven-gano originate puramente e semplicemente da fede
fanatica in discutibilissimi dogmi terreni) è bene
ricordarsi della strada del Conte di Cavour, della
strada ohe la storia dimostrò essere quella buona e
capace di portare alla prosperità, all'elevazione
mo-rale e intellettuale e alla formazione politica
del-l'Italia unita.
Il Viandante iniziò allora il cammino in un
pic-colo territorio «solitario e proscritto», misero per
il basso livello del tenore di vita, arretrato per il
non meno basso livello intellettuale, e il risultato fu
il progresso indubbio, materiale e morale, raggiunto
dall'Italia prima delle apocalittiche, trentennali
guerre dei continenti. Oggi a distanza di un secolo,
traversata la solitudine e la proscrizione,
congestio-nato su suolo miserrimo, piangente da mille piaghe
tuttora stillanti lagrime e sangue, il popolo italiano,
deluso e stanco, deve imboccare presto una via
ca-pace di sollevarlo al più presto dalla sua povertà e
dalla sua disperazione.
La via buona è ancora quella antica, già
speri-mentata da Cavour, il quale credeva più in
Man-chester — e cioè nella efficacia dei liberi scambi —
che nei congressi della pace (2). Che in questi
giorni i Ministri degli Affari Esteri di Francia e
d'Italia, con il loro incontro e con la firma degli
accordi di Torino per l'unione doganale
italo-fran-cese, dimostrino così apertamente di volerla seguire,
è di ottimo auspicio e di grande conforto per i dus
popoli vicini, cui il libero flusso dei commerci
per-metterà di affiancarsi in una marcia comune verso
il comune benessere.
LUCIANO GIRETTI
01) C i t a t o da U m b e r t o Kloci, i n Protezionisti e liberisti
italiani, 1920, p. 137.
(2) Tetf'isohfce : Iil Conte di Cavour, t r a d u z i o n e G u e r r i e r i G o n z a g a , 1873, pp. 82-84.
(1) Dt3l g i o r n a l e II Commercio di Firenze del 14 luglio 1847.
(2) A r t o m , I n t r o d u z i o n e Op. X L I I ) al v o l u m e : A r t o m e Blarae, Il Conte di Cavour in Parlamento, 1868.
clêScmalcm a
CRONACHE
A U T O N O M I A E UNITA' D E L L ' E U R O P A
Il brusco fallimento della Conferenza dei
Mini-stri degli Esteri di Londra, avvenuto il 15 dicembre
1947, ha ingenerato nell'opinione pubblica
interna-zionale un senso di sfiducia nelle possibilità di una
ripresa economica dell'Europa: la rottura a
Lon-dra avvenne su una questione economica, quale
quella delle riparazioni, ma la Conferenza si era
aperta in un clima politico diffìcile.
•Non erano infatti circostanze di buon augurio
per il suo successo la divisione dell'Europa pro e
contro il «Piano Marshall», lo «sbarco» dei
munisti dai Governi dei Paesi occidentali, la
co-stituzione del Kominform e successivamente il
progressivo inasprirsi delle reciproche accuse di
reazione, di dittatura, di bellicismo tra Oriente ed
Occidente.
Contrariamente a quanto da taluno si può
pen-sare, la situazione che stiamo attraversando — per
quanto ricordi singolarmente quella del 1939 —
non prelude però ad una guerra. « Nessuna delle
due parti è in definitiva pronta per la sorte delle
armi. L'Unione Sovietica è profondamente
impe-gnata nella ricostruzione della sua economia scossa
dalla guerra, ed ha un'esperienza troppo viva ed
amara del costo di una guerra per essere pronta
ad una tentazione del genere. Gli Stati Uniti,
trat-tenuti come sono dalle riserve di una tradizione
fortemente pacifica e da un'opinione pubblica
piut-tosto fluida, ancora meno possono essere sospettati
di intenzioni contrarie agli ideali professati m ogni
esperienza della propria storia ».
Questa constatazione, fatta a fine 1947 dal
lon-dinese
Times, ci pare perfettamente probante.
Tut-tavia non è una constatazione ottimista: si viene
infatti a riconoscere che per la prima volta nella
storia l'iniziativa in materia di politica
interna-zionale è passata a due potenze extraeuropee, quali
gli Stati Uniti d'America e la Russia Sovietica, che
sono ormai i due soli contendenti di rilievo. Dalla
fine della guerra queste due potenze sono andate
accrescendo le loro sfere d'influenza nella terra
di nessuno lasciata dal crollo della Germania e del
Giappone e dalla debolezza della Gran Bretagna,
della Francia e della Cina. E così l'ingigantire
della potenza. americana ad Occidente e fi
con-temporaneo sviluppo di quella russa ad Oriente
mettono in posizione subordinata le residue
posi-zioni europee. . ^
L'esame della storia recente ci dimostra che dal
1914 in poi la posizione dell'Europa nel mondo e
andata continuamente decadendo: il processo di
decadenza si è accentuato dopo la fine della
secon-da guerra mondiale. Quattro sintomi non sfuggono
neanche all'osservatore più superficiale:
1) la Gran Bretagna ha dovuto rinunciare a
gran parte del proprio Impero: particolarmente
all'India, alla Birmania e alla Palestina;
2) l'Olanda si è quasi visti sfuggire i doviziosi
territori dell'Indonesia;
3) La Francia ha abbandonato la Siria e il
Li-bano, conserva ancora formalmente soltanto le
posizioni dell'Indocina, mentre i territori
dell'A-frica Settentrionale sono in fermento;
4) il processo di industrializzazione in atto
nei cosiddetti paesi nuovi viene a togliere alle
vec-chie industrie europee importanti mercati.
Posta questa situazione, ne deriva generalmente
l'interrogativo ove all'Europa convenga rivolgersi,
se ad Oriente o ad Occidente. Si esclude così a
priori che esistano possibilità di vita per il
vec-chio Continente, se non appoggiandosi in via
siva all'America, oppure in via altrettanto
esclu-siva alla Russia Sovietica. Il che equivale a dire
che l'Europa non avrebbe più possibilità autonome
di vita: conclusione pessimista che prescinde dalla
realtà economica e nega un'evoluzione storica
plu-risecolare.
