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Il gioco nelle teorie della psicologia dello sviluppo

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 64-82)

L’ APPROCCIO P SICOLOGICO

3. Il gioco nelle teorie della psicologia dello sviluppo

3.1 All’origine della psicoanalisi dei bambini: la scoperta del gioco13

Nel settembre 1920, al 6° Congresso internazionale di psicoanalisi tenutosi all’Aja, la dottoressa Hermine von Hug-Hellmuth14, “analista educatrice” di Vienna, presentò una relazione intitolata Sulla tecnica dell’analisi dei bambini.

L’evento presentò, in un certo senso, il punto di arrivo e di assestamento per molte esperienze che a Vienna come a Budapest e a Berlino si stavano facendo nella direzione di analisi educative e profilattiche nei confronti dei bambini.

La psicoanalisi iniziò a interessarsi al periodo dell’infanzia, in quanto si pensava che in essa si originassero le future nevrosi dell’adulto. Da

13 Cfr Manuela Trinci, (a cura di) Il bambino che gioca, Bollati Boringhieri 1993, pp 3-5

14 Hermine von Hug-Hellmuth (Vienna 1871- Vienna 1924). Psicoanalista e direttrice del Centro di orientamento del bambino a Vienna fin dal 1917, concentrò i suoi studi sullo sviluppo infantile e le sue intersezioni con la pedagogia.

questa ipotesi, nacquero le successive discussioni sul come poter prevenire o correggere i problemi che insorgono nelle prime epoche della vita, alla luce delle sempre maggiori conoscenze sulla vita sessuale e psichiche infantili, provenienti dalla psicoanalisi.

Alle sue origini, quindi, la psicoanalisi dei bambini si trovò, in tal modo ad essere relegata in ambito profilattico ed educativo come applicazione alla pedagogia.

I piccoli pazienti sono considerati dalla Hug-Hellmuth “fragili creature” da adattare alla vita. È a partire dalla concezione di un’incompletezza del bambino, sostenuta da secoli di metafore (dalle giovani pianticelle da annaffiare alle duttili cere da plasmare), che per la Hug-Hellmuth si rende necessario apportare all’analisi tradizionale degli adulti alcune modificazioni tecniche, così da poterla applicare anche in ambito infantile e ottenere, attraverso la cura, un giovamento che renda il bambino capace di appartenenza.

L’educatrice viennese, escogitò una particolare tecnica con i bambini, che prevedeva, tra l’altro, l’uso del gioco.

Da qui, la psicoanalisi, inizia ad interrogarsi sulla validità del gioco, sia in ambito clinico sia in merito alla sua concezione teorica.

Esso, come elemento naturale appartenente specificatamente al bambino, entra così in un contesto clinico, portandosi appresso tutta la sua storia, che in filigrana mostra un’altra storia a cui si intreccia:

la storia del lento divenire interlocutore della cultura del bambino stesso. Nelle danze e nelle feste popolari, bambini, giovani e anziani hanno condiviso per secoli i ritmi, gli incanti, gli spaventi, gli inganni e le armonie del gioco.

Tuttavia, perché si sia potuto iniziare a parlare di gioco infantile, differenziato dai giochi sacri e profani dei giovani e degli adulti, è stato necessario che prendesse corpo un vero e proprio “sentimento dell’infanzia”.

In seguito a questo, le teorie sul gioco e sull’infanzia sono diventate sempre più precise e d accurate.

3.2 Teorie del gioco nella psicoanalisi15

La teoria di Carr è molto vicina, come si è detto, a quella psicoanalitica, che considera il gioco come manifestazione dell’inconscio. L’Io attraverso i suoi meccanismi di difesa, in particolare attraverso la censura, tende a reprimere quanto emerge dall’Es. Il represso, tuttavia, non viene eliminato, ma semplicemente spostato e può realizzarsi in condotte di altro tipo, come le nevrosi o il sogno. Anche il gioco farebbe parte di queste condotte marginali che servono per liberare i contenuti inconsci.

Adler individua nella volontà di potenza il principio fondamentale della vita psichica. Di questo principio il gioco costituisce l’espressione più evidente. Il bambino, infatti, si identifica volentieri con i personaggi potenti e in questo modo si creano delle reazioni di compensazione all’inferiorità organica e alle frustrazioni date dal vivere sociale. Jung, una volta staccatosi da Freud, ha sviluppato la sua concezione fondandola sull’inconscio collettivo, il quale rappresenta i supremi principi regolatori e gli ideali della psiche, che si sono formati nel lungo itinerario storico, percorso dalla specie umana. Il gioco diventa espressione dell’inconscio collettivo. In questo senso è facile vedere l’affinità di questa teoria con quella della ricapitolazione di Stanley Hall.

