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Vecchie e nuove frontiere del danno psicologico

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Academic year: 2022

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐ 

Vecchie e nuove frontiere del danno psicologico

Dr.ssa Daniela Pajardi*

La storia del danno psicologico, o psichico, secondo la terminologia più ricorrente, è certo una storia recente, ben nota agli addetti ai lavori, i quali hanno potuto assaporare, in questi anni, un profondo cambiamento culturale, sociale, e, ovviamente, giuridico.

È da poco più di dieci anni, infatti, che si parla di questo tema, che ha incontrato non poche difficoltà e reticenze non solo da parte dei giuristi, ed in particolare dei magistrati, ma anche da parte di medici-legali e degli stessi psicologi e psichiatri.

Risale al 1989 una tavola rotonda specifica sul tema, forse proprio la prima ad esso dedicata, e sono di quegli anni i primi interventi ai Congressi, di cui uno proprio qui a Pisa da parte del Prof. Quadrio, per cominciare a porre il problema e a sollecitare un confronto reciproco, tra il diritto e le cosiddette "scienze umane".

La portata innovativa di questo argomento era immediatamente comprensibile, come pure erano prevedibili le conseguenze in tema di richieste di risarcimento:

da ciò i timori espressi da molti, ma anche la percezione che fosse ormai impossibile procrastinare ulteriormente una presa di decisione sulla risarcibilità, o meno, della salute psichica. La cultura e i costumi sociali portavano ad un cambiamento di atteggiamento nei confronti della salute, della relazione medico- paziente, della attribuzione di responsabilità; temi strettamente connessi con una concezione più globale e tutelante della persona e della sua salute.

Il mio intervento si propone di riprendere i dubbi, le perplessità e le previsioni fatte allora, quantomeno quelle desumibili dalla giurisprudenza, dalla letteratura, nonché dalla personale casistica, e di commentarli in chiave critica rispetto alla situazione attuale, anche collegandosi a quanto andranno esponendo gli altri relatori del Convegno, che portano in questa sede i loro più aggiornati dati, riflessioni e commenti.

Ripercorrendo, sinteticamente, i punti critici di allora, ritorna attuale il problema fondamentale, cioè definire che cosa sia il danno psichico. A questo quesito sono state date diverse risposte, in genere convergenti nella sostanza, nonostante le diversità lessicali. Esso viene riconosciuto anche in mancanza di una menomazione fisica, inizialmente considerata importante per avere un dato

* Professore a contratto di Psicologia Giuridica – Università di Urbino

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tangibile di riferimento. Il riconoscimento del "danno da lutto", come pure i riferimenti allo "stress psicologico" (Cass. 13340, 29.11.99) sono segni evidenti di come il danno psichico possa presentarsi, e pertanto debba essere risarcito, anche come "danno psichico puro", indipendente da un qualsiasi substrato fisico.

Alla luce della proposta del "danno esistenziale" è stata necessaria, e forse lo sarà ancora, una ripuntualizzazione della definizione, per comprendere e chiarire i reciproci confini.

Il "danno esistenziale" ripropone un tema in realtà sempre attuale, cioè quali siano i confini e le differenze tra danno psichico e danno morale, tra il danno oggettivo, o almeno oggettivabile, ed il danno soggettivo, tra la lesione psichica e la sofferenza. Le considerazioni dei tecnici, su questo aspetto, non possono prescindere dall'evolversi dell'inquadramento giuridico di questi temi, che sembra essere necessitato dalla proposta del "danno esistenziale".

Particolarmente gravosa sembrava, fin dall'inizio, l'individuazione del nesso causale. Lo scetticismo di molti portava a individuare solo un legame di mera 'occasione', in quanto la predisposizione soggettiva era comunque ritenuta un fattore imprescindibile. A fronte della casistica e della gravità di molte situazioni, si è andata affermando in modo netto l'esistenza di un vero e proprio nesso causale, anche se nella prassi ci si limita molto spesso alla concausalità dell'evento.

La sottesa convinzione, diffusa nell'odierno senso comune, ancor prima che nei giuristi o nei medici-legali, per cui le persone sono comunque artefici del proprio destino, comporta che, di fronte a situazioni negative, vi sia una latente attribuzione di responsabilità anche sulle vittime, se non altro perché non si sono comportate, non hanno reagito, non hanno superato indenni l'evento traumatico.

Il riconoscimento della piena causalità in tema di danno psicologico sembra essere un tema critico sul piano del cambiamento di atteggiamento. Si tratta forse di uno dei temi su cui le diverse discipline (diritto, medicina, psicologia) hanno ancora un lungo cammino da percorre, un percorso comune da fare e molti preconcetti reciproci da superare.

