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Il business model delle banche e la crisi finanziaria

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CAPITOLO I

I MODELLI DI BUSINESS BANCARI E

IL CONTESTO DI CRISI

1.

Come definire i modelli di business bancari

Negli ultimi due decenni si è sviluppato un forte interesse per i modelli di business bancari da parte di studiosi, operatori e regolatori. Sia in Europa che negli Stati Uniti, a seguito della deregolamentazione, si è assistito alla nascita e all’evoluzione della cosiddetta banca universale che include al proprio interno tutte le attività bancarie al fine di poter servire una vasta gamma di prodotti e servizi ai propri clienti e ottenere un alto grado di diversificazione. Tale modello è stato rimesso in discussione alla luce degli avvenimenti della crisi finanziaria innescati dalla instabilità di istituti di credito che hanno esasperato il modello della banca universale.

Prima di approfondire questa tematica è necessario però definire i modelli di business bancari. Innanzitutto, la letteratura ha mostrato interesse per i modelli di business aziendali nel periodo compreso tra il 1975-1994 fino a che non è esplosa l’attenzione nel 1995. 1 Tra gli altri contributi in materia, giova ricordare la definizione di modello di business proposta da Amit e Zott in un articolo del 2000: “The business model depicts the

content, structure and governance of transactions designed so as to create valuethrough the exploration of business opportunities”. 2

È dagli anni 2000 in poi che parte delle letteratura si è focalizzata sui modelli di business bancari. Per quanto riguarda la loro definizione, molti autori hanno cercato di distinguere le banche facendo riferimento alle attività svolte, all’organizzazione interna o alle dimensioni dalle stesse.

Volendo dare una definizione unitaria, un modello di business bancario è l’insieme delle scelte organizzative e operative che la banca mette in atto al fine di raggiungere i propri obiettivi.

Un interessante contributo è stato fornito da Cavelaars e Passenier che cercano di identificare i diversi modelli di business attraverso i risultati delle scelte fatte dalle

1 Birindelli G., Patarnello A., Modelli di business, rischio e regolamentazione dell’attività bancaria: alcune

evidenze dalle banche europee, in Osservatorio monetario n.3, Assbb, Milano, 2012, pag. 58.

2 Amit R., Zott C., Value creation in e-business, in Strategic management journal n. 22, Chicago, 2001, pag.

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2 banche. Gli autori definiscono i modelli di business ponendosi tre domande:

1. Quali prodotti e servizi sono offerti dalla banca e a quali gruppi di clienti? 2. Qual è l’approccio seguito nel gestire il rapporto con i suoi clienti e nella

distribuzione dei suoi prodotti e servizi?

3. Quali sono le fonti di profitto e questi profitti sono sostenibili?

Nel rispondere alla prima domanda, vengono classificate banche commerciali, d’investimento e istituti non bancari come mostrato nella tabella 1.1.

Tabella 1.1 – La suddivisione delle banche in base ai prodotti e ai clienti

Prodotti e servizi Clienti

Banche commerciali

Prestiti, depositi, servizi di pagamento, asset management, crediti di firma

Risparmiatori, piccole e medie imprese, grandi imprese

Banche

d’investimento

Servizi di collocamento di azioni e obbligazioni, consulenza nei processi di concentrazione, asset management, negoziazione di titoli in conto proprio

Grandi imprese, altre istituzioni finanziarie

Istituti non bancari

Assicurazioni, agenzie immobiliari, leasing

Consumatori, piccole e medie imprese e grandi imprese

Fonte: Cavelaars P., Passenier J., Follow the money: what does the literature on banking tell prudential supervisors on bank business models?, De Nederlandsche Bank, Working Paper n. 336, Amsterdam, 2012, pag. 6.

Per quanto riguarda l’approccio seguito nella gestione dei rapporti con i clienti si fa riferimento a due modi contrapposti: il relationship e il transaction banking. Il primo prevede un rapporto diretto con il cliente, una conoscenza approfondita da parte della banca delle esigenze del cliente e una buona personalizzazione dei servizi offerti. Questo tipo di rapporto consente l’acquisizione delle informazioni di tipo soft, ovvero i dettagli che derivano dalla conoscenza diretta del cliente, con lo scopo di migliorare il servizio offerto allo stesso e, al contempo, di ottenere un profilo di rischio del cliente migliorando le fasi di screening e monitoring.

Al contrario, il transaction banking prevede il solo utilizzo delle informazioni di tipo hard che derivano dall’analisi di dati senza la necessità della conoscenza personale del cliente. Questo tipo di approccio viene impiegato soprattutto dalle banche di grandi dimensioni, spesso poco presenti sul territorio, che, per la natura standardizzata dei loro prodotti e servizi, non avrebbero convenienza nell’instaurazione di un rapporto di tipo relationship.

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3 In realtà, la distinzione non è così netta perché non si esclude l’applicazione di entrambi gli approcci da parte della stessa banca che potrebbe infatti differenziare approccio in base al tipo di prodotto offerto o in base al territorio servito.

Infine, per quanto riguarda le fonti di profitto, si distinguono le tre tipologie di profitto ovvero utili da interesse, utili da commissioni e utili da trading. La quantificazione del contributo di ogni fonte aiuta a comprendere quale modello di business è stato applicato e quindi se per esempio si fa maggior affidamento sui prestiti alla clientela piuttosto che sul trading in conto proprio.3

In uno studio effettuato dal Centro per gli studi delle politiche europee (CEPS) si identificano i principali modelli di business delle banche europee. Vengono quindi individuati quattro modelli predominanti tramite la creazione di clusters derivanti dall’analisi di determinati indicatori quantitativi che riassumono le attività svolte dalle banche. La figura 1.1 riassume i risultati dell’analisi.

Figura 1.1 - Confronto tra i quattro modelli di business riscontrati dal CEPS

Fonte: Ayadi R., Arbak E., De Groen W., Banks and Business Models: Towards a new paradigm?, CEPS, Bruxelles, 2012, pag. 17.

Il primo modello comprende un gruppo di banche Investment oriented. Questa tipologia è quella predominante in Europa, in quanto risulta essere la maggiore sia per dimensioni medie che assolute. Quest’ultimo valore nel 2010 si aggirava introno ad 1,5

3Cavelaars P., Passenier J., Follow the money: what does the literature on banking tell prudential

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4 trilioni di euro mentre le banche di questo campione rappresentano una proporzione sostanziale dell’intero settore finanziario dello stato dove hanno sede legale. Il campione si distingue dagli altri per l’alto valore medio di titoli mobiliari e derivati che rappresentano rispettivamente il 52,8% e il 38,3% del totale attivo del bilancio dei 74 istituti di credito considerati. Quanto alla raccolta, queste banche tendono a focalizzarsi sulle fonti meno tradizionali e più instabili e presentano inoltre un alto grado di leverage4 dato il valore medio del Common equity5 del 2,6%.

