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Insegnare giocando

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 159-175)

I L GIOCO ENTRA NELLA SCUOLA

2. Insegnare giocando

2.1 Scuola e gioco

Una società caratterizzata da continui accelerati mutamenti e definita da più parti complessa, sta impegnando la scuola a cambiare non tanto il modo di fare, quanto il modo di essere al fine di offrire competenze e sviluppo dell’autonomia personale per una gestione responsabile delle proprie scelte future di vita e di lavoro, per il possesso di nuovi e più validi strumenti adeguati ad una partecipazione creativa dell’uomo alla sua vita. Affiancare i termini scuola e gioco, i quali sembrano così distanti l’uno dall’altro, evidenzia la necessità della scuola di ripensarsi in termini di luogo di apprendimento e formazione. La strada da percorrere sul piano formativo sembra configurarsi come quella che porta ad un passaggio da una concezione di educazione-istruzione, il cui sapere scolastico è considerato un contenuto da memorizzare/ripetere/applicare, ad una concezione di educazione-formazione che possa garantire la comprensione e l’acquisizione di un metodo di studio, nell’ottica di apprendere ad apprendere. Un metodo tale permette all’alunno di acquisire una maturità tale da padroneggiare quell’indipendenza culturale, che è alla base della libertà di pensiero ed è necessaria al confronto con le pluralità di culture. La formazione nell’ottica di una visione dinamica della cultura non può però basarsi unicamente sul bagaglio di conoscenze acquisite in passato, cioè su un sapere

specializzato e fondato sui contenuti da trasmettere, ma offrirà percorsi polivalenti e flessibili in grado di attrezzare il bambino con tutte le competenze essenziali per interpretare la cultura e codificare le fonti stesse del cambiamento.5

Del resto compito della scuola risulta quello di fornire una formazione di base che permetta la spendibilità del sapere acquisito nelle finire scelte adulte.

L’attenzione odierna posta ai diversi stili cognitivi e il riconoscimento delle intelligenze plurime (Gardner ne individua sette6) porta in primo piano la possibilità di un accesso personale del bambino alla cultura.

Attraverso l’attività ludica l’insegnante potrà porre attenzione alla rete di significati dell’esperienza e assumere egli stesso il ruolo di mediatore del processo di rielaborazione costante della cultura.

L’apprendimento diviene significativo nel momento in cui si pone la giusta attenzione sia al COSA sia al COME, quindi al prodotto, ma anche al processo sotteso.

Il gioco, ci dice il grande storico Philippe Aries7, entra nella scuola verso il 1600. non è che non avesse già fatto capolino nell’educazione dei bambini, ma qui abbiamo il suo ingresso “ufficiale”. Se questi documenti possono essere tra i primi che ritroviamo a proposito del gioco nelle istituzioni scolastiche, non si possono dimenticare gli ultimi. Le Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati, 8 indicano che uno dei tre connotati della scuola dell’infanzia è la valorizzazione del gioco (gli altri due sono “la relazione personale significativa” e “il rilievo del fare produttivo”), mentre per la scuola primaria sono un po’ meno attente alle attività ludiche, sottolineando l’importanza del corpo e il miglioramento di sé. Tutto sommato

5 M. Viglietti, La concezione moderna dell’orientamento educativo, in Annali della Pubblica Istruzione, Le Monnier, Firenze, 1990, in AA.VV. Percorsi formativi di tirocinio, ISU

6 Cfr Gardner H., Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, op. cit.

7 P. Aries, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, op. cit

8 Decreto Legislativo 19 Febbraio 2004, n. 59 (Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.

51 del 2 marzo 2004, Supp. Ord. N. 31)

riconoscono che il gioco può essere d’aiuto sia sul piano degli apprendimenti specifici, sia quello della motricità e della corporeità, sia sul piano dell’atteggiamento socioculturale, sia, infine, sul piano delle emozioni, della creatività e dell’educazione.

Inoltre, in continuità con la scuola dell’infanzia, specie nel primo anno e nel primo biennio della scuola primaria, il gioco è considerato risorsa privilegiata di apprendimento e di relazione, essendo un’esperienza altamente unitaria e unificante. Nel gioco, infatti, gli alunni contemporaneamente pensano, imparano, sentono, esprimono, producono, agiscono, progettano, si relazionano con gli altri, diventano autonomi. In esso sono interamente coinvolti, vivono sensazioni ed emozioni, imparano le regole, sviluppano abilità sociali e linguistiche, sperimentano la concretizzazione dei loro pensieri in azioni, quindi crescono e si sviluppano in modo equilibrato, completo e originale. Proprio per la ricchezza di questa esperienza, il gioco è una strategia centrale, che non si abbandonerà del tutto neppure durante gli anni successivi al primo biennio, punto di partenza e strumento per la trasformazione simbolica della realtà.