Charles Baudouin applica, invece, al gioco la teoria della doppia interpretazione, usata da Jung per l’analisi dei sogni. Può essere data, cioè all’attività ludica del bambino una interpretazione secondo l’oggetto e contemporaneamente una interpretazione secondo la quale l’oggetto diventa strumento di proiezione di atteggiamenti del soggetto. La bambola “cattiva” con cui la bambina sta giocando può rappresentare nello stesso momento il fratellino detestato e se stessa, cioè i propri sentimenti cattivi nei confronti del fratello.

15 Cfr R. Zonta, Psicologia e scuola dell’infanzia, op. cit. p. 245-46

3.3 Sigmund Freud: illusione, gioco e fantasia16

Per Freud il gioco recupera e valorizza quanto proviene dall’Es e quanto viene rifiutato dalla coscienza o da questa non utilizzato. Per questo esso obbedisce esclusivamente al principio di piacere della realtà, proprio della coscienza.

Secondo il pensiero dello psicanalista il bambino, mentre gioca, si comporta come un Dichter17, in quanto costruisce un suo proprio mondo, o meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo.

Il bambino prende molto sul serio il suo gioco, ma sa che ciò che fa è un’invenzione: ”Il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale.”18

Il poeta o il romanziere procede più o meno nello stesso modo;

riconosce che le poesie che va elaborando sono fantasie, ma questo non le rende meno importanti, per esempio, dell’immaginario compagno dei giochi del bambino.

Giocare piace al bambino, e poiché gli uomini rinunciano malvolentieri ad un piacere una volta che lo hanno gustato, da adulto l’individuo cerca un surrogato. Invece di giocare, fantastica. Sono due attività praticamente speculari: entrambe sono messe in moto da un desiderio. Mentre il gioco del bambino esprime “il desiderio di essere grande, l’adulto considera infantili le proprie fantasie”19. In questo senso, per Freud, gioco e fantasia riflettono parimenti uno stato di insoddisfazione: “Si deve intanto dire che l’uomo felice non fantastica mai, solo l’insoddisfatto lo fa”20.

16 Cfr S. Freud, Il poeta e la fantasia, in M. Trinci, (a cura di) Il bambino che gioca op. cit

17 Dichter è l’intraducibile e multiuso termine tedesco per indicare sia il romanziere, sia il drammaturgo, sia il poeta (P. Gay, Freud. Una vita per i nostri tempi, 1988, Bompiani, Milano, pp. 277-79)

18 R. Zonta, Psicologia e scuola dell’infanzia,op cit., p. 184

19 “Ivi”, p. 185

20 S. Freud, Il poeta e la fantasia, op cit., p. 186

Le modifiche che la fantasia dell’adulto pone alla realtà nascono da ambizioni non realizzate o da desideri sessuali irrealizzabili: l’adulto le tiene nascoste perché si tratta di desideri che la società rispettabile ha bandito dal discorso sociale e persino familiare.

È qui che comincia il compito culturale del Dichter. Spinto dalla vocazione egli dà sfogo ai suoi sogni ad occhi aperti, facendosi portavoce delle fantasie segrete dei suoi meno loquaci contemporanei.

Freud non nega che l’immaginazione partecipi alla creazione dell’opera letteraria, ma vede soprattutto in quest’ultima un rifacimento della realtà, una sua abile deformazione.

Lo psicologo riprenderà l’argomento assegnando il gioco e l’attività creativa e fantastica al principio di piacere, specificando meglio come la fantasia debba la sua esistenza al principio di realtà. Esiste un’attività del pensiero che, libera dall’esame di realtà, è rimasta soggetta soltanto al principio del piacere. Si tratta dell’attività del fantasticare, che comincia con il gioco dei bambini, continua con il sognare ad occhi aperti degli adulti e vede la rinuncia alla dipendenza dagli oggetti reali.

Freud concepiva il gioco, quindi, come una possibilità di ricreazione nella fantasia per sfuggire alla costrizione della realtà.

3.4 Melanie Klein21

Per capire come la Klein intendesse il gioco, è opportuno fare riferimento alla sua teoria sullo sviluppo infantile e come il ludico vi rientri.

Melanie Klein nacque a Vienna nel 1882. Fu allieva di famosi psicanalisti come Sàndor Ferenczi e Karl Abraham e fu tra i primi a praticare la psicanalisi infantile.

21 Cfr Zonta, Psicologia e scuola dell’infanzia, op cit. pp. 209-11

M. Klein, difatti, è la prima a parlare di “mondo interno” del bambino, nella quale risiedono sentimenti ed emozioni che intervengono sulla percezione dell’oggetto di realtà.

