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Circuiti elettrici in evoluzione dinamica

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Academic year: 2022

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Scipione Bobbio - Luigi Verolino

Scrivere e ... vivere con leggerezza non è solo un obiettivo, ma anche un ... ideale.

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Indice

Prefazione Capitolo 6

Circuiti funzionanti in condizioni variabili nel tempo Capitolo 7

Reti in regime sinusoidale Capitolo 8

Applicazioni del regime sinusoidale Capitolo 9

Sistemi trifasi

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Prefazione

Questo volume contiene sostanzialmente lo studio delle reti lineari di bipoli e doppi bipoli in regime sinusoidale (cioè in ‘corrente alternata’), includendo, naturalmente, anche i circuiti trifasi.

Lo studio dei circuiti lineari in condizioni ‘transitorie’ viene effettuato per mezzo del simulatore circuitale Spice, e il testo mette l’allievo in condizione di far uso di questo simulatore. Ciò farà sì che, oltre ad apprendere ad usare uno strumento che gli sarà indispensabile nel corso della sua vita professionale, lo studente potrà anche agevolmente familiarizzarsi con le dinamiche dei transitori più comuni, le quali gli verranno proposte dal simulatore in forma di grafici chiari e completi.

Infine, grande risalto viene dato alla parte applicativa per consentire all’allievo di rendersi conto fino in fondo se le idee esposte nel testo siano state ben assimilate.

Pertanto, con la certezza che ‘solo chi fa, sa’, questo volume, come d’altra parte quello sui circuiti in regime stazionario, è corredato di molti esempi completamente risolti e commentati.

S.B. - L.V.

Gennaio 2000 Mentre scrivevamo questi due volumi di Elettrotecnica, Scipione Bobbio, sopraffatto da un male incurabile, il 22 febbraio del 2000, ci ha lasciati. Pertanto, mi sembra giusto riportare un suo breve ricordo.

Era un uomo colto, una lucida intelligenza che offriva continuamente occasioni di crescita a chi gli stava accanto. Spontaneo, appassionato ed appassionante nel parlare, di grande generosità e per nulla invidioso. Nella società dell’immagine, aveva scelto la via della discrezione ed amava lavorare sia nella ricerca, sia nella società senza clamore, in totale dedizione.

Nato a Napoli il 23 luglio 1941 da Luigi e Maria Marone, si laureò in Ingegneria Elettronica all’Università di Napoli Federico II nel 1965, diventando ben presto Assistente, poi Professore Incaricato, infine Professore Ordinario dal 1980.

Insieme a Luciano De Menna, ad Oreste Greco ed al compianto Ferdinando Gasparini, suoi carissimi amici, ha fondato la scuola di Elettrotecnica napoletana, ormai punto di riferimento sul piano nazionale ed internazionale.

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Grande ricercatore ed amato didatta, ha dedicato gran parte della sua vita alla comprensione dei fondamenti dell’Elettromagnetismo e dell’interazione del campo con la materia.

Ha dato due grossi contributi nella sua attività di ricerca scientifica: uno riguardante lo studio e la progettazione di macchine Tokamak per realizzare la Fusione Termonucleare Controllata; l’altro riguardante l’interazione dei campi elettrici e magnetici con i mezzi materiali.

È stato autore di più di cento pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali e di vari testi didattici e scientifici, tra i quali ricorderemo:

• Elettromagnetismo e Ottica, scritto in collaborazione con Emilio Gatti, edito da Boringhieri nel 1984;

• Electrodynamics of materials, edito dall’Academic Press nel 2000.

Combinando la teoria classica dell’Elettromagnetismo con la Meccanica del Continuo e la Termodinamica, ha affrontato il problema delle forze e dell’energia nei mezzi polarizzati, contribuendo a chiarire una dibattuta controversia sulle formule di Helmholtz e di Kelvin per le densità di forza nei dielettrici e nei materiali magnetici. Gli ultimi lavori, alcuni scritti proprio poco tempo prima della fine, ed il libro edito dall’Academic Press riguardano proprio questo argomento. Nella presentazione al suo libro, Isaak Mayergoyz, professore all’Università del Maryland ed editore della serie di Elettromagnetismo dell’Academic Press, ha scritto: “The book reflects the broad erudition, unique expertise, and strong interest of the author in the fundamental aspects of electromagnetism”.

Era fermamente convinto che l’attività di ricerca servisse anche a fare la

‘manutenzione culturale’ del sapere, supporto indispensabile per il docente.

Tutti ricordiamo, ormai con nostalgia, le sue lezioni di Elettrotecnica, vissute al limite della teatralità, in cui, quasi prendendo a pretesto le proprietà delle reti elettriche o dei campi elettromagnetici, si poteva ascoltare un grande maestro che insegnava come si ‘struttura il pensiero’.

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Scipione Bobbio ai tempi in cui era assessore al Comune di Napoli.

Lo stesso rigore, la stessa determinazione ed il forte impegno civile portò quando, chiamato come assessore, lavorò nella prima giunta Bassolino. Questo scienziato, prestato alla politica, è ricordato con tanto affetto da tutti coloro che, in quel periodo, ebbero modo di interagire con lui, perché egli sapeva immedesimarsi nei problemi della gente, da quelli dei dipendenti comunali messi in mobilità, a quelli dei cittadini.

Grazie, insostituibile amico e maestro,

Luigi Verolino.

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Capitolo 6

Circuiti funzionanti in condizioni variabili nel tempo

6.1 Introduzione

6.2 Circuiti resistivi in condizioni di funzionamento non stazionario 6.3 Bipoli con memoria: l’induttore e il condensatore ideali

6.4 Altri componenti dotati di memoria: il mutuo induttore 6.4.1 Trasformatore ideale

6.4.2 Mutuo induttore

6.5 Struttura generale della Teoria dei circuiti in condizioni variabili nel tempo

6.6 Un esempio di studio di circuito in condizioni variabili

6.7 Classificazione dei tipi fondamentali di funzionamento variabile nel tempo

6.8 Le condizioni iniziali 6.9 Evoluzione libera

6.10 Risposta al gradino e altri esempi

Appendice: transitori in circuiti con generatori controllati

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Sommario

Questo capitolo fornisce una introduzione allo studio dei circuiti che funzionano in condizioni variabili nel tempo. Particolare attenzione verrà posta all’introduzione di nuovi elementi ‘a memoria’, induttore, condensatore e mutuo induttore, che, a differenza del resistore, sono capaci di immagazzinare l’energia elettrica. Non poteva mancare un cenno ai transitori di circuiti in cui sono presenti generatori controllati.

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6.1 Introduzione

Nel primo volume di questa collana ci siamo volutamente limitati a trattare i circuiti funzionanti in regime stazionario, pur sapendo bene che, nella stragrande maggioranza dei casi, i circuiti funzionano invece in condizioni non stazionarie.

Per la verità, applicazioni importanti della ‘corrente continua’ non mancano: basti pensare, ad esempio, a treni, tram, filobus, funivie, per i quali la ‘continua’ gioca un ruolo importante. Anche in questi casi, però, va detto che tutti i ‘circuiti ausiliari’ che azionano, controllano e segnalano il funzionamento degli apparati principali funzionano in condizioni non stazionarie. Rimane vero, dunque, che, nel panorama dei circuiti elettrici ed elettronici, la regola è il funzionamento non stazionario mentre quello stazionario costituisce l’eccezione.

Ma, allora, perché siamo partiti a spiegarvi le cose con l’eccezione, e non con la regola? La risposta è semplice, ed è fatta di due parti: la prima, ovvia per la verità, è che lo studio dei circuiti in regime stazionario è generalmente più semplice dell’altro; la seconda ragione, ancora più importante, è che, una volta che si sia capito davvero il funzionamento dei circuiti in regime stazionario, è molto agevole e naturale estendere l’intera trattazione al caso generale, poiché ci sono poche cose nuove da capire rispetto a quelle già acquisite. E, una volta che le avrete capite, il gioco sarà fatto: vedrete tra poco. Prima di entrare nel vivo delle questioni che affronteremo nei prossimi paragrafi, però, vogliamo profittare ancora per qualche momento di questa introduzione per accennare a un’ulteriore distinzione che va fatta nell’ambito del funzionamento non stazionario (e che riprenderemo alla fine del capitolo):

• funzionamento periodico (e, in particolare, regime sinusoidale, detto anche in gergo funzionamento in corrente alternata);

• funzionamento aperiodico, detto anche ‘transitorio’ (ma quest’ultimo termine, come si vedrà, è molto limitativo, ed è preferibile usarlo soltanto nei casi particolari in cui, come vedremo più avanti, trova una sua giustificazione pratica).

