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I maestri della pedagogia

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 119-132)

L’ APPROCCIO P EDAGOGICO

3. I maestri della pedagogia

L'idea di introdurre il gioco nel campo educativo-pedagogico risale a Rousseau, come precedentemente affermato. Prima di lui la scuola era concepita solo per un lavoro serio e disciplinato, dove l'allievo doveva imparare a memoria determinate nozioni e acquisire determinati comportamenti, in un clima di severità, ubbidienza e distacco, ottenuto anche a costo di punizioni fisiche.

L'importanza del gioco era già stata riconosciuta presso i Greci e i Romani, ma si trattava di una materia di studio (teorica, nel senso che si imparavano molte regole; pratica, nel senso che si svolgevano esercizi più che altro ginnici). Il gioco non era né spontaneo né piacevole.

Bisogna aspettare i pedagogisti moderni, come Pestalozzi, Herbart e Froebel, perchè si realizzi un'impostazione psicologica ed educativa dei giochi infantili. Presto ci si accorse che i "doni" pensati da Froebel erano troppo astratti e che il bambino aveva bisogno di giocare con oggetti più legati alla sua vita quotidiana. Inoltre, si capì che le combinazioni dei giochi, imposte dall'insegnante, ostacolavano la spontanea manifestazione dell'iniziativa individuale.

La Montessori, invece, cercò di graduare il materiale ludico alla maturità psicologica del bambino, col fine specifico di sviluppare le funzioni senso-motorie. Il bambino cioè veniva educato a riconoscere, attraverso il gioco, le diverse attività senso-motorie. Ma in tal modo -è stato obiettato- si valorizzavano poco gli aspetti tipici della vita infantile.

Infine, Dewey, Decroly, Claparède hanno cercato di fare del gioco un mezzo per sviluppare integralmente la vita psico-fisica del bambino.

In questa sede verranno esaminate le idee di autori che hanno lasciato un segno incisivo nell’evoluzione della pedagogia e che hanno vissuto le profonde mutazioni date dai cambiamenti culturali e sociali delle loro epoche.

3.1 Froebel (1782-1852)16

Abbiamo già avuto modo di incontrare più volte il pensiero di Froebel, ma è interessante approfondirne il contributo dato il grande apporto che egli ha dato all’educazione.

Con lui troviamo un uso ed una valorizzazione non casuale dei giochi educativi. L’educazione, per Froebel, non deve soffocare le doti naturali dei bambini (e sin qui egli si riallaccia al pensiero di Rousseau), anzi, deve poggiare sulle spinte più forti che ne contraddistinguono la crescita. L’elemento più importante di tale spinta che accompagna “naturalmente” la formazione infantile è il gioco, un’attività che ha non solo la capacità di stimolare l’immaginazione e la fantasia, ma rappresenta lo strumento fondamentale per entrare in rapporto con se stessi e il mondo. Il giocare non deve essere un atto solitario, ma di gruppo, condiviso da più bambini attraverso regole più o meno esplicite. Quanto più i bambini giocano, tanto più acquisiscono abitudini, capacità, modi di essere attraverso il gioco, tanto più potranno diventare adulti consapevoli e sociali, e “un bambino che giochi con abilità , con serenità, con costanza, diventerà certamente un uomo abile, sereno e costante”17.

I giochi che Froebel “dona” agli allievi non sono casuali, ma rispecchiano il concetto di “istinto naturale” che è propri della natura dell’uomo. Egli parla di “unità della vita”, di un unico istinto che unisce la natura dell’uomo e l’uomo agli altri uomini, di una legge eterna che pone sullo stesso piano la natura e lo spirito, di un divino che coincide immanentisticamente con la natura, della sostanziale uguaglianza fra l’intima forza di una pianta ed il sentimento propri degli uomini. Così come si sviluppa la vita naturale, anche il gioco ha un proprio sviluppo. Froebel si muove nell’ottica della scuola

16 Cfr. G. Staccioli, Il gioco e il giocare, op. cit., pp. 66-71

17 F. Froebel, L’educazione dell’uomo e altri scritti, op. cit., p. 44, cit. in “ivi” p. 66

dell’infanzia, ma credo che sia interessante applicare i suoi principi pedagogici anche nella scuola primaria. Cosicché le insegnanti

“giardiniere” guidino le attività ludiche senza forzare le spinte vitali dei bambini, intuendo le attività più adatte da proporre, offrendo agli allievi una serie di oggetti gioco (doni) che sono allo stesso tempo materiali didattici, ludici e simbolici. I doni avviano il bambino alla comprensione della dell’essenza della natura e lo iniziano ad una lettura simbolico-filosofica del mondo.