Il secondo modello è composto dalle banche di tipo Retail oriented maggiormente concentrate sulle attività tradizionali quindi con un livello di prestiti e di depositi verso la clientela molto alto, rispettivamente del 56,5% e 60,9% del totale attivo. A differenza delle precedenti, questo tipo di banca è maggiormente capitalizzata con un Common

equity medio del 5,4%. A livello dimensionale, i loro attivi totali tendono ad essere vicini

alla metà della media dell’intero campione analizzato.

Il terzo gruppo presenta diverse analogie con il secondo. Innanzitutto, queste banche hanno alti livelli di capitalizzazione e una buona percentuale dei loro attivi è impiegata nei prestiti ai clienti come per il secondo gruppo. Ciò che differisce significativamente è la diversificazione nella raccolta. Questa tipologia di banche infatti preferisce i debito obbligazionario e altre forme di debito di mercato ai depositi bancari probabilmente per mantenere una maggiore dimensione. Come risultato di questa maggiore diversificazione, le banche del terzo gruppo hanno affrontato bene la crisi finanziaria superando agevolmente i momenti di tensione di liquidità dei mercati continuando a finanziare l’economia. Questa tipologia di banca viene chiamata

Diversified retail e può essere assimilata al modello della banca universale.

Infine, il quarto e ultimo gruppo comprende una tipologia di banca che fa affidamento principalmente sui mercati all’ingrosso, denominata Wholesale bank. Per quanto riguarda la raccolta, i depositi interbancari raggiungono in media il 25% del totale di bilancio pareggiando i depositi dei privati, dimostrando una forte dipendenza dai mercati all’ingrosso. È evidente che questo tipo di gestione della raccolta, essendo molto influenzata dalle dinamiche del mercato all’ingrosso, è maggiormente soggetta al rischio di liquidità a seguito di tensioni nei mercati wholesale a breve termine. Per quanto riguarda gli impieghi, la metà di questi è investita nei mercati mobiliari, mentre per quanto riguarda il livello di capitalizzazione queste sono le banche che fanno maggiormente

4Il leverage è calcolato come il rapporto tra il totale attivo e il capitale proprio.

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5 affidamento al leverage con un valore medio di Common equity del 2,3%.6

2.

Una rassegna della letteratura

Come già anticipato, l’interesse per la tematica dei modelli di business bancari è molto recente. Ciò è dipeso da cambiamenti organizzativi e strutturali delle banche permessi dalla deregolamentazione degli anni Novanta, che hanno fatto emergere l’esigenza di un ripensamento dell’attività bancaria. Sia in Europa che negli Stati Uniti si è assistito infatti all’abrogazione di leggi che imponevano la separazione di determinate attività inizialmente ritenute dannose se svolte contemporaneamente dallo stesso istituto. In Italia, ad esempio, nel 1993 l’emanazione del Testo Unico in materia Bancaria ha sancito il principio della despecializzazione istituzionale, temporale e operativa. Proprio quest’ultima ha permesso la creazione della banca universale.

Negli Stati Uniti, invece, a seguito della crisi finanziaria del 1929, fu emanato il

Glass-Stegall Act, che impose la separazione di banche commerciali e banche d’investimento.

La separazione durò fino al 1999 quando la legge Gramm-Leach-Bliley Act eliminò le barriere esistenti tra le due tipologie di banche e tra i tre settori del mercato finanziario.

Questi cambiamenti rispondevano a diverse esigenze, tra cui quelle di migliorare la competitività dei mercati nazionali, di migliorare la gamma dei servizi offerti ai clienti, aumentare la redditività delle banche, convogliare maggiori risorse verso i mercati mobiliari, ricercare nuove fonti di raccolta, migliorare la solvibilità bancaria grazie alla diversificazione e diminuire i costi grazie ad economie di scopo e di scala. Questa maggiore libertà ha concesso però anche la possibilità di gestire l’attività bancaria in modo meno controllato e di arrivare fino alla creazione di nuovi strumenti operativi grazie ai quali è stato possibile sfuggire ai controlli delle autorità di vigilanza durante gli ultimi anni. Per quanto ci riguarda, il fine potrebbe essere quello di comprendere se alcuni modelli di business hanno contribuito più di altri all’instabilità finanziaria e allo scoppio della crisi finanziaria. Nelle prossime pagine saranno descritti i principali contributi della letteratura fino alla crisi finanziaria per ripercorrere le motivazioni e l’efficacia delle scelte prese dagli intermediari.

6Ayadi R., Arbak E., De Groen W., Banks and business models: Towards a new paradigm?, op. cit., pagg.

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2.1 La diversificazione delle fonti di reddito

Tradizionalmente, le banche si concentrano prevalentemente sulla provvista di depositi e sull’erogazione di prestiti concessi a individui e imprese. Col passare del tempo, però, altre attività sono diventate sempre più importanti ed è in base alla tipologia di attività che è possibile distinguere diverse fonti di reddito. I profitti bancari possono infatti derivare da tre fonti di reddito: il margine da interesse, le commissioni e i ricavi da negoziazione in proprio. L’attività bancaria tradizionale è sempre stata fondata sulla massimizzazione della prima fonte di reddito derivante dall’ottenimento di risorse a breve dai depositi dei risparmiatori e la concessione di prestiti a medio e lungo termine. A loro volta i ricavi da margine da interesse traggono origine dalla trasformazione delle scadenze, dal vantaggio informativo derivante dalla conoscenza diretta del cliente e dal premio di rischio derivante dalla concessione di finanziamenti.

Dagli anni Ottanta in poi in Europa e negli Stati Uniti si è assistito a una diminuzione di questi ricavi dovuta alla riduzione dei volumi di raccolta, alla maggior concorrenza nei mercati, alla nascita di nuovi strumenti come leasing o factoring e allo sviluppo dei mercati mobiliari fino ad allora poco efficienti.

In questo contesto le banche hanno fatto ricorso alla disintermediazione di attivo e passivo e hanno fatto sempre più affidamento sugli utili da non interesse ovvero sulle altre due fonti di reddito. La seconda, ricavi da commissioni, è garantita dalle attività accessorie fornite dalla banca come consulenza, servizi di pagamento, gestione di portafoglio titoli e servizi di custodia mentre la terza fonte, ovvero i ricavi da negoziazione in proprio, deriva dalla negoziazione in conto trading e banking book con fini di gestione efficiente della liquidità, di migliorare i propri risultati reddituali e, per l’appunto, di diversificare i ricavi.