Questa distinzione è importante sia sul piano concettuale, sia su quello pratico, perché, tra l’altro, ci aiuta anche a cominciare a capir meglio alcune importanti differenze che esistono fra quei circuiti che finora abbiamo considerato indifferentemente elettrici oppure elettronici. Va detto, dunque, che i circuiti che svolgono nelle nostre case funzioni che possiamo considerare ‘ripetitive’, come l’illuminazione, il condizionamento ambientale, i lavori domestici (lavatrice, aspirapolvere, lavastoviglie, frigorifero, forno) funzionano di regola in regime sinusoidale (fatta eccezione, ovviamente, per i pochissimi attimi in cui vengono

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accesi o spenti, oppure ancora ‘regolati’ per far fronte a mutate esigenze). In genere, questi dispositivi assorbono potenze elettriche (e quindi anche energie) di un qualche rilievo: ad esempio, alcuni chilowatt di potenza (e quindi parecchi chilowattora giornalieri di energia).

I circuiti che, invece, svolgono funzioni tipicamente non ripetitive, come il telefono, la TV, gli impianti hi-fi, i personal computers, funzionano in condizioni non periodiche, e quindi variabili nel tempo in modo del tutto generale. Di regola, questi altri dispositivi, contrariamente ai precedenti (stufe, frigoriferi, ... ) assorbono livelli di potenza elettrica (e quindi anche energia) molto minori: ad esempio, dell’ordine dei watt, delle decine o al massimo delle centinaia di watt.

Riassumendo, possiamo dire che, in gergo, vanno spesso sotto il nome di circuiti elettrici quelli che hanno funzionamento tipicamente ripetitivo e assorbono valori significativi di potenza ed energia elettrica (si dice che lavorano a livello di potenza); vanno, invece, sotto l’indicazione di circuiti elettronici quelli che hanno funzionamento tipicamente non ripetitivo, e assorbono potenze ed energie elettriche notevolmente minori (si dice che lavorano a livello di segnale). La distinzione non è comunque sempre così netta, e qualche ambiguità spesso rimane.

A questo punto, non ci resta che avviarci a fare il ‘grande salto’ dai circuiti in regime stazionario a quelli funzionanti in condizioni qualsiasi. Lo faremo nei prossimi paragrafi, ma, come al solito, con la massima gradualità, in modo da portarvi alla meta ... senza scossoni. Nel prossimo paragrafo, perciò, ci limiteremo a considerare una particolare classe di circuiti (quelli soltanto resistivi), in cui il passaggio dal regime stazionario a quello non stazionario non comporterà concettualmente alcuna novità: sarà soltanto questione di ... pazienza (e Spice, vedrete, ci verrà in aiuto ancora una volta per risparmiare fatica).

Nei paragrafi successivi, invece, entreremo davvero nel vivo delle questioni, affrontando i veri ‘fatti nuovi’ che nascono nel funzionamento non stazionario, e che - come vedremo - traggono origine dal fatto che dovremo prendere in considerazione componenti nuovi (diversi da quelli finora considerati), e che si comportano in modo concettualmente e praticamente diverso dai resistori.

Ma ... andiamo per gradi ed esaminiamo una cosa alla volta.

6.2 Circuiti resistivi in condizioni di funzionamento non stazionario In questo paragrafo, ci limiteremo a prendere in considerazione circuiti dello stesso tipo di quelli di cui ci siamo occupati nella prima parte, con una importante differenza: i generatori (di tensione o corrente) che li ‘alimentano’ non sono più stazionari, bensì, come si dice in gergo, tempo varianti. Chiariamo subito cosa sia, ad esempio, un generatore di tensione tempo variante. È molto semplice: è un

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bipolo la cui tensione ai morsetti è assegnata come funzione del tempo, che indicheremo solitamente con e(t), indipendentemente dai circuiti nei quali il generatore stesso può essere inserito. Fra un attimo, faremo degli esempi, e mostreremo pure come sia possibile realizzare, almeno in linea di principio, simili oggetti. Per ora, comunque, quel che ci preme sottolineare è che l’unica differenza esistente fra un generatore indipendente di tensione stazionaria e uno tempo variante è che, nel primo caso, la tensione ai morsetti è rappresentata da un numero assegnato (e quindi costante nel tempo), mentre, nel secondo caso, è rappresentata da un’assegnata funzione del tempo e(t). In entrambi i casi, comunque, il generatore è in grado di erogare qualsiasi valore di corrente (anch’essa, in generale, funzione del tempo) a seconda dei circuiti nei quali esso è inserito. Per non lasciare le cose troppo nel vago, mostriamo subito come sia possibile concepire generatori tempo varianti, purché si disponga di un semplicissimo bipolo, il cosiddetto interruttore ideale. Naturalmente, i veri generatori tempo varianti sono fatti diversamente, e ce ne occuperemo diffusamente in altri volumi di questa collana, specie quello dedicato alle

‘Macchine Elettriche’; per il momento, quel che ci accingiamo a dire è più che sufficiente per i nostri scopi. Cos’è, dunque, un interruttore ideale?

T

Figura 6.1: simbolo dell’interruttore ideale.

Un semplicissimo bipolo che presenta due possibili stati di funzionamento, indicati solitamente come chiuso e aperto (oppure, in gergo, on e off): il punto essenziale è che il passaggio da uno stato all’altro è deciso da noi, a piacer nostro premendo un tasto, pigiando un pulsante, o in qualsiasi altro modo. I due stati dell’interruttore ideale corrispondono a quello di corto circuito ideale (interruttore ‘chiuso’, o in

‘on’), e di circuito aperto ideale (interruttore ‘aperto’, o in ‘off’). Per questo motivo, l’interruttore ideale è solitamente rappresentato graficamente come in Figura 6.1, nella quale il tasto T si suppone mobile in modo da poter essere chiuso e riaperto a nostro piacimento (in Figura 6.1, è in posizione aperto, ovviamente).

Ritornando ora al modo in cui si possa concepire, almeno in linea di principio, un semplicissimo generatore di tensione tempo variante, basta pensare a un bipolo del tipo schematizzato in Figura 6.2.

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+

+

A

B +

− E1

E2

I2 I1

e(t)

Figura 6.2: un semplice generatore di tensione tempo variante.

Esso è costituito, come si vede, da due generatori indipendenti di tensione stazionaria di f.e.m. rispettive E1 e E2, nonché dagli interruttori ideali I1 e I2, disposti come in Figura 6.2.

+

+

A

B +

− E1

E2

I2

I1 e(t) = E1

Figura 6.3: l’interruttore I1 è aperto, I2 è chiuso.

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È facile rendersi conto che la tensione che si presenta ai morsetti del bipolo equivalente A-B dipende dagli stati dei due interruttori ideali. Se, infatti, teniamo aperto I1 e chiuso I2, come in Figura 6.3, la tensione ai morsetti A-B è pari alla f.e.m. E1. Per convincersene, basta applicare la LKT alla maglia A - I2 - E1 - B - A. Se, invece, chiudiamo I1 e apriamo I2, come in Figura 6.4, la tensione tra A e B diventa pari alla somma E1 + E2. Possiamo quindi concludere che, manovrando a piacere i due interruttori ideali, siamo facilmente in grado di concepire un generatore di tensione tempo variante, la cui tensione ai morsetti A e B cambi nel tempo in maniera largamente arbitraria (pur essendo, in questo caso, costante a tratti).

+

+

A

B +

− E1

E2

I2

I1 e(t) = E1 + E2

Figura 6.4: l’interruttore I1 è chiuso, I2 è aperto.

e(t)

t

0 t1 t2 t3 t4 t5 t6

E1 E1 + E2

Figura 6.5: un possibile andamento temporale della tensione e(t).

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In Figura 6.5 abbiamo riportato una esempio di tensione variabile a tratti.

Sapreste dire cosa accade quando entrambi gli interruttori sono chiusi?

È ovvio, inoltre, che, se invece di disporre di due soli generatori stazionari e altrettanti interruttori, si dispone di quanti si vuole generatori stazionari di f.e.m.

qualsiasi e interruttori, è possibile costruire molto facilmente generatori tempo varianti la cui tensione ai morsetti possa essere assegnata praticamente a piacere come funzione del tempo e(t), come, ad esempio, quella mostrata in Figura 6.6.

e(t)

t 0

Figura 6.6: una ‘forma d’onda’ un po’ più complicata.