In realtà, prima della guerra l'Europa lu
inde-bolita e depauperata dalla lotta economica
susci-tata da un eccesso di nazionalismo: nelle attuali
condizioni di esaurimento la lotta ideologica
po-trebbe costituire un ostacolo anche più grave per
il suo risanamento.
Le dottrine dei vari partiti minacciano di
arre-stare il flusso dei capitali e delle merci non meno
delle precedenti barriere doganali: se i partiti e
gli accordi commerciali verranno considerati come
strumenti per la sterile lotta delle varie fedi
poli-tiche, l'Europa correrà il rischio di non ritrovare
il proprio equilibrio economico per non meno di
un'intera generazione.
In questo momento cioè le considerazioni
poli-tiche premono su quelle economiche: occorre
ro-vesciare i termini, cosa questa facile a dirsi ma
non a concretarsi. Comunque è certo che la vita
dell'Europa può essere assicurata soltanto se
fi-nalmente si considera l'Europa come una unità.
La sua vecchia struttura politica è stata distrutta:
per ricostruirla su solide basi saranno necessarie
varie decine d'anni. Ma la ricostruzione
econo-mica è il primo gradino indispensabile per
rag-giungere uno stabile ordinamento politico.
Nell'attuale disorientamento degli spiriti si è
in-generato un po' in tutti, e non soltanto in Italia;
un senso di scetticismo. Con la fine della guerra
si erano accese grandi speranze di una rapida
ri-presa, ma, dopo sei anni di privazioni e di
soffe-renze, alle prime incertezze l'opinione pubblica è
passata da uno stato di ottimismo eccessivo ad un
pessimismo non giustificato. Si dimentica cioè ora
il notevole cammino percorso sulla via della
rico-struzione dopo la fine della guerra ; si dimentica che
nazioni minori già coinvolte nella guerra, come il
Belgio, la Danimarca, il Lussemburgo, l'Olanda e
la Norvegia, hanno ad esempio molto progredito.
Gli scambi commerciali sono stati riattivati più
o meno parzialmente. Essi hanno però dimostrato
una tendenza a riprendere secondo le direttive
tra-dizionali, tracciate da un'esperienza secolare e
ri-spondenti a degli interessi concreti: e qui le
modi-ficazioni territoriali intervenute hanno giocato
sfa-vorevolmente. Quando si valutavano le conseguenze
economiche della Pace di Versaglia, si sottolineava
che essa aveva creato nuovi ostacoli agli scambi
coll'istituzione di 7.000 km. di nuove barriere
do-ganali, corrispondenti ai confini dei nuovi Stati:
ora sotto questo punto di vista si è addivenuto ad
una semplificazione specialmente sentita nella
zo-na orientale, ove i tre piccoli Stati baltici sono
spa-riti dalla carta geografica. Ma la divisione
del-l'Europa in due blocchi e la momentanea
spari-zione della Germania è per il momento un danno
ben più grave della eliminazione di alcune barriere
doganali in una determinata zona.
L'avanzata operata nel 1945 dalla Russia
Sovie-tica, assicurando l'incorporazione nel suo
territo-rio della Bessarabia, della Bukovina, della Rutenia
sub Carpatica, dell'Ucraina Occidentale e della
Bielorussia, l'angolo orientale della Prussia
Orien-tale e delle repubbliche di Lituania, Lettonia ed
Estonia, non soltanto aumenta la sua influenza in
Europa ma elimina la possibilità del ritorno della
Germania a condizione di grande Potenza. I
gua-dagni sovietici — che, non si dimentichi, furono
tutti approvati ancor durante la guerra, a quella
Conferenza di Crimea (Yalta), le cui fatali
deci-sioni adesso si scontano — costituiscono una
ag-gregazione veramente formidabile di territori e
popolazione lungo la fascia occidentale della
fron-tiera della Russia: viene così completamente
ro-vesciato il processo di ritirata dall'Europa
Centra-le, cui questa Potenza venne costretta alla fine
della prima Guerra Mondiale.
conclusione si può trarre dall'esperienza in atto
di questo dopoguerra — sembra che per la prima
volta nella storia moderna le potenze orientali ed
occidentali dell'Europa siano determinate a
ren-dere impossibile il ripetersi di una nuova sfida
mi-litare partente dal centro.
Pertanto il futuro della Germania costituisce il
problema più grave dell'Europa: poste però le
pre-messe alle Conferenze di Yalta e di Postdam, nel
senso che si è cercato di sintetizzare, era
inevita-bile che si giungesse alla situazione attuale, di
vuo-to nel cuore dell'Europa.
(Si è molto parlato di ansia europea, di volontà
di superare i nazionalismi, le ostilità, le
recrimi-nazioni, per unificare l'Europa, facendo di essa un
organismo dotato di coesione interna, di unità di
indirizzo, di comunione di interessi, legando fra
loro in un piano funzionale i Paesi europei.
Ora — per ripetere una felice frase d'un
fuoru-scito tedesco — « è impossibile a chi s'interessa
di-rettamente o indidi-rettamente all'Europa assistere
muto e passivo a clhe un organo del suo corpo —
forse quello principale, il cuore — deperisca
rapi-damente per la legatura delle arterie e delle vene ».
Dopo il fallimento della Conferenza di Londra
per la soluzione del problema tedesco, sorge
per-tanto legittima negli spiriti pensosi la domanda
di quale potrà essere il destino dell'Europa. Con la
ormai prossima formazione di una entità politica
autonoma quale potrà essere la Germania
Occi-dentale, non solo si effettua una spartizione della
Germania paragonabile a quella effettuatasi sullo
scorcio del secolo XVIII della Polonia, ma, ciò che
è forse più grave, si sanziona la frattura
dell'uni-tà europea. Unidell'uni-tà faticosamente formatasi
attra-verso secoli di storia.