Le Indicazioni Nazionali, dunque, considerano il gioco quale fautore e organizzatore dell’esperienza personale del bambino. Ciò che deve ancora trovare una risposta operativa e univoca è il suo utilizzo all’interno della dimensione applicativa.

2.2 L’attività ludica e il docente

All’attività didattica presiede un modello, ovvero una

“rappresentazione semplificata di schemi operativi per realizzare azioni educative istituzionalizzate nella scuola”9. L’insegnante si costruisce, gradualmente, paradigmi di riferimento che ritiene

9 E. Damiano, L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Roma, Armando, 1993, p. 91, cit in A. Kaiser, Genius ludi: il gioco nella formazione umana, op. cit.

rappresentino costanti indiscutibili e necessarie del proprio agire.

Nella definizione e nella predisposizione di queste non va trascurato quanto propone e/o impone il programma ministeriale, costituendo esso una base referenziale per l’azione. La didattica adempie compiti a matrice istruttiva, ma gliene spettano anche a tipologia formativa.

Proprio a causa di tale assunto pedagogico, l’organizzazione di qualsiasi modello non può essere compiuta solo in laboratorio, tramite l’analisi e l’accorpamento di elementi oggettivi, ma essa si elabora attraverso l’esperienza e si modifica in rapporto alle componenti soggettive insite nel docente stesso, nel discente e nella relazione istaurata tra essi.

Se l’attività ludica viene configurandosi quale componente didatticamente idonea nella scuola dell’infanzia nonché nella scuola primaria, l’insegnante la predisporrà enfatizzandone sia i fini apprenditivi sia quelli formativi. In entrambi i casi il docente partecipa allo sviluppo esperienzale del gioco stesso secondo due modalità: la sua presenza è ludica ed educativa al tempo stesso. Nel primo caso rappresenta un punto di riferimento per i bambini, elemento rassicurante o sostegno emotivo: il suo ruolo non si delinea come limitatamente esecutivo rispetto alla risoluzione di eventuali difficoltà tecnico-strumentali o relazionali, bensì diventa direttamente integrabile quale polo di comunicazione. Nel secondo caso, attraverso una fattiva partecipazione, si propone come mediatore delle difficoltà del singolo o del gruppo, nonché supporto all’arricchimento delle dinamiche del gioco: promuove, rispetta e sostiene le proposte degli stessi bambini.

Proprio perché attivamente coinvolto nell’organizzazione e nello svolgimento dell’attività, il docente si rende conto che il processo ludico né prevede, né permette al suo interno una rigida predisposizione di compiti. Contemporaneamente, però, egli si accorge che la stessa dinamica può essere finalizzante: tale caratteristica è peculiare del fenomeno, essendogli insita una forza

primordiale. Fruire di tale opportunità richiede specifiche competenze e conoscenze (abbiamo già visto la logica interna, esterna e del

“giocatore” secondo Staccioli10), quali:

- conoscenza approfondita del gioco, che è necessario sia riconosciuto quale evento antropologico; in termini specifici, ne vanno identificati gli elementi legittimanti, quali regole e causalità, organizzazione, procedimento, conclusione, ecc.;

- competenze didattiche relative all’azione ludica;

- opportuna sensibilità spazio-temporale per capire come, perché, dove, a qual fine, quando optare per un dato gioco, invece che per un’altra attività.

Con il gioco si insegna a muoversi, immaginare, pensare.11

L’azione didattica si correla all’attività ludica quando è in grado di coglierne l’essenza rappresentandola come modo di agire, funzione sociale, forma di vita.

L’impiego didattico del gioco richiede presa di coscienza del suo valore, desiderio di esperirne le molteplici risorse, bisogno di provare il piacere formativo implicito al suo essere costruttivo e non distruttivo, strutturante e non destrutturante. Mediante queste componenti l’insegnante riesce ad attuare interventi mirati, in grado di stimolare ed indirizzare l’attività ludica verso la conquista di fondamentali obiettivi pedagogici inerenti, strettamente e non, l’ambito scolastico. A partire dagli interessi del bambino, l’insegnante potrà così promuovere cambiamenti finalizzati mediante sollecitazioni di matrice ludica. Ne agevola l’apprendimento cognitivo, lo sviluppo psico-motorio e socio-relazionale prevedendo, nei tempi e negli spazi didattici, momenti e materiali ludici differenziati: individuali o comunitari, dinamici o statici, eccetera. Dalla propria attiva partecipazione il docente prende coscienza, inoltre, della necessaria alternanza tra le condizioni pedagogiche e l’essenza dei giochi

10 Cfr Staccioli G, Il gioco e il giocare, op. cit.

11 Vengono richiamati i giochi di esercizio, simbolo e regola definiti da J. Piaget.

proposti. Gli itinerari ludici, oltre ad essere molteplici, godono di un’infinità variabilità e possono agevolare ora l’una ora l’altra dimensione formativa.