Ella studiò i bambini molto piccoli servendosi del metodo osservativo e richiamò l’attenzione sul mondo psichico della primissima infanzia che definì “teatro interno”. Questo è costituito da fantasie e fantasmi inconsci preesistenti a quelle rappresentazioni interne che si formeranno dopo, in relazione all’ambiente esterno. Tali fantasie inconsce strutturano il mondo primitivo del bambino e ne organizzano le relazioni con gli oggetti delle pulsioni.

La Klein afferma che esiste nel bambino un’attività psichica fin dalla nascita. Essa viene definita fantasmatica e assomiglia molto a quella dello psicotico, il quale investe gli oggetti esterni di tensioni che sono interne a lui. Così fa il bambino che fantasmatizza le sue esperienze con la madre, secondo la direzione della gratificazione o della frustrazione. Egli cioè “sente” il rapporto con la madre come “buono”

o come “cattivo”. I fantasmi generati dalle esperienze di piacere coincidono, infatti, con la presenza gratificante del seno materno, mentre, al contrario, i fantasmi generati dalle esperienze di dispiacere coincidono con l’assenza del seno, che viene percepita dal bambino come “cattiva”.

Il rapporto con il seno buono genera a sua volta i fantasmi del divorare, mentre l’assenza della madre genera i fantasmi dell’essere divorato.

Questa realtà buona-cattiva caratterizza quella che la Klein definisce posizione schizoide-paranoide, che interessa il bambino nei primi sei mesi di vita.

In questa fase egli è continuamente impegnato nel divorare il seno buono, per incorporarlo o tenerlo con sé e nell’espellere il seno cattivo.

Alla fine il bambino riesce ad allontanare da sé il seno cattivo, relegandolo fuori dalla coscienza, nella zona dell’inconscio. Questa

operazione, che gli garantisce una certa tranquillità, gli consente di raggiungere lo stadio dell’oggetto totale, che interessa il bambino oltre i sei mesi e che viene definito posizione depressiva. In questa fase l’integrazione dell’Io infantile si perfeziona e quindi il rapporto del bambino con la madre si stabilisce come rapporto con un oggetto totale. Egli vive ora il conflitto tra il desiderio di conservare la madre, o la sua immagine incorporata, e il timore che essa possa allontanarsi e non tornare più.

In seguito ai suoi studi, nel pensiero di Melanie Klein le “attività ludiche” rappresentano lo strumento che permette al bambino di esprimere le sue “fantasie inconsce”, laddove gli adulti si servono,invece, del sogno. “Nel gioco-scrive- i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze. Nel farlo si servono dello stesso linguaggio, della stessa forma di espressione arcaica che ci è ben nota nei sogni”.22 In base ai suoi studi confermò il gioco come testo onirico, in cui venivano esternate ansie violente, amori appassionati, cariche di distruttività e autodistruttività, oltre a evidenziare l’esistenza di forti sensi di colpa che la Klein attribuì ad un Super-Io precocissimo e a volte estremamente crudele.

Il gioco fu per Melanie Klein un modo con il quale il bambino imbeveva della sua vita fantasmatica interna la realtà esterna. Dalle sue ricerche la studiosa traeva conferma che nell’attività ludica non fossero attivi solo il principio e la pulsione libidica, ma anche le violente messe in scena del bambino , manifestazioni concrete di quella “pulsione di morte” ipotizzata da Freud in Al di là del principio di piacere23.

La psicologa sostituisce alle libere associazioni la tecnica del gioco in presenza dell’analista. Ella pose a disposizione dei bambini dei giocattoli che rappresentavano persone, animali, case, automobili:

attraverso il gioco, e quindi già in una forma agita e simbolica, ella

22 I principi psicologici dell’analisi infantile (1926), in Scritti cit p. 156

23 1920, in “Opere”, vol. 9, Boringhieri, Torino, 1977

ricercava quelle rappresentazioni inconsce costruite sulla spinta delle pulsioni che animavano la vita psichica del bambino.

Scoprì la tecnica dell’analisi del gioco, che rese in pratica possibile penetrare nell’inconscio del bambino. Ella, infatti, aveva capito che il bambino poteva esprimersi soprattutto attraverso la ludicità, in cui egli proiettava tutta la sua personalità, i suoi interessi, i suoi bisogni e i suoi conflitti. Rappresenta un territorio neutrale, in cui il bambino potrà portare all’esterno gli angosciosi e insostenibili conflitti interni determinati dall’innata polarità del senso di vita e di quello di morte.