Così la politica di potenza che per molti secoli
fu invidiato privilegio di taluni Stati europei, oggi
viene esercitata da altri a tutto danno della
di-scorde comunità europea. Di qui il generale
pessi-mismo circa le possibilità, per il vecchio
Continen-te, di uscire dal presente stato di debolezza ed
in-feriorità collettiva, dato
che il suo cammino è in
gran parte obbligato: l'Europa occidentale sotto
protezione americana, e l'Europa orientale nella
sfera d'influenza russa.
La situazione si presenta pertanto gravida di
in-cognite. Ma non si deve per questo disperare per
l'avvenire dell'Europa. Nonostante le divisioni
po-litiche e la «cortina di ferro», esistono già
rap-porti commerciali di notevole entità fra i Paesi
aderenti al Piano Marshall e quelli del blocco
orientale. Le statistiche prebelliche dimostrano che
l'economia dell'Europa orientale presentava
ante-guerra una fortissima tendenza a larghi scambi
con l'Occidente. Lo sviluppo che dovrebbe essere
la risultante dei vari piani in corso di
realizzazio-ne lascerà notevoli margini d'eccedenze
esporta-bili: mentre d'altro canto l'attuazione dei piani
ri-chiede la partecipazione nelle forniture di beni
strumentali dei Paesi industrialmente più evoluti
dell'Occidente.
Quindi anche se i paesi dell'Europa occidentale
procedessero per loro conto e così pure quelli
del-l'Europa orientale, è certo che ciò non vuole dire
che sia decretata una separazione economica
in-tegrale e definitiva. Anzi, se le situazioni
rispetti-ve dei vari Paesi andranno — come si auspica —
gradualmente migliorando, sorgeranno altre
ra-gioni di scambio: il che necessariamente
deter-minerà lo svilupparsi, accanto a nuove possibilità,
anche di nuove necessità di scambi.
E in questo nuovo intreccio e nuovo incontro di
interessi andranno presumibilmente via via
dissi-pandosi quei contrasti che derivano più
dall'ap-parenza delle cose che dalla loro sostanza.
L'evoluzione politica mondiale, cioè il fatto che
il continente prima preminente sia diventato
su-bordinato e viceversa, non significa affatto che la
Europa venga a perire. Per uscire dal presente
sta-to di incertezza, di malcelata sudditanza, di
mi-( C o n t i n u a a pag. 7 )
ECONOMIA ATOMICA
o ECONOMIA NUCLEARE?
David E. Lilienthal, presidente della
commis-sione degli Stati Uniti per l'energia atomica,
com-. missione esistente in tutte le nazioni civili ad
ec-cezione dell'Italia e della Spagna, parlando lo
scarso dicembre a Chicago innanzi a circa
cinque-mila membri della
American Farm Bureau
Fede-ration, riuniti per il ventinovesimo raduno
annua-le della federazione, ha messo in evidenza il
con-tributo che le nuove scoperte nel campo nucleare
possono dare al progresso dell'agricoltura,
sfatan-do la leggenda che la scoperta dell'energia
atomi-ca sia utile soltanto a fini bellici e per la
fabbri-cazione di bombe. Accennando agli elementi
ra-dioattivi artificiali strettamente collegati con lo
sfruttamento delllenergia nucleare, ne ha fatto
notare l'importanza dovuta alla possibilità iche^
grazie a essi, hanno gli scienziati di seguire i
pro-cessi di assorbimento, da parte delle piante, degli
elementi esistenti nel suolo. «Le applicazioni della
scoperta — egli ha detto — potranno' permettere
un notevole incremento della produzione agricola
e alimentare, necessario quando si pensi che dal
1938, ad onta
;della guerra e del dopo guerra, la
popolazione del mondo è andata aumentando di
venti milioni di persone ogni anno, col risultato
di doversi oggi sfamare duecento milioni di
indi-vidui più che nel 1938 ».
L'utilizzazione degli elementi radioattivi
artifi-ciali e l'inqremento dellìagricoltura, per quanto
importanti siano, non costituiscono tuttavia il
pro-blema capitale che la nuova scoperta pone
innan-zi all'economia mondiale. In realtà si tratta di
de-cidere dell'indirizzo da dare a tutta l'attività del
mondo, di stabilire a quale fonte di energia si
vo-glia di preferenza attingere, di scegliere, insomma,
fra il dilemma: economia atomica o economia
nu-cleare?
A tale proposito è bene chiarire subito un
equi-voco nel quale generalmente cadono le persone che
non hanno grande dimestichezza con la scienza
fisica.
Nel corso di una dotta conferenza tenuta il
di-cembre scorso a Roma nei locali della
Confedera-zione degli industriali, il professor Gilberto
Ber-nardini, vice direttore del Centro di fisica
nuclea-re del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha pnuclea-re-
pre-cisato che, parlando della nuova scoperta, è
im-proprio dire « energia atomica ».
« Propriamente parlando — ha detto il
profes-sor Bernardini — l'autentica energia atomica è
quella che si sviluppa bruciando del carbone,
per-chè si riferisce a un fenomeno che deriva dalla
configurazione elettronica degli atomi carbonio e
ossigeno. Tutti i processi chimici sono di questo
tipo e involgono l'atmosfera elettronica,
negativa-mente carica, che circonda i nuclei degli atomi.
Quella di cui si parla oggi è invece l'energia che
è contenuta nei nuclei 'atomici e ohe si può
rica-vare da essi ».
scissione di un nucleo pesante come l'uranio è
milioni di volte più grande di quella sviluppata da
un atomo di carbonio che brucia. Per precisare,
dal punto di vista energetico una tonnellata di
uranio equivale a circa diecimila miliardi di
calo-rie, in modo che il consumo di tre tonnellate
al-l'anno di uranio assicurerebbe una quantità di
energia pari a quella idroelettrica attualmente
di-sponibile in Italia.
A questo punto si pone il problema cui ho dianzi
accennato: conviene continuare a sfruttare
l'ener-gia .atomica estraendo combustibile dalle miniere
di carbone e di petrolio già in attività e
cercan-done delle altre, e continuare a costruire nuovi
impianti idroelettrici, o è invece preferibile
indi-rizzare l'economia decisamente per una nuova
stra-da, costruendo impianti di energia termonucleare?