Come evidenziato dalla figura 1.2, secondo diversi studi si è assistito, in particolare negli Stati Uniti, a una diminuzione progressiva del margine da interesse e a favore del contrapposto quanto conseguente aumento degli utili da non interesse.7

7 Allen F., Santomero A.M., What do financial intermediaries do?, in Journal of banking and finance n. 25,

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7 Figura 1.2 – La crescita della quota di utili da non interesse sul totale dei ricavi in USA tra il 1984-2000

Fonte: Stiroh J., Diversification in banking. Is noninterest income the answer?, New York, 2002, pag. 27.

Questo cambiamento può derivare inoltre dall’allontanamento dal relationship banking e il passaggio dal modello originate to hold a quello dell’originate to distribute.

Entrambi i modelli fanno riferimento alla gestione dei prestiti concessi, il primo prevede la tipica esecuzione del contratto con la riscossione di capitale e interessi nelle diverse scadenze concordate, mentre il secondo consiste nella sistematica cessione dei prestiti ad altre istituzioni al fine di poter erogare nuovi finanziamenti grazie alla liquidità ottenuta. I vantaggi della diversificazione sono indubbi, esistono infatti diversi studi che evidenziano come questa possa portare ad una diminuzione dei rischi in capo all’intermediario e diminuire i costi grazie ad economie di scala di scopo. Ciò giustifica l’applicazione del concetto della diversificazione nella banca universale.

Non vanno però dimenticati alcuni svantaggi che hanno dimostrato la loro importanza durante la crisi. Bisogna tener presente che, aumentando la gamma di attività svolte dalla banca, quest’ultima può dover affrontare un costo di complessità che richiede competenze manageriali adeguate. Inoltre, studi in materia hanno evidenziato che la diversificazione aumenta e non diminuisce la volatilità dei profitti.

Nello studio di DeYoung e Roland vengono prese in considerazione 472 banche statunitensi utilizzando dati ricavati dai bilanci compresi tra il 1988 e il 1995 al fine di individuare gli effetti di un aumento della quota di utili da non interesse. La regressione proposta dagli autori ipotizza un incremento dei ricavi lordi da non interesse del 10% e

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8 ne valuta gli effetti sulla leva finanziaria e sulla volatilità degli ricavi totali. L’aumento degli utili da non interesse porta sia ad un aumento del leverage che della volatilità dei ricavi, rispettivamente del 29% e del 16%. Ciò dimostra che una maggiore quota di ricavi da non interesse può comportare maggiori guadagni ma anche maggiori rischi.8

Questi risultati sono confermati da Stiroh, in due studi del 2002 e del 2011 sulla diversificazione e i modelli di business in USA, dove si evidenzia come possano esserci dei benefici da diversificazione, ma che vi è una crescente correlazione tra aumento dei redditi da non interesse e volatilità. Nel primo studio l’evidenza empirica dimostra infatti che a livello aggregato il reddito da non interesse è più voltatile del margine da interesse. Inoltre, le due fonti di reddito si sono dimostrate sempre più correlate dagli anni ’90 in poi. Questo vale specialmente per i redditi da commissioni, mentre i profitti da negoziazione risultano meno correlati. Proprio questi ultimi hanno una volatilità tale da mettere a rischio l’intera stabilità dei profitti. In ultima analisi, lo studio ha evidenziato che i classici benefici da diversificazione erano in diminuzione a causa di una sempre più alta correlazione tra margine da interesse e ricavi da non interesse e quindi un forte sfruttamento delle fonti da non interesse può comportare un peggioramento delle condizioni reddituali nei periodi di crisi e un’accentuata volatilità degli stessi.9

Nel secondo lavoro viene affrontato lo stesso problema, ma attraverso uno studio di portafoglio per analizzare il rapporto rischio rendimento delle attività delle banche statunitensi. Qui si rileva che le banche che hanno fatto maggior affidamento sui ricavi da non interesse generano maggiori ritorni del capitale proprio ma hanno creato portafogli molto più rischiosi come dimostrato dalla volatilità di questi ultimi e dai beta di mercato.10

Uno studio di De Jonghe conferma questi risultati anche per le banche europee, ipotizzando però che l’indice dei prezzi azionari bancari subisca uno shock negativo. In questo lavoro si riscontra un diverso contributo da parte dei diversi modelli di business. Infatti, secondo i risultati di uno studio econometrico, il maggior ricorso alle attività bancarie non tradizionali da parte delle banche del sistema porta ad un peggioramento della stabilità dell’intero sistema. Al contrario, la specializzazione verso le attività tradizionali contribuisce in modo positivo, così da suggerire la preferibilità verso questo

8 DeYoung R., Roland K., Product Mix and Earnings Volatility at Commercial Banks: Evidence from a

Degree of Leverage Model, Federal Reserve Working Paper n. 99-6, Chicago, 1999, pagg. 33-35.

9Stiroh J., Diversification in banking. Is noninterest income the answer?, Federal reserve, New York, 2002,

pagg. 5-22.

10Stiroh J., A portfolio view of banking with interest and noninterest activities, in Journal of money, credit

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9 modello rispetto a quello diversificato durante i periodi di turbolenza finanziaria.11

Come già anticipato, un maggior ricorso ai ricavi da non interesse può portare ad un incremento della complessità della struttura operativa. Le conseguenze possono essere di vario tipo. Innanzitutto, in diversi studi si evidenzia come una maggior complessità porti ad un aumento della opacità della banca nei confronti del mercato e delle autorità di vigilanza. Uno studio di Iannotta evidenzia, infatti, che l’opacità stessa deriva dal grado di diversificazione dell’attivo e dalle dimensioni della banca. I risultati dimostrano che un aumento della quota di attività finanziarie, soprattutto se poco liquide, comporta una maggiore opacità. Anche il crescere delle dimensioni comporta un aumento dell’opacità dato che una istituzione più grande presenta anche una struttura organizzativa più complessa.12

L’aumento dell’opacità derivante da un più pronunciato spostamento sulle fonti di reddito da non interesse può portare ad un aumento del rischio sistemico se buona parte degli istituti bancari di maggiori dimensioni applicano la diversificazione delle fonti di reddito. Inoltre, gli istituti di vigilanza hanno maggiori difficoltà nel monitorare queste istituzioni a causa della loro complessità organizzativa.13

In un lavoro più recente Baele et al. prendono in considerazione rischio sistemico e rischio specifico al fine di capire come questi possano essere influenzati dal grado di diversificazione dell’attivo. Gli autori riscontrano che un aumento della diversificazione può diminuire il rischio specifico, ma aumentare quello sistemico. Viene quindi ipotizzata una soglia ottimale che permetterebbe di non far troppo affidamento sui ricavi da non interesse e non essere troppo esposti agli shocks dei mercati.14 Quindi, se è vero che le banche diversificando la propria gamma di prodotti riducono il proprio rischio idiosincratico, allo stesso tempo, però, diventano sempre più uguali tra loro e sempre più simili al sistema nel suo complesso e ciò accresce la loro esposizione al rischio sistemico.15

Istituzioni simili hanno le stesse probabilità di entrare in situazioni di crisi, e

11 De Jonghe O., Back to the basic in banking? A micro-analysis of banking system stability, European

banking center, Discussion paper n. 13S, Tilburg, 2009, pagg. 9-26.