In maniera del tutto simile, naturalmente, possono essere definiti e concepiti i generatori indipendenti di corrente tempo varianti: si tratta di bipoli che erogano correnti i(t) il cui andamento nel tempo è assegnato indipendentemente dai circuiti nei quali sono inseriti, mentre le tensioni ai loro capi possono essere, in linea di principio, arbitrarie.

A questo punto, armati di questi nuovi dispositivi, non ci resta che provare a studiare il funzionamento di qualche semplice esempio di circuito contenente soltanto generatori tempo varianti, nonché resistori.

Ciò che va chiarito ancora una volta, ove ce ne fosse ancora bisogno, è che i mezzi cui faremo ricorso sono sempre gli stessi, e cioè le onnipresenti LKC e LKT, nonché le caratteristiche dei bipoli e dei doppi bipoli presenti nei circuiti: e null’altro!

Consideriamo, allora, il semplicissimo circuito rappresentato in Figura 6.7, in cui si suppone che il generatore di tensione sia tempo variante, e che la sua f.e.m. sia quella rappresentata nella stessa figura con E1 = 100 V, E2 = 50 V, E3 = - 100 V, t1 = 20 s, t2 = 70 s, t3 = 110 s. Siano, inoltre, R = 20 Ω e R1 = R2 = 10 Ω.

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e(t)

t 0

E1

E2

E3

t2 t3

t1 +

e(t) R1 R2

i R

i1 i2

Figura 6.7: primo esempio di circuito tempo variante.

Dopo aver compiuto le operazioni di rito (scelta delle correnti sui diversi rami), ci proponiamo di determinare innanzitutto le correnti i(t), i1(t) e i2(t) circolanti nel circuito.

A questo scopo, basterà considerare i tre intervalli di tempo, distinti fra loro, in cui la e(t) assume separatamente i tre valori costanti, E1, E2 e E3, e risolvere il circuito in ciascuno dei tre casi come se fosse, di per sé, in regime stazionario (e cioè dimenticandosi temporaneamente degli altri due). Si tratterà, insomma, di risolvere per tre volte, consecutivamente, lo stesso circuito, cambiando soltanto la f.e.m. del generatore presente.

+

− e(t)

i R

R0

Figura 6.8: circuito semplificato.

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Ormai, siete diventati bravi a risolvere circuiti, e concluderete subito che, in ultima analisi, R1 e R2 sono fra loro in parallelo e possono essere sostituiti da un resistore R0 = 5 Ω, posto in serie a R, come mostrato in Figura 6.8.

La soluzione è dunque immediata, perché, in corrispondenza dei diversi valori di f.e.m. del generatore, si ha:

• per t compreso tra 0 s e 20 s, e(t) = 100 V, e quindi i = 100

25 A = 4 A , i1 = i2 = i

2 = 2 A ;

• per t compreso tra 20 s e 70 s, e(t) = 50 V, e quindi i = 50

25 A = 2 A , i1 = i2 = i

2 = 1 A ;

• per t compreso tra 70 s e 110 s, e(t) = - 100 V, e quindi i = - 100

25 A = - 4 A , i1 = i2 = i

2 = - 2 A .

Si vede che, ovviamente, le tre correnti i i1 e i2 variano anch’esse nel tempo come la e(t). In Figura 6.9 è riportato l’andamento della sola i(t), per semplicità.

t

0 t1 t2 t3

i(t) 4

2

- 4

Figura 6.9: andamento temporale della corrente i(t).

A questo punto, il metodo di soluzione di circuiti di questo tipo dovrebbe essere chiaro, e può essere riassunto così: indipendentemente dalla variabilità nel tempo del generatore (o dei generatori) presente basta risolvere il circuito in ogni istante

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come se fosse in regime stazionario, utilizzando naturalmente i valori dei generatori (di tensione e di corrente) effettivamente presenti in ciascuno degli istanti considerati. Si tratta, in ultima analisi, di armarsi si pazienza, e ripetere tante volte i calcoli fino a ottenere tutti i risultati che si desiderano.

Anche in questo caso, come si accennava in precedenza, Spice può esserci di grande aiuto, facendoci risparmiare fatica perché c’è addirittura una sua specifica istruzione che ci consente di fare automaticamente col computer ciò che altrimenti dovremmo fare ‘a mano’: si tratta dell’istruzione ‘.DC’.

Fino ad ora abbiamo imparato a risolvere una rete in continua con Spice e a ricavare alcune informazioni come la potenza erogata dai generatori indipendenti di tensione. L’istruzione ‘.DC’ permette di risolvere una rete quando un generatore indipendente varia entro un intervallo di valori. Consideriamo di nuovo l’esempio disegnato in Figura 6.10, descritto delle istruzioni, di seguito riportate.

Esempio 1

* Esempio di circuito in continua

R1 1 3 2

R2 1 2 4

R3 3 0 10

R4 2 0 4

VE 1 0 100

IJ 2 3 4

.END

R4 R3

R2 R1

I1

I3 I2

I4 J E

I

1

2 3

0 +

E = 100 V J = 4 A R1 = 2 Ω R2 = 4 Ω R3 = 10 Ω R4 = 4 Ω

Figura 6.10: un esempio per illustrare l’uso dell’istruzione ‘.DC’.

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L’istruzione (inserita proprio prima dell’istruzione ‘.END’)

.DC VE 90 110 1

fa sì che l’analisi in corrente continua venga effettuata considerando il generatore di tensione VE che assume valori tra 90 V e 110 V con un incremento di 1 V. In altri termini, Spice risolve il circuito una volta per VE = 90 V, poi per VE = 91 V, fino a VE = 110 V.

Per ogni valore del generatore VE potete richiedere, mediante l’istruzione

‘.PRINT DC’, la stampa di una o più grandezze di interesse e otterrete nel file di uscita una tabella in cui la prima colonna contiene i valori assunti dal generatore che varia e le successive contengono le grandezze richieste.

Si noti che non conta il valore 100V che compare nella riga in cui definiamo il generatore che faremo variare

VE 1 0 100 ,

in quanto esso sarà sostituito dal valore di volta in volta imposto dall’istruzione

‘.DC’. Tale valore, di solito, viene posto a zero proprio per ricordare che il generatore è incluso in un istruzione ‘.DC’.

L’istruzione ‘.DC’ permette anche di far variare due generatori indipendenti contemporaneamente; questa possibilità è particolarmente utile per ricavare le caratteristiche di uscita dei doppi bipoli (per esempio, del transistore)

.DC VE 90 110 1 IJ 0 4 0.5 .

Stavolta facciamo variare anche il generatore IJ tra 0 A e 4 A con incrementi di 0.5 A. Il file di uscita conterrà ancora una tabella in cui per ogni valore di VE avremo i valori assunti dalle grandezze richieste per tutti i valori di IJ.

Per ottenere nella tabella anche i valori assunti da IJ bisogna ricorrere a un generatore di tensione usato come amperometro, posto in serie a IJ.

Prima di concludere questo paragrafo, è importante fare un’ultima osservazione, che ci riuscirà utile più avanti nei paragrafi seguenti.

L’osservazione, peraltro semplicissima, è che tutto quello che abbiamo detto in questo paragrafo può essere riassunto così: per risolvere qualsiasi circuito resistivo, alimentato da generatori tempo varianti, basta scrivere le equazioni del circuito lasciando soltanto indicate le funzioni che rappresentano le f.e.m. dei generatori di tensione (e le correnti di quelli di corrente), e risolvere, senza

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specificare in partenza il valore di t al quale si riferiscono. Con riferimento, ad esempio, al circuito di Figura 6.8, basta scrivere la soluzione generale, valida per ogni t, nella forma:

i(t) = e(t)

R + R0 , i1(t) = i2(t) = i(t) 2 .

Il punto importante è che, in questo modo, la soluzione generale del problema, valida per ogni t, è stata ottenuta scrivendo e risolvendo equazioni nelle quali compare il ‘parametro’ esprimente l’istante di tempo t, che, in partenza, può assumere qualsiasi valore, a patto che, ad ogni suo valore, corrisponda nelle equazioni il valore ‘giusto’ (e cioè corrispondente allo stesso t) di e(t).

6.3 Bipoli con memoria: l’induttore e il condensatore ideali

Se tutti i circuiti funzionanti in condizioni variabili nel tempo fossero del tipo che abbiamo trattato nel paragrafo precedente, potremmo dire di avere praticamente concluso il nostro studio dell’intera Teoria dei circuiti, e di poter terminare qui questo libro. Ma, per fortuna, le cose non stanno così.

