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QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO

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Academic year: 2022

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO Facoltà di scienze della formazione

Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria

QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO

Tesi di Laurea di:

Alessandra INCAGNOLI Matr. N° 3205268

Relatore: Chiar.mo Prof. Enrico Mauro Salati

Anno Accademico 2007/2008

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I. L’APPROCCIO SOCIO-CULTURALE 1. Premessa

2. Primi passi verso una definizione incompleta 3. Natura e significato del gioco in J. Huizinga

4. Per una definizione di gioco: tra polisemie e contrasti nel pensiero di Caillois

5. Tutto ciò che non è lavoro è gioco: la gratuità e le regole del gioco

6. Il gioco come elemento del sistema culturale complessivo:

l’agire umano tra sacro e profano

7. Il gioco nella storia: epoche diverse, stessi giochi?

CAPITOLO II. L’APPROCCIO PSICOLOGICO 1. Premessa

2. Le prime teorie psicologiche

3. Il gioco nelle teorie della psicologia dello sviluppo 4. Valore psicologico del gioco

5. Gioco e intelligenza 6. Gioco e apprendimento

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CAPITOLO III. L’APPROCCIO PEDAGOGICO 1. Premessa

2. La pedagogia del gioco 3. I maestri della pedagogia

4. I vari aspetti formativi della natura poliedrica del gioco 5. Gli spazi didattici del gioco

CAPITOLO IV. IL GIOCO ENTRA NELLA SCUOLA 1. Premessa

2. Insegnare giocando

3. Saper giocare e far giocare nella scuola 4. Gioco, dopogioco e osservazione

5. Nella didattica: alcuni esempi di gioco 6. Conclusioni

CONCLUSIONI BIBLIOGRAFIA

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INTRODUZIONE

Sono molteplici gli aspetti della vita sui quali non ci si sofferma a sufficienza e che di primo acchito non sembrano importanti, ma se si prestasse loro l’attenzione dovuta ci si accorgerebbe che la nostra esistenza è impregnata proprio di quei dettagli che lasciano silenziosamente i segni del loro passaggio, ma ai quali non si dà il giusto peso.

Questa sorta di indifferenza nasce dalla quotidianità, che spaventa e annoia, perché spoglia le cose della loro eccezionalità, ma in realtà essa rappresenta un terreno solido che ci permette di rischiare. Se questa base stabile crollasse, crollerebbero anche le nostre certezze.

È importante che la mamma costruisca la relazione con il suo bambino in ogni piccolo particolare, che va dalla cura del corpo a quella della mente. Ogni gesto che compiamo, anche un solo sguardo, ha conseguenze rilevanti nelle relazioni con gli altri. Nulla è pertanto scontato, tanto meno il gioco di un bambino.

Ed ecco il punto chiave del discorso che si andrà ad affrontare nelle pagine seguenti.

L’elaborato che presento parla del gioco e ne parla, per certi aspetti, in termini ermeneutici, poiché che sia individuale o sociale, il gioco investe un numero elevato di dinamiche relative a realtà molto differenziate. La sua figura piuttosto eterogenea può essere colta ricorrendo ad un’analisi del termine in questione, la quale rivela una complessa fisionomia di carattere polisemico.

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Esso unisce le discipline in quanto dispone di dimensioni antropologiche, sociologiche, psicologiche e culturali e per questo è difficile coglierlo alla luce di una singola ottica.

La mia riflessione sull’attività ludica parte da un’osservazione colta sul campo in una scuola dell’infanzia.

Attenta a guardare le attività spontanee dei bambini mi accorsi che, durante i momenti di gioco, si sentivano un po’ sperduti, non riuscivano ad organizzarsi, darsi delle regole, tanto meno a giocare da soli o tra loro.

Mi chiesi se fosse possibile che dei bambini della scuola dell’infanzia trovassero delle difficoltà nell’esercitare quello che tutti considerano il loro “lavoro”: il gioco.

Se il ludico rappresenta un istinto innato, intrinseco al soggetto, come mai un bambino non dovrebbe essere capace di manifestarlo autonomamente?

Forse la potenzialità ludica per esprimersi necessità di un ambiente adeguato, pronto ad accoglierla? Se così fosse, allora, la scuola dovrebbe prenderne atto e adeguarsi per introdurre tale prospettiva.

È possibile insegnare e imparare a giocare solo se ne viene data l’opportunità; in tal senso, se ciò accade, la spontaneità del gioco insita in ogni individuo si potrà manifestare in ogni sua forma senza più perdersi e continuare ad espandersi.

Si apre allora una nuova questione: perché è così importante offrire la possibilità ai nostri allievi di giocare? In quale ambito il gioco può essere coinvolto nella vita scolastica? È davvero possibile insegnare e imparare a giocare e, soprattutto, insegnare e imparare giocando?

Quali sono le problematiche inerenti al ludico nella programmazione?

Qual è la sua valutazione attuale?

Il compito del presente lavoro è di comprendere quale valore assuma l’azione ludica nella didattica, come stimolatrice non solo di apprendimenti, ma anche di formazione ed educazione della persona nella sua globalità.

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Quando una soggetto gioca non è sempre cosciente del fatto che sta utilizzando la maggior parte delle sue potenzialità e lo fa divertendosi.

Il “gusto” del gioco è un vortice misterioso al quale molti studiosi hanno cercato di dare forma e di cui non si può fare a meno perché agisce in termini di benessere psico/fisico. Per questo ritengo svolga un’insostituibile funzione educativa, riservando un adeguato spazio alla sfera emotiva nell’infanzia e non solo in essa. È un agire sempre illuminato dal “senso”, e per questo si pone accanto all’ispirazione della conoscenza, della virtù, della dignità. Rappresenta un’attività fondamentale, attraverso la quale si sviluppano le proprie capacità, ci si confronta con la realtà, con le cose e con le persone.

Da questa premessa emerge come il gioco irradi la sua forza e i suoi benefici in ogni campo dell’esistenza umana, migliorando l’uomo nel suo essere individuale, ma anche nel suo essere sociale, dove c’è gioco c’è la persona in una delle sue manifestazioni più vere e, contemporaneamente, c’è anche comunanza e reciprocità.

Nel lavoro che si vuole presentare verranno delineati i diversi punti di vista con cui il gioco è stato finora studiato per capirne la natura e le mille sfaccettature da cui è composto e perché sia così importante rivalutarlo all’interno dell’azione didattica.

Generalmente, l’attività ludica individua modalità particolari, che determinano, costituiscono altrettante specificazioni del gioco in quanto termine universale e generico.

L’elaborato si sviluppa in quattro capitoli che lo analizzano secondo prospettive differenti.

Per cogliere il senso apprenditivo e formativo del ludico e la sua importanza nella didattica (ma anche nella vita), si deve partire dalle origini della natura umana stessa, alla quale è legato.

Per questo si è scelto di avvicinarsi al gioco utilizzando più approcci presentati in successione logica. Il ludico, componente innata e culturale, agisce nella psicologia umana, per cui bisogna coglierne gli

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aspetti in un’ottica pedagogica per poterli riversare nella pratica delle agenzie educative.

Partendo da un discorso antropologico-sociologico sulla visione del gioco come elemento umano, si passa all’osservazione delle sue applicazioni a livello psicologico, e quindi di come queste possano rientrare nelle teorie pedagogiche ed essere applicate in seguito all’interno di un contesto educativo come la scuola primaria.

Nel capitolo I cerco di chiarire perché il gioco sia importante, da dove nasca, quale sia il ruolo che ricopre nella nostra esistenza e, così come negli altri capitoli, la ragione per cui esso è necessario.

La letteratura di ambito socio-antropologico offre un quadro essenziale delle prime definizioni e ricerche in materia.

In quanto componente profondamente umana, il gioco riveste, però, un ruolo determinante per la nascita della cultura e per la formazione della persona.

Autori come Schiller e Froebel ne hanno elevato il valore ad un livello esistenziale in cui l’uomo realizza pienamente se stesso.

In seguito, si prendono in esame le teorie di due grandi pensatori, Roger Caillois e Johan Huizinga, per cogliere il significato e la natura del gioco, ma anche quali siano le spinte che influenzano i comportamenti ludici.