Il primo dono che Froebel offre ai bambini è una palla, oggetto simbolo della forma originaria della natura, sia esempio di unità, di cellula, coeso, regolare e dinamico. Con essa si possono avviare i primi giochi di movimento e ragionamento, individuali e collettivi.

Questa si unirà poi, al cubo e al cilindro: per la legge del contrario la sfera rappresenta il movimento, il cubo il riposo il cilindro il momento intermedio, della varietà.

Siamo di fronte ad un materiale di gioco predisposto, pensato e proposto con metodo, ad un materiale strutturato che, in questo caso, ha la molteplice funzione di fare da ponte tra linguaggio del corpo e linguaggio della mente, fra bambino e natura, bambino e cultura, bambino e Dio. Nelle proposte froebeliane troviamo la valorizzazione delle attività ludiche (con il riconoscimento del giocare infantile, e più in generale, della ricchezza creativa e fantastica dell’infanzia che si sviluppa attraverso la spontaneità e la manifestazione di libere energie) e delle attività ludiformi (che verranno esaminate nel capitolo successivo); inoltre, troviamo una esplicita coscienza teorica degli interventi educativi (come il riconoscimento della continuità tra gioco e vita adulta, fra attività ludica e personalità futura dell’uomo e quindi del gioco come attività importante che va affrontata con attenzione e intenzione).

Il collegamento tra aspetti creativi e aspetti cognitivi viene indicato come un modello di riferimento essenziale per raggiungere quella

unitarietà della persona con se stessa e con la natura che rappresenta il contrassegno fondamentale froebeliano.

3.2 Dewey, Ferrière e la scuola attiva

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sorge in Europa e in America, un movimento pedagogico chiamato attivismo che, detto anche delle “scuole nuove”, riunisce l’opera di educatori e pedagogisti attorno ad un concetto di educazione intesa non più come trasmissione di saperi oggettivi, ma piuttosto come formazione della personalità umana. Nucleo fondante e comune denominatore delle nuove teorie pedagogiche è il concetto di puerocentrismo, ossia la centralità del soggetto che apprende e dei suoi bisogni educativi, a discapito di un’impostazione adultocentrica.

Nella scuola nuova il fanciullo educa se stesso e l’adulto assume il difficile ruolo di facilitatore o mediatore di apprendimenti. A rendere vivo il problema dell’educazione infantile sono, da una parte, l’aumentata richiesta da parte della società di un istituto per l’infanzia veramente idoneo e, dall’altra, la sensibilità viva degli educatori ai valori propri di questa età, che gli Antichi e non solo, avevano tenuto in poca considerazione e che invece la moderna psicopedagogia riconosce come fondamentale per lo sviluppo dell’intelligenza e per la crescita di una personalità equilibrata.

L’infanzia viene considerata un’età ricca di fantasia, di azione, di capacità di apprendimento e di invenzione da sottrarre al lavoro in fabbrica. Abbiamo visto che, così come l’infanzia viene rivisitata, anche il gioco inizia ad assumere un importante significato pedagogico e viene inserito nell’ambito del discorso metodologico ed educativo. L’utilizzo di giochi di cooperazione o di ragionamento, di fantasia o di ruolo, rappresentano un ottimo campo di azione per l’esperienza.

Alcune figure si distinguono per aver fornito i più grandi contributi all’educazione dell’infanzia e alla comprensione degli effettivi bisogni di questa età. Purtroppo a causa della vastità dell’argomento, ci si limiterà a citare solo alcuni dei protagonisti della scuola attiva.

Dewey (1859-1952), può essere considerato il più grande filosofo e pedagogista americano. Riallacciandosi al pragmatismo, egli dà allo strumentalismo della ragione un significato nuovo, in quanto l’intelligenza, pur essendo strumento dell’azione, deve liberarla dalla routine quotidiana in favore di un arricchimento della vita.

Egli conveniva sulla centralità del fanciullo nei processi educativi e affermava che gli istinti e i poteri del bambino forniscono il materiale e danno il via a tutta l’educazione. Il problema della scuola era quello di dominare queste risorse per orientarle verso risultati apprezzabili ed evitare la loro dispersione distruttiva. Nel ribaltare le convinzioni e le consuetudini correnti, la scuola di Dewey poneva in primo piano, non tanto l’esigenza degli apprendimenti formali, quanto la priorità di una serie di attività manuali e pratiche mediante cui i fanciulli potevano entrare in contatto con la realtà e imparare a ricostruirla, stabilire rapporti di integrazione con l’ambiente sociale e vivere significativamente esperienze comunitarie di stile familiare.