12 Iannotta G., Testing for opaqueness in the European banking industry: evidence from bond credit ratings,

Milano, 2004, pagg. 14-17.

13 De Nicolo G., Kwast M., Systemic Risk and Financial Consolidation: Are They Related?, New York,

2002, pagg. 13-16.

14 Baele L., De Jonghe O., Vennet R., Does the stock market value bank diversification? In Journal of

Banking and Finance n.31, Tilburg, 2006, pagg. 2010-2018.

15 Di Antonio M., Quali banche dopo la crisi? Dal “modello unico” alla pluralità di business e di regole,

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10 quando ciò accade per molte istituzioni contemporaneamente allora il problema può essere anche più grande della crisi di una singola grande banca. Questo problema è chiamato Too-many-to-fail. La mancanza di diversità può valere anche per le grandi banche e, come evidenziato da un lavoro di Goodhart e Wagner, nel corso degli ultimi decenni le istituzioni finanziarie di maggiori dimensioni sono diventate molto più simili tra loro, dato che esse operano negli stessi mercati globali e svolgono attività simili.16 Inoltre, data la convergenza dei regolamenti finanziari, i modelli di gestione del rischio utilizzati da queste istituzioni sono molto simili con la conseguenza che misurazioni quasi identiche del rischio portano a comportamenti omogenei, amplificando così l'impatto degli shock. In ultima analisi, si assiste quindi ad un ribaltamento del concetto della diversificazione: le banche che applicano la diversificazione, somigliando sempre più all’intero sistema, sono esposte al rischio di contagio, mentre proprio quelle banche che rimangono specializzate in determinati segmenti del settore finanziario risultano più sicure. Ciò dimostra, al pari di ogni sistema, che anche il sistema finanziario necessita la propria diversità.

Da questi studi si evince quindi che sono innegabili gli effetti positivi della diversificazione e il miglioramento dei risultati reddituali grazie al conseguimento di ricavi da non interesse, ma anche che ciò rende i profitti meno stabili e più soggetti alle congiunture sfavorevoli.

2.2 La ricerca di nuove fonti di raccolta e la gestione della liquidità

Un aspetto che distingue i modelli bancari è il modo in cui le banche impostano le strategie di raccolta. Accanto agli strumenti di raccolta tradizionali come i conti di deposito e libretti di risparmio si sono sviluppati negli anni altri canali alternativi al fine di invertire l’andamento decrescente dei flussi di raccolta. Questa minore propensione al risparmio è stata causata da diversi fattori quali la nascita di altri strumenti di investimento più redditizi come titoli di stato o maggiori investimenti nei mercati mobiliari. Per contrastare la minore affluenza di liquidità da parte dei risparmiatori, le banche hanno attuato la disintermediazione del passivo creando strumenti come i certificati di deposito o facendo ricorso al mercato dei capitali tramite l’emissione di obbligazioni. È da questo periodo in poi che le banche hanno fatto maggior riscorso al mercato interbancario (o

16Goodhart C., Wagner W., Regulators should encourage more diversity, articolo tratto dal sito

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11

wholesale) per investire le risorse eccedenti o per necessità di liquidità a breve termine.

Inoltre, grazie al miglioramento della cultura finanziaria dei clienti, al miglioramento dei mercati borsistici a seguito delle riforme degli ultimi vent’anni e all’emanazione di leggi che hanno permesso la prestazione di servizi finanziari da parte delle banche, queste ultime hanno potuto convogliare presso di loro le risorse che i risparmiatori intendevano investire nei mercati mobiliari.

Nei periodi precedenti alla crisi, le banche hanno abbassato la quota delle riserve di cassa e delle attività più liquide. Le relative disponibilità sono state più convenientemente utilizzate in forme di impiego più redditizie. In caso di tensioni di liquidità, si pensava di poter contare sul mercato interbancario e su quello monetario, sempre più ampi ed efficienti, nonché sulla possibilità di cedere i propri attivi attraverso le operazioni di securitisation. Di fatto, si veniva a configurare una situazione di

outsourcing della funzione di funding e di gestione della liquidità. Oltre a ridurre la quota

di attività liquide, le banche ampliavano il mismatching di scadenza, attraverso un maggior ricorso al mercato monetario.

Le scelte strategiche in tema di raccolta incidono direttamente sui modelli di business. Il management in questo caso si troverà a scegliere tra una struttura maggiormente volta verso l’approvvigionamento presso i mercati all’ingrosso o verso l’ottenimento di depositi presso la clientela. Direttamente interconnessa alla raccolta è la gestione della liquidità, che ha come scopo ultimo quello di garantire l’equilibrio finanziario della banca. La letteratura, dopo anni di disinteresse causato dalle condizioni favorevoli di approvvigionamento di risorse finanziarie dai mercati interbancari e dei capitali, ha riaffrontato questa tematica a causa del manifestarsi del rischio di liquidità agli inizi della crisi finanziaria. Gli studi relativi alla liquidità quindi sono molto recenti se non per alcuni che provavano a mettere in guardia regolatori e istituzioni finanziarie dal rischio di liquidità che le banche avrebbero corso in caso di scarsa fiducia del mercato verso di loro.

Successivamente verranno descritti i diversi contributi in tema di strategia di raccolta distinguendo i lavori che descrivono le conseguenze dell’utilizzo delle fonti di raccolta all’ingrosso e dei depositi bancari.

Per quanto riguarda il mercato all’ingrosso, bisogna puntualizzare che può essere diviso in mercato wholesale di breve e di lungo termine. Il primo riguarda le operazioni di pronti conto termine e commercial papers, mentre il secondo prevede l’emissione di titoli di debito come obbligazioni o covered bond. Al riguardo, un lavoro di Berger e

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12 Bouwman spiega che la dipendenza delle banche dal finanziamento all'ingrosso a breve termine per finanziare l’espansione dei propri bilanci nel periodo precedente alla crisi è uno dei fattori chiave per l'accumulo di rischi sistemici e per l’innesco di meccanismi di propagazione delle crisi. Inoltre si evidenzia che una forte dipendenza delle banche dal mercato all’ingrosso a breve termine può portare a pericolosi squilibri nella struttura delle scadenze del bilancio.