Un grande timore era quello della simulazione, nei termini di una pura mistificazione, di un'accentuazione dei sintomi, come pure di una "nevrosi da indennizzo". In questo ambito, gli psicologi e gli psichiatri sembravano essere più tranquilli e rassicuranti dei giuristi: questi ultimi, forse, a causa della maggiore consapevolezza di certi costumi italiani di fronte alla possibilità di un risarcimento assicurativo. I tecnici sapevano di poter contare su una metodologia clinica in grado di evidenziare, con elevata probabilità, la simulazione palese, ma anche quella più subdola, come già sperimentato in altri ambiti forensi ( ad esempio, l'imputabilità).

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Il contributo della neuropsicologia, branca relativamente giovane della psicologia, è risultato molto utile anche in tema di danno fisico, ad esempio nell'approntare test per la discriminazione delle capacità cognitive (attenzione, memoria, ecc.) nei soggetti che hanno subito un trauma cranico, proprio al fine di evidenziare una possibile enfatizzazione o simulazione.

La quantificazione, poi, sembrava raggiungibile solo in un futuro molto lontano, soprattutto per una forte reticenza degli psicologi, ed in parte degli psichiatri, ad elaborare una tabella con cui esprimere in numeri percentuali qualcosa di per sé non misurabile, come appunto l'integrità psichica, specie in vista di una monetizzazione. Questo è uno dei punti di maggiore lontananza tra le discipline coinvolte, in quanto le scienze umane non hanno alcun fine di questo tipo, ma devono imparare a rispondere ad un quesito in tal senso.

Su un tema così difficile si è arrivati, in un tempo quindi relativamente breve, ad una proposta di tabella (Brondolo e Marigliano, 1996), confrontandosi con la quale è possibile, al limite anche per contrapposizione ad essa, superare la genericità ed i possibili fraintendimenti di conclusioni solo qualitative.

La casistica che sarebbe scaturita da questo filone era poco prevedibile, quantomeno sul medio-lungo periodo. Per fare solo un esempio, tra i nuovi temi che si presentano alla nostra attenzione, possiamo citare il fenomeno del mobbing, cioè la sistematica persecuzione psicologica di un lavoratore da parte del contesto in cui lavora (direzione, colleghi, ecc.). Questo tema, sul quale sono attualmente pendenti tre progetti di legge, va oltre la casistica del danno psichico in tema di lavoro. Si tratta, infatti, di una possibilità di individuare l'effettiva responsabilità delle azioni, l'intervento più idoneo (conciliazione o risarcimento?) sono nodi critici ancora oggetto di studio.

La casistica penale sembrava certo essere quella più agevole sul danno psichico: la gravità implicita nell'evento-reato permetteva di ipotizzare un danno che avesse un legame causale ed una certa entità. Da sempre i giudici penali hanno intuito il danno psichico nelle vittime, e a tale sofferenza hanno fatto fronte con lo strumento del danno morale, liquidandolo in modo da includere, 'equamente', anche l'eventuale danno psichico. Tale prassi, una volta affermato il paradigma del danno psichico, sarebbe dovuta diventare meno rilevante: in realtà spesso essa costituisce una risorsa per il giudice penale per dare un risarcimento che, soddisfacendo la vittima, la scoraggi dal perseguire l'azione civile, e ciò non tanto per alleviare il carico di lavoro dei colleghi civilisti, quanto per dissuadere dall'intraprendere percorsi lunghi, a volte tortuosi non solo sul piano giudiziario ma anche su quello psicologico, basti pensare ai tempi, alle consulenze tecniche, al rivivere l'evento.

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Nei casi di violenza sessuale questa prassi sembra essere abbastanza diffusa, condotta spesso in modo proficuo ed in fondo utile per tutte le parti in causa, sempre che le cifre previste siano adeguate e che comunque venga data la libertà alla vittima di rivalersi, se lo ritiene opportuno, in sede civile.

La mia conclusione vuole essere un po' provocatoria, anche se quanto sostenuto finora dovrebbe aver chiarito la mia posizione, da sempre a favore del pieno riconoscimento, e di un adeguato risarcimento, di questa forma di danno.

La richiesta di risarcimento del danno psichico, e ciò può valere, forse, anche per il danno esistenziale, non rischia, a volte, di diventare la ricerca, comunque e sempre, di un responsabile, di una compensazione, reale o simbolica, di una completa restaurazione di ciò che era in precedenza, di un risarcimento di ogni minima conseguenza a tutto ciò che ci succede? Una certa casistica, un atteggiamento rivendicativo sempre più diffuso, la pretestuosità di certe richieste, danno l'impressione che vi sia, più che una legittima domanda di tutela, la pretesa di una polizza che garantisca ogni eventualità, che riconosca ogni conseguenza, che sia una sorta di "assicurazione della propria felicità".

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