L’impianto della scuola di Chicago prevedeva tre principali tipi di attività. Quelle pratiche (falegnameria, cucina, cucito e tessitura) erano concepite in forma propedeutica a tutte le altre e dovevano stimolare gli interessi degli allievi, promuoverne le curiosità e gli interrogativi, rispondere al bisogno di fare tipico dell’età infantile e, dunque, fornire le premesse per gli apprendimenti ulteriori. Era infatti attraverso l’esercizio manuale, considerato e valorizzato in stretto rapporto con il gioco, che i fanciulli addestravano i sensi, la vista, il tatto, coordinavano l’occhio e la mano, esercitavano il fisico e stimolavano la memoria e il ragionamento, imparando anche attraverso gli errori ad adattare i mezzi ai fini, creando l’abitudine

all’ordine, alla solerzia, alla pulizia, alla disposizione a lavorare in modo sistematico.

Le altre attività si riferivano alla conoscenza dell’ambiente sociale (geografia, storia e scienze) e alla comunicazione simbolica (leggere, scrivere e far di conto).18

Le lezioni, inoltre, vedevano la distribuzione degli allievi in piccoli gruppi, ciascuno con il proprio compito che veniva svolto in un clima di collaborazione e di assistenza con gli insegnanti, secondo una prospettiva più cooperativa che subalterna.

Pensare, educare a pensare e apprendere sono, per Dewey, aspetti diversi di un medesimo processo “attivo”, in cui l’individuo stabilisce un rapporto di interazione con la realtà al fine di modificarla. Quando egli prospetta la scuola “attiva” incentrata sugli interessi degli allievi e sulle loro energie, non lo fa soltanto per ragioni psicologiche, ma sulla base di una concezione del sapere inteso come processo continuo nel quale la “verità” non è data una volta per tutte, ma è continuamente sottoposta alla verifica sperimentale: è vero ciò che siamo in grado di produrre in modo concreto e tangibile, capace di modificare positivamente l’ambiente e la società nella quale operiamo.

Ferrière, (1879-1960) merita un posto considerevole nella storia della pedagogia contemporanea per l’azione stimolatrice che ha esercitato sui pedagogisti della scuola attiva per circa un cinquantennio.

Egli ritenne come scopo fondamentale dell’educazione quello di stimolare gli interessi del fanciullo, seguendo le leggi dell’evoluzione dello sviluppo biologico e psichico, senza dimenticare la sua individualità, né la necessità di prepararlo alla vita della società.

Fattori educativi saranno perciò tutte quelle condizioni che favoriscono il raggiungimento di tali fini: la scuola modernamente attrezzata ed ambientata in campagna, l’ educazione, il lavoro, l’insegnamento basato sulle esperienze e sugli interessi spontanei, la

18 Cfr. G. Chiosso, Novecento pedagogico, Ed. La scuola, 1997, pp. 63-67

cooperazione. La scuola, ma anche la società, devono creare le condizioni favorevoli affinché i fanciulli ed i giovani possano impiegare il loro tempo in gite, giochi, lavori e letture libere.

Per il pedagogista, lo “slancio vitale” del fanciullo, come del resto in ogni vivente, era rappresentato dalla volontà di accrescere le possibilità di vita, per non lasciarsi sopraffare dalle forze avverse dell’ambiente e dei suoi stessi simili. Lo “slancio vitale” non si esprimeva, tuttavia, solo come principio di autoconversazione, ma anche come promotore di sviluppo. Ferrière intendeva la scuola come luogo nella quale i fanciulli fossero protagonisti, promuovendone l’attività spontanea sulla scorta delle conoscenza psicologiche. Questa si sarebbe dovuta muovere dai bisogni e svolgersi attraverso gli interessi, rispettare le leggi dello sviluppo psicologico e mettere a contatto il fanciullo con la natura, per renderlo attivo, sia attraverso l’esercizio manuale sia attraverso la presa di coscienza della libertà personale. Si trattava, quindi, di valorizzare le potenzialità e l’iniziativa dei fanciulli: compito dell’adulto era quello di stargli vicino, non per imporre il suo volere, ma per sostenere “la buona volontà”.

Educare voleva dire preparare alla vita attraverso la vita, non sovrapporre modelli precostruiti, ma lasciar crescere, sviluppare e ordinare le capacità infantili e dell’adolescente.