La risposta non è delle più facili, e comunque si
tratterebbe di dare un nuovo indirizzo per il futuro,
anche se prossimo, e non già di abbandonare le
mi-niere sfruttate o gli impianti idroelettrici in
atti-vità, ma di affiancarli opportun amente con gli
im-pianti di energia termonucleare, come il carbone
fu affiancato dal petrolio ed entrambi questi
com-bustibili dagli impianti idroelettrici. A lungo
an-dare le leggi economiche imporrebbero
naturalmen-te l'abbandono del mezzo meno conveniennaturalmen-te.
Esaminiamo un po' la situazione delle risorse
mondiali di energia, in base ai dati che se ne
hanno attualmente. Esse sono costituite da venti
miliardi di miliardi di calorie che si possono
rica-vare dal carbone e da cento milioni di miliardi dal
petrolio. Di fronte a queste cifre si ha quella del
contenuto energetico delle riserve mondiali di
ura-nio (circa 120.000 tonnellate) che è quindici volte
superiore a quelle note del petrolio. Qui però cade
opportuna un'osservazione: mentre il petrolio è
stato attivamente ricercato per cinquantanni, per
l'uranio si è soltanto all'inizio delle ricerche
siste-matiche, e ogni tanto vengono segnalati nuovi
gia-cimenti, come quelli dell'Australia e, ultimamente,
quelli francesi del Limosino. Ma vi ha di più. La
va-lutazione fatta delle riserve energetiche tiene
con-to soltancon-to di quei giacimenti nei quali il metallo si
trova in percentuali tali da essere
conveniente-mente sfruttabile per l'estrazione del radio, mentre
in realtà la concentrazione media dell'uranio nella
crosta terrestre è ben superiore a quella idei petrolio
e circa eguale a quella del carbone.
Passando poi a esaminare gli inconvenienti e i
vantaggi che si hanno dallo sfruttamento
dell'ener-gia nucleare nei confronti di quella che abbiamo
definito atomica, notiamo che l'uranio costa,
men-tre le cascate d'acqua (a parte i camcni di
conces-sione e simili) non costano nulla e che anche il
costo degli impianti termonucleari è, per kw
instal-lato, superiore a quello degli impianti idroelettrici.
Bisogna tener presente, inoltre, la grave necessità
della protezione di personale specializzatissimo come
quello adibito agli impianti termonucleari, ottenuto
in seguito a non facile addestramento, dalle
radia-zioni emesse dalle pile. Queste, e tutte le altre
mi-sure di protezione, rendono, infine, poco
trasporta-bili i generatori di energia nucleare, tanto da far
parere illusoria, almeno per ora, l'idea di poter
muo-vere treni, aerei, ecc., con turbine o altri sistemi
alimentati da generatori uranici.
Di fronte a questi inconvenienti vi sono però
van-taggi notevolissimi, quali l'assoluta libertà nella
scelta dell'ubicazione dell'impianto, eliminando,
nel-la maggior parte dei casi, nel-la necessità di lunghi
e-lettrodotti e di sottostazioni di trasformazione
(no-teremo a questo proposito che una linea elettrica
diventa antieconomica quando si prolunga oltre i
500 chilometri) o il costoso trasporto di
combusti-bile. Il numero delle ore di utilizzazione
dell'im-pianto, d'altra parte, può essere spinto al massimo
indipendentemente dalle vicende stagionali o da
difficoltà di approvvigionamento di combustibile, il
che fa diminuire il costo del kw prodotto a parità
di costo del kw installato. Vi è infine, e qui torniamo
alla osservazione di David Lilienthal, la possibilità
di utilizzare la pila per la produzione di elementi
radioattivi artificiali (da impiegarsi per usi chimici,
biologici, ecc.) il cui valore commerciale, che oggi
non è possibile precisare, dovrà essere certamente
molto elevato.
Che il dilemma sia di notevole importanza, lo
dimostra il fatto che grandi complessi industriali
già costituiti nel Canadà e in Svizzera per la
crea-zione di nuove centrali idroelettriche, hanno
sospe-so lo studio dei progetti in attesa degli eventuali
sviluppi della energia uranica.
Se portiamo il problema dal piano mondiale a •
quello nazionale, possiamo arrivare a delle
conclu-sioni più precise e a netto vantaggio dello
sfrutta-mento dell'energia termonucleare. Secondo una
gra-duatoria, stabilita in America, dei vari paesi del
mondo in base alle loro necessità di futuri impianti
termonucleari, l'Italia viene in testa preceduta
sol-tanto dal Giappone, essendo quasi nulle le risorse
italiane di combustibile. Con una tonnellata o poco
più di uranio potremmo produrre quell'energia che
oggi ricaviamo dagli impianti elettrici: calcolando
d'altra parte che il metallo purificato costa circa
ventidue dollari al chilo e che in Italia lo si
com-mercia intorno alle 15-20 mila lire, si vede che il
combustibile uranio verrebbe a costare a noi
parec-chie decine di volte meno del combustibile carbone.
In Italia abbiamo poi una certa disponibilità di
berillio, ottimo come rallentatore, di carbonio e di
altre sostanze necessarie al processo che si svolge
negli impianti termonucleari, vantaggio notevole
an-che se si tien conto dei difficili problemi della
puri-ficazione di queste sostanze, che deve essere
per-fetta; ma, soprattutto, avremo fra non molto, per
mezzo della Montecatini, una produzione annua
ve-ramente ingente di acqua pesante, ottimo
rallenta-tore che consente una economia fortissima nelle
dimensioni delie attrezzature. La libertà che si ha
nella scelta dell'ubicazione degli impianti
termonu-cleari renderebbe, infine, possìbile la messa in
valo-re di vaste zone del nostro paese, come le Puglie, e
in generale faciliterebbe moltissimo lo
sfruttamen-to e l'industrializzazione del Mezzogiorno.