Un lavoro di Demirgüç-Kunt e Huizinga analizza le attività bancarie e le strategie di raccolta per confrontarne la rischiosità. Gli autori evidenziano quindi che le banche con una alta percentuale di ricavi da non interesse avevano anche una alta percentuale di raccolta derivante dai mercati interbancari. È stato poi analizzato il rischio della banca nel suo complesso tramite lo Z-score, o Indice di distanza dal default, calcolato come la somma delle deviazioni standard dell’indice di redditività delle attività. Le regressioni effettuate suggeriscono che alti livelli di reddito da non interessi e di raccolta derivante da non depositi possono aumentare ulteriormente il rischio della banca. Al contrario, le banche che prediligono i ricavi da intermediazione e il finanziamento tramite i depositi sono più sicure delle banche che preferiscono finanziarsi presso i mercati wholesale.17

La dipendenza dal finanziamento presso i mercati all’ingrosso è inoltre fonte di riduzioni dei prezzi azionari delle banche durante le crisi. Uno studio di Raddatz analizza l’andamento dei prezzi delle azioni di un campione di 47 banche statunitensi durante la crisi dei mutui subprime per individuare quali siano le cause delle loro variazioni. Lo studio dimostra, infatti, che le banche con una alta dipendenza dai mercati wholesale hanno subito maggiori riduzioni del prezzo delle loro azioni rispetto al resto del campione.18 Inoltre, nello stesso studio, si conferma il ruolo dei mercati all’ingrosso nella trasmissione e nella propagazione delle crisi, soprattutto a seguito di una crisi di fiducia tra gli intermediari.19

Una maggior quota di finanziamenti provenienti dal mercato all’ingrosso aumenta, inoltre, la probabilità di costringere gli stati sovrani a elargire aiuti pubblici al fine di sostenere il sistema bancario.20 Questo è quanto affermato da uno studio che ha

17Demirgüç-Kunt A., Huizinga H., Bank activity and funding strategies: the impact on risk and returns,

World bank working paper n. 4837, Washington, 2009, pagg. 10-30.

18 Raddatz C., When the run dry: liquidity and the use of wholesale funds in the transmission of the U.S. subprime

crisis, Washington, 2010, pag. 23.

19 Raddatz C., When the run dry: liquidity and the use of wholesale funds in the transmission of the U.S. subprime

crisis, op. cit., pag. 5.

20 Ratnovski L., Huang R., Why Are Canadian Banks More Resilient?, International Monetary Fund

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13 avuto come scopo quello di far luce sui fattori che hanno reso le banche canadesi più stabili durante la crisi finanziaria.

Infine, non vanno comunque dimenticati i benefici derivanti dalla possibilità di accedere ai mercati all’ingrosso. Alcune banche, di fronte a una forte incertezza rispetto alle future richieste di finanziamento da parte dei clienti, possono utilizzare efficacemente i mercati wholesale per finanziare le operazioni inattese. Quindi, una forte dipendenza dai mercati all’ingrosso può anche essere una risposta alle incertezze derivanti dall’andamento dell’economia reale durante le fasi di congiuntura economica sfavorevole.21

Passiamo ora al secondo filone di studi, ovvero i contributi che hanno ad oggetto l’analisi delle strutture finanziarie maggiormente volte alla raccolta tramite depositi bancari.

In primo luogo, una struttura finanziaria che presenta una maggiore quota di depositi della clientela presenta una minore probabilità di fallimento soprattutto per le istituzioni che presentano un minor livello di capitalizzazione.22

In secondo luogo, le banche finanziate in maggior modo dai depositi hanno fonti più stabili che permettono loro di evitare i contraccolpi della volatilità dei mercati all’ingrosso e mantenere costanti i livelli di offerta di credito anche durante le crisi finanziarie.23 Come vedremo successivamente, durante la crisi finanziaria, diverse banche hanno provato ad aumentare il loro livello della raccolta derivante dai depositi indipendentemente dal modello di business precedentemente adottato.

Nel confronto tra i modelli di business quali banca universale, banca retail e banca d’investimento si evidenzia come l’attività di finanziamento tramite i mercati all’ingrosso possa avvenire anche presso le banche d’investimento ma che queste ultime non dovrebbero allontanarsi dalle forme di raccolta più tradizionali per stabilizzare le fonti di provvista ed evitare i contraccolpi di una crisi di liquidità dei mercati all’ingrosso.

21 Dinger V., Craig B., Uncertainty and bank wholesale funding, Osnabrueck, 2012, pagg. 21-28.

22 Vazquez F., Federico P., Bank funding structures and risk: evidence from the global financial crisis,

International Monetary Fund Working paper n. 29, Washington, 2012, pagg. 15-17;

Bologna P., Is there a role for funding in explaining recent US bank failures?, Bank of Italy Occasional papers n. 103, Roma, 2011, pagg. 16-17.

23 Dagher J., Kazimov K., Banks' liability structure and mortgage lending during the financial crisis,

International Monetary Fund Working paper n. 155, Washington, 2012 , pagg. 23-24;

Cornett M., McNutt J., Strahan P., Tehranian H., Liquidity risk management and credit supply in the financial crisis, in Journal of Financial Economics n. 101, Washington, 2011, pagg. 305-311;

Ivashina V., Scharfstein D., Bank lending during the financial crisis of 2008, Cambridge, 2010, pagg. 15-17.

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2.3 Il capitale e il leverage

Il patrimonio è una variabile fondamentale per qualsiasi azienda. Le sue principali funzioni sono di permettere l’avviamento delle attività aziendali, lo sviluppo di nuove attività nonché garantire il continuità aziendale durante i periodi di crisi. In ambito bancario, quest’ultima funzione ha assunto sempre maggiore importanza in quanto i regolatori hanno cercato di stabilizzare il più possibile gli intermediari finanziari al fine di evitare dissesti che inevitabilmente andrebbero a ripercuotersi sull’intero sistema economico.

In questa direzione vanno i provvedimenti del Comitato di Basilea che ha cercato di far adeguare la rischiosità delle attività svolte dalle banche con il capitale da loro detenuto. Il capitale quindi è di vitale importanza indipendentemente dal modello di business adottato dalla banca ma esistono diversità tra i vari modelli, anche in termini di gestione del patrimonio, che dovrebbero essere prese in considerazione da chi provvede alla regolamentazione dei mercati finanziari.