Il gioco entra nella scuola come mezzo per attuare un’educazione il più naturale possibile. Cambiano anche il ruolo e la figura dell’insegnante, il quale compartecipa con il fanciullo per la costruzione del suo sapere e della sua individualità. Il maestro guiderà amorevolmente il suo alunno e lo seguirà nello sviluppo, favorendo la vita sociale dei ragazzi per abituarli all’autogoverno, prepararli ad essere cittadini democratici.

3.3 Steiner (1861-1925)19

Nell’accostamento delle due realtà, il mondo e il bambino, troviamo la felice composizione di uno sviluppo umano al quale nessuno si può sottrarre. C’è il mondo, c’è il bambino, c’è la consapevolezza dell’adulto di accompagnare il fanciullo lungo un percorso che si vuole bello, giusto, buono. Steiner era giunto a crescere a contatto con l’infanzia. Si era risvegliato alla magnificenza delle potenzialità della creatura vivente, essendo stato condotto egli stesso, come insegnante, alla conoscenza, alla scienza e alla cultura da un ragazzo con difficoltà di apprendimento, irrecuperabile per alcuni, prodigioso per lui. L’itinerario pedagogico sperimentato dal fondatore dell’antropofosia, o scienza dello spirito, era frutto della cura per l’essere umano che presupponeva la confidenza piena nelle capacità di sviluppo di ciascuno.

Nel 1919 a Stoccarda l'industriale Emil Molt creò una scuola per i figli degli operai della fabbrica Waldorf-Astoria e ne affidò la guida pedagogica a Rudolf Steiner. Da allora, il metodo steineriano si è diffuso molto in Europa, come approccio educativo alternativo a quelli tradizionali, diventando anche in Italia un punto di riferimento per molte famiglie. Il metodo pone l’attenzione sul ruolo svolto nell'educazione dalla famiglia e dalla scuola che devono operare in modo congiunto e complementare.

L’approccio pedagogico steineriano propone, oltre alle materie tradizionali:

- l'euritmia, ossia un'arte del movimento a cui diede vita Steiner stesso e che rende visibili la musica ed il linguaggio attraverso le nozioni di ritmo, battuta, melodia, altezza, suoni, metrica…. Esso trova il suo momento di maggiore espressione nelle recitazioni corali rappresentate durante le feste scolastiche;

19 A. Mathisen (a cura di), Come sviluppare tutti i talenti del bambino, Edizioni Red, Milano, 2003, pp. 12-15

- la pittura e la musica, che rivestono un ruolo significativo con lo scopo, non di creare artisti in erba, ma di accompagnare la crescita delle capacità percettive, della sensibilità e dell'apprendimento globale del bambino.

- le feste, a scadenza trimestrale, assumono grande importanza, sono intese sia come momenti aggregativi e di scambio sia come banco di prova per mostrare a se stesso ed ai compagni, agli insegnanti ed ai genitori ciò che il bambino ha appreso nel corso delle lezioni.20

Esso mira a sviluppare individualità libere, in grado di continuare ad imparare dalla vita. Va in questa direzione cercando di riconoscere, coltivare e portare a manifestazione le potenzialità di ciascun bambino, rispettando i tempi della sua evoluzione fisica interiore.

Nel pensiero steineriano il bambino è un essere in divenire e importanti trasformazioni sono in relazione a diverse fasi di sviluppo.

Queste sono legate ad un ritmo di settenni. L’approfondita conoscenza dei processi di sviluppo permette all’educatore di coglierli ed accompagnarli con interventi pedagogici adeguati. Grande importanza hanno le conoscenze su come, parallelamente a importanti mutamenti fisici, si evolvono gradualmente le facoltà dell’animo umano: volere, sentire, pensare. Per un sano sviluppo del bambino è necessario cercare un equilibrio dinamico, in altre parole, un respiro, tra due correnti.

Da un lato devono essere educate le capacità di accogliere e comprendere il mondo esterno attraverso un affinamento dei sensi e, successivamente, la conquista di un rigoroso pensiero riflessivo, dall’altro bisogna curare nel bambino tutto ciò che lo rende attivo: il movimento fisico, la fantasia, l’espressività, la creatività, l’iniziativa che si esplicano anche attraverso le pratiche ludiche posposte dall’insegnante.