La particolare situazione dell'Italia dovrebbe
per-ciò invogliare a imo studio più attento del problema
e di quelle provvidenze necessarie, non soltanto a
formare tecnici e specialisti, ma a non farci portar
via quegli scienziati che abbiamo, che sovente
ven-gono allettati da inviti di pochi mesi per impiantare
centri di studi o di ricerche all'estero; soprattutto
negli Stati Uniti, e che poi vi rimangono cedendo
al sentimento umano che fa preferire un
emolu-mento di cinque o sei milioni all'anno alle cinque
o seicentomila lire che un professore di università
riesce ad avere come massimo eccezionale, e
ceden-do anche al sentimento dello studioso e del
cerca-tore che può dedicare tutta la propria attività alla
scienza, quando sia libero da ogni preoccupazione
economica per sè e per la propria famiglia.
Sarebbe ora che lo Stato pensasse a tutelare il
capitale « scienza e intelligenza » del paese, senza
che siamo obbligati ogni venti anni a rimpiangere
un Marconi portatoci via dall'Inghilterra o un
Fer-mi incamerato dagli Stati Uniti, e non sarebbe male
che anche gli industriali, che di questa scienza e di
questa intelligenza hanno bisogno per i loro diretti
interessi, facessero qualcosa al di fuori dello Stato
—• come, d'altronde, avviene sovente in America —
per potenziare le buone volontà che non mancano,
e i mezzi già esistenti, alcuni notevoli come il
Cen-tro di fisica nucleare del Consiglio Nazionale delle
Ricerche presso l'Università di Roma, o per creare
nuovi mezzi e nuovi centri di ricerche e di studi,
assolutamente indispensabili se in un domani non
troppo lontano dovremo dare la preferenza, come
pare più che probabile, alla economia nucleare in
sostituzione di quella atomica.
L A C R I S I F I N A N Z I A R I A I N G L E S E
N E L L A D O V U T A P R O S P E T T I V A
I giornali italiani hanno certo già dato un
rias-sunto sommario del nuovo Libro Bianco in cui il
Governo inglese ha esposto la sua politica
finanzia-ria. Ma non sarà male entrare in qualche dettaglio,
accennare alle principali critiche ed alle prospettive.
Il Libra Bianco ha per sua premessa il fatto che per
un complesso di cause, non tutte sotto il controllo
del Governo 'inglese, il prestito americano
all'Inghil-terra sarà esaurito tra qualche mese e non resta
più che una riserva aurea di quasi 700 milioni di
ster-line, che potrebbe essere esaurita, se non interviene
in tempo il piano Marshall, tra circa sei mesi. Alla
fine di questo periodo non si potrà vivere più che
mai se non di ciò che si può comperare con ciò che
si produce e sii riesce a vendere all'estero in
concor-renza coi produttori del resto del mondo. E per
ven-dere nella misura necessaria ad evitare ulteriori e
disastrose riduzioni del tenore di vita ed anzi per
riprendere il processo di elevazione di questo
oc-corre non elevare ulteriormente ed anzi ridurre il
più possibile i costi e i prezzi. E questa riduzione
non è possibile se da tutte le parti si continua da
un lato a chiedere sempre più alti salari per
fai-fronte all'elevantesi costo della vita conseguente
all'inflazione e dall'altro ad approfittar di questa
per accumulare profitti. Di qui il consiglio del
Go-verno sia ad astenersi da profitti sia ad astenersi
dal 'Chiedere nuovi incrementi di salari (tranne
nei casi in cui questi siano, giustificati dalla
necsità di ottenere mano d'opera ad industrie più
es-senziali o dove speciali inchieste concludano
affer-mativamente); e ciò fino a che tali incrementi non
siano accompagnati da proporzionali incrementi in
produzione. Il consiglio è stato ufficialmente
ac-cettato tanto dalla Federazione degli Industriali,
che ha promesso di presentare entro un mese al
Governo le sue proposte di coopcrazione, quanto
dal Consiglio delle Trade-Unions.
Ma non è difficile comprendere come
quest'ul-tima accettazione sia la più difficile a tradurre in
atto, sia perchè questo Consiglio non ha autorità
impegnativa sulle singole Trade-Unions, sia perchè
ai capi di queste, pagati ed eletti a rappresentare
l'interesse operaio, è estremamente difficile il far
capire l'urgenza del largo e complesso interesse
nazionale alla massa, ogni cui membro è premuto
da esigenze ch'ei sente in modo più immediato e
concreto di quelle della nazione. Anche mentre
scriviamo, ad esempio, si è aderito alla richiesta di
600.000 ferrovieri e di 56.000 conduttori di
omni-bus in Londra per un ulteriore e sensibile
incre-mento di paga. Specie in quest'ultimo caso si ha a
che fare con un'industria nazionalizzata, non
de-ficiente di mano d'opera e nella quale non c'è
que-stione d'incremento di produttività che giustifichi
l'incremento in salari. E non occorre sciupar
in-chiostro per mettere in evidenza il fatto che se le
industrie nazionalizzate non sanno tenere i loro
costi al più basso livello possibile, i loro costi non
possono non riflettersi su quelli delle industrie
pri-vate esportatrici e presto o tardi in ima
diminu-zione nelle importazioni di materie alimentari o di
materie prime, ossia — in quest'ultimo caso — in
un ritorno alla disoccupazione.
Tutto sommato, per altro, non mancano segni
costanti che anche la massa comincia a rassegnarsi
alla situazione e ad essere libera dall'illusione —
incoraggiata dal pieno impiego della mano d'opera
e da ¡molti successi industriali contemplati fuor
del -dovuto inquadramento — di una prosperità
millenaria... appena, passato l'angolo della strada.
Nonostante, d'i recente, un rincrudimento di
assen-teismo tra i minatori, la produzione di carbone è
in aumento i&ensibile ; e il reclutamento dei
mina-tori procede anch'esso meglio, pur non avendo
ancora raggiunta la cifra di 750.000 minatori
re-putata necessaria entro il 1948. Non si è ancora
che a 721.000. E' significativo il fatto che si è
po-tuto rimuovere prima che paresse possibile il
li-mite all'esportazione di carbone dopo soddisfatte
le esigenze minime del mercato domestico. Ora si
esportano già ben più di 200.000 tonnellate per
set-timana. Il poter promettere in anticipo date
qua-lità di carbone è un fattore di capitale importanza
per poter venire a contratti con altri paesi, circa
materie greggie ed alimentari, e per poter avere
monete straniere in cambio. Or non è molto il
mi-nistro Bevin esclamò: di quanto aiuto alla mia
po-litica estera sarebbe il poter promettere un milione
di tonnellate di carbone! Il giorno in cui ne potrà
disporre non è forse molto lontano.