L’attività ludica non vuole solo spazi e tempi, ma richiede anche di adeguare il proprio lavoro scolastico, nonché di prendere coscienza del proprio modo di agire come insegnanti impegnati a promuovere la crescita individuale e sociale dei bambini, come pure la propria. E questo è forse uno dei compiti più ardui in cui un docente si imbatte, poiché adeguare il lavoro scolastico significa operare costantemente una valutazione su se stessi, essere predisposti a cambiare, ad ammettere incuranze o errori, a riflettere sul rapporto circolare tra teoria e pratica.

L’insegnante, a volte, è insicuro, perché “sa di non sapere” e, d’altra parte, gli viene richiesto di interpretare il ruolo di colui che sa e deve trasmettere agli altri, quasi fosse un enciclopedia. Ha quindi due possibilità: entrare in crisi e ripensare il proprio ruolo (il che denota un certo indice di professionalità ed elasticità mentale) o costruirsi delle difese.

Mario Lodi12 ne individua alcune:

- il “metodo della lezione”, che difficilmente tiene conto dell’esperienza dell’alunno e delle sue conoscenze e propone nozioni sempre nuove, lontane dall’interesse dei ragazzi. Il piano di lavoro è deciso unicamente dall’insegnante, che fa il suo discorso senza rischiare di essere coinvolto nei problemi esistenziali e culturali dei suoi allievi;

- lavorare da solo al fine di evitare ogni forma di confronto (“I miei bambini…la mia classe….sono abituati al mio metodo…”);

- il “muro del pianto”, ovvero cento e una giustificazione per non cambiare;

12 M. Lodi, Guida al mestiere di maestro, op. cit, p. 150 ss.

- trincerarsi dietro la “libertà di insegnamento”, vissuta come un isolamento escludente il confronto o l’elaborazione di programmi comuni.

Ebbene, compito dell’insegnante non è quello di mostrarsi infallibile, ma professionista competente, conoscitore dei problemi educativi e formativi, che opera in collaborazione con i suoi colleghi per offrire agli allievi il meglio di sé. Le sue lacune rispetto alle conoscenze potranno essere sempre colmate: ciò che non può essere riparato, se non volontariamente, è l’atteggiamento di chiusura verso la riflessione sul proprio essere, il rischio di osare e tentare il cambiamento verso orizzonti nuovi e, forse, migliori.

2.3 I modelli didattici13

A questo proposito, credo sia giusto soffermarsi sulla definizione di modelli didattici che mirano ad elevare la pratica d’insegnamento.

Questi sono da prendere come punti di riferimento o guida, per evitare di rimanere intrappolati in gabbie metodologiche che spogliano l’azione didattica di creatività e spontaneità. I modelli presentati di seguito sono orientativi”, e offrono prospettive differenti riguardo all’azione del docente, la quale può presentare elementi ora di uno ora dell’altro, in un’ottica integrata.

Nel modello delle competenze di base,14 si mira prevalentemente a perseguire i risultati inerenti ai campi del sapere, definibili in termini di apprendimento di contenuti e di abilità disciplinari. A partire dal fatto che le discipline dei curricoli scolastici rappresentano corpi di conoscenze già codificate e consolidate, si ritiene che impararne i contenuti significhi prevalentemente assimilarne le conoscenze

13 Cfr M. Baldacci (a cura di), I modelli della didattica, Carocci, Roma, 2004

14 Da un saggio di M. Parente contenuto in “ivi”, cit. pp 63-96

fondamentali, comprenderne i concetti-chiave, saperne applicare i procedimenti essenziali. Le “competenze di base” si riferiscono alle capacità d’uso delle conoscenze disciplinari e rappresentano le fondamenta sulle quali si edificheranno gli apprendimenti scolastici futuri (il nucleo essenziale di tali competenze si identifica nel trittico:

saper leggere, scrivere, far di conto).

Questo modello è in sintonia con le procedure didattiche di genere individualizzato, le quali, attraverso l’adattamento dell’insegnamento alle caratteristiche cognitive degli studenti, mirano a garantire il possesso delle suddette competenze alla maggior parte di essi.

Il rischio consiste nella standardizzazione degli esiti scolastici, nell’omologazione dei corredi culturali degli studenti. La riduzione degli esiti agli ambiti strettamente disciplinari crea, inoltre, una frammentazione della cultura in una serie di campi specialistici, scissi gli uni dagli altri come compartimenti stagni.

Quello centrato sullo sviluppo dei processi cognitivi superiori15, è un modello ideale che si presenta opposto a quello precedente. I suoi punti focali sono dati dal “processo formativo” e dal soggetto in formazione. Ciò significa che si mira a sollecitare la messa in atto dei processi cognitivi superiori dello scolaro, a stimolare lo sviluppo delle sue capacità mentali più elevate. Quello che interessa maggiormente all’istruzione formale è far sì che la mente dell’alunno venga affinata a produrre nuovo sapere, per cui si muove sul principio “teste ben fatte” piuttosto che “teste piene”. Questo approccio trova un corrispettivo storico in alcune concezioni dell’attivismo. Oltretutto, presenta alcune varianti che si intrecciano tra loro: le facoltà mentali superiori (sviluppo delle capacità cognitive), l’interdisciplinarità (accentuare le relazioni tra i contenuti), la metacognizione (riflettere sulle proprie attività cognitive e processi di apprendimento).

15 Un saggio di R. Persi contenuto in “ivi” pp. 97- 124

A differenza di quanto sostenuto per il precedente, qui si rischia di sottovalutare l’importanza dei contenuti e sovrastimare la rilevanza della pura efficienza del funzionalismo mentale.

Il successivo modello, invece, è incentrato sullo sviluppo dei talenti personali16, le cui coordinate sono definite dalla predominanza del soggetto formativo e dal prodotto della formazione. Si mira, quindi, a raggiungere risultati circa lo sviluppo di specifiche forme di intelligenza e di talento dello scolaro. Non si vogliono coltivare processi mentali generali, ma competenze reali, concrete e specifiche riferite alla struttura della mente. Si pensa che oltre ad un’intelligenza di tipo generale, esistano anche altre forme di attitudini cognitive specifiche, talvolta dette “intelligenze” o formae mentis, che definiscono la multiformità dell’ingegno e la pluralità dei talenti di cui può essere dotato l’uomo. In tale quadro si pensa che ogni individuo possieda proprie particolari inclinazioni intellettive e quindi che ognuno possa sviluppare proprie forme di talento, non limitandosi cioè ad acquisire la padronanza di un certo campo, ma raggiungendo in esso un livello di eccellenza rispetto alla maggior parte delle persone. In altri termini, diversamente dal modello delle competenze di base, nel quale si mira prevalentemente ad insegnare ciò che tutti dovrebbero sapere e saper fare, qui si privilegia ciò che differenzia qualitativamente ogni soggetto dagli altri, ciò che contraddistingue la sua individualità cognitiva. Il che trova un rispettivo storico nelle forme di didattica personalizzata e rappresenta una sorta di reazione al portato potenzialmente omologante di curricoli formativi comuni a tutti gli alunni. Il ruolo dell’istruzione diventa quello di offrire all’alunno, invece, l’opportunità di coltivare i propri talenti, attraverso la presenza di tipi diversificati di attività elettive e adeguate forme di sostegno didattico. Bisogna però ricordarsi di agire sempre con buon senso, difatti se i principi di

16 Da un saggio di P. D’Ignazi contenuto in “ivi” pp. 125-153

questo modello vengono assolutizzati, si profila il rischio di ripristinare, o di consolidare, forme di elitarismo educativo, portate a privilegiare un piccolo manipolo di alunni ritenuti iperdotati o geniali, anziché preoccuparsi di offrire a tutti eque opportunità di crescita culturale ed intellettuale. Oppure, si corre anche il rischio, di trascurare un minimo comune denominatore formativo che prescinde dalle specifiche inclinazioni individuali.

L’ultimo modello che presentiamo è quello prevalentemente centrato sull’arricchimento culturale17, in cui si notano sia una predominanza dell’oggetto culturale che del processo della formazione. In questa prospettiva si mira prevalentemente a promuovere un processo di appropriazione interiore di contenuti culturali dotati di elevato valore intrinseco, che determinano l’arricchimento spirituale del soggetto. Il modello si distingue da quello centrato sui processi cognitivi in quanto il principio dell’itinerario mentale compiuto dall’individuo non viene collocato all’interno di questi, nella struttura delle sue facoltà intellettive, ma viene posto all’esterno nelle forme della cultura, secondo un percorso di interiorizzazione. Inoltre, si differenzia anche dalla prospettiva del modello delle competenze di base in quanto, pur muovendo, come quest’ultimo, dalla centralità degli oggetti culturali, li definisce non tanto in termini di strutture, quanto in termini di significati e di valori (estetici, etici…). A partire da una concezione essenzialmente antropologica, la crescita dell’individuo è vista come collocata entro un mondo culturale i cui sistemi di simboli, di significati e di valori, sono i principali fattori dell’umanizzazione, dell’itinerario che lo porta a diventare persona, membro della comunità umana, nonché dello stesso sviluppo della sua mente, del processo che conferisce a quest’ultima le sue peculiari caratteristiche.

Di conseguenza, la formazione viene vista come un percorso di appropriazione di tale mondo di significati e di valori, come un viaggio

17 Un saggio di B. Martini contenuto in “ivi” pp. 154-179

in questi territori di senso, nel corso del quale il soggetto instaura un dialogo personale con le grandi opere della cultura e attraverso ciò forma se stesso. L’attività ludica, nel suo essere germe culturale, si inserisce pienamente nella didattica, in quanto persegue la maggior parte degli obiettivi formativi indicati nei precedenti modelli.

L’appropriazione culturale e la crescita individuale sono processi considerati “aperti”, sia nel senso che non sono mai definitivamente compiuti, sia nel senso che i loro approdi non possono essere previsti o predeterminati, in quanto dipendono dall’itinerario personale di ciascuno. Si pensa, comunque, che in questa maniera il soggetto si arricchirà interiormente e si affinerà mentalmente, sviluppando spirito critico e autonomia etica e intellettuale. Questo modello trova un corrispettivo storico nei grandi paradigmi umanistici della formazione, come la paideia e la buildung, che hanno messo l’accento sull’importanza di concepire l’insegnamento a partire dai contenuti degni di essere conosciuti e apprezzati per il loro intrinseco valore.

Esso si presenta, però, secondo due concezioni: una esistenzialista e l’altra essenzialista.

In quella essenzialista, la cultura viene definita attraverso la natura astorica della spiritualità dell’uomo, per cui l’appropriazione personale della cultura è un itinerario di liberazione da ciò che c’è di contingente nella persona, per ritrovare l’autentica essenza della natura umana.

Se invece prevale una pedagogia esistenzialista, allora la formazione non cade sotto un dover essere assoluto e viene concepita piuttosto come un itinerario in cui l’esistenza dell’individuo precede la sua essenza di persona e questa è da lui scelta e realizzata. In tal caso la cultura è una manifestazione della storia e riflette le prospettive delle varie epoche, per cui nel dialogo con essa il soggetto non assorbe un assoluto, ma conosce modelli diversi, vive una pluralità di significati che dilatano la sua esperienza interiore, e a partire dai quali può scegliere o costruire autonomamente i propri ideali, valori, significati.

Il ruolo dell’insegnamento, allora, è quello di realizzare le condizioni per una costruzione di senso originale e quindi per uno sviluppo libero dell’interiorità dello studente.

Esiste una molteplicità di opzioni che arricchisce l’insegnamento, il quale reclama un’apertura della prassi didattica all’interno del ventaglio dei modelli di riferimento, chiamandola a realizzarsi secondo forme di integrazione e di compresenza delle diverse possibilità che ne fanno parte.

2.4 Apprendere giocando e i mediatori didattici

Se si può apprendere giocando, allora è tanto vero che è possibile anche insegnare giocando. La letteratura dà adito a questa affermazione sia in ambito antropologico, sociologico, psicologico e pedagogico, e concorda che il gioco, seppur delineato sotto profili differenti, è ritenuto un importante fattore di sviluppo.

Plurimi risultano gli aspetti coinvolti nell’apprendimento attraverso la ludicità, in quanto richiama variabili psico-motorie, comportamentali, espressive, relazionali, comunicative: ad esempio, accanto a quelle percettiva e motoria è possibile un’educazione all’interpretazione simbolica. Questo tipo di formazione è già riscontrabile nell’ambito

Plurimi risultano gli aspetti coinvolti nell’apprendimento attraverso la ludicità, in quanto richiama variabili psico-motorie, comportamentali, espressive, relazionali, comunicative: ad esempio, accanto a quelle percettiva e motoria è possibile un’educazione all’interpretazione simbolica. Questo tipo di formazione è già riscontrabile nell’ambito

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 159-175)