20 Dal sito internet www.psicopedagogika.it (visitato il 9 maggio 2008)__Il metodo Steiner

Steiner è stato in grado di studiare lo sviluppo globale dell’essere umano; la sua indagine costituisce la base della “Libera scuola Rudolf Steiner”. Qui l’insegnante ha il compito di aiutare il bambino, e poi il ragazzo, nell’armonioso sviluppo di tutti i suoi elementi costitutivi, di favorirne la crescita cercando di rimuovere gli ostacoli e le difficoltà incontrate lungo il cammino. Il piccolo è un essere permeabile a tutto ciò che proviene dall’ambiente e dalle persone che lo circondano:

sensazioni, stimoli, parole, gesti, immagini, penetrano nella sua interiorità che non è ancora in grado di discriminare e di difendersi.

Tutto ciò lo influenza profondamente e lo plasma nel proprio intimo, arrivando fino agli organi del corpo fisico. In questa età spiegazioni intellettuali sono generalmente inutili: ciò che educa e forma veramente il bambino è il modo con cui l’adulto, che gli sta vicino, pensa, sente, parla e agisce. Sia il gesto esteriore che l’atteggiamento interiore delle persone che lo circondano raggiungono il bambino e lasciano una profonda traccia nel suo linguaggio, nei sentimenti, nel modo di pensare, relazionarsi e di apprendere. Le conseguenze di ciò si faranno sentire per tutto l’arco della vita.

Il bambino non deve solo apprendere attraverso lo strumento del pensiero logico ma, per non inaridire la sua creatività, ha bisogno di grandi immagini che possano crescere e svilupparsi insieme a lui.

Allo scolaro tra i sette e i quattordici anni il mondo e le conoscenze devono essere proposte, attraverso i veicoli del sentimento e della volontà (tra questi vi rientra anche il gioco): da qui la grande importanza che nelle scuole steineriane viene attribuita alle attività artistiche e manuali. La fiducia del bambino nei confronti degli adulti investe gli educatori di una naturale autorità e una responsabilità per il ruolo che assumono, in quanto mediatori con il mondo. Gli stati d’animo e i pensieri che l’insegnante manifesta al bambino agiscono ancora fortemente su di lui. I maestri, a seconda di queste indicazioni, prima ancora di pensare devono “essere”.

E capacità del ragionamento astratto e del giudizio si manifestano gradualmente e possono diventare principale mezzo per il proseguimento dell’educazione. Ci si rivolge al bambino dedicando pari attenzione sia alla maturazione individuale, sia a quella sociale.

Questo avviene, per esempio, attraverso l’esperienza del ritmo, con l’alternarsi giornaliero di attività pratiche, creative che stimolano l’ingegno e attraverso le celebrazioni legate alle festività dell’anno.

Nella pedagogia steineriana viene riconosciuta pari dignità alle materie intellettuali, artistiche e manuali, con la consapevolezza che dita abili producono agilità di pensiero.

3.4 Claparede (1873-1940)21

La proposta pedagogica di Claparède ha influenzato in modo rilevante il movimento di rinnovamento scolastico che si richiama ai metodi attivi.

Tuttora, l'istituto da lui fondato svolge una funzione d'avanguardia nella ricerca pedagogica e nella preparazione degli insegnanti.

Fu studioso di neurologia e poi docente di psicologia a Ginevra. Egli fondò, nel 1912, in collaborazione con altri due psicopedagogisti, Bovet e Ferrière, l'istituto di Scienze dell'educazione dedicato a J.J.

Rousseau, suo concittadino. Più tardi, intorno all'istituto si creò la cosiddetta " Scuola di Ginevra " che vedrà impegnati tanti studiosi tra cui Piaget, suo grande allievo.

Una costante della concezione pedagogica di Claparède è il continuo richiamo scientifico e sperimentale alla ricerca psicologica e didattica.

Egli era convinto che la positività di una azione educativa e didattica dipendesse dalla preparazione psicologica e dallo spirito scientifico degli educatori.

21 Dal sito internet www.dubladidattica.it (visitato il 7 maggio 2008) __Saggio: La didattica come scienza senza arte? Di D. Altamura.

Secondo Claparède va combattuta e superata la didattica delle scuole tradizionali fondate essenzialmente su opinioni filosofiche ed etiche, dando agli insegnanti i metodi idonei per organizzare ed analizzare le esperienze, i fatti, i fenomeni e per attuare un insegnamento sperimentale individualizzato.

Il principio della scuola attiva è la legge del bisogno o dell'interesse.

L'attività umana è sempre suscitata da un bisogno.

Di fronte ad alcuni malintesi che consideravano scuola attiva ogni forma di educazione basata sull'attività materiale del bambino,

Di fronte ad alcuni malintesi che consideravano scuola attiva ogni forma di educazione basata sull'attività materiale del bambino,

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 119-132)