La difficoltà nel persuadere l'operaio medio
del-la necessità di posporre incrementi di sadel-lario e di
produrre immediatamente il più possibile sta nella
sua convinzione che si facciano enormi profitti a
sue spese. Ora è innegabile che vi siano industrie
monopolistiche che fanno< enormi profitti, ma è
ovvio da un lato che ciò è in gran misura dovuto
all'inflazione e dall'altro che contro di ciò il
rime-dio dell'imposta e della legislazione contro i
mo-nopoli, e la libertà degli scambi non basti ad
eli-minarli. In più tale convinzione è esagerata. Dal
1939 ad oggi l'incremento dei salari fu di oltre il
60' e talora del 70 %, nel mentre quello dei profitti
fu solo dell'I 1 %. C'è da attendersi che il prossimo
bilancio da un lato tasserà ulteriormente i più alti
profitti e, d'altro lato, ridurrà l'imposta sui redditi
più modesti, sì da accrescere io stimolo al
mas-simo sforzo produttivo.
Il momento è duro; ma è solo così che le classi
lavoratrici inglesi e in particolar modo i capi delle
loro organizzazioni potevano essere educati ad
ac-corgersi della dipendenza dell'economia inglese
dalla mondiale, sulla quale il Governo inglese non
ha controllo alcuno. Per quasi un secolo
l'espan-sione industriale fu così rapida, intensa e quasi
automatica che le classi lavoratrici, con alla testa i
minatori, quasi non s'accorsero di vivere su di una
isola che di quando in quando, nei periodi di
de-pressione, li stimolava ad emigrare o ad
arruo-larsi nell'esercito. D'altro lato non è detto che
l'arresto nell'ascesa idei salari sia il solo modo col
quale il Governo dica possibile di por fine
all'in-flazione. Esso ha già cominciato ad emettere liste
di prodotti i cui prezzi non possono' essere
ulte-riormente elevati.
paess potenzialmente ricchissimo, nonostante i
sa-crifici esatti dalla vittoria ne abbiano quasi
esau-rita la ricchezza accumulata e l'abbiano costretto
ad indebitarsi. E v'è un fenomeno, a mala pena
av-vertito all'estero, ma che è di colossale importanza
ed è constatabile quotidianamente alla cena, in
ogni famiglia che abbia parenti in Australia, in
Nuova Zelanda, nel Canada, nel Sud-Africa:
l'In-ghilterra e i Dominions si sentono più che mai
uniti: come in guerra così ora le quantità di cibo
che arrivano sono stupefacenti; e moltissime sono
« r i e propri doni.
E non solo dai Dominions, ma pur da moltissimi
Americani. Gli Americani che vengono qui ne
par-tono stupiti e commossi dallo stoicismo del popolo
e decisi ad aiutare. Non solo; ve ne sono che
tor-nano al loro paese convinti che questo fu non solo
sciopco, ma crudele a por fine così improvvisamente
due" anni fa al
lm\d. and leu se, e Che invece d'un
prestito d'un miliardo di sterline avrebbe dovuto
farne un dono o un prestito esente da interesse.
In quanti articoli di autorevoli giornali americani,
in quanti discorsi di senatori, finanzieri,
pubblici-sti, mi è capitato di leggere profonde espressioni
di fede nell'avvenire del mondo britannico
nono-stante questa transeunte crisi finanziaria e anche
mei suo avvenire economico-finanziario! Ho
per-fino trovato qualcuno che, a differenza di tutti gli
altri, criticando la frase con cui Churchill dichiarò
catastrofico l'esito delle elezioni del luglio 1945 è
venuto alla conclusione che queste elezioni hanno
evitatto all'Inghilterra un altrimenti forse
inevita-bile rivoluzione; giacché le classi lavoratrici inglesi
di fronte a un governo conservatore o di coalizione
non avrebbero avuto modo di persuadersi che le
attuali difficoltà e restrizioni e il contegno della
Russia non sono imputabili a governi inglesi! Tali
elezioni e il loro risultato hanno fatto fare, alle
classi lavoratrici e al Governo che le rappresenta
un passo nell'educazione alle loro responsabilità
al-trimenti impossibile, un passo nell'apprendimento
della importanza della compagine imperiale nel
mondo, un passo nell'apprendimento soprattutto
del fatto che il solo socialismo eventualmente
ca-pace di trionfare in Inghilterra dovrà essere un
socialismo capace di provvedere al mondo merci e
servizi approvabili dal referendum dei consumatori
di tutto il pianeta, ossia non meno efficiente d'ogni
paese a ragione di concorrenza.
E' un'educazione del tutto parallela a quella che
sta facendo rispetto al mondo britannico l'opinione
pubblica americana. Questa, a cagione della guerra
d'indipendenza del secolo XVIII, dovuta più che
altro alla strettezza mentale e alla testardaggine
di Giorgio III, in un momento in cui non si era
ancora scoperto il regime di Gabinetto
responsa-bile, è quasi del tutto inconscia dell'immensa
rivo-luzione nel regime costituzionale inglese da allora
in poi e nel carattere dell'Impero Britannico e,
ignara che essa è ormai una costellaziqne di nazioni
attualmente potenzialmente libera,
volontariamen-te univolontariamen-te dal comune vincolo della Corona, fino a
ieri e in gran misura pur oggi lo guarda con
diffi-denza e quasi ostilità. Se non che le ultime due
guerre mondiali hanno cominciato a mostrare che
esso è ben altro; e le sue attuali difficoltà e il
peri-colo russo hanno cominciato a rivelarlo come la
prima linea di difesa della stessa America, come
una mole il Cui " sfasciamento creerebbe un vuoto
che sarebbe colmato dalla Russia e coirne un
ba-luardo insostituibile della libertà e della civiltà
cri-stiana. Senza l'India in mani britanniche e senza
le basi britanniche nel Pacifico la guerra col
Giap-pone sarebbe costata miliardi di sterline di più.