L’importanza del capitale è testimoniata da numerosi lavori. Innanzitutto esistono diversi studi in tema di effetti del capitale sulle prestazioni bancarie. Di norma, si riscontra un miglioramento delle performance bancarie a seguito degli aumenti di capitale.24

Un lavoro di Berger e Bouwman si propone di alimentare il dibattito sul perché le banche dovrebbero avere maggiori capitali, facendo particolare attenzione ai risultati ottenuti durante le crisi finanziarie. I risultati ottenuti dimostrano che alti livelli di capitale aumentano le prestazioni di ogni tipologia e dimensione di banca durante i periodi di crisi. In tempi normali, invece, buoni livelli di capitalizzazione aiutano le piccole banche sotto tutti gli aspetti, mentre aiutano le grandi e medie banche a mantenere buoni risultati reddituali.25 Allo stesso modo, Osborne et al., attraverso uno studio che ha preso in considerazione le banche statunitensi nel periodo compreso tra il 1977 e il 2010, dimostra che gli aumenti di capitale hanno portato nel medio periodo a un miglioramento della redditività sia in termini di ritorno sul capitale (ROE) che di ritorno delle attività (ROA).26

Oltre che sulle performance, il capitale ha un effetto positivo anche sull’andamento dei prezzi azionari. Questa relazione è ancora più evidente in caso di

24 Beltratti A., The credit crisis around the globe: Why did some banks perform better?, in Journal of

Financial Economics n. 105, Washington, 2012, pag. 16.

25 Berger A., Bouwman C., How does capital affect bank performance during financial crises?, Columbus,

2011, pagg. 4-27.

26 Osborne M., Fuertes A., Milne A., Capital and profitability in banking: Evidence from US banks, London,

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15 aumenti di capitale Tier 1.27 Infine, i conferimenti di capitale aumentano la quantità di prestiti erogati in quanto il capitale, al pari delle altre fonti di finanziamento, fornisce liquidità che può essere immessa nel circuito del credito. I dati dimostrano inoltre che le banche che avevano una alta quota di capitali propri hanno continuato a concedere prestiti durante la crisi finanziaria.28

Come anticipato, i recenti regolamenti in tema di vigilanza prudenziale prevedono dei requisiti minimi di capitale. I principali obiettivi di tali misure sono di ridurre il rischio di fallimento degli intermediari bancari, di diminuire la probabilità di scoppio delle crisi e di contenere gli impatti negativi di queste ultime. Uno studio di Wheelock e Wilson sulle banche statunitensi ha come scopo l’individuazione delle caratteristiche del modello di business che incidono in modo significativo sulla probabilità di fallimento delle banche. Come prevedibile, gli autori sottolineano che banche con alti livelli di leverage, bassa liquidità o con portafogli con alta incidenza di attività rischiose hanno una maggiore probabilità di fallimento. È stato riscontrato, tra gli altri risultati, che le banche meno capitalizzate hanno un maggior rischio fallimento.29

Una maggiore quota di capitali propri aiuta sia a ridurre la probabilità di incorrere in crisi finanziarie che a limitare i contraccolpi della fase recessiva che ne deriverebbe.30

Questi risultati sono confermati da uno lavoro di Miles et al. che prende ad esame proprio la probabilità di accadimento delle crisi e il loro impatto. L’ipotesi alla base dello studio è che le crisi finanziarie avvenute in un dato paese siano correlate direttamente all’andamento del prodotto interno lordo (PIL) dello stesso. Con le dovute semplificazioni, si ipotizza che il fallimento di una banca avviene nel momento in cui la perdita di valore degli attivi non viene assorbita dal capitale versato. Secondo le regressioni effettuate, tali attività sono strettamente correlate all’andamento del PIL dato che le diminuzioni del valore degli attivi bancari è stato spesso uguale al calo del PIL. Di conseguenza, secondo gli autori la probabilità che avvenga una crisi è direttamente correlata alla probabilità che avvenga un calo del PIL.

27 Demirguc-Kunt a., Detragiache E., Merrouche O., Bank capital: lessons from the financial crisis,

International Monetary Fund Working paper n. 286, Washington, 2010, pagg. 13-15.

28 Miles D., Yang J., Marcheggiano G., Optimal bank capital, London, 2011, pagg 34-41;

Cornett M., McNutt J., Strahan P., Tehranian H., Liquidity risk management and credit supply in the financial crisis, op. cit., pagg. 308-311.

29 Wheelock D., Wilson P., Why do bank disappear: the determinations of U.S. bank failures acquisition,

Federal Reserve, working paper n. 1995-013B, St. Louis, 1995, pagg. 4-21.

30 Basel Committee on Banking Supervision, An assessment of the long-term economic impact of stronger

capital and liquidity requirements, Basel, 2010, pagg 14-18;

Berger A., The relationship between capital and earnings in banking, The Wharton financial institutions center working paper n. 17, Washington, 1995, pag. 19-23.

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16 Gli impatti della crisi saranno correlati direttamente alla quantità di capitale (in rapporto alle attività ponderate per il rischio) detenuta dalle banche. Infatti le banche con un requisito patrimoniale maggiore rispetto alla riduzione del PIL saranno in grado di sopportare le perdite dovute alla crisi.31

La centralità del capitale nella gestione bancaria ha causato un crescente interesse delle banche verso i mercati azionari. Queste, dovendo rispettare i requisiti patrimoniali, si sono affacciate sempre più sui mercati dei capitali al fine di collocare le proprie azioni così da espandere la loro attività. Questo ha comportato però una maggiore dipendenza dal mercato azionario e una continua ricerca della massimizzazione della creazione di valore per gli azionisti. Questo concetto viene chiamato Value Based Management e, secondo un contributo di Di Antonio, questa pratica sarebbe la matrice comune ai modelli di business che più gravemente hanno sofferto la crisi.

Secondo lo studio, le banche che collocano i propri strumenti azionari sarebbero portate ad anteporre ai propri obiettivi strategici quelli di soddisfare le attese degli investitori esistenti, raccogliere nuovo capitale, incontrare il favore degli analisti finanziari, sostenere le quotazioni azionarie, e assicurare al top management incentivi variabili collegati ai target di redditività. In questo contesto però il rischio è quello di indebolire le banche che hanno una minore redditività data la loro attività tradizionale. Queste ultime, infatti, essendo maggiormente focalizzate sul mantenimento della clientela e sul sostegno del territorio, non possono garantire i dividendi costanti richiesti dai mercati.

Alcune banche retail, con lo scopo di mantenere stabili e alti i propri profitti e restare al passo delle banche concorrenti, hanno modificato il proprio modello di business ed esasperato l’utilizzo del modello Originate to distribute, finendo col mettere a repentaglio un modello di business reputato fino ad allora uno dei più sicuri.32

Direttamente collegato al capitale è il leverage. Anch’esso ha acquisito sempre maggiore importanza sia per la vigilanza che per la letteratura e successivamente il

leverage ratio è stato anche utilizzato per distinguere i modelli di business.

Gli studi in tema di leverage possono essere divisi in due filoni, il primo riguarda i benefici connessi ad un aumento della leva finanziaria, mentre il secondo riguarda la sua caratteristica prociclica.