Ella sostiene che il piccolo che gioca è un bambino preoccupato, dominato da impulsi di distruttività, perseguitato, braccato dai sensi di colpa, ma anche dalla ricerca di un’integrazione dell’Io fra oggetti buoni e cattivi, che conserverà comunque, per sempre, le tracce di tutte le precedenti vicende libidiche.

Pertanto il gioco, come osserva Hanna Segal, “non è solo gioco, è anche lavoro”.24

Non è solo un modo per esplorare e padroneggiare il mondo esterno, ma anche per esplorare e padroneggiare l’angoscia attraverso l’espressione e l’elaborazione della fantasia. Attraverso la drammatizzazione si rielaborano le fantasie, e così facendo il bambino elabora e rielabora i conflitti ad esse sottesi, restaurando gli oggetti danneggiati nella fantasia, o nella realtà, come nel caso di un piccolo giocattolo.

Il gioco diviene dunque come un’espulsione utile a esteriorizzare un conflitto interno, rendendolo più tollerabile.

L’osservazione di questa attività infantile può diventare una miniera di conoscenze per il genitore e l’educatore: si tratta infatti di un importante test “non inquinato” su cui si può in ogni caso fare affidamento.

24 Melanie Klein, Boringhieri, Torino 1981, p. 2

Tuttavia la visione raggiunta da Melanie Klein è piuttosto amara e pessimistica, lontana da quella che sarà la concezione di Winnicott del gioco come fenomeno transizionale, come potenziale spazio fra il mondo interno e il mondo esterno, nel quale si situano i processi della fantasia (fantasy) e della creatività stessa.

3.5 La posizione di J. Piaget

Piaget colloca il gioco nella teoria dello sviluppo cognitivo e più precisamente nel “processo di formazione del simbolo”. Al pari dell’imitazione, la ludicità sostiene la funzione simbolica in quanto giocando il bambino si confronta con una realtà immaginaria che conserva una relazione con la realtà effettiva ma, al tempo stesso, se ne distacca. Tramite il gioco i bambini fanno pratica di un’attività mentale che consiste nel creare simboli per evocare eventi o situazioni non presenti nella realtà.

Lo studioso riconosce nell’attività ludica diversi aspetti positivi sia in ambito delle teorie del pre-esercizio sia in quelle del post-esercizio.

Egli riesce a collocarsi in un punto intermedio, per cui della teoria del post-esercizio, accetta che il ludico sia orientato verso uno sviluppo completo e un graduale ampliamento delle linee generali di condotta assimilate precedentemente, mentre per quanto riguarda le teorie del pre-esercizio concorda con il fatto che le pratiche inerenti al gioco infantile vanno interpretate nella direzione di un addestramento spontaneo al futuro e quindi alle attività contemplate dalla vita adulta.

Piaget riesce ad integrare queste due prospettive aggiungendo altre rilevanze concrete al gioco infantile:

- impiego dell’energia in eccedenza per agevolare l’elaborazione dei dati disponibili nell’esperienza del mondo esterno;

- controllo dei momenti di frustrazione presenti nella vita del fanciullo;

- dimensione fittizia dove trasferire e trasfigurare eventi concreti di carattere negativo, in modo tale da poterli gestire meglio.

Ma la rilevanza dell’epistemologia genetica è dovuta al fatto che essa riconosce al gioco una funzione centrale nello sviluppo dell’intelligenza, attraverso le varie fasi cognitive25 che scandiscono la crescita individuale nella sua interazione con il mondo e nel mondo.

Sono fasi che come tappe consentiranno al fanciullo di costruirsi una personalità ed elaborare individualmente una serie di conoscenze e nozioni utili alla formazione della sfera cognitiva.

Nell’opera La formazione del simbolo nel bambino (La Nuova Italia, 1972), Piaget tenta una classificazione e una gerarchizzazione dei giochi in base agli stadi di sviluppo, caratterizzando anche l’attività ludica in termini di assimilazione e accomodamento, che rappresentano i due poli complementari di ogni condotta (questi concetti verranno approfonditi più avanti quando si accennerà allo sviluppo cognitivo elaborato da Piaget)26. L’adattamento intelligente è dato dall’equilibrio dei due processi. In quest’ottica il gioco rappresenta una predominanza dell’assimilazione sull’accomodamento. Quando il bambino è intento a giocare assimila

25 Le fasi dello sviluppo cognitivo di Piaget sono le seguenti:

- fase dell’intelligenza senso-motoria o percettivo motoria (0-2 anni) suddivisa a sua volta in 6 stadi:

- esercizio dei riflessi (0-2 mesi)