Altro che il miliardo prestato ad interesse a John
Bull nel 1946! Di qui l'immensa gradita sorpresa
nel vedere, ad esempio, che l'India, pur diventando
indipendente e repubblicana, vuol rimanere imita
da un qualche vincolo permanente alla famiglia
britannica; e nel veder costituirsi i nuovi
Domi-nions di Ceylon e dell'Arcipelago Malese. Giacché
è di capitale importanza per la pace nell'Oceano
Indiano e nel Pacifico che in ogni futuro eventuale
conflitto l'esercito indiano sia. col mondo di
lin-gua inglese; ed è di capitale importanza che il
mondo indiano non sia da una qualsiasi cortina di
ferro chiuso alle merci del mondo di razza bianca.
Il fatto si è che l'America sta ogni giorno di più,
sia pur reluttantemente, scoprendo che, nonostante
la secessione del secolo XVIH, il mondo di lingua
inglese è rimasto ed anzi va diventando sempre
più uno ed è dalle stesse tradizioni politiche e dagli
stessi interessi economici costretto a seguire le linee
della politica estera inglese. Ecco perchè dopo aver
dato addosso a Churchill pel suo intervento ad
Atene contro il tentativo comunista del Natale 1944;
e poi pel suo discorso a Fulton due anni fa,
l'Ame-rica è ora pressoché unanime nell'ammirarne la
preveggenza e nel seguirne il consiglio nella
poli-tica mediterranea ed europea.
Essa pressoché trema nel sentirsi l'arbitra dei
destini del mondo e sente più che mai il valore
del-la accumudel-lata sajviezzdel-la inglese ed il valore del
mon-do di popoli liberi che questa ha saputo educare
attorno a sé. Essa, certo, sente ed è orgogliosa di
averla salvata assieme al resto dei popoli liberi;
ma sente anche d'esserne stata a sua volta salvata
in quell'estate del 1940 quando tutto il resto
del-l'Europa cedeva e la mole britannica fu sola a non
'cedere, nonostante l'America tremasse e concepisse
la possibilità del suo cedere! Senza quella solitaria
eroica resistenza gli Stati Uniti non sarebbero forse
che una mal sicura oasi di libertà in un mondo
do-minato da Hitler. (Nonostante l'attuale crisi
finan-ziaria l'ora che viviamo è un'ora grande, un'ora
in cui il mondo erede di Atene, Roma e
Gerusa-lemme va diventando sempre più organicamente
uno e da mero aggregato di nazioni va diventando
società, famiglia, organizzazione di popoli!
Londra, marzo 1948.
ANGELO CRESPI
AUTONOMIA E UNITÀ DELL'EUROPA
(Continuazione da pag. 4)
seria morale in cui versano i popoli europei,
biso-gna che l'Europa ritrovi la fiducia in se stessa.
Gli Stati europei, di fronte ad una situazione di
necessità, dovranno saper rinunciare ad una parte,
per ora minima, della loro sovranità, sottoponendo
alcune attività economiche essenziali alla guida e
al controllo di organi superstatali : sotto questo
punto di vista ci pare più progredita l'Europa
o-rientale che non quella occidentale, ove il Benelux
resta l'unica realizzazione concreta al riguardo,
mentre l'Unione doganale Italo-Francese è
tutto-ra un progetto e l'alleanza proposta
dall'Inghilter-ra ai Paesi più occidentali ha per odall'Inghilter-ra un cadall'Inghilter-rattere
politico. L'Europa ha già in sé grandi possibilità
di ripresa, e per di più una notevole superiorità
produttiva rispetto agli altri continenti. Deve
sa-perla sfruttare. Vi sono nuovi mondi — si pensi
all'India, alla Cina, alle possibilità africane — che
stanno per essere trasformati e che offrono alla
vecchia Europa amplissimi campi di
collaborazio-ne, anche se in modo diverso da quelli
sperimen-tati nel passato.
Bisogna che gli Europei si avvezzino a
conside-rare con ocdhio mondiale i vari problemi:
com-prenderanno allora le ragioni non già ideologiche
ma pratiche che spingono all'unità del loro
con-tinente.
PROBLEMI DI FINANZA LOCALE
Nell'ardua opera di ricostruzione del nostro
Paese, dopo le rovine della grande guerra e le gravi
peripezie di questi ultimi anni, non sono certo
tra-scurabili i problemi relativi al riordinamento della
finanza degli enti locali, che, anzi, si sono ora acuiti,
sia per il peggioramento della situazione
finanzia-ria generale ed in modo particolare di quella dei
Comuni e delle Provincie, sia anche a motivo delle
mansioni sempre più importanti e più costose ad
essi affidate. Colla creazione, poi, delle Regioni,
dotate di autonomia finanziaria nelle forme e nei
limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica, dati i
particolari compiti ad esse attribuiti, il problema
della finanza locale è diventato ancor più
com-plesso.