Innanzitutto, i primi studi in tema di leverage hanno preso in considerazione

31 Miles D., Yang J., Marcheggiano G., Optimal bank capital, op. cit., pagg 26-33.

32Di Antonio M., Quali banche dopo la crisi? Dal “modello unico” alla pluralità di business e di regole,

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17 imprese non finanziarie e hanno rilevato l’esistenza del cosiddetto effetto leva, ovvero che all’aumentare dell’indebitamento aumenta anche il rendimento del capitale proprio. Questi risultati furono confermati successivamente da studi inerenti le istituzioni finanziarie che hanno dimostrato l’esistenza di una relazione positiva dal 1971 in poi.33 Inoltre, una parte della letteratura sostiene che un maggior livello di leverage porti ad una riduzione dei conflitti di interesse tra azionisti e manager, in quanto la minor pressione degli azionisti verrebbe controbilanciata dall’interesse dei creditori che investono nella banca sotto forma di prestiti obbligazionari.34

Il secondo filone di studi si interroga sull’andamento prociclico del leverage delle banche. Come noto, la teoria del ciclo economico prevede l’incessante susseguirsi di periodi di crescita e di recessione e l’obiettivo delle autorità monetarie e delle autorità vigilanza è quello di contenere le fasi di crescita eccessiva al fine di frenare l’impatto delle successive fasi di crisi.

In effetti, diversi studi hanno attribuito al leverage la natura prociclica. Tra questi, uno studio di Giordana e Schumacher evidenzia che la prociclicità del leverage deriva direttamente dalla gestione attiva del bilancio da parte delle banche che durante le fasi di crescita economica tendono ad ampliare le loro attività, sia sotto forma di concessione di prestiti che di investimenti in conto trading e banking book, ma che tendono anche a ridurre i loro investimenti durante i periodi di recessione (attuando il cosiddetto

deleveraging).35 Ed è proprio la gestione attiva del bilancio che porta ad amplificare i periodi di crescita e di recessione. È per tale motivo che altri studi hanno proposto la previsione di un requisito regolamentare che limiti il leverage.36 Come vedremo successivamente, il Comitato di Basilea ha accolto con favore tali proposte, inserendo nel nuovo quadro regolamentare il Leverage ratio.

Alcuni degli lavori appena citati hanno, inoltre, evidenziato delle importanti

33 Hutchison D., Raymond A., The causal relationship between bank capital and profitability, Oshawa,

2002, pagg. 44-45;

Hortlund R., The long-term relationship between capital and earnings in banking, Stockholm, 2005, pagg. 17-23.

34 Jensen M., Meckling W., Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs and Ownership

Structure, Journal of Financial Economics vol. 3, n. 4, Rochester, 1976, pagg. 40-53.

35 Giordana G., Schumacher I., What are the bank-specific and macroeconomic drivers of banks’ leverage?

Evidence from Luxembourg, Luxembourg, 2011, pagg. 14-19.

36 Baglioni A., Beccalli E., Boitani A., Monticini A., Is the leverage of european banks procyclical?, Milano,

2012, pagg. 9-11;

Adrian T., Shin H., Liquidity and leverage, Federal Reserve Staff reports n.328, New York, 2010, pagg. 17-29;

Demirguc-Kunt A., Detragiache E., Merrouche O., Bank capital: lessons from the financial crisis, op. cit., pag.16.

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18 differenze in termini di modelli di business sia negli Stati Uniti che in Europa. Lo studio di Adrian e Shin dimostra, infatti, che dal 2000 in poi le banche d’investimento statunitensi hanno gestito il loro livello di leverage in modo altamente prociclico, mentre le banche commerciali hanno mantenuto un leverage costante durante il periodo considerato, mostrando quindi una natura anticiclica.37 Infine, questi risultati sono confermati da uno studio del 2011 di Kalemli-Ozcan et al..38

Per quanto riguarda le banche del vecchio continente, lo studio di Baglioni et al. suddivide le banche europee in banche prevalentemente d’investimento e prevalentemente commerciali dato che tutte sembrano seguire in un modo o nell’altro lo schema della banche universale. I risultati confermano quanto evidenziato da Adrian e Shin visto che le banche d’investimento europee hanno leverage prociclico al contrario di quello anticiclico delle banche commerciali.39

Un ultimo aspetto interessante è rappresentato dal rapporto tra liquidità e leverage. A proposito, lo studio di Giordana e Schumacher dimostra che più è ampia la quota di liquidità delle banche e minore è la crescita del portafoglio titoli delle stesse. Una delle motivazioni dell’investimento in titoli è, infatti, quella di detenere delle attività prontamente liquidabili durante i tempi di incertezza. Pertanto, le banche che detengono quote più elevate di liquidità hanno un minor bisogno di titoli che fungano da “salvagente” nei periodi di necessità. In un periodo di crisi, le banche che hanno maggiori cuscinetti di liquidità non causeranno prociclicità dato che non dovranno attuare politiche di deleveraging.40

2.4 Le dimensioni e l’efficienza

Sono numerosi i contributi in letteratura in materia di dimensioni bancarie. I risultati sembrano essere evidenti: maggiori dimensioni portano ad un miglioramento delle condizioni economiche grazie al raggiungimento di economie di scala e di scopo. Una parte sempre più consistente della letteratura però non è d’accordo, dato che vi sono risultati che vanno nella direzione opposta e che non confermano il miglioramento dei

37 Adrian T., Shin H., Liquidity and leverage, Federal Reserve Staff reports n.328, New York, 2010, pagg.

6-10.

38 Kalemli-Ozcan S., Soresen B., Yesiltas S., Leverage across firms, banks and countries, National Bureau

of economic research working paper n. 17354, Cambridge, 2011, pag. 24.

39 Baglioni A., Beccalli E., Boitani A., Monticini A., Is the leverage of european banks procyclical?, op.

cit., pagg. 7-11.

40 Giordana G., Schumacher I., What are the bank-specific and macroeconomic drivers of banks’ leverage?

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19 risultati di gestione, anzi ne riscontrano maggiori rischi.

A diverse dimensioni bancarie corrispondono precisi modelli di business. C'è una chiara differenza tra le attività svolte dalle piccole e dalle grandi banche. Ad esempio, le banche più piccole tendono a impegnarsi di più nel business tradizionale e ad avere una minore proporzione di attività detenute per la negoziazione. Al contrario le banche di maggiori dimensioni investono maggiori quote dei loro attivi nell’attività di trading a discapito della concessione di finanziamenti.

In un lavoro sulle dimensioni bancarie, Schoenmaker suggerisce che le banche europee possono essere suddivise in tre gruppi. Un primo gruppo molto grande è composto da piccole banche operanti su base regionale. In particolare la Germania, l'Austria e l’Italia presentano numerose piccole banche di risparmio e cooperative, la maggior parte delle quali con un totale attivo inferiore a 1 miliardo di euro. Un secondo gruppo è costituito da banche di medie dimensioni con un totale di bilancio che va da 1 miliardo a 100 miliardi di euro. Queste banche spesso operano su scala nazionale. Un terzo gruppo è costituito dalle grandi banche con asset superiori a 100 miliardi di euro, queste ultime spesso svolgono una parte significativa della loro attività all'estero.41 Quest’ultimo gruppo rappresenta la maggior parte del sistema bancario europeo dato che, secondo i dati della Banca centrale europea, le grandi banche costituiscono circa i tre quarti del totale delle attività bancarie detenute in Europa e forniscono altresì la maggior parte dei prestiti (69% del totale dei prestiti delle banche nazionali).42

Un sistema finanziario composto in buona parte da grandi banche è anche un sistema che può provocare seri danni all’economia nei casi di fallimento. Per questo motivo, i governi sono incentivati a ridurre l’impatto sull’economia reale e tendono a elargire aiuti, sotto le più disparate forme di finanziamento, agli istituti di credito in crisi. Ciò può causare il cosiddetto moral hazard ovvero la consapevolezza da parte degli intermediari che in caso di errate politiche di gestione saranno sostenuti da un intervento pubblico. È indubbio che maggiori sono le dimensioni dell’istituti in crisi e maggiore sarà la probabilità di ricevere un sostentamento dai governi. Le banche hanno quindi l’incentivo a ottenere una dimensione sempre maggiore per essere reputate troppo grandi per fallire (Too big to fail).43 Inoltre, i mercati potrebbero essere condizionati dallo status

41Schoenmaker D., The European banking landscape after the crisis, Duisenberg school of finance, policy

paper n. 12, Amsterdam, 2011, pag. 5.

42High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector, Final report, op. cit., pag.

35.

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20 di Too big to fail attribuito ad alcune società. Quest’ultime, proprio in ragione della sicurezza di non poter fallire, potrebbero ricevere delle condizioni di favore in termini, ad esempio, di minor costo delle fonti di finanziamento ottenute dai mercati all’ingrosso.44

È importante comunque sottolineare che la probabilità di fallimento non è necessariamente correlata positivamente alla crescita dimensionale. Bisogna però tener presente che la crisi di una piccola banca non è di per sé un problema per il sistema economico, ma può diventare dannoso il fallimento di molte piccole istituzioni simili tra loro (Too many to fail). Esemplare è il caso delle cajas spagnole che sono state colpite dalla crisi finanziaria dopo il crollo del mercato immobiliare e il rapido deterioramento del portafoglio prestiti. Nonostante le piccole dimensioni, nel 2010 le cajas rappresentavano il 50% del sistema finanziario spagnolo e il loro squilibrio ha richiesto comunque un intervento pubblico.45

Tornando al problema del too big to fail, il rapporto Liikanen elenca, in una sezione dedicata alla dimensione bancaria, le maggiori banche europee ordinate in base al totale attivo detenuto alla fine del 2011. Nella tabella 1.2 vengono mostrate le prime 16 banche del campione oggetto di studio nel rapporto.

of finance vol. 45 n. 5, New York, 2012, pagg. 1587-1600.

44 Brewer E., Jagtiani J., How much did banks pay to become too-big-to-fail and to become systemically

important?, Federal reserve working paper n. 34, Philadelphia, 2009, pagg. 30-33;

Raddatz C., When the run dry: liquidity and the use of wholesale funds in the transmission of the U.S. subprime crisis,

op. cit., pagg. 19-23.

45High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector, Final report, op. cit., pag.

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21 Tabella 1.2 – Le maggiori banche europee in base al totale attivo1

Banca Nazione Totale attivo

Deutsche Bank Germania 2.164.103

HSBC Regno Unito 1.967.796

BNP Paribas Francia 1.965.283

Crédit Agricole Group Francia 1.879.536

Barclays Regno Unito 1.871.469

RBS Regno Unito 1.803.649

Santander Spagna 1.251.525

Société Générale Francia 1.181.372

Lloyds Banking Group Regno Unito 1.161.698

Groupe BPCE Francia 1.138.395

ING Olanda 961.165

Unicredit Italia 926.769

Rabobank Group Olanda 731.665

Nordea Svezia 716.204

Commerzbank Germania 661.763

Intesa San Paolo Italia 639.221

1 Valori espressi in milioni di euro.

Fonte: High-level Expert Group on reforming the structure of the EU banking sector, Final report, op. cit., pag. 39.

Dalla tabella è possibile notare che le prime dieci banche avevano assets superiori ad 1 trilione di euro, con la più grande banca (Deutsche Bank) con assets superiori a € 2 trilioni di euro. Le banche italiane invece sono al di sotto della soglia del trilione e si sono assestate a 926 miliardi per quanto riguarda Unicredit e 639 miliardi per Intesa San Paolo. Se valutiamo le dimensioni bancarie in rapporto al PIL nazionale, otto banche avevano un totale attivo superiore a 100% del PIL nazionale, con il maggior rapporto per Nordea (197%) e Danske Bank (194%). Infine, in relazione al PIL dell'intera Unione Europea, la Deutsche Bank aveva un totale attivo pari al 17% del PIL. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza di questi dati si può notare che il può grande gruppo bancario degli Stati Uniti, ovvero JP Morgan, ha un totale attivo pari al 15% del PIL degli Stati Uniti.

Questi dati sono importanti se si tiene conto dei risultati ottenuti da Demirguc-Kunt e Huizinga in due lavori del 2010 e del 2012, dove vengono distinte dimensione assoluta e dimensione sistemica misurata rispetto alla dimensione dell'economia del paese dove la banca ha sede istituzionale. Essi concludono che, mentre sono evidenti alcuni benefici se si guarda alla dimensione assoluta, per quanto riguarda la dimensione sistemica si nota che le banche dovrebbero mantenere delle dimensioni proporzionate alle economie dove operano. Infatti, le banche con grandi dimensioni assolute tendono ad

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22 avere risultati reddituali migliori e un minor rischio di fallimento calcolato tramite il

Z-score. Le banche con grandi dimensioni sistemiche invece, risultano essere meno

redditizie mentre non si notano effetti positivi sullo Z-score. Ciò significa che la crescita dimensionale può portare ad un miglioramento delle condizioni reddituali esclusivamente se la banca opera in un grande paese.46

Uno studio più recente di De Hann ha come scopo quello di esaminare le relazione tra dimensioni e volatilità degli utili del settore bancario statunitense nel periodo compreso tra il 1995 e il 2010. I risultati confermano quanto sostenuto da uno studio precedente di De Nicolò e dimostrano che le banche di maggiori dimensioni hanno una minore volatilità degli utili rispetto alle banche più piccole.47 Tuttavia, tale effetto non è lineare: la correlazione diventa infatti positiva se il totale attivo della banca supera la soglia di 5 miliardi di dollari. Inoltre, i risultati suggeriscono che tale soglia sia diminuita a 4