- adattamenti acquisiti e relazioni circolari primarie (2-4/5 mesi) - adattamenti intenzionali e relazioni circolari secondarie (4/5-8 mesi) - Coordinazione degli schemi secondari e applicazione a situazioni nuove (8-12 mesi)

- reazioni circolari terziarie e scoperta dei mezzi nuovi mediante sperimentazione attiva (12-18 mesi)

- invenzione dei mezzi nuovi mediante combinazione mentale (18-24 mesi) - fase dell’intelligenza pre-concettuale (2-4 anni)

- fase dell’intelligenza intuitiva (4-6/7 anni)

- fase dell’intelligenza operatorio-concreta ( (6/7-11/12 anni) - fase dell’intelligenza operatorio-formale (11/12 anni in poi)

26 Vedi paragrafo 4.3 “Piaget e lo sviluppo cognitivo-intellettivo” p. 66

il reale agli schemi senso-motori, simbolici o cognitivi che sono già in suo possesso. È così che per Piaget il gioco è espressione dell’egocentrismo infantile e si inserisce nel ritmo dei due processi suddetti.

Ovviamente, le attività ludiche si differenziano e variano in base alle strutture mentali possedute: da questo emerge la necessità di una classificazione che serva ad una più corretta interpretazione del fenomeno.

Piaget individua:

- giochi d’esercizio;

- I giochi simbolici;

- I giochi regolamentati (con regole);

I giochi d’esercizio appartengono al livello senso-motorio e non suppongono alcuna tecnica particolare. “Sono semplici esercizi, essi mettono in opera un insieme di varie condotte, ma senza modificare la loro struttura quale essa si presenta allo stato di adattamento attuale. Solo la funzione differenzia quindi questi giochi: essi esercitano le strutture per così dire a vuoto, senza altro fine che il puro piacere del suo funzionamento”.27

Simili attività ludiche cominciano fin dal secondo mese di vita del bambino, raggiungono il culmine verso la fine del decimo anno e quindi decrescono, anche se possiamo ritrovarli nell’adolescenza e nell’età adulta quando, ad esempio, il soggetto si diverte a giocare con qualche congegno, magari nuovo e sconosciuto.

Sia il divertirsi a chiedere ogni volta “Perché?”, sia il raccontare una storia senza né capo né coda, combinando semplicemente insieme parole o idee disparate sono giochi d’esercizio. In questa prima fase, in cui si manifesta l’indifferenziazione tra l’Io e il mondo esterno, le prime manifestazioni ludiche consistono in una reazione impulsiva e

27 J. Piaget, La formazione del simbolo nel bambino, La Nuova Italia, 1972, cit p. 161

quasi automatica ad uno stimolo esterno, per poi evolversi gradualmente in giochi di tipo prevalentemente senso-percettivo e motorio, tesi alla conoscenza del proprio corpo e di quello della figura materna.

La seconda categoria di giochi, data dai giochi simbolici o immaginativi, appartiene al livello della rappresentazione. “Al contrario del gioco di esercizio, che non presuppone il pensiero né alcuna struttura rappresentativa specificatamente ludica, il simbolo implica la rappresentazione di un oggetto assente, poiché esso è paragone tra un elemento dato ed un elemento immaginato, poiché questo paragone consiste in una assimilazione deformante”.28 Il bambino rappresenta un oggetto-persona-situazione che non sono presenti ma che fanno parte della sua esperienza. Il bambino drammatizza il mondo interiore della fantasia per mantenere l’equilibrio psichico.

Questo tipo di giochi incomincia intorno ad un anno e culmina verso i tre, mentre dai quattro ai sette compare anche il simbolo collettivo, cioè il gioco simbolico con più partecipanti. L’assimilazione del reale mediante la finzione simbolica si prolunga in combinazioni compensatrici, mediante le quali il bambino supera ostacoli e frustrazioni. Questi giochi, anche detti “di finzione”, richiamano al principio del “far finta di” o “come se” e implicano il pensiero rappresentativo: consistono, cioè, in una sospensione della realtà, ricreata ad altro livello di significazione.

Si hanno infine i giochi di regole, o regolamentati, che corrispondono al livello operatorio. La regola suppone necessariamente le relazioni sociali o interindividuali, c’è quindi l’idea dell’obbligo e si impone la necessità di coordinare le azioni di tutti in funzione della regola e

Si hanno infine i giochi di regole, o regolamentati, che corrispondono al livello operatorio. La regola suppone necessariamente le relazioni sociali o interindividuali, c’è quindi l’idea dell’obbligo e si impone la necessità di coordinare le azioni di tutti in funzione della regola e

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 64-82)