La difficoltà essenziale risiede sovrattutto
nel-l'attuale situazione economica generale e nello
scarso reddito nazionale; poiché non occorre
di-menticare che, qualunque sia il rimaneggiamento
della finanza degli enti locali, esiste sempre
l'uni-cità del contribuente: tanto quando egli paga i
tri-buti erariali, quanto allorché è chiamato a versare
quelli locali, è sèmpre la stessa la ricchezza, dalla
¿uale si preleva il gettito fiscale. E' vero che un
più razionale riordinamento della finanza locale
può senza dubbio correggere alcuni degli attuali
di-fetti del nostro assetto tributario; ma è vano
spe-rare di poter avere, ad esempio, largtii sussidi dalla
finanza centrale — come avviene in altri paesi —
a favore degli enti locali, quando alle crescenti
loro mansioni non sia possibile far fronte soltanto
col gettito dei tributi ad essi assegnati, trattandosi
di regioni o città, che si trovano in una situazione
economica depressa; né si può nutrir fiducia di
accrescere sensibilmente il reddito dei tributi locali
incidenti sulla ricchezza già colpita da imposte
statali, se il reddito nazionale è scarso sovrattutto
in rapporto alle esigenze fiscali. Dal discorso tenuto
dal ministro Pella in Torino il 15 febbraio si è
ap-preso infatti ufficialmente che il disavanzo per
l'esercizio 1947-48 si prevede di 600 miliardi. Anzi,
a questo riguardo, occorre rammentare che in
sif-fatto disavanzo non è incluso l'ammontare dei
resi-dui passivi, che non deve essere certamente
trascu-rabile anche se di esso non vediamo alcun cenno
nelle esposizioni finanziarie ufficiali. E' noto che
al 31 gennaio la circolazione già aveva raggiunto
i 789 miliardi, compresa la circolazione di
Sta-to, ed anche ise il rialzo dei prezzi durante
que-sti ultimi mesi ¡si può ritenere — come ha
af-fermato il ministro —
1inferiore all'incremento
ve-rificatosi nello stesso periodo di tempo
nell'emis-sione di carta-moneta a motivo della diminuita
velocità di circolazione, tuttavia è evidente che ci
troviamo di fronte ad una massa cartacea
impo-nente, cresciuta nel solo mese di dicembre di ben
85 miliardi, delle cui ripercussioni sulla vita
eco-nomica e finanziaria della Nazione non possiamo
nasconderci la gravità. Abbiamo, è vero, la
possi-bilità di ridurre in parte le spese salite già a circa
1400 miliardi, col ridurre sovrattutto quelle dovute
ai prezzi politici del pane e della pasta, abbiamo
inoltre un dato confortante nel recente incremento
della massa dei depositi, attestante la fiducia in
parte risorta nella relativa stabilità di valore della
moneta. Ma non ci si può nascondere la gravità
della nostra situazione finanziaria, che appunto si
deve tener in considerazione anche quando si
tratta di provvedere ad un miglioramento della
fi-nànza degli enti locali, tenuto conto di alcune
cate-gorie di spese tendenti tuttora a crescere e del livello
di pressione tributaria raggiunta, che anche il
mini-stro Pella ritiene rappresenti il limite massimo.
Non si deve infatti scordare che almeno il 25%
del reddito nazionale, calcolato nel suo complesso
di 4500 miliardi di lire, è assorbito dai tributi
era-riali e locali. E, per quanto in altri paesi, quali, ad
esempio, gli Stati Uniti, si sia raggiunto all'incirca
la stessa pressione fiscale, ed in Inghilterra si sia
giunti ad un prelievo del reddito nazionale, che
si aggira sul 43%, secondo i più recenti dati,
tut-tavia il sacrificio del nostro contribuente si può
ritenere più grave, non solo, come è ovvio, del
sa-crificio del contribuente americano, ma anche di
quello inglese, data l'esiguità del nostro reddito
medio in confronto di quello esistente nella Gran
Bretagna, la quale con una popolazione all'incirca
uguale alla nostra ha un reddito nazionale che si
calcola di 9 miliardi di sterline. Ne viene di
con-seguenza che i tributi incidono in Italia molto
spesso su consumi necessari, mentre in altri paesi,
più ricchi del nostro, colpiscono meno duramente i
piccoli ed i medi redditi. Siffatti dati relativi alla
pressione tributaria debbono essere tenuti
pre-senti, sia quando si considera il problema
gene-rale del prelievo tributario, sia quando si passa ad
esaminare il problema particolare della finanza
degli enti locali, la loro maggiore o minore
auto-nomia finanziaria, la possibilità o meno di avere
sussidi forfetari o specifici dallo Stato.
IL P R O B L E M A D E L L ' A U T O N O M I A
F I N A N Z I A R I A DEGLI E N T I LOCALI
Molto si è parlato dell'indipendenza finanziaria
degli enti locali; ma non sempre si è considerato
siffatto problema in stretto rapporto con le
pos-sibilità finanziarie stesse della Nazione. Ed invero
il problema dell'autonomia finanziaria, se da un lato
è collegato colla tradizione dell'ordinamento
am-ministrativo prevalente nei vari paesi (D — che
dalla forma di un netto decentramento, quale
ve-diamo di preferenza nei paesi anglosassoni, va al
sistema misto, quale troviamo nell'Europa centrale
e particolarmente in Francia, in Italia, in
Germa-nia (2) —, dall'altro canto è connesso anche con
la situazione finanziaria dei paesi stessi.
L'autonomia finanziaria degli enti locali può
es-sere rappresentata da particolari tributi di détti
enti, del tutto indipendenti da quelli erariali, oppure
può essere anche costituita da sussidi forfetari —•
quali vengono concessi, ad esempio, negli Stati Uniti
e particolarmente in Inghilterra — sussidi sulla cui
amministrazione lo Stato non esercita alcun
con-trollo e ¡che rappresentano pertanto per gli enti
locali, almeno per tutto il periodo per il quale sono
concessi, un vero e proprio reddito indipendente.
La concessione di siffatti aiuti da parte dello Stato
riuscì particolarmente utile nella Gran Bretagna
nei riguardi di quelle regioni e di quelle città che
ebbero a sopportare più duramente le gravi
riper-cussioni dell'ultima guerra, o per le zone
economi-camente depresse, nelle quali le mansioni affidate
agli enti locali sono particolarmente importanti e
costose in rapporto coi mezzi finanziari, di cui
detti enti possono disporre.
O R D I N A M E N T O
DELLA F I N A N Z A L O C A L E INGLESE
E' particolarmente interessante, a questo
ri-guardo, un sommario cenno dell'ordinamento della
finanza locale in Inghilterra durante questi ultimi
anni.
La finanza britannica degli enti locali è basata
essenzialmente, da un lato, sui tributi locali («
ra-tete») e, dall'altro, sui sussidi concessi dallo Stato
(« grants-in-aid »), i quali si distinguono in
sus-sidi specifici, accordati dal governo centrale a
par-ziale compenso delle particolari spese sostenute
da(II) ÌC. S. BASTABLE: Pubtte finamcs, L o n d o n , 1937, p a -gina. I l i e eeg.
(2) G. GUIDI: Recerruti tendenze dottrinali per il
regola-mento dei rapporti dì imposizione tra Stato ed enti minori,