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Tutto ciò che non è lavoro è gioco: la gratuità e le regole del gioco

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 39-44)

A questo punto, dopo aver esaminato le teorie dei due studiosi più autorevoli della letteratura in materia di gioco, possiamo dedurre che innumerevoli sono i giochi e di vario tipo: giochi di società, di destrezza, d’azzardo, giochi all’aperto, giochi di pazienza, giochi di costruzione, ecc. nonostante la quasi infinita varietà e con costanza davvero notevole, la parola gioco richiama sempre i concetti di svago, di rischio o di destrezza e di gratuità. E, soprattutto, implica immancabilmente un’atmosfera di distensione o di divertimento. Il gioco riposa e diverte. Evoca un’attività non soggetta a costrizioni, ma anche priva di conseguenze nella vita reale. Si contrappone alla serietà di questa e per questo l’attività ludica è qualificata come frivola. Si contrappone al lavoro come il tempo perso al tempo ben impiegato. Il gioco, infatti, sembrerebbe non produrre alcunché: né beni, né opere.

Soprattutto secondo Caillois, il fatto che esso non crei alcuna ricchezza (persino nei giochi d’azzardo non c’è nuova ricchezza, ma solo spostamento di proprietà) è una delle sue caratteristiche peculiari. In questo senso si differenzia dal lavoro o dall’arte. Alla fine della partita, tutto può e deve ripartire dallo stesso punto, senza che niente di nuovo abbia avuto origine: né nuovi prodotti, né oggetti, né capolavori, né nuovo capitale. Il gioco è occasione di puro dispendio:

di tempo, di energie, di intelligenza, di abilità (a volte di denaro).

Questa fondamentale gratuità del gioco è appunto l’aspetto che maggiormente lo discredita. Giocare e interessarsi di giochi significa anche affrontare deliberatamente un preciso, persistente discredito.

Ma è al tempo stesso ciò che consente di abbandonarvisi con assoluta spensieratezza e lo mantiene isolato dalle attività produttive. Ognuno, fin dall’inizio, si persuade così che il gioco è soltanto divertente

capriccio e futile evasione, qualunque sia l’attenzione che vi si pone, le facoltà che stimola, il rigore che viene richiesto.

È davvero così? Siamo sicuri che possiamo relegare il gioco solo alla sfera del divertimento e della gratuità?

Eppure si tratta di una molla primordiale di civiltà e i suoi significati nascosti non possono che essere altamente istruttivi.

Abbiamo visto come ogni gioco sia un sistema di regole che definiscono il lecito e il vietato. Queste convenzioni sono al tempo stesso arbitrarie, imperative e senza appello. Non possono essere violate con alcun pretesto, pena l’interruzione e la fine immediata del divertimento. Nient’altro, infatti, sostiene la regola se non il desiderio di giocare, vale a dire la volontà di rispettarle. Bisogna giocare secondo le regole o non giocare affatto. Ora, stare al gioco è un’espressione che si impiega in moltissimi altri casi al di fuori della ludicità, anzi, soprattutto al di fuori di essa in un’infinità di rapporti e azioni che si cerca di regolare in base a delle condizioni implicite molto simili a quelle del gioco. E tanto più conviene sottommettervisi dal momento che nessuna sanzione ufficiale punirà il partner sleale.

Semplicemente, cessando di stare al gioco, egli avrà restaurato lo stato di natura e permesso nuovamente ogni imposizione, astuzia o reazione proibita, che le convenzioni avevano proprio lo scopo di bandire in comune accordo. Quello che si chiama gioco, appare in questo caso come un insieme di restrizioni volontarie, accettate di buon grado e che instaurano un ordine stabile, a volte una tacita legislazione, in un universo senza leggi.

Non già il gioco in sé, quindi, ma le disposizioni psicologiche che esso traduce e sviluppa possono effettivamente costituire elementi di civiltà.

Non è assolutamente vero, quindi, che il gioco non ha altra finalità che in se stesso, come sostiene Caillois. Nell’insieme, questi diversi significati implicano nozioni di totalità, di regole e di libertà. In particolare, uno associa la presenza di limiti e la facoltà di inventare

all’interno di essi. Un altro distingue fra le risorse avute in dono dalla sorte all’arte di riportare la vittoria col solo ausilio delle risorse personali che dipendono unicamente dal proprio impegno.

Vi sono casi in cui i limiti si attenuano, la regola sfuma; altri, al contrario, in cui la libertà e l’invenzione sono sul punto di sparire, ma

“gioco” significa che i due poli sussistono e che fra l’uno e l’altro è mantenuto un certo rapporto. Questo propone e propaga delle strutture astratte, delle immagini di spazi chiusi ed esclusivi, in cui possono esercitarsi ideali convergenze. Le regole sono un mezzo per contenere uno spazio in cui possa svilupparsi l’illusione. La connessione tra il gioco e l’illusione è stata riconosciuta da tempo e viene rivelata dall’etimologia della parola ‘illusione’ che letteralmente significa ‘stare al gioco.’

Huizinga fa derivare dallo spirito ludico la maggior parte delle istituzioni e delle discipline che regolano la società. Il diritto, ad esempio, rientra in questa categoria: il codice enuncia le regole del gioco sociale, la giurisprudenza le estende ai casi più controversi, la procedura definisce la successione e la regolarità delle mosse. E vengono prese delle precauzioni affinché tutto si svolga con la chiarezza, precisione, onestà e imparzialità di un gioco.