Per ... sfortuna, altro che per fortuna, penserete voi: sarebbe bello poter smettere di studiare tutta questa roba, sapendo di aver già imparato tutto quello che c’è da imparare. E, invece, sarebbe proprio un gran male, se le cose stessero così, perché l’utilizzazione dell’energia elettrica si ridurrebbe, in ultima analisi, all’illuminazione, al riscaldamento e a poco più. Non disporremmo, invece, delle sconfinate possibilità che sono offerte dai fenomeni fondamentali dell’Elettromagnetismo e delle sue bellissime leggi. Non disporremmo, ad esempio, delle onde elettromagnetiche, e quindi di radio, TV, telefoni satellitari, radar, né delle infinite opportunità offerte dall’Informatica e dalla Telematica, con i loro computers, le loro reti (Internet in testa alle altre), né delle insostituibili apparecchiature biomediche che consentono oggi di curarci (TAC, NMR, PET).

In ultima analisi, converrete facilmente anche voi che, senza tutte queste cose, il mondo sarebbe incomparabilmente più ‘povero’ di opportunità di ogni tipo.

Ma, per fortuna, dicevamo, le cose non stanno così.

E, a guardare bene, la ragione ultima per cui i circuiti funzionanti in condizioni variabili nel tempo offrono le sconfinate possibilità che offrono è che, oltre ai generatori tempo varianti e ai bipoli e doppi bipoli resistivi, esistono altri tipi di componenti, che si comportano in modo completamente diverso, e che indicheremo genericamente come componenti dotati di memoria (in opposizione ai resistori che, come vedremo subito, ne sono invece privi).

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Tra questi ‘nuovi’ tipi di componenti che ci accingiamo a introdurre subito, i più semplici e senza dubbio più importanti sono:

• l’induttore ideale;

• il condensatore ideale.

In questo paragrafo, cominceremo col definire che cosa essi siano; li esamineremo uno alla volta, e ne spiegheremo più chiaramente possibile il funzionamento dal punto di vista circuitale. Ci sforzeremo inoltre di spiegare bene i motivi per cui essi si comportano in modo totalmente diverso dai resistori, e offrono quindi opportunità che i resistori stessi neppure si sognano.

Quel che, invece, non potremo fare (perché non ne abbiamo ancora gli strumenti concettuali), è spiegarvi cosa c’è davvero dentro ciascuno di questi bipoli, né come funzionano dal punto di vista fisico. Ma questo sarà compito del volume in cui tratteremo le leggi dell’Elettromagnetismo. Per ora, andiamo come al solito per gradi, e facciamo una cosa alla volta: impariamo a usarli nei circuiti.

L’induttore ideale

Abbiamo più volte detto che, in regime stazionario, definire un bipolo dal punto di vista circuitale vuol dire, in ultima analisi, assegnarne la caratteristica statica, e cioè la funzione che consente di determinare il valore della tensione V da applicare ai morsetti del bipolo quando si vuole che la corrente che in esso circoli valga I [oppure, viceversa, determinare I quando sia nota V].

Ricordiamo, ad esempio, che la caratteristica statica di un resistore è esprimibile come

V = ± R I , con R ≥ 0 , (6.1)

(il segno a secondo membro è ‘+’, se si è fatta per il resistore la convenzione dell’utilizzatore; il segno ‘-’, in caso contrario). Non a caso, una caratteristica di questo tipo è detta statica, poiché il tempo t non vi figura in alcun modo.

Diremo invece che una caratteristica è dinamica, se il tempo t vi compare in modo esplicito. D’altra parte, è anche ovvio che - se proprio lo desideriamo - non ci vuole molto a far comparire la variabile t in una relazione del tipo (6.1); basta, infatti, dire che essa vale in ogni istante di tempo, e scrivere quindi:

v(t) = ± R i(t) , con R ≥ 0 . (6.2)

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Con ciò, la variabile t è presente, questa volta, e la (6.2) potrebbe essere vista non più come una caratteristica statica, bensì dinamica. In realtà, però, quello di cui stiamo parlando è un fatto di forma, più che di sostanza, perché la (6.2) non dice nulla di più di quanto dica la (6.1), e cioè che, in ogni istante t, per ottenere v(t) a quell’istante, basta moltiplicare per R (a parte il segno ‘±’) il valore della i(t) nello stesso istante. E tutto questo era già contenuto anche nella (6.1), pur senza esplicitare la variabile t.

Le cose stanno, invece, in modo completamente diverso per l’induttore ideale, perché, come vedremo fra un attimo la sua caratteristica è davvero dinamica, e cioè contiene la variabile t in maniera sostanziale e non soltanto formale.

i(t)

+ v(t) −

L

Figura 6.11: simbolo dell’induttore ideale.

L’induttore ideale, solitamente rappresentato nei circuiti come indicato in Figura 6.11, è un bipolo la cui caratteristica è, per definizione

v(t) = ± L d

dt i(t) , con L ≥ 0 , (6.3)

nella quale L è un numero (non negativo) che caratterizza l’induttore (come la resistenza caratterizza il resistore), prende il nome di induttanza (oppure coefficiente di autoinduzione) dell’induttore, e si misura in henry (H). Inoltre, il segno a secondo membro della (6.3) è ‘+’ se si è fatta per l’induttore la convenzione dell’utilizzatore (come in Figura 6.11); è ‘-’ in caso contrario (convenzione del generatore).

Come si vede, la (6.3) è una vera caratteristica dinamica, poiché la variabile t vi figura in maniera sostanziale attraverso l’operazione di derivata rispetto a t della funzione i(t), a secondo membro. In altre parole, non è possibile, in questo caso, eliminare la variabile t, senza che nulla cambi (come è, invece, possibile per la caratteristica del resistore). Eliminare la variabile t, infatti, obbligherebbe a

(24)

eliminare anche la derivata della funzione i(t) rispetto a t. Ma, eliminare la derivata equivarrebbe a ... ‘gettar via il bambino insieme con l’acqua sporca’.

Per essere il più possibile chiari, sottolineiamo che, per ottenere il valore della tensione v(t) a un dato istante t, occorre moltiplicare per il numero L non il valore di i(t) allo stesso istante t, bensì il valore della derivata rispetto a t della corrente, calcolata nello stesso istante t. Tutto ciò conferma, come si vede, l’aspetto sostanziale e non formale della presenza della variabile t in una caratteristica dinamica come la (6.3).

Chiariti questi primi punti essenziali, ci proponiamo ora di mettere in evidenza le differenze fondamentali che passano fra il comportamento circuitale di un resistore e quello di un induttore ideale. A questo scopo, mettiamo a confronto le principali differenze che derivano dalle caratteristiche dei due componenti (per semplicità, facciamo per entrambi la convenzione dell’utilizzatore).

Resistore

A) Caratteristica:

v(t) = R i(t) , con R ≥ 0 .

B) In ogni istante t, per un fissato valore di i, resta determinato (per una data R) il valore di v nello stesso istante. Ad esempio sia R = 10 Ω e t = 2 s; per i(2) = 5 A, si ha v(2) = 10 ⋅ 5 = 50 V.

Se, poi, si prova a variare bruscamente (cioè di ‘scatto’) il valore della tensione applicata, portandolo istantaneamente, che so, a 100 V, la corrente cambia anch’essa istantaneamente, portandosi, in questo esempio, a 10 A. La stessa cosa si verifica, ovviamente, se, invece che aumentare la tensione applicata, la riduciamo:

la corrente si riduce anch’essa istantaneamente nella misura imposta dalla caratteristica del resistore. In altre parole, la corrente nel resistore ‘risponde’

istantaneamente alle variazioni di tensione applicata senza alcuna ‘esitazione’. È come una automobile che abbia una ‘ripresa’ fortissima: è sufficiente schiacciare l’acceleratore perché l’auto acceleri istantaneamente. In questo senso, è come se il resistore non avesse alcuna memoria della situazione in cui si trovava a funzionare prima che facessimo variare la tensione ad esso applicata.

C) La caratteristica statica può essere rappresentata con un grafico.

D) La tensione v è sempre dello stesso segno di i, perché R è positiva. Ne deriva che le cariche positive, in un resistore, ‘cadono’ sempre dai punti a potenziale più alto a quelli a potenziale più basso.

(25)

E) La potenza elettrica assorbita è, in ogni istante, trasformata tutta in calore per effetto Joule. Il resistore è come un colabrodo che non riesce a trattenere nemmeno un po’ di energia elettrica.

Induttore

A) Caratteristica:

v(t) = L d

dt i(t) , con L ≥ 0 .

B) In ogni istante t, per un fissato valore di i, v può assumere qualsiasi valore nello stesso istante. Ad esempio, sia L = 2 H e t = 2 s; consideriamo due casi tipici:

• i1(t) = 2.5 t ; i1(2) = 2.5 ⋅ 2 = 5 A ;

•• i2(t) = 10/t ; i2(2) = 10/2 = 5 A ,

nei quali i(2) ha lo stesso valore (5A). Calcoliamo, ora, nei due casi, le corrispondenti tensioni, ottenendo:

• d

dt i1(t) = d

dt 2.5 t = 2.5 ;

•• d

dt i2(t) = d dt 10

t = - 10 t2

.

Quindi:

• v1(2) = 2 ⋅ 2.5 = 5 V ;

•• v2(2) = - 2 ⋅ 10

4 = - 5 V ≠ v1(2) !

Come si vede, v2(2) è addirittura di segno opposto, in questo caso particolare, a v1(2), a parità di corrente nell’istante considerato.

Il punto centrale da capire è che, nell’induttore, un brusco aumento della tensione applicata non provoca un aumento altrettanto brusco della corrente (come avviene, invece, nel resistore), ma soltanto una accelerazione nella crescita della corrente.

Da questo punto di vista, l’induttore è come un’auto dotata di scarsa ‘ripresa’ (e la

(26)

ripresa è tanto peggiore quanto maggiore è l’induttanza L!). Quando ‘schiacciamo l’acceleratore’ della tensione applicata, la corrente aumenta, sì, ma con gradualità, non istantaneamente: è proprio come se l’induttore conservasse una certa memoria della condizione in cui funzionava prima. Per questo, lo consideriamo dotato di memoria.

i1(t) i2(t)

t0 t

0 I0

Figura 6.12: intersezione tra due correnti.

Per rendere il fenomeno ancora più evidente, osserviamo esplicitamente che diverse funzioni i(t) possono avere, nello stesso istante, lo stesso valore, ma diversi valori della derivata rispetto a t, come suggerisce la Figura 6.12.

All’istante t0, sia i1(t) che i2(t) hanno il valore I0, ma la derivata di i1(t) è positiva (la curva è inclinata verso l’alto), mentre la derivata di i2(t) è negativa (la curva è inclinata verso il basso).

C) La funzione che descrive la caratteristica statica non esiste, e non può quindi essere rappresentata da alcun grafico.

D) Il segno di v non dipende da quello di i, perché dipende dal segno della derivata di i. Ne deriva che le cariche positive, in un induttore, possono sia

‘cadere’ dai punti a potenziale più alto, sia fare il contrario, cioè ‘risalire’ dai punti a potenziale più basso a quelli a potenziale più alto.

E) La potenza elettrica assorbita da esso è, in ogni istante, immagazzinata e neppure una piccola parte viene trasformata in calore. L’induttore è come un serbatoio di energia privo completamente di buchi. L’energia (detta magnetica in questo caso) accumulata in un induttore è data, in ogni istante da:

UL = 1

2 L i(t) 2 . (6.4)

(27)

Essa dipende, quindi, soltanto dal valore della corrente che circola nell’induttore in quell’istante (e non dalla tensione applicata ai suoi morsetti).

In regime stazionario, l’induttore si riduce a un semplice corto circuito, poiché i è costante nel tempo, e la sua derivata è quindi nulla. Si ha, dunque:

v(t) = L d

dt i(t) = L ⋅ 0 = 0 !

Ecco perché, in regime stazionario, non ne abbiamo proprio parlato.

Il condensatore ideale

Il condensatore ideale, schematizzato solitamente nei circuiti come in Figura 6.13, è un bipolo la cui caratteristica è, per definizione:

i(t) = ± C d

dt v(t) , con C ≥ 0 , (6.5)

nella quale C è un numero (non negativo) che caratterizza il condensatore (come l’induttanza L caratterizza l’induttore), prende il nome di capacità del condensatore, e si misura in farad (F); inoltre, al secondo membro della (6.5), il segno presente è ‘+’ se si è fatta la convenzione dell’utilizzatore (come in Figura 6.13); altrimenti, se cioè si è fatta la convenzione del generatore, il segno è ‘-’.

i(t)

v(t)

+ −

C

Figura 6.13: simbolo del condensatore ideale.

Come si vede, anche in questo caso (come per l’induttore), la (6.5) rappresenta una caratteristica dinamica ‘vera’, poiché la variabile t vi figura in maniera sostanziale attraverso l’operazione di derivazione proprio rispetto alla variabile t!

(28)

Dal punto di vista circuitale, il condensatore si comporta in maniera per così dire

‘simmetrica’ (in gergo, si dice duale), rispetto all’induttore. In parole povere, ciò significa che tutto quello che abbiamo detto a proposito dell’induttore, possiamo ripeterlo a proposito anche del condensatore, a patto di scambiare sempre tra loro le parole tensione e corrente. Così, ad esempio, potremo dire che, in ogni istante, il valore della corrente circolante nel condensatore è indipendente dal valore della tensione applicata in quello stesso istante al condensatore, ma è invece proporzionale alla derivata nel tempo di questa tensione.

Similmente, le cariche positive possono, nel condensatore, tanto ‘cadere’ dai punti a potenziale più alto a quelli a potenziale più basso, quanto ‘risalire’ in senso inverso, a seconda del segno della derivata nel tempo della tensione. Continuando nelle analogie con l’induttore, anche il condensatore è come un’auto con ‘scarsa ripresa’ (tanto peggiore, quanto maggiore è la capacità): un brusco aumento della corrente non determina un altrettanto brusco aumento della tensione.

In regime stazionario, il condensatore si riduce a un semplice circuito aperto, dato che

i(t) = ± C d

dt v(t) = 0 !

Per questo, non se ne era parlato.

Anche il condensatore è un perfetto serbatoio di energia elettrica, senza buchi.

L’energia immagazzinata in un condensatore, in ogni istante, dipende soltanto dalla tensione applicata ai suoi morsetti, e vale:

UC = 1

2 C v(t) 2 . (6.6)

Per motivi del tutto analoghi a quelli validi per l’induttore, anche il condensatore ideale è considerato, evidentemente, bipolo ‘dotato di memoria’.

Prima di concludere questo paragrafo, va detto che, naturalmente, i componenti che, nella pratica, vanno sotto i nomi di induttore e condensatore (‘reali’, non

‘ideali’) si comportano in maniera simile a quelli ideali, ma non identica. La principale differenza è che anch’essi sono, nella realtà, soggetti sia a pur piccole

‘perdite’ di energia: ciò significa che, inevitabilmente, durante il funzionamento di un induttore o di un condensatore reale, una frazione sia pur modesta (di solito, non superiore a qualche percento), della potenza elettrica assorbita si trasforma in calore, ed è quindi trasmessa all’ambiente esterno (come una piccola stufetta, in fondo). Come i resistori e tutti gli altri componenti, anche gli induttori e i condensatori reali hanno, infine, una targa che serve a individuarne le effettive

(29)

caratteristiche, anche dal punto di vista pratico. I dati di targa, solitamente, contengono, per entrambi i bipoli, due informazioni essenziali:

• per l’induttore l’induttanza L (in H), e la corrente nominale (in A), oppure l’energia magnetica nominale (in J);

• per il condensatore la capacità C (in F), e la tensione nominale (in V), oppure l’energia elettrica nominale (in J).

È ovvio, infatti, che componenti destinati a immagazzinare energia dell’ordine di qualche joule dovranno avere dimensioni ben diverse da quelli destinati a immagazzinare energia migliaia di volte (o, addirittura, milioni di volte) più grandi. Per rendere più concrete le cose dette, discutiamo un paio di esempi (nei quali assumiamo che il tempo t sia misurato in secondi: per questo, quando scriveremo t = 3, intendiamo t = 3 s).

Esempio 1 - Un condensatore, supposto scarico all’istante t = 0 e di capacità C = 2 F, viene alimentato dalla tensione

v(t) = 6 t .

Determinare la potenza e l’energia assorbite nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 10.

0 10 20 30 40 50 60 70

0 2 4 6 8 10

t v(t)

i(t) i(t)

v(t)

+

C = 2 F

(30)

Cominciamo col fare per il condensatore la convenzione dell’utilizzatore come mostrato nella figura precedente. Si ha, allora (ricordate che la derivata della semplice funzione f(t) = t è costante e pari a uno):

i(t) = C d

dt v(t) = 2 d

dt (6 t) = 12 d

dt (t) = 12 .

Venendo alla potenza e all’energia assorbite, non è difficile concludere che p(t) = + v(t) i(t) = 72 t .

L’energia, invece, è pari a UC(t) = 1

2 C v(t) 2 = 36 t2 .

Queste due grandezze sono rappresentate nella figura che segue (i valori della potenza sono espressi, come al solito, in watt, quelli dell’energia in joule). Vale la pena notare che, come già sappiamo, tra esse sussiste la relazione generale:

p(t) = d

dt UC(t) .

0 500 1000 1500 2000 2500 3000 3500 4000

0 2 4 6 8 10

t p(t)

UC(t)

(31)

Esempio 2 - Un induttore, supposto scarico all’istante t = 0 e di induttanza L = 1 H , viene alimentato dalla corrente (il cui grafico è riportato nella figura che segue):

i(t) =

2 t , per 0 ≤ t ≤ 2 ; 8 - 2 t , per 2 ≤ t ≤ 4 ;

0 altrove .

Determinare l’andamento della potenza e dell’energia istantanea assorbita.

L’esempio richiede la determinazione della potenza e dell’energia assorbite dall’induttore. Fatta la convenzione dell’utilizzatore, cominciamo a calcolare la tensione v(t) prodotta dalla corrente di alimentazione i(t):

v(t) = L d dt i(t) .

-3 -2 -1 0 1 2 3 4 5

0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4

t i(t)

v(t) i(t)

+ −

L = 1 H v(t)

Adoperando questa relazione e ricordando le principali regole di derivazione, non è difficile concludere che

(32)

v(t) =

2 , per 0 ≤ t ≤ 2 ; - 2 , per 2 ≤ t ≤ 4 ; 0 altrove .

Comunque, tutto ciò che vi serve per verificare questo risultato è rappresentato dalle formule

d

dt t = 1 , d

dt K = 0 ,

dove K è un qualsiasi numero. Nella figura precedente sono rappresentate le due funzioni, corrente e tensione, nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4; al di fuori di questo intervallo, esse sono nulle.

Per determinate le potenza, basta eseguire il prodotto

p(t) = + v(t) i(t) =

4 t , per 0 ≤ t ≤ 2 , 4 t - 16 , per 2 ≤ t ≤ 4 , 0 , altrove ,

mentre l’energia magnetica immagazzinata è data dalla formula

UL(t) = 1

2 L i(t) 2 =

2 t2 , per 0 ≤ t ≤ 2 , 32 + 2 t2 - 16 t , per 2 ≤ t ≤ 4 ,

0 , altrove .

La potenza e l’energia sono rappresentate, sempre nell’intervallo 0 ≤ t ≤ 4, nella figura che segue.

Infine, riportiamo le istruzioni Spice per individuare un condensatore, ad esempio di 1 mF, connesso tra i nodi 2 e 0:

C1 2 0 1e-3 ,

in cui C1 è il nome scelto. La prima lettera del nome deve essere sempre una C.

In maniera analoga per un induttore di valore, ad esempio 7 mH, connesso tra i nodi 3 e 4, la sintassi è:

(33)

L23 3 4 7e-3 ,

in cui il nome scelto è L23. Notate che per individuare un induttore la prima lettera è sempre una L.

-20 -15 -10 -5 0 5 10 15 20

0 0.5 1 1.5 2 2.5 3 3.5 4

t p(t)

UL(t)

Più avanti vedremo come utilizzare le condizioni iniziali per tali elementi a memoria.

6.4 Altri componenti dotati di memoria: il mutuo induttore

Oltre agli induttori e ai condensatori, molti altri componenti (sia bipoli che doppi bipoli) sono dotati di caratteristiche dinamiche (e non statiche), e sono molto diffusi nelle applicazioni pratiche, sia di tipo elettrico che elettronico.

Basti pensare ai cosiddetti induttori e condensatori variabili che sono componenti nei quali l’induttanza L e la capacità C possono essere fatte variare da noi (almeno entro certi limiti) a piacere. In fondo, quando sintonizziamo la radio oppure la TV su un dato canale, quel che facciamo è proprio far variare l’induttanza oppure la capacità di uno di questi componenti (ma di questo, parleremo altrove, più dettagliatamente).

Per il momento, non occorre specificare meglio quali siano le caratteristiche di questi bipoli, né quelle di altri, come gli induttori e i condensatori non lineari. È invece importante introdurre subito due particolari doppi bipoli, che useremo

(34)

spesso nei capitoli restanti di questo libro: il cosiddetto trasformatore ideale e il mutuo induttore, detto anche più semplicemente trasformatore (non ideale).

6.4.1 Trasformatore ideale

Il trasformatore ideale è un doppio bipolo lineare il cui funzionamento, con le convenzioni fatte alle due porte in Figura 6.14, è definito dalle seguenti caratteristiche:

v2(t) = 1

a v1(t) , i2(t) = - a i1(t) .

(6.7)

dove la costante a è detta rapporto di trasformazione; il simbolo del trasformatore ideale è riportato in Figura 6.14.

a : 1 +

+

v1(t) v2(t)

i2(t) i1(t)

Figura 6.14: simbolo circuitale del trasformatore ideale.

A stretto rigore, le (6.7) sono delle caratteristiche statiche (e non dinamiche), poiché la variabile t vi figura in maniera non essenziale (in sostanza, non vi sono derivate rispetto a t). Per questo motivo, sarebbe stato possibile includere anche il trasformatore ideale fra i doppi bipoli trattati nel volume dedicato ai circuiti in regime stazionario. Va detto, però, che il trasformatore ideale nella realtà non esiste, mentre quello reale (che esiste ... e come!) presenta, come vedremo subito, caratteristiche dinamiche e non statiche. Per questo motivo, si è preferito includere anche il trasformatore ideale fra i doppi bipoli dinamici (pur essendo di per sé, privo di memoria).

La potenza elettrica totale assorbita dal trasformatore ideale è nulla, in qualsiasi condizione di funzionamento. Si ha, infatti:

(35)

Pel-ass = + v1(t) i1(t) + v2(t) i2(t) = v1(t) i1(t) - 1

a v1(t) a i1 (t) = 0 .

Esso, quindi, non dissipa, né immagazzina energia: si dice, in gergo, che è trasparente alla potenza elettrica.

Una delle proprietà più importanti del trasformatore ideale può essere illustrata dal circuito di Figura 6.15, in cui la porta secondaria è connessa a un resistore lineare, di resistenza R. In questo caso, si ha:

v1(t) = a v2(t) = - a R i2(t) = a2 R i1(t) . (6.8)

a : 1 +

+

v1(t) v2(t)

i2(t) i1(t)

R

Figura 6.15: una resistenza vista dal primario di un trasformatore ideale.

Ne segue che il bipolo equivalente ‘visto’ dai morsetti della porta primaria è un resistore di resistenza a2R.

+

− v2(t) i2(t) +

− v1(t)

i1(t)

+

a v2(t) a i1(t)

Figura 6.16: realizzazione di un trasformatore ideale mediante generatori controllati.

Ricordando, infine, quanto detto nel capitolo riguardante i doppi bipoli, un trasformatore ideale può essere concepito mediante un generatore di corrente controllato in corrente e un generatore di tensione controllato in tensione, come

(36)

illustrato in Figura 6.16. Questo circuito equivalente suggerisce pure un modo di simulare con Spice il trasformatore ideale.

6.4.2 Mutuo induttore

Il mutuo induttore è, per definizione, un doppio bipolo, solitamente rappresentato negli schemi circuitali come in Figura 6.17, individuato dalle seguenti caratteristiche dinamiche:

v1(t) = L1 d

dt i1(t) + M d

dt i2(t) , v2(t) = M d

dt i1(t) + L2 d

dt i2(t) ,

(6.9)

nelle quali L1 e L2 sono numeri non negativi che prendono il nome, rispettivamente, di induttanza primaria e secondaria, e sono misurati in henry (H), mentre M è un terzo parametro, che può essere sia positivo che negativo, detto mutua induttanza, misurato anch’esso in henry (H).

Fate attenzione al piccolo dettaglio che differenzia la Figura 6.17a dalla 6.17b: si tratta del ‘pallino’ della porta secondaria che è posto, rispettivamente, in alto oppure in basso. Questa piccola differenza nella rappresentazione grafica ci informa sul segno di M: se usiamo il simbolo di Figura 6.17a, stiamo dicendo che M è positivo; viceversa, se usiamo il simbolo di Figura 6.17b, M è da ritenersi negativo. Un piccolo dettaglio che, però, fa ... una grande differenza!

I tre numeri L1, L2 e M sono soggetti, inoltre, ad un’altra fondamentale limitazione, e cioè che, in ogni caso, e per qualsiasi trasformatore, vale sempre la seguente disuguaglianza:

M2 ≤ L1 L2 . (6.10)

Un trasformatore per il quale valga nella (6.10) il segno di uguale, e cioè sia M2 = L1 L2, viene detto ad accoppiamento perfetto. Per motivi che chiariremo altrove, è conveniente pure introdurre la quantità adimensionale

k = M L1 L2

,

(37)

detta coefficiente di accoppiamento. In forza della relazione (6.10), concludiamo immediatamente che - 1 ≤ k ≤ 1.

Come si vede chiaramente, le caratteristiche (6.9) sono certamente dinamiche, poiché vi figurano le derivate rispetto alla variabile t delle correnti i1(t) e i2(t).

Anche il mutuo induttore immagazzina energia magnetica (come il semplice induttore), e non dissipa potenza elettrica in calore. L’energia immagazzinata è esprimibile, in ogni istante, nella forma:

UM(t) = 1

2 L1 i1(t) 2 + 1

2 L2 i2(t) 2 + M i1(t) i2(t) . (6.11)

+

L1 L2

M

v1(t) v2(t)

i2(t) i1(t)

+

+

L1 L2

M

v1(t) v2(t)

i2(t) i1(t)

+

(b) (a)

Figura 6.17: simboli circuitali del mutuo induttore.

Come si vede, questa energia è somma di tre termini distinti:

a) il primo termine corrisponde all’energia immagazzinata in un induttore di induttanza L1, ed è sempre non negativo;

b) il secondo termine corrisponde all’energia immagazzinata in un induttore di induttanza L2, ed è anch’esso sempre non negativo;

c) il terzo termine, invece, è il cosiddetto termine di energia mutua, e può essere sia positiva che negativa poiché tanto i1(t) e i2(t), che M possono assumere qualsiasi segno.

(38)

Quel che resta certo, però, è che la somma dei tre termini, e cioè l’intera energia magnetica UM(t), espressa dalla (6.11), non può essere mai negativa: è positiva, o al minimo nulla, poiché il mutuo induttore è un componente passivo.

Più avanti, quando studieremo le macchine elettriche, torneremo più diffusamente su questo fondamentale componente, le cui applicazioni sono, come vedremo, moltissime, e impareremo ad usarlo in maniera corretta in tutte le diverse condizioni di funzionamento. Ma, per ora, quel che abbiamo detto può ... bastare.

È appena il caso di dire, infine, che anche nei mutui induttori ‘reali’, un po’ di perdite ci sono, e quindi, un po’ della potenza elettrica assorbita si trasforma in calore.

6.5 Struttura generale della Teoria dei circuiti in condizioni variabili nel tempo

Siamo arrivati così al punto centrale di tutto questo libro, e cioè al momento in cui stiamo per presentarvi la Teoria dei Circuiti nella sua forma più generale, valida non soltanto in regime stazionario, bensì in qualsiasi condizione di funzionamento, variabile comunque nel tempo.

Ricordate il quadro che vi presentammo nel paragrafo 2.5 dicendovi, allora, che quella era la ... Bibbia del circuitista, almeno per ciò che riguardava il regime stazionario?

Bene. Vi sorprenderà forse (ma sarà certamente una ... gradita sorpresa) apprendere che quello stesso quadro continua a valere anche in condizioni variabili nel tempo, con la sola differenza che, in aggiunta ai componenti considerati in regime stazionario (tutti dotati di caratteristiche statiche e privi di memoria), dobbiamo aggiungere anche i seguenti nuovi tipi di componenti:

• generatori di tensione e di corrente tempo varianti;

• interruttori ideali;

• induttori, condensatori, mutui induttori, e altri componenti dotati di caratteristiche dinamiche, e quindi di ‘memoria’.

Per il resto, non cambia nient’altro: questo è il bello!

Le LK rimangono inalterate, e debbono essere valide, naturalmente, in ogni istante. Pertanto, esse saranno enunciate come segue:

(39)

LKC

in ogni istante, la somma algebrica delle correnti che circolano nei terminali tagliati da una qualunque superficie Gaussiana è nulla;

LKT

in ogni istante, quale che sia la maglia considerata, la somma algebrica delle tensioni è nulla.

Il numero di equazioni indipendenti esprimenti la LKC è pari al numero di nodi meno uno, (n - 1). Il numero di equazioni indipendenti esprimenti la LKT è pari a r - (n - 1), se r è il numero totale di rami dell’intero circuito. Il numero totale di equazioni indipendenti esprimenti le LK è dunque pari a r, numero di rami.

I modi per costruire un sistema di maglie indipendenti sono gli stessi che erano validi in regime stazionario (ricordate la procedura dell’albero).

Il numero di equazioni indipendenti che esprimono le caratteristiche è pari al numero di rami del grafo dell’intero circuito. Il numero totale di incognite è il doppio del numero dei rami (una corrente e una tensione per ogni ramo).

Riassumendo, possiamo, quindi, presentarvi di nuovo il quadro che contiene l’intera Teoria dei Circuiti nella sua forma più generale, valida sempre.

Teoria dei circuiti in regime dinamico qualsiasi

• Protagonisti: - bipoli, doppi bipoli e altri componenti;

- le loro grandezze fondamentali [corrente (A), tensione (V)];

- grandezze derivate [potenza (W) ed energia elettrica (J, o Wh)].

• Leggi generali: LKC e LKT, valide in ogni istante.

• Funzioni che descrivono il comportamento elettrico di ciascun componente: le caratteristiche statiche o dinamiche.

E questa è, finalmente, la ... vera e definitiva Bibbia del circuitista!

(40)

In conclusione, risolvere un circuito in condizioni di funzionamento variabili comunque nel tempo significa pur sempre dover risolvere un sistema di 2r equazioni in altrettante incognite: queste incognite, però, a differenza del regime stazionario, non sono più semplici numeri, bensì funzioni del tempo. Se è vero, quindi, che il passaggio dal regime stazionario al funzionamento variabile nel tempo non richiede concettualmente grandi cambiamenti nella formulazione del problema della risoluzione dei circuiti, occorre dire pure con la massima chiarezza che i calcoli da fare per risolvere un circuito si complicano non poco, poiché si tratterà di affrontare la soluzione di equazioni di tipo nuovo: le cosiddette equazioni differenziali. Naturalmente, quando diciamo equazioni nuove ci riferiamo allo studio che stiamo portando avanti in questo libro. Nella realtà, queste equazioni sono state studiate a fondo, a partire del secolo XVII (dai soliti Newton e Leibnitz), e sono state sviluppate poi nei secoli successivi da schiere di illustri matematici che ci hanno spiegato come fare a risolverle, e ci hanno fornito spesso abili ‘trucchi’ per risparmiare fatica. Quelli di voi che continueranno studi di carattere fisico-matematico all’Università ne impareranno molti.

A noi, però, in questo libro tutto ciò interessa relativamente poco, poiché il nostro scopo principale non è quello di imparare tecniche e trucchi matematici, bensì quello di imparare a risolvere circuiti. A questo scopo, cercheremo di risparmiare fatica il più possibile, ricorrendo ogni volta che potremo a Spice, che funziona egregiamente anche in condizioni variabili nel tempo.

Prima, però, di ... abbandonarci nelle braccia di Spice, dobbiamo fare alcune cose che sono essenziali:

• darvi, con un semplice esempio, un’idea delle difficoltà connesse con la soluzione di un’equazione differenziale, non fosse altro che per farvi capire almeno le difficoltà che Spice vi consentirà di scansare;

• distinguere i diversi possibili tipi di funzionamento in condizioni variabili nel tempo, con lo scopo di capire bene quali siano i casi in cui davvero non potremo fare altro che ricorrere a Spice, da quelli in cui, invece, come vedremo subito, potremo disporre di un semplice ‘trucco matematico’ (inventato, o meglio, riscoperto alla fine del secolo XIX) che ci consentirà di arrivare alla risoluzione dei circuiti in regime sinusoidale (o, in gergo, in corrente alternata), maniera semplicissima, e cioè, ‘a mano’, con carta e penna, senza ricorrere all’aiuto di Spice (non fosse altro che per controllare l’esattezza dei nostri risultati).

Per questi motivi prenderemo in esame in maniera semi-quantitativa un semplice esempio di circuito che richiede la soluzione di una semplice equazione differenziale. Poi, classificheremo i diversi tipi possibili di funzionamento in condizioni variabili nel tempo, e sottolineeremo quelli per i quali il ‘trucco

(41)

matematico’ cui abbiamo fatto cenno prima funziona e ci consente di risolvere i circuiti ‘a mano’, da quelli in cui, invece, non avremo altra scelta se non ...

imparare a usare correttamente Spice.

6.6 Un esempio di studio di circuito in condizioni variabili

Veniamo al semplice esempio di cui abbiamo parlato, e consideriamo il circuito schematizzato, nella sua condizione iniziale di funzionamento, in Figura 6.18.

+

+ −

+ +

E L

R

i = 0 vR vI

vL I

Figura 6.18: l’interruttore I è aperto.

Esso è costituito, come si vede, da un generatore indipendente di tensione di f.e.m.

E costante nel tempo, collegato in serie, attraverso l’interruttore ideale I, a un resistore di resistenza R e a un induttore ideale di induttanza L.

Nelle condizioni iniziali, cui la Figura 6.18 si riferisce, l’interruttore è aperto, e l’induttore è supposto scarico, e cioè privo di energia immagazzinata. Ricordando la (6.4), ciò implica che nell’induttore, in queste condizioni, non circola alcuna corrente.

Cominciamo col chiederci quale sia la soluzione del circuito in queste condizioni.

La risposta è molto semplice e può essere ottenuta applicando, come sempre, le LK. Dopo aver compiuto le operazioni di rito (e avere quindi introdotto le diverse grandezze del circuito), applichiamo subito la LKC, la quale ci dice semplicemente che esiste un’unica corrente i che percorre tutti gli elementi del circuito, poiché essi sono in serie fra loro; aggiungendo, poi, che l’interruttore ideale è in posizione aperto, ed equivale quindi a un circuito aperto, il valore di questa corrente i non può che essere zero. Ne concludiamo, quindi, che, nelle condizioni indicate, l’intero circuito non è percorso da corrente.

(42)

Per quel che riguarda, poi, le tensioni, la LKT, applicata all’unica maglia esistente, è rappresentata dalla seguente equazione (nella quale inseriamo subito la caratteristica del generatore):

E = vI + vR + vL . (6.12)

La caratteristica del resistore richiede che, essendo i = 0, anche vR = R i = 0. Per quel che riguarda, invece, la tensione vL, la caratteristica dell’induttore potrebbe consentire un valore diverso da zero, soltanto a patto che la derivata rispetto a t della corrente i fosse diversa da zero. D’altra parte, però, affinché ciò sia possibile, occorrerebbe che una corrente cominciasse a circolare nell’induttore (e quindi anche negli altri elementi in serie ad esso). E ciò, finché l’interruttore ideale è aperto, non è possibile.

Cosa dobbiamo dunque concludere? Che, fino a quando l’interruttore I è aperto, la LKT, espressa dalla (6.12), si riduce in realtà alle seguenti semplici condizioni:

vR = 0 , vL = 0 , vI = E .

Ciò significa che tutta la tensione del generatore di tensione si ritrova applicata ai morsetti aperti dell’interruttore ideale, e che, inoltre, questa situazione può continuare per tempo indeterminato (e cioè stazionario), fino a quando l’interruttore I non verrà chiuso.

Ammettiamo ora che, a un certo istante, che per comodità indicheremo con t = 0 (l’istante in cui facciamo scattare il nostro cronometro), chiudiamo bruscamente l’interruttore I.

+

+ −

+ +

E L

R vR

vL vI = 0

i I

Figura 6.19: l’interruttore I è chiuso.

(43)

Per comprendere cosa succede, cominciamo col rappresentare il circuito nella sua

‘nuova’ condizione, mostrata in Figura 6.19. Questa volta, come si vede, l’interruttore I è in posizione ‘chiuso’, ed equivale dunque a un corto circuito; ne deriva che la tensione vI applicata ai suoi morsetti non può che essere zero!

Inoltre, essendo l’interruttore chiuso, una corrente i diversa da zero può ora circolare nell’intero circuito.

Rispetto alla situazione precedente, è cambiato, per la verità, quasi tutto, e noi ora ci proponiamo di esaminare proprio come cambia la condizione di funzionamento del circuito dall’istante t = 0 in poi, e cioè per t ≥ 0. Proveremo a farlo ‘passo- passo’, e cioè seguendo i cambiamenti che via via intervengono dalla chiusura dell’interruttore in poi.

Per fissare le idee anche da un punto di vista quantitativo, e non soltanto qualitativo, assegniamo dei valori numerici (i primi che ci capitano) ai diversi parametri E, R e L. Scegliamo, ad esempio: E = 100 V, R = 10 Ω, L = 2 H .

Cominciamo ora a scrivere tutte le equazioni che governano il funzionamento del circuito, e cioè le LK nonché le caratteristiche dei bipoli che compongono il circuito stesso.

La LKC ci dice semplicemente (come già più volte sottolineato) che la stessa corrente i (da determinare istante per istante) circola in tutti i bipoli, poiché questi sono in serie fra loro. La LKT, applicata all’unica maglia esistente, è rappresentata ora (per t ≥ 0) dalla seguente equazione (si noti l’assenza del termine vI, che è ora nullo):

E = vR(t) + vL(t) , (6.13)

nella quale abbiamo volutamente sottolineato la dipendenza di vR e di vL dal tempo t, mentre E ne è indipendente.

Non resta, a questo punto, che aggiungere le caratteristiche del resistore e dell’induttore

vR(t) = R i(t) , vL(t) = L d

dt i(t) , (6.14)

e sostituirle nella (6.13), in modo da ricondurci a un’unica equazione nella sola funzione incognita i(t):

E = R i(t) + L d

dt i(t) . (6.15)

(44)

Sostituendo, poi, i valori numerici scelti per E, R e L, la (6.15) diventa in definitiva:

100 = 10 i(t) + 2 d

dt i(t) , (6.16)

la quale deve essere verificata in ogni istante successivo alla commutazione dell’interruttore, cioè per t ≥ 0.

Siamo giunti così al punto centrale dell’intera questione: risolvere l’equazione (6.16) vuol dire riuscire a trovare una particolare funzione la quale, una volta sostituita al posto di i(t), sia nel termine 10 i(t) che nel termine 2 di(t)/dt, verifichi l’equazione stessa in ogni istante t ≥ 0. Come si vede, il problema che ci si pone è completamente diverso da quelli ai quali siamo abituati quando affrontiamo un’equazione algebrica del tipo a x + b = c, con x incognita, e a, b, c parametri noti. Come già detto in precedenza, equazioni come la (6.16), nelle quali, cioè, compaiono, come incognite, funzioni di t, (e non semplici numeri costanti), e inoltre figura pure la derivata rispetto a t della funzione incognita, vanno sotto il nome di equazioni differenziali, e costituiscono, di per sé, uno dei settori più vasti e importanti di tutta la Matematica!

Non vi spaventate, quindi, se non avete (e non potete ancora avere) i mezzi per risolverle. Ne faremo a meno, aiutandoci con Spice, che, invece, le sa risolvere egregiamente! Per non lasciarvi, però, a ... bocca asciutta, vogliamo provare, prima di concludere questo paragrafo, a spiegarvi come è possibile risolvere un’equazione di questo tipo in maniera non rigorosa, ma almeno approssimata (che è, poi, per la verità, proprio quello che fa Spice). Il trucco è semplice, ed è fatto di tanti ‘passi’ successivi che noi seguiremo uno a uno, cominciando dal primo, per indicare poi la strada che potrà essere seguita poi per quanti ‘passi’ si vuole, ...

senza limiti.

• Il primo passo da fare è ricavare il termine contenente la derivata della funzione incognita i(t) dall’equazione, riscrivendo la (6.16) nella forma:

d

dt i(t) = 50 - 10 i(t) . (6.17)

• Il secondo passo è ricavare il valore di di/dt all’istante t = 0, sapendo che, per ipotesi, la corrente i è nulla, all’istante t = 0. Si ha, così:

ddt i(t)

t = 0

= 50 - 10 i(0) = 50 ,

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