Huizinga opera una prima analisi sugli aspetti ancestrali del gioco. La sua ricerca si muove su due piani, il primo ne chiarisce la natura, mentre il secondo porta in luce la parte ludica insita nelle manifestazioni culturali (le gare sportive, il diritto, la filosofia, la poesia, l’arte…). Per l’autore esso ha un senso, il quale si manifesta in modo implicito nel “gusto” emergente dall’attività ludica svolta. Il

“gusto” del gioco è irrazionale, ma dà vita ai modi di agire, alle attività, al senso, alle funzioni sociali e permette l’uso di immagini per la trasformazione del reale. Da qui l’origine dei miti che sottolineano il valore simbolico-rappresentativo della cultura. La trasfigurazione si

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attua attraverso le parole (i miti) e le azioni ((i giochi-rito) entrando, così, a pieno titolo nelle attività culturali.

Di tutt’altro pensiero è Caillois il quale non era dello stesso parere dello storico olandese, in quanto definisce il senso del gioco solo in se stesso. Il suo contributo risiede, piuttosto nello sforzo di classificare i giochi in base ai bisogni che sottendono i diversi atteggiamenti di natura psicologica; essi sono stati raggruppati nelle quattro categorie che definiscono le “spinte” ludiche (agon, alea, mimicry, ilinx). Ciò dimostra come la natura ludica sia innata in ogni individuo.

In seguito ci si chiede se, come sostiene il sociologo francese, l’attività ludica, in quanto concepita in termini di gratuità, sia davvero improduttiva.

Uno dei compiti dell’elaborato è anche quello di combattere il pregiudizio riguardante la frivolezza e non serietà del gioco, percepito solo come perdita di tempo o svago e, così, sottovalutato.

In questo contesto, verrà presentato un breve escursus sul gioco nelle varie epoche, per coglierne elementi di diversità, uguaglianza ed evoluzione fra le varie culture del passato, ma anche odierne.

La ludicità si veste, infatti, non solo con i colori delle diverse culture, ma assolve anche al compito di unirle dimostrando come, anche se con diverse forme, l’umanità possa trovare, grazie a lei, un terreno neutrale di confronto e di dialogo.

Nel capitolo II, una volta operata la presentazione dei fattori culturali della ludicità, si individueranno gli elementi psicologici del gioco. Agendo a questo livello, esso favorisce ed incrementa la formazione della personalità umana, promuovendo nel contempo una vasta gamma di competenze.

La psicologia è pressoché unanime nel considerare come il fanciullo diventi attivo ed indipendente proprio attraverso le attività ludiche.

Dopo aver presentato brevemente le prime teorie psicologiche del gioco (Groos, Carr, Hall, Claparède, Buytendijk, Chateau) approfondisco il discorso psicoanalitico (Adler, Jung, Baudouin,

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Freud, Klein) per poi introdurre le posizioni di Piaget, in merito allo sviluppo stadiale e dei giochi inerenti ad essi; quella di Vygotskij per la zona prossimale di sviluppo; e, infine, Winnicott per la teoria degli oggetti transizionali.

Si entra in merito ad ogni singola teoria per poi tracciare un filo conduttore che le vede accordarsi su quattro ragioni peculiari (il gioco come funzione esplorativa, catartica, la simulazione dei ruoli e delle regole, costruzione del vero sé e del linguaggio come strumento del pensiero).

Tali implicazioni mettono in luce la relazione intercorrente tra gioco, intelligenza ed apprendimento alla quale vengono dedicati due paragrafi separati.

L’esistenza di una pluralità di intelligenze (Gardner) e di diverse tipologie di apprendimento arricchiscono l’attività didattica, la quale può inserire elementi differenziati al suo interno per favorire e promuovere le potenzialità di ogni soggetto. La ludicità, in quanto poliforme e differenziata, vi si dovrebbe inserire perdendo ogni iniziale vellitrismo.

Nel capitolo III ci si muove seguendo una traccia pedagogica.

Ho ritenuto necessario soffermarmi a descrivere l’evoluzione di presa di coscienza sul gioco, anche nei confronti del lavoro e di come queste due attività basilari si sono alternate nei luoghi dell’istruzione e della formazione.

Per pensare, poi, ad una didattica ludica, bisogna chiedersi che cosa si intende con il termine insegnamento e, soprattutto, quali ne siano le funzioni primarie: per questo credo opportuna una presentazione delle idee educative e pedagogiche di personaggi autorevoli quali Froebel, Dewey, Ferrière, Steiner, Claparède.

Se si giunge così al presupposto che il gioco concerne lo sviluppo della personalità in tutti i suoi aspetti, allora lo si può pensare in termini applicativi nella programmazione ed attuarlo attraverso strategie di animazione.

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Inoltre, nel corso del capitolo, ho anche cercato di individuare i collegamenti del gioco con le discipline e le “educazioni” previste dai documenti ministeriali (Lingua italiana, Musica, Ed. all’immagine, Ed. interculturale, Ed. all’affettività), dando al capitolo un taglio il più possibile didattico.

Sono ben consapevole che l’attività ludica offre un ampio ventaglio di altri possibili collegamenti che non sono stati presi in esame, non tanto perché considerati meno importanti, ma perché già piuttosto conosciuti (esiste una vasta gamma di giochi matematici, ma anche di giochi per insegnare storia e geografia). Personalmente ho puntato sui giochi e sulle discipline che considero poco valorizzate nel panorama odierno.

Nel capitolo IV, di impronta prettamente didattica, sono proposte riflessioni sull’idea di scuola e professione docente.

Quando si tratta di apportare delle modifiche bisogna scontrarsi inevitabilmente con la paura del cambiamento che ci mette di fronte ad una vera e propria sfida: mettersi in discussione.

In questo ultimo capitolo ho voluto affrontare le modalità con cui introdurre nella classe il gioco, e quali siano le problematiche ad esse connesse.

Naturalmente, non avendo avuto ancora modo di fare esperienza diretta sul campo, le mie riflessioni sono solo di natura teorica, ma non per questo avulse dalla realtà. Quando si utilizza il gioco a scuola bisogna riconoscerne, oltre le potenzialità, anche le diverse tipologie con cui esso si presenta: viene così presentata una distinzione tra i termini ludico, ludiforme e ludomatetico. Difatti è possibile proporre attività sotto forma di gioco (anche se a volte sembra una sorta di piccolo inganno), ma si può anche pensare di offrire la possibilità di giocare davvero, cioè presentare e condurre attività ludiche, ad esempio, proprie di diverse epoche o culture (come il gioco dei quattro cantoni).

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Ho proposto alcuni esempi di attività come prova del fatto che esistono giochi semplici da introdurre in qualsiasi momento, ma è bene pensare un’attività in termini di programmazione vera e propria, non solo come evento occasionale.

Infine, la tendenza al gioco, nella sua autentica essenza, permane, almeno potenzialmente, per tutta la durata della vita, manifestandosi in modi diversi, ma conservando intatte le proprie caratteristiche fondamentali, e rivestendo sempre il suo ruolo di forma di espressione e di espansione della personalità, di attività creativa e originale, libera e spontanea, dotata di una finalità soggettiva e spesso inconsapevole.

Concludendo, confido che il lavoro da me svolto raggiunga l’obiettivo di mostrare, il gioco sotto una nuova luce non tradizionale, rivalutandolo come per il soggetto in formazione, un’esperienza totale che coinvolge la persona nella sua unità bio-psichica e spirituale, ed è fonte di gioia di intima soddisfazione.

Il vero gioco simbolico si manifesta con il maturare delle facoltà immaginative e delle capacità di astrazione. Si può asserire che la sua comparsa coincide con la nascita dell’intelligenza e del consolidarsi delle facoltà superiori della psiche.

“Gioco”, dunque è una parola bellissima e onnicomprensiva che si inserisce, volenti o nolenti, nella vita di ogni uomo e di ogni cultura, per cui l’importanza dell’atteggiamento ludico, il suo continuo oscillare tra teoria e prassi si radica in una natura sui generis, eclettica e poliforme, che lo individua di volta in volta come soggetto d’indagine, attività pedagogica, dinamica biologica, psicologica, esistenziale e sociale.

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C

APITOLO

P

RIMO

L’APPROCCIO SOCIO-CULTURALE

“.. ma nella guerra non è né gioco né educazione, cose che noi consideriamo come le più serie. In tempo di pace ognuno deve passare la vita come meglio può.

Qual è dunque il modo giusto? Si deve vivere giocando, facendo dati giochi e dati sacrifici, cantando e ballando, per poter rendere propizi gli dei, respingere i nemici e vincerli in battaglia.”(Platone. Leggi, VII 796- 803 )

1. Premessa

Quando si parla di “gioco” si tende di solito a dire ciò che esso “non è”

(non è reale, non è serio, non è lavoro) salvo poi restare un po’ sul vago, non appena ci si rende conto di quanto, invece, sia una cosa seria.

Il gioco fa parte di quel insieme di bisogni che esistono da sempre, come il bisogno di mangiare, di vestirsi, di riprodursi e di relazionarsi, ma che passa in secondo piano quando si parla di educare e formare le giovani menti.

Come poterlo definire? Non è semplice, perché la parola “gioco”

contiene l’infinito.

Si ha così un universo inesauribile di definizioni, attività e significati.

Il termine “gioco” è, infatti, polisemico, indica più di quello che lascia intendere, tanto è che il dizionario fornisce più di una spiegazione.1

1 Dizionario di italiano, Garzanti-Petrini, Garzanti linguistica, Petrini editore, Milano, 2005.

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Vedremo come il ludico è tutto questo e ancora di più, come tratterò più avanti, perché non lo si può limitare ad un’unica definizione che escluderebbe le altre.

Secondo Huizinga2, non esiste una sola parola indoerupea atta a indicare il gioco nella sua complessità. E proprio complesso sembra il carattere che contraddistingue la sfera ludica, fin dall’età primitiva.

Nella sua ricchezza fenomenica, nella sua molteplicità di espressioni e nella sua intrinseca complessità problematica, si sottrae a definizioni univoche, onnicomprensive, poiché libero, spontaneo e disinteressato esercizio delle energie fisiche, psichiche e spirituali, con elevate connotazioni di plasticità, duttilità e adattabilità, caratteristiche che condivide con l’attività fantastica e immaginativa in genere. Al tempo stesso è attività fittizia, improduttiva e autorimunerativa, regno della libertà e dell’autonomia.

Se vogliamo agganciarci all’etimologia del verbo italiano giocare, esso deriva dal latino “iocare”, scherzare, applicarsi ad attività piacevoli, abbandonarsi, divertirsi. Difatti, nelle definizioni date dal vocabolario, risulta evidente come nella pratica ludica sia assente la nozione di coercizione.

1 Qualsiasi attività a cui si dedicano bambini o adulti per svago o per esercitare la mente, il corpo: gioco di carte; gioco di società.

2 Competizione in un’attività di tipo sportivo che prevede la disputa di partite fra due squadre o fra due atleti;

3 Competizione in cui si puntano somme di denaro e che si pratica usando oggetti come carte, dadi, roulette;

4 Modo di giocare, nello sport o in una competizione in cui si punta denaro.

5 La somma che si punta ad ogni giocata

6 Le regole di un gioco considerate nel loro insieme; il sistema seguito nel giocare

7 In senso figurato: scherzo, beffa, scherno 8 Artificio: gioco di luci, contrasto fra luci e ombre

Tra i sinonimi:

- Divertimento, trastullo, passatempo, spasso

- Sport

- Giocata, puntata, posta

- Regola,norma

- (giocattolo) balocco, gingillo

- Senso figurato: beffa, scherno, illusione, finzione

2 J. Huizinga, Homo ludens,

Einaudi, Torino, 2002

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Si gioca per scelta libera e personale, non per senso del dovere. Si gioca secondo modalità stabilite individualmente (qui il carattere immaginativo e creativo è particolarmente evidente) o in base ad una decisione di gruppo (ed è questo il caso dei giochi socializzanti), o ancora secondo regole antiche di secoli.

La spontaneità, la creatività, la plasticità, propria di ogni agire creativo, insieme alla libertà, concorrono a caratterizzarlo. Si può addirittura affermare che ogni attività creativa, qualunque sia il suo prodotto o campo di espressione, sia fondamentalmente ludica (l’arte, la poesia, la filosofia, ma anche il diritto o la scienza, come sostiene lo stesso Huizinga).

Ogni agire creativo presuppone una qual certa dose di immaginazione e fantasia che permetta la trasfigurazione del reale: dunque, risulta evidente la stretta connessione tra gioco e immaginazione, tra attività ludica e attività fantastica, la quale può essere utilizzata anche a livello educativo-didattico.

“L’attenzione alla creatività rappresenta l’esigenza di promuovere nel fanciullo la consapevolezza delle proprie possibilità e la

‘consapevolezza di sé’, come progressiva capacità di autonoma valutazione dell’uso delle conoscenze sul piano personale e sociale” 3. Anche secondo Cleparede, il ludico, impulso istintuale, è al pari della fiaba, un bisogno vitale dell’infanzia.

C’è da comprendere se questa attività così nobile trovi la propria origine, la propria fine, la propria norma e il proprio scopo solo in se stessa, come sostengono alcuni autori citati in seguito. Per questo sulla sua natura e il suo significato sono state enunciate molteplici teorie, ed esso è diventato oggetto di ricerca per molti studiosi (filosofi, pedagogisti, psicologi, antropologi…) che hanno scandagliato ogni campo per poter rispondere in modo esaustivo alla domanda:

Cos’è il gioco per l’uomo?

3 Riferimento estrapolato dai Programmi dell’85, Decreto del Presidente della Repubblica n. 104, 12 Febbraio 1985

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2. Primi passi verso una definizione incompleta

Si è già annunciato come a causa della sua natura poliforme, sia difficile trovare una definizione di “gioco” univoca, ma tra i diversi autori si possono cogliere alcuni tratti caratteristici e ricorrenti, nonostante le opinioni divergenti.

Tra i primi pionieri che si sono occupati dell’analisi del significato dell’azione ludica troviamo Schiller4, il quale considerava l’istinto del gioco come il fondamento dell’attività artistica, la quale permetteva il connubio tra sensibilità ed intelletto, due aspetti inseparabili in una sola attività che, pur essendo fine a se stessa, permette all’uomo di essere completo.

Il gioco è l’unica attività umana con la caratteristica di essere bivalente ed eclettica.

Egli richiama il concetto di creatività e immaginazione, già sottolineato nei programmi dell’85 e oggi nelle nuove Indicazioni Nazionali5.

Schiller studia la natura dell’umanità e matura la consapevolezza che l’uomo ha una doppia natura, la quale trova la propria armonia nell’educazione estetica e quindi nel gioco. Egli afferma:

“…L’uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca”.

Solo nell’attività del gioco l’uomo realizza completamente se stesso in ogni aspetto evolutivo.

In questa significativa affermazione, Schiller mette in luce il rapporto che intercorre tra l’essere vivente e la ludicità.

4 F. Schiller, Lettere sull'educazione estetica dell'uomo. Callia o della bellezza (1795), Roma, Armando Armando Ed., 1971.

Johan Christoph Friedrich Schiller, nato a Marbach, Writtemberg 1759 e morto a Weimar 1805, fu poeta, scrittore e drammaturgo Tedesco.

5 Decreto Legislativo 19 Febbraio 2004, n. 59 (Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 51 del 2 marzo 2004, Supp. Ord. N. 31)

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Per merito del Fröbel, invece, il gioco inizia ad essere riconosciuto come l’attività propria del fanciullo. Egli lo identifica come:

“Il più alto grado dello svolgimento infantile…il prodotto più puro e spirituale dell’uomo nel periodo dell’infanzia”6

Per Fröbel l'importanza del gioco era fondamentale, tale da ritenersi un diritto dell'infanzia. Rappresenta per il bambino l'equivalente del lavoro per l'adulto. Attraverso il gioco si sviluppano il linguaggio, l'attività logico-matematica, la produttività, il disegno. In tutto questo assume particolare importanza la legge divina presente in tutte le cose. Attraverso l'educazione, il divino dell'uomo si sviluppa, per fargli trovare la pace con la natura e l'unione con Dio. Secondo Fröbel l’educazione deve sviluppare tutte le potenzialità dell’animo umano, prestando attenzione alle manifestazioni esteriori con cui esse si esprimono: linguaggio, gioco, attività espressive. Nella sua opera principale L'Educazione dell'uomo (1826) il pedagogista, riprende in parte le riflessioni di Pestalozzi sui concetti educativi di spontaneità e intuizione e il misticismo dei filosofi suoi contemporanei.

Entrambi gli autori individuano nel gioco un mezzo, il metodo con il quale l’umanità può garantirsi un futuro in cui lo sviluppo della personalità sia un caleidoscopio di attitudini integrate sinergicamente tra loro, in modo tale che lo sviluppo psico-fisico sia armonico.

Tuttavia, oltre ad essere stato studiato in ambito pedagogico, il gioco è stato letto anche secondo una chiave antropologico-culturale e percepito come precursore della cultura e dei contenuti di una società.

Il primo passo da compiere per poter afferrare il vero significato della pratica ludica è quello di esaminare le sue origini ancestrali e la sua

6 Froebel, Educazione dell’uomo e altri scritti, La Nuova Italia, Firenze, 1967, p. 43-44

Friedrich Wilhelm August Fröbel (Oberweißbach, 21 aprile 1782 - Marienthal, 21 giugno 1852) è stato un educatore e pedagogista tedesco.

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evoluzione nel susseguirsi e nel formarsi nelle diverse civiltà, che hanno in sé stesse caratteristiche di ludicità assimilabili le une alle altre.

Il gioco si tramuta, così, in un concetto chiave che plasma la filogenesi e l’ontogenesi dell’umanità. Permette la nascita e l’evoluzione della cultura; quindi, veicolandosi attraverso di essa, agisce a livello individuale sullo sviluppo psico-motorio dell’individuo, con potenzialità pedagogiche e formative globali che possono essere rivisitate dalle agenzie educative della nostra società.

3. Natura e significato del gioco in J. Huizinga

Tra gli esponenti del pensiero antropologico, Jhoan Huizinga7, coglieva il gioco e la ludicità all’interno di un quadro meramente storico-culturale. Nella prefazione di “Homo Ludens”8, l’autore chiarisce esplicitamente che, seppur ciò rappresenti una dimensione importante, si asterrà dall’interpretazione psicologica, farà un uso molto ristretto dell’etnologia e non farà riferimento a discipline affini.

Egli era consapevole del fatto che il suo lavoro sarebbe stato stimato come un’improvvisazione insufficientemente documentata, ma in realtà il suo fu un tentativo di spiegare il gioco solo ed esclusivamente come puro fenomeno culturale e non come funzione biologica, per cui nell’opera la trattazione avviene solo con i mezzi propri della sociologia e della storia.

7 Johan Huizinga (Groninga, 7 dicembre 1872 - De Steeg (Arnhem),

1 febbraio, 1945) è stato un celebre storico olandese. Docente di storia moderna all'università di Leida dal 1915 al 1942 è conosciuto soprattutto per alcuni importanti saggi sul XV, XVI e XVII secolo, divenuti col tempo dei veri e propri classici, primo fra tutti: L'autunno del medioevo.

8 J. Huizinga, Homo ludens, op. cit.

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Huizinga afferma che il gioco oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica perché è una funzione che contiene un senso, per cui ogni gioco significa qualche cosa.

Il senso del gioco si spiega differentemente in base alle discipline che lo studiano: così, secondo la biologia tradizionale il significato del gioco è da attribuire o alla necessità di sbarazzarsi del superfluo di forza vitale, oppure per un gusto innato di imitazione. O ancora serve a sopperire ad un bisogno di rilassamento; o va utilizzato come esercizio preparatorio per le operosità che richiederà la vita (tesi del pre-esercizio di Groos). Il filosofo Groos, ispirandosi alle idee darwiniane, intese il gioco come un istinto generalizzato, la cui funzione era quella di attivare istinti più specifici e utili per la sopravvivenza nell’età adulta.

Il filosofo inglese Spencer lo concepì, piuttosto, come sfogo di energia eccedente, disponibile nei mammiferi superiori grazie alla loro buona condizione di salute e al maggior tempo libero, essendo in grado di procurarsi molto cibo rapidamente. L’idea era già stata espressa un secolo prima da Schiller.

Il gioco venne anche inteso come «ricapitolazione», teoria coniata dallo psicopedagogista americano Hall. Ispirandosi al pensiero lamarckiano, egli riteneva che il gioco nell’età evolutiva esprimesse le esperienze ancestrali dei nostri antenati tramandate geneticamente.

Oppure, tra le diverse teorie troviamo il gioco come «esercizio di capacità».

Esistono svariate altre definizione in ambito biologico, che avremo modo di esaminare anche in seguito, ma l’ aspetto che le accomuna, secondo lo storico olandese, è la supposizione che il gioco avvenga in funzione di qualche altra cosa, che serva ad una data utilità biologica.

Secondo lo Huizinga, invece, queste sono definizioni solo parziali che escludono dalla ricerca il significato del “gusto” del gioco. Che cosa significa giocare per i giocatori stessi? Perché il giocatore si perde

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nella passione, perchè una gara eccita fino al delirio una folla di spettatori?

L’autore si pone queste domande e trova le sue risposte; egli dice:

“La Natura, pare che ci dica la logica, avrebbe potuto dare alla sua prole tutte quelle funzioni utili di scarico di energia, di rilassamento, di preparazione, e di compenso anche nella forma di esercizi e reazioni puramente meccanici. Invece no, ci dette il Gioco, con la sua tensione, con la sua gioia, col suo ‘scherzo’”.9

Il gusto del gioco resiste ad ogni tentativo logico di spiegazione, per cui è al di sopra della razionalità. Insieme ad esso si riconosce anche lo spirito, per cui se gli animali sanno giocare sono già qualche cosa di più che puri meccanismi. Noi giochiamo, e sappiamo di giocare, dunque siamo qualche cosa di più che esseri puramente raziocinanti, perché il gioco è irrazionale.

L’uomo che volge lo sguardo alla funzione del gioco, non nella vita animale, né nella vita del bambino, ma nella cultura, ha il diritto di impadronirsi del gioco là dove la biologia e la psicologia lo trascurano.

Egli lo trova nella cultura10 come una data grandezza, esistente prima della cultura stessa che ne viene accompagnata poi e attraversata, dal principio sino alla fase di cultura in cui l’indagatore stesso vive.

Trova dappertutto presente la ludicità come un proprio modo di agire, che si distingue dalla vita ordinaria, come una forma di attività, come

9 J. Huizinga, Homo ludens, op. cit. p 5

10 Credo sia necessario chiarire quale sia il significato di cultura considerato in questo contesto: “insieme di valori, norme e modelli, comportamenti, simboli e strumenti che caratterizzano ciascuna società umana”.

Contrariamente agli animali, l’uomo che pure è natura, non si inserisce in essa spontaneamente. Come sapevano benissimo Aristotele ed Hegel, la fame, la sete, il freddo sono per l’uomo una “natura” che egli può vincere soltanto fabbricando degli “strumenti”, erigendo cioè tra sé e la natura un mondo umano, all’interno del quale persino la nostra nascita la nostra morte diventano qualcosa di più che semplici “eventi naturali”. La cultura, in quanto universo simbolico che abbraccia tutta la vicenda umana, incomincia già al livello “naturale” dell’uomo.

Essa è all’opera sia allorché l’uomo coltiva la terra, sia allorché costruisce l’aratro per coltivarla, sia allorché inventa un grande poema per cantarne la bellezza.

Qualsiasi attività umana, spirituale o materiale, proprio perché umana esprime una forma culturale. (Cfr. P. Donati, Lezioni di sociologia, CEDAM, 1998).

Per cui, il gioco, come attività umana, contribuisce a dare forma alla cultura.

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una forma con senso pregnante, e come funzione sociale: ecco l’oggetto della sua indagine.

Egli non continuerà a cercare gli istinti naturali che determinano il gioco in generale, ma lo osserverà nelle sue stesse molteplici forme concrete, quale struttura sociale. Cercherà d’intenderlo come il giocatore stesso lo accoglie, nel suo significato primario. Egli troverà che il ludico si basa sull’uso di determinate immagini, su una certa trasfigurazione della realtà; allora, cercherà di intendere anzitutto il valore e il significato di quelle immagini o di quella trasfigurazione.

Egli vorrà osservare il loro effetto nel gioco stesso e tentare, così, di comprendere il gioco come fattore della vita culturale.

Sostanzialmente questa è l’ipotesi elaborata da Huizinga, per cui il gioco è intrinsecamente collegato con la cultura e ne sottolinea il suo valore simbolico-rappresentativo, che viene a configurarsi come un complesso sistema culturale, nel quadro di una teoria che sposa le idee di Schiller, Fröebel e Kant. Persino il linguaggio, per il l’autore, è un gioco dello spirito. Il linguaggio, per mezzo del quale l’uomo distingue, definisce, stabilisce e comunica, non è, infatti, altro che una sorta di calamita che attira le cose nel dominio dello spirito. Lo spirito creatore della lingua, giocando, passa continuamente dal materiale allo spirituale. Dietro ad ogni espressione dell’astratto c’è una metafora e in ogni metafora c’è un gioco di parole. Difatti in latino al lemma “gioco” era attribuito il significato di “gioco di parole”.

Partendo da questo presupposto lo studioso individua nelle origini dei miti le trasfigurazioni di ciò che esiste. In ciascuna delle figurazioni capricciose di cui il mito riveste l’esistenza, v’è uno spirito ingegnoso che gioca sui limiti tra scherzo e serietà.

Nell’ambito del mito e del culto, tuttavia, sorgono le grandi attività della vita culturale: giustizia e ordine, traffico e industria, artigianato e arte, poesia, filosofia e scienza. Anche queste sono dunque radicate in tale base di azione giocosa.

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Ecco come Huizinga attraverso i suoi studi cerca di dimostrare come il gioco sia base e fattore di cultura.

Appurato che il gioco sia un fattore di cultura, il secondo passo dello studioso è quello di individuare anche le caratteristiche peculiari che fanno di un’attività un gioco in quanto tale.

Soffermandosi sui giochi di indole sociale egli attribuisce ad essi il carattere della libertà: il gioco è un atto libero.

Il gioco comandato non è più gioco, questo è il primo punto condiviso e accettato nella letteratura.

Questo concetto è ripreso anche da altri autori, come ad esempio Caillois e Bateson11. Quest’ultimo, nel saggio “Questo è un gioco”12 suggerisce che la ludicità sia qualcosa che un essere vivente raggiunge con “proprie forze”, cioè che rappresenti una decisione frutto della propria volontà.

Come nel pensiero di Huizinga, anche in quello di Bateson il gioco viene esaminato, seppur non in modo approfondito, sotto il punto di vista storico. Dal punto di vista dell’etnologo il gioco degli animali rimane, probabilmente, uguale nel tempo, mentre le forme del ludico dell’uomo cambiano e si modificano nel tempo. Questo cambiamento fa di esse un prodotto umano e culturale.

Sempre per questo autore il gioco sembra cambiare le categorie logiche all’interno delle quali ha luogo un’interazione, il che gli conferisce un elemento di libertà , permettendo la novità e la creatività.

Huizinga, inoltre, evidenzia che sia nel bambino sia nell’animale il gioco è un diletto, e in ciò sta la libertà. Per l’uomo adulto e responsabile è una funzione che potrebbe essere tralasciata, quindi è

11 Gregory Bateson: (1904-1980). È stato biologo, etnologo, studioso dei processi schizofrenici. Ha legato il suo nome alla teoria del “doppio legame” e alle ricerche di Palo Alto. Bateson si rivolge al gioco come un labirinto transcontestuale e cerca di trovare una connotazione per capire se un determinato comportamento sia gioco, minaccia o corteggiamento.

12 Gregory Bateson, Questo è un gioco. Perché non si può mai dire a qualcuno

“gioca!”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.

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superflua. Rappresenta un’attività che può essere in qualunque momento differita o non avere luogo. Non è imposta da nessuna necessità fisica, e tanto meno da un dovere morale. Non è un compito. Si fa dell’ozio e solo in un secondo momento, facendosi funzione culturale, i concetti dovere, compito, impegno, vi si aggiungono.

Ecco dunque la prima caratteristica del gioco: esso è libero, è libertà.

Secondo Huizinga a questa prima caratteristica è congiunta la seconda: non è la vita ordinaria o vera.

Per cui tutti gli studiosi sottolineano il carattere disinteressato del gioco (soprattutto Callois che lo vede come fine a se stesso), e l’attività ludica si inserisce nella vita come un intermezzo o una ricreazione.

Huizinga aggiunge che proprio per questo motivo esso è complemento e parte della vita in generale. Adorna la vita e la completa, e come tale è indispensabile. È indispensabile all’individuo, in quanto funzione biologica, ed è indispensabile alla collettività per il senso che contiene, per i legami spirituali e sociali che crea, in quanto funzione culturale. Nonostante si faccia esso stesso cultura non perde la sua parte disinteressata, e qui entra in scena la terza caratteristica fondamentale: ha una limitazione nel tempo e nello spazio. Ogni gioco si muove entro il proprio ambito, come sostiene peraltro anche Bateson. Tutto è stabilito in anticipo, il gioco comincia e finisce in un determinato momento stabilito dai giocatori. La sua limitazione nel tempo gli permette di fissarsi come forma di cultura. Una volta giocato, permane nel ricordo come una creazione o un tesoro dello spirito, è tramandato e può essere ripetuto.

In questo senso il rito si compie con le stesse caratteristiche di un gioco, per cui si amalgamano perdendo i confini dell’uno e dell’altro.

Entro gli spazi destinati ad esso, domina un ordine proprio e assoluto. Al suo interno non valgono le leggi della vita consueta.

Riepilogando, possiamo individuare un percorso che parte dalla nascita del gioco come atto libero e dotato di senso, la cui vita si

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snoda in uno spazio delimitato e in un arco di tempo definito e che dà vita ad una sorta di rito o culto che acquisisce connotazioni culturali e dal quale nascono tutte le attività propriamente umane. Il culto è uno spettacolo, una rappresentazione o raffigurazione in cui la collettività festeggia avvenimenti importanti della natura. È in questo modo che dalle forme del gioco-culto è sorto l’ordine della società stessa.

Sempre Huizinga, riferendosi alle teorie di Schiller, sostiene che il gioco abbia la tendenza a non essere né dalla parte del buono né dalla parte del cattivo, ma preferisca unirsi a svariati elementi della bellezza. Alle forme più primitive del gioco si uniscono la grazia e la gentilezza. La bellezza del corpo umano in movimento trova la sua massima espressione nel gioco.

Nelle sue forme più evolute il gioco è intessuto di ritmo e di armonia, le doti più nobili della facoltà percettiva estetica che siano date all’uomo.

Ed ecco qui un nuovo e più positivo segno del gioco: esso crea un ordine.

Rispettare l’ordine del gioco è un fattore fondamentale ed è identico all’impulso umano di creare forme ordinate. I termini con i quali possiamo definire i suoi elementi provengono in gran parte dalla sfera dell’estetica, termini quali: tensione, equilibrio, oscillamento, scambio di turno, contrasto, variazione, intreccio e soluzione. Così esso, secondo Huizinga, vincola e libera, attira l’interesse, affascina e incanta. E come non essere d’accordo con lui? Chi di noi non ha mai provato queste sensazione di fronte a qualsiasi tipo di attività ludica?

Persino coloro che non sono appassionati di calcio, provano una certa attesa di fronte all’esito dei mondiali. Chi non si è mai sbalordito di fronte ai giochi circensi almeno una volta nella vita? Sia per i bambini quanto per gli adulti, il gioco è una calamita potente, impossibile da smagnetizzare.

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Questo importante “magnete” ha delle regole proprie, le quali determinano ciò che avverrà dentro quel mondo delimitato dal gioco stesso. Le sue regole sono assolutamente obbligatorie e inconfutabili.

Una volta stabilite queste devono essere rispettate, pena la fine del gioco.

Huizinga dopo aver trovato la sua definizione riguardo al senso del gioco e alle sue caratteristiche, ci tiene a sottolineare come la cultura sorga in forma ludica e di come questa sia dapprima giocata. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono maggior valore. Con i giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. Ciò significa che la cultura stessa porta insito in sé il carattere del gioco e non viceversa.

Così se il gioco crea la cultura, possiamo pensare che esso abbia in sé il potenziale necessario per essere utilizzato come strumento di formazione primario e introdotto nell’ambito scolastico, non come una nuova metodologia, ma come un’ opportunità che aspetta di essere riscoperta e rivalutata, trovando il suo giusto posto nell’ambito dell’istruzione.

Per riassumere, dal pensiero di Huizinga possiamo desumere quali siano le caratteristiche che rendono un gioco tale e come esso sia la trasposizione del reale, da cui nasce e progredisce ogni tipo di cultura. Nel pensiero dell’autore, ogni epoca poggia su elementi di ludicità intrinseci ad essa e per questo ogni periodo storico è caratterizzato da differenti modi di giocare o di pensare la ludicità in funzione della trasfigurazione della realtà circostante che vede, all’origine, una connessione tra mito e rito.

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4. Per una definizione di gioco: tra polisemie e contrasti nel pensiero di Caillois

4.1 Definizioni e contraddizioni

Nel 1933, il rettore dell’università di Leida, J. Huizinga, scelse come tema della sua prolusione: I limiti del gioco e del serio nella cultura. E ne riprese e sviluppò la tesi in un lavoro di grandissima portata e originalità pubblicato nel 1938, Homo ludens, di cui si è detto sopra, e che contribuì significativamente a gettare le basi per una comprensione della natura e del senso del gioco che fosse il più possibile completa. Quest’opera, seppure discussa in molte delle sue affermazioni, è, tuttavia, tale da aprire vie estremamente feconde alla ricerca e alla riflessione.

Tra coloro che hanno contestato in parte la tesi di Huizinga, troviamo Caillois, nel cui saggio “I giochi e gli uomini” tenta di ampliare la definizione data dallo storico olandese.

Huizinga aveva magistralmente analizzato molti caratteri fondamentali del gioco e dimostrato l’importanza del suo ruolo nello sviluppo stesso della civiltà. Da una parte egli voleva fornire una definizione esatta sulla natura specifica del gioco, ma dall’altra si sforzava di mettere in luce quella parte del gioco che è insita o anima le manifestazioni essenziali di ogni cultura: le arti come la filosofia, la poesia come le istituzioni giuridiche e perfino certi aspetti della guerra cavalleresca.

Huizinga ha svolto brillantemente questa tesi, ma, se è vero che egli è il pioniere che ha saputo riconoscere l’importanza del gioco, è anche vero che egli, secondo Caillois13, trascura la descrizione e la

13 Roger Caillois, nasce nei pressi di Reims nel 1913. si diploma brillantemente all’Ecole normale Superieure di Parigi (1936). È stato uno scrittore, sociologo e critico letterario francese. Nel 1958 scrive il saggio “I giochi e gli uomini”, in cui tenta di classificare i giochi e le regole di essi.

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classificazione dei giochi stessi, come se corrispondessero tutti agli stessi bisogni ed esprimessero indifferentemente lo stesso atteggiamento psicologico.

L’opera di Huizinga si concentra essenzialmente su un’unica tipologia di giochi: i giochi di competizione regolata, tralasciando di riempire alcune lacune.

Riassumendo quanto detto finora, Huizinga definisce il gioco nel modo seguente:

“Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera, conscia di non essere presa “sul serio” e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge con ordine secondo regole date, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero o accentuano mediante travestimento la loro diversità dal mondo solito.”14

La definizione di Huizinga porta in luce quelli che possono essere gli elementi essenziali dell’attività ludica; tuttavia, secondo Caillois, una simile denominazione, dove ogni parola è preziosa e profondamente significativa, è al tempo stesso troppo ampia e troppo circoscritta.

Le parole chiave che balzano subitamente all’occhio e sulle quali Caillois si concentra, sono:

- azione libera e consapevole;

- al di fuori della vita consueta;

- in tempo e spazio definiti;

- secondo regole date

- circonda i rapporti sociali di mistero;

14 J. Huizinga, Homo ludens, op. cit., p. 34.

A p. 55, si trova un’altra definizione, meno dettagliata, ma anche meno limitativa:”…gioco è un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa;

accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e della coscienza di ‘essere diversi’

dalla ‘vita ordinaria”.

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Secondo il sociologo francese, è senz’altro meritorio l’aver colto l’affinità che esiste fra il gioco e l’arcano o il mistero, ma questa connivenza non può tuttavia rientrare in una definizione del gioco che è quasi sempre spettacolare, se non addirittura ostentativa. Senza dubbio, il segreto, il mistero, il travestimento insomma, si prestano ad un’attività ludica, ma è opportuno aggiungere subito che questa attività si esercita necessariamente a detrimento del segreto e del mistero. Perché provoca un danno al segreto e al mistero? Perché li espone, li rende pubblici e in qualche modo li “consuma”. Il gioco tende ad alienare il mistero dalla sua stessa natura. Al contrario, quando il mistero, la maschera, il travestimento adempiono a una funzione sacramentale, si può essere certi che non c’è un gioco, ma un’istituzione. Tutto ciò che è mistero o simulacro per natura, è vicino al gioco, ma bisogna che la parte della fantasia e del divertimento prevalga, vale a dire che il mistero non sia visto con riverente soggezione e il simulacro non sia origine o segno di metamorfosi o di possessione.

D’altra parte, non c’è dubbio che il gioco debba essere definito come un’attività libera e volontaria, fonte di gioia e divertimento. Un gioco a cui si fosse costretti di partecipare cesserebbe subito di essere un gioco: diventerebbe una costrizione, una corvée di cui non si vedrebbe l’ora di liberarsi. Obbligatorio o semplicemente consigliato, perderebbe una delle sue caratteristiche fondamentali: il fatto che il giocatore vi si dedichi spontaneamente e unicamente per il proprio piacere, avendo ogni volta la piena libertà di preferirgli il riposo, il silenzio, il raccoglimento, la solitudine oziosa o un’attività produttiva.

Esso esiste solo là dove i giocatori hanno voglia di giocare e giocano, sia pure al gioco più impegnativo e stressante, con l’intenzione di divertirsi o di dimenticare le proprie preoccupazioni, vale a dire per evadere dalla vita di ogni giorno. Bisogna, inoltre e soprattutto, che

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essi abbiano la libertà di andarsene quando vogliono, dicendo: ”Non gioco più.”

Infatti, il gioco è essenzialmente un’operazione separata: anche secondo Caillois essa è scrupolosamente isolata dal resto dell’esistenza e svolta in generale entro precisi limiti di tempo e di luogo. Esiste uno spazio del gioco e niente di quanto avviene all’esterno di questa frontiera ideale è da prendere in considerazione.

Lo stesso vale a dirsi per il tempo: la partita inizia e finisce al segnale convenuto. La sua durata può essere stabilita in anticipo o, se è il caso, la si può prolungare.

In ogni caso, però, lo spazio del gioco è un universo precostruito chiuso, protetto: uno spazio puro.

Le leggi ingarbugliate e confuse della vita ordinaria vengono sostituite, all’interno di questo spazio circoscritto e per il tempo prestabilito, da regole precise, arbitrarie, irrevocabili, che bisogna accettare come tali e che presiedono al corretto svolgimento della partita. Chi bara, anche se le infrange, finge almeno di rispettarle perché non le discute anche se abusa della lealtà degli altri giocatori.

La disonestà del baro non comporta, però, la distruzione del gioco.

Colui che lo fa saltare è il negatore o guastafeste che denuncia l’assurdità delle regole, la loro natura puramente convenzionale, e che rifiuta di giocare perché il gioco non ha alcun senso. Fino a qui la tesi del Caillois sembra convergere con quella di Huizinga e con le caratteristiche da lui individuate; tuttavia, secondo Caillois, il gioco non ha altro senso se non in se stesso. È per questo che le sue regole sono imperative e assolute: al di là di ogni discussione.

Per cui si gioca solo se si vuole, quando si vuole, per il tempo che si vuole. In questo senso il gioco è un’attività libera.

Inoltre, per il sociologo il gioco è anche un’attività incerta. Il dubbio sulla sua conclusione deve sussistere fino alla fine. Uno svolgimento noto in anticipo, senza possibilità di errore o di sorpresa è

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incompatibile con la sua natura. In questa situazione di incertezza ci si può muovere liberamente entro i limiti delle regole.

Tuttavia Caillois, esclude l’esistenza di quei giochi, soprattutto quelli dei bambini, in cui si prova piacere nel ripetere continuamente la stessa attività. Non tutti i giochi hanno il carattere dell’incertezza, ma ve ne sono alcuni per cui il carattere dell’immutabilità e della ripetibilità, sono essenziali perché soddisfano e ottemperano ad un bisogno di stabilità e fungono, inoltre, da punti di riferimento.

Secondo Walter Benjamin, infatti, nel gioco agisce sovrana la legge della ripetizione15. In alcuni giochi i bambini ripetono infinite volte l’azione e, così, non solo riescono a superare il terrore di certe esperienze originarie mediante lo smussamento, ma riescono anche a gustare ripetutamente nel modo più intenso, trionfi e vittorie.

L’esperienza infantile, che si muove attraverso la legge della ripetizione, non si può articolare solo come azione metaforica, “un fare come se”, ma piuttosto come “un fare qualcosa sempre di nuovo”

che, dopo infinite ripetizioni, genera sì le abitudini degli adulti, ma diviene anche immagine dialettica, in grado di rovesciare l’abitudine e ridare vita al “fare sempre di nuovo” nel quale risiede la possibilità, in quanto atto, azione, di rompere i vecchi schemi per crearne di nuovi.

Nel pensiero di Caillois esistono molteplici giochi, ognuno con funzione e caratteristiche peculiari, ma nel grande universo dell’attività ludica egli essenzialmente definisce il gioco come un’attività:

- Libera: a cui il giocatore non può essere obbligato;

- Separata: circoscritta entro precisi limiti di tempo e di spazio fissati in anticipo;

- Incerta: il cui svolgimento non può essere determinato in anticipo, né il risultato acquisito preliminarmente, una certa

15 Pensiero già formulato da Freud, nel 1920, nello scritto Al di là del principio del piacere, in Opere”, vol. 9, Boringhieri, Torino, 1977

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libertà nella necessità d’inventare lasciata all’iniziativa del giocatore;

- Improduttiva: che non crea, cioè, né beni, né ricchezze, né alcun elemento nuovo;

- Regolata: sottoposta a convenzioni che sospendono le leggi ordinarie e instaurano momentaneamente una legislazione nuova che è la sola a contare;

- Fittizia: accompagnata dalla consapevolezza specifica di una diversa realtà o di una totale irrealtà nei confronti della vita normale.

Queste qualità rimangono, tuttavia, puramente formali e non danno giudizi sui contenuti dei giochi, i quali sono stati suddivisi da Caillois in base quattro diverse categorie a cui appartengono e che verranno trattate in seguito.

Lo studioso francese, oltre a voler individuare le funzioni sociologiche sottese ai giochi, tenta di trovare un senso o un non-senso all’attività ludica.

4.2 Un’isola precaria.

Si è scritto molto sul gioco e sui giochi e basterebbe un sguardo panoramico sulla psicologia e sulla pedagogia per rendersi conto di quanto possa essere ampia la bibliografia critica, senza contare lo sviluppo della teoria matematica dei giochi e l’uso della matematica del gioco in filosofia e nella critica letteraria e artistica.

Un filosofo tedesco di scuola fenomenologia, Eugen Fink, in un suo saggio del 195716, dice che il gioco è “un’oasi di gioia”.

16 Cfr. E. Fink, Oasi della gioia. Idee per un’ontologia del gioco [1957], tr. It. Con un’introduzione di A. Fasullo, Edizioni 10/17, Salerno 1986.

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La tesi di Fink sostiene che il fenomeno umano del gioco acquista un significato universale, una “trasparenza cosmica”, e che sia il gioco sia il mondo si prestano a essere chiariti l’uno alla luce dell’altro. Vi è naturalmente una differenza cosmologica (Heidegger parlava di

“differenza ontologica”) tra il gioco come fenomeno umano, che si svolge tra enti intramondani quali l’uomo e le cose, e il gioco del mondo. Tuttavia la peculiarità dell’essere-nel-mondo dell’uomo – come quell’ ente che si rapporta estaticamente al mondo e lo penetra comprensivamente – fa sì che il gioco umano possa essere assunto a simbolo del gioco cosmico.

Attraverso una critica della concezione metafisica del gioco, ossia da una lato della teorizzazione platonica che riduce il gioco a immagine apparente del mondo, e dall’altro di quella mitica, in cui il gioco viene sacralizzato e, con ciò, ricondotto a regole prefissate, di cui l’uomo non è l’autore, ma gli dei o i demoni, Fink perviene a stabilire le seguenti determinazioni del concetto filosofico di gioco. Nel gioco – come in altre condotte fondamentali, quali il lavoro, la lotta, l’amore, il culto dei morti – l’uomo realizza la sua fondamentale apertura al mondo. Esso è caratterizzato dalla totale gratuità, dall’irrealtà, da un senso di gioia pagana per il sensibile, in cui viene sperimentato il

“piacere dell’apparenza”. Nel gioco, l’uomo sembra mimare la stessa onnipotenza del mondo. In queste sue peculiarità, il gioco è simbolo del mondo, del suo essere senza fondamento, scopo, senso, valore e progetto, ma insieme del suo tenere aperti gli spazi e i tempi per l’essere delle cose, il quale ha una ragione e un fine, è ricco di significato e di valore.

In seguito alle sue ricerche Callois sembra rispondergli dicendo: il gioco è “un’isola incerta”.

Il gioco è dunque, qualcosa di “circoscritto”, oasi o isola che sia, uno spazio a sé, in certo modo chiuso, sicuramente “separato” dalla realtà comune. Anche Huizinga aveva insistito su questa separatezza, parlando di uno spazio magico, entrando nel quale sospendiamo le

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regole e i modi della vita quotidiana. Ma un’isola di incertezza è altra cosa da un’ oasi di felicità: la dimensione “ludica” non è ovviamente scindibile dal piacere di giocare, tuttavia Caillois dà alla parola

“gioco” e all’aggettivo “ludico” un’intonazione ben diversa: la bella e leale competizione (la quale muove la volontà degli uomini ad essere primi e a migliorarsi di continuo per ottenere onori e virtù) che aveva in mente Huizinga nel gioco-gara, diventa in Caillois un’esperienza inquietante caratterizzata piuttosto dall’aleatorietà, dall’ambiguità della maschera e dall’affetto squilibrante della vertigine.

Entrare nel gioco, in-ludere, non significa per lui entrare solo in una dimensione illusoria, già di per sé instabile, ma anche esporsi al rischio e infine, partecipare di quello stato di “incandescente” ben noto all’esperienza del giocatore d’azzardo, che introduce la dimensione del rischio.

La bella felicità descritta da Huizinga si drammatizza nel senso suggerito dalla comune espressione “mettersi in gioco” in cui ci si può perdere.

Il gioco è gratuito e, quando è regolato, le sue regole valgono esclusivamente come regole di quello stesso gioco: non alludono alle regole della vita, non le simulano o le imitano, non sono un allenamento o un addestramento alla vita. Il gioco dunque non è né utile, né produttivo, anzi: in generale si manifesta come un’attività in pura perdita.

Il passo successivo di Caillois è quello di operare un passaggio: dal singolare al plurale, dal gioco ai giochi.

Secondo l’autore, si può ricostruire il campo delle pratiche ludiche solo se riusciamo ad evitare un pregiudizio filosofico che si presenta come indebita reductio ad unum. Da qui il pensiero di Caillois si discosta vorticosamente da quello di Huizinga, senza nascondere alcune concezioni negative sul carattere del gioco.

Egli scrive: “Ma un punto resta in questione: il gioco è veramente uno?”. Possiamo ridurre il gioco ad un’idea unitaria? Non ci mette

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sulla strada il fatto che l’esperienza ludica ha ricevuto ed ha, nelle diverse lingue, una sorprendente varietà di nomi, i quali talora indicano caratteri e aspetti assai diversi dal gioco? Il progetto di Caillois nasce da queste domande e sostanzialmente completa il lavoro, iniziato brillantemente, dal predecessore olandese.

Ammettiamo pure che l’esperienza ludica possa essere riconosciuta come qualcosa di comune a tutti gli uomini e a tutte le compagini socio-culturali (senza dimenticare gli animali): tuttavia, ad un’eventuale identificazione di tale esperienza non si può arrivare per via astratta (riflettendo su concetto di gioco), ma solo allargando l’indagine alle varie tipologie e ai vari modi di giocare, insomma attraverso l’universo dei giochi giocati senza preclusioni, e solo in un secondo momento ipotizzare un ordine o una classificazione.

Così Caillois perviene alla sua tipologia, la quale riconosce quattro forme del gioco:

- l’agon: la competizione - l’alea: la sorte

- la mimicry: la maschera - l’ilinx: la vertigine.

Queste quattro categorie si combinano e sposano tra loro in un vortice regolato dalle due forze:

- ludus - paidia.

4.3 La teoria dei giochi di R. Caillois

Caillois dispone e inventa un modello basato su differenze e opposizioni. Il gioco, come abbiamo già visto, non è “uno”, bensì è qualcosa più simile ad una piattaforma girevole con lati e aspetti diversi collegati da una logica circolare e che poggia su quattro

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pilastri fondamentali. Questo è l’apporto più originale nella tesi del sociologo.

Di conseguenza, la molteplicità dei giochi viene classificata secondo gli assi dei quattro atteggiamenti fondamentali di agon, alea, mimicry, ilinx e le due “potenze” che li attraversano, ludus e paidia.

Ludus e paidia

Troviamo il gioco “ludus” che si manifesta con la tendenza a superare gli ostacoli. Nel ludus ne va della capacità fisica o dell’

abilità mentale, tutto è questione di scaltrezza, calcolo, capacità combinatoria, pazienza. La potenza del ludus si applica alle regole sportive, ma anche al gioco degli scacchi, ai rompicapo matematici, alla risoluzione di enigmi. Talora c’è un premio materiale in queste sfide, ma il vero godimento non sta nel premio, bensì nella prova che si è data di sé stessi.

Si evidenzia un parallelismo con il processo di apprendimento che prevede l’incontro-scontro con l’oggetto da apprendere, il quale provoca delle resistenze da superare. Il nuovo è atteso e temuto, ma una volta che si supera la prova il piacere di essere arrivati alla fine è gratificante.

Il gioco, però, non è solo prova di sé e capacità ordinata di vincere gli ostacoli, è anche paidia, ovvero turbolenza, fantasia incontrollata, improvvisazione. Qui il piacere sembra cambiar natura: si associa al

“divertimento” nel senso più proprio del termine, come nel caso di tutte quelle manifestazioni che hanno a che fare con l’eccitazione, l’allegria e il riso.

Ciò che da piacere della paidia è lo scarto, la sorpresa, la novità, ma poi anche l’eccesso e l’ebbrezza.

Quindi, secondo l’Autore, se ricerchiamo quale sia il piacere del gioco troveremo uno scenario doppio, abitato dal ludus e dalla paidia, dallo scorrimento dall’uno all’altra, dall’interazione tra i loro effetti polari, complementari e compensatori. C’è dunque, fin da subito, un movimento non riconducibile ad un unico vettore, un’instabilità non

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semplificata, che sembra appartenere all’esperienza stessa del giocare.

Questa mobilità polare e instabile la ritroveremo puntualmente, come un secondo registro nella geometria dei quattro assi che Caillois prima circoscrive e poi annoda.

4.4 Le quattro categorie di Caillois

Nell’agon la potenza del ludus è massimamente rappresentata: nei giochi agonali, qualunque sia il livello di regola che li organizza, è in gioco la “padronanza di sé”, la capacità dell’individuo, l’affidamento nelle proprie capacità e responsabilità. L’agon si presenta come la forma pura del merito personale e serve a manifestarlo.

Di questa categoria fanno parte tutti i giochi di competizione.

Al contrario, nei giochi che possiamo raccogliere sotto il tipo di alea, (parola latina che indica il gioco dei dadi) l’individuo è passivo, la sua soggettività quasi scompare dinnanzi al tiro dei dadi o alla pallina della roulette. Il colpo fortunato, quello che può addirittura cambiare la vita o da cui ci si aspetta un repentino cambiamento, prescinde dall’impegno del giocatore: anzi, si direbbe, il piacere di questo gioco con il destino è commisurato alla capacità del giocatore di “stare al gioco”, cioè di corrispondere alla passività della sorte, di saper accettare l’alea.

Se nell’agon non conta l’entità della posta, nell’alea può sembrare che la posta sia tutto, e in certi casi la posta è davvero tutto: d’altra parte l’alea ci rivela, meglio di ogni altro tipo di gioco, che uno degli aspetti caratterizzanti ogni esperienza ludica è di essere “in perdita”. Chi azzarda è già un perdente, ha già messo in conto la perdita, grande che sia, e da qui si ricava il piacere specifico del rischio. Nell’alea il desiderio principale è quello di riuscire a vincere sul “destino”.

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Anche nella mimicry, il terzo asse, è in gioco una perdita. Mimicry è un termine inglese che significa mimetismo e che si riferisce in particolare al mimetismo degli insetti fulgoridi che avevano attratto il giovane Caillois. Perché si introduce il termine della perdita? Perché nella maschera, nel mascherarsi e poi in tutti i fenomeni della mimicry che riguardano la teatralizzazione e anche la spettacolarizzazione della nostra vita quotidiana, a cominciare dal teatro infantile in cui i bambini si raccontano le storie e così giocano, il piacere specifico è quello di uscire da se stessi e di impersonare un altro, di “diventare” un altro. Come Caillois sa, a giocare “ai fantasmi”

si diventa fantasmi, ma poi quello che Callois sottolinea e che soprattutto gli preme è osservare che noi vogliamo diventare fantasmi e che di fatto diventiamo fantasmi almeno un poco. Il gioco della maschera è una deliberata esposizione all’alterità e dunque ai suoi effetti. La maschera arcaica è spossessante e terribile, incute paura.

Quell’ uomo che fa la parte del Dio irato nella festa o nella danza rituale, per coloro che partecipano al rito è una divinità irata e lui stesso è preda di uno stato di possessione o di trance. Poi arriverà il dio burlone e ironico ad “allentare” la tensione di questo gioco…e infine la maschera si svuoterà del potere terribile che l’insetto fulgoride testimonia con la sua grottesca mostruosità.

Tuttavia, per quanto lontane e rimosse, le istanze originarie della maschera mantengono delle sopravvivenze, e se così non fosse non capiremmo da dove viene il piacere di mascherarsi o di prendere il ruolo o le fattezze di un altro. Modesta che sia, l’esperienza resta quella del piacere di una messa a repentaglio della propria identità attraverso uno scarto, uno spaesamento, per quanto leggero. Se il gioco qui rivela il suo carattere di finzione, il piacere della finzione sembra allora corrispondere a un occultamento momentaneo di sé e all’effetto equivoco che si produce negli altri oltre che in sé stessi, grazie a questa “alterazione”. La paura della maschera sembra scomparsa, ma non è stata completamente cancellata: infatti, resta

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uno scarto dalla realtà normale e tale esperienza mantiene un rapporto con il rischio. Anche qui è evidente la corrispondenza con le dinamiche psicologiche che vengono risvegliate nel processo di apprendimento, dove si ha il piacere di abbandonarsi al nuovo, nonostante la paura dell’ignoto. Si rischia si muoversi in una direzione che ci stacca da ciò che è noto e rassicurante per qualcosa che si rivela affascinante e attraente nel suo mistero.

Mimica e travestimento sono due molle complementari e il bambino ne viene attratto perché gli viene data la possibilità di imitare l’adulto.

Il piacere più grande di questa tipologia di giochi è quello di essere un altro o far credere di esserlo. Ad eccezione di una, la mimicry presenta tutte le caratteristiche del gioco: libertà, convenzione, sospensione del reale, spazio e tempo delimitati. Non vi si ritrova tuttavia, secondo Caillois, il completo assoggettamento alle regole, in quanto tutto è dato dall’invenzione e dall’unico obiettivo rappresentato dal mantenimento dell’illusione.

Il rischio compare enfatizzato fino all’eccesso dall’ilinx, il termine più strano tra quelli coniati finora da Caillois e non per caso. Si tratta di una parola greca, ma assai meno comune del termine agon. La traduciamo con vertigine, ma la traduzione letterale è “gorgo”. Qui la piattaforma circolare, che possiamo prendere quale metafora della circolarità dei giochi e del gioco come esperienza complessiva, prende a muoversi vorticosamente. Ci inebria come quando fissiamo una trottola, o danziamo avvitandoci sempre di più su noi stessi, ci dà un senso di ebbrezza e ci trascina nel suo giro abissale. L’ilinx è il punto chiave della teoria di Caillois, la via di fuga di tutto il suo edificio. Un edificio instabile in cui lo scorrere della piattaforma dà vita a nozze e divorzi: agon e alea, mimicry e ilinx, ma anche ad alea e ilinx…e così via. I giochi dell’ilinx si basano sulla ricerca della vertigine e consistono in un tentativo di distruggere per un attimo la stabilità della percezione e far subire alla coscienza, una sorta di panico.

Questa vertigine si accompagna spesso al gusto, normalmente

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