Anche nel campo estetico le cose non vanno diversamente. In pittura le leggi della prospettiva sono in gran parte delle convenzioni. Esse generano delle abitudini che, alla fine, le fanno apparire naturali. Le leggi dell’armonia, per la musica, quelle della prosodica e della metrica per l’arte dei versi, ogni altra regola, unità o canoni per la scultura, la coreografia o il teatro costituiscono parimenti altrettante legislazioni, più o meno esplicite e dettagliate, che guidano e al tempo stesso limitano il creatore. Sono le regole del suo gioco.

D’altra parte, esse danno luogo a uno stile comune e riconoscibile in cui si riconciliano e si compensano la disparità del gusto, la prova della difficoltà tecnica e i capricci del genio.

Queste regole hanno qualcosa di arbitrario e il primo venuto, se le trova assurde o soffocanti, è libero di rifiutarle e di dipingere senza prospettiva, scrivere senza rima né cadenza, comporre suoni al di fuori della regolamentare armonia. Così facendo egli non sta più al gioco e contribuisce a distruggerlo perché, proprio come per il gioco, queste regole esistono solo per il rispetto che si porta per loro.

Negarle, tuttavia, è al tempo stesso abbozzare i criteri futuri di una nuova perfezione, di un altro gioco il cui codice, ancora vago, diventerà a sua volta tirannico, imbriglierà ogni audacia e metterà nuovamente al bando la fantasia sacrilega. Ogni rottura che infrange un divieto codificato prefigura già un altro sistema, non meno rigido né meno gratuito.

Riferendosi a questi principi si può leggere il progredire stesso della civiltà nella misura in cui questa consiste nel passaggio da un universo caotico a un universo regolato che poggia su un sistema coerente ed equilibrato ora di diritti e di doveri, ora di privilegi e di responsabilità. Il gioco ispira e conferma tale bilancia. Esso offre continuamente l’immagine di uno spazio puro, autonomo, in cui la regola, volontariamente rispettata da tutti, non favorisce né lede alcuno. In tal modo costituisce un’isola di chiarezza e perfezione, pur quanto indubbiamente infinitesimale e precaria, revocabile e che si auto-sopprime, come espresso anche dal sociologo francese. Ma questa durata effimera e questa limitata estensione, che lasciano al di fuori le cose importanti, hanno pur sempre valore di modello.

Con il passare del tempo ci si rende, quindi, conto di come il gioco possa rivendicare la sua propria dimensione di serietà che si allontana dalla gratuità manifestata dal suo essere considerato solo un mero strumento di diletto. Ciò che produce il gioco non si traduce in termini materiali, in quanto agisce in strati più profondi della vita quotidiana.

I giochi agonistici, di competizione, fanno capo agli sport, i giochi d’imitazione, di travestimento prefigurano il teatro. I giochi d’azzardo

e combinatori sono stati all’origine di innumerevoli sviluppi nel campo della matematica, dal calcolo delle probabilità allo studio degli spazi topologici. Lo si vede chiaramente: il panorama della fertilità dei giochi non cessa di impressionare. E il loro contributo a livello dell’individuo non è da meno. Gli psicologi riconoscono ad essi un ruolo capitale nel processo dell’autoaffermazione nel bambino e nella formazione del suo carattere. Giochi di muscoli, di destrezza, di calcolo, sono esercizi e allenamento. Ogni gioco potenzia e affina qualche facoltà fisica o intellettuale. Attraverso il divertimento e la perseveranza si rende facile ciò che all’inizio appariva difficile o stressante.

Il gioco non è solo puro divertimento, in esso è presente anche una imprescindibile percentuale di lavoro. Il bambino che gioca è un bambino che lavora per incrementare la sua crescita, manipola la realtà e ne fa esperienza.

Ancora, contrariamente a quanto si sostiene, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto. Il ragazzino che gioca con il cavalluccio o con il trenino non si prepara a fare il cavaliere o il macchinista, né si prepara a fare la cuoca la bambina che finge di preparare e mangiare pietanze invisibili disposte sul suo tavolino.

Se il gioco non prepara ad un mestiere preciso, purtuttavia allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà.

Si è soliti considerare come assoluta l’antitesi gioco-serietà, ciò nonostante, è assai probabile che questa antitesi non si manterrà più fino in fondo.

L’Homo Ludens confuta visibilmente questa tesi e porta il lettore a ragionare sulla serietà di alcune attività prettamente ludiche. Citando alcuni giochi praticati dai bambini, Huizinga afferma che “il fanciullo che gioca, lo fa con assoluta serietà. Eppure gioca e sa di giocare.

Così vale anche per lo sportivo o per l’attore che si dà completamente

quando recita. Nondimeno giocano e se ne rendono conto”. Ecco come egli ci spiega che il carattere ludico può essere inerente alle azioni più elevate, perché il giocatore si arrende al gioco con tutto il suo essere.

Secondo l’autore, in questa concezione il gioco acquista il carattere del sacro e quindi del serio.

Esso non verrà relegato più nell’ambito dell’ozio e del perditempo, ma troverà un suo spazio d’accettazione e di fruizione anche in ambiti che potrebbero sembrargli contrapposti, come la scuola.

Inoltre, il gioco non deve essere percepito solo come distrazione individuale, ma come fautore di socialità che viene agito in compagnia.

In quest’ottica può essere paragonato ad un ponte che unisce due alterità, permette agli individui di conoscere realtà al di fuori di sé e di entrare in contatto tra loro, dando origine a quello che secondo Oscar Wilde è il più grande gioco umano, il dramma della vita.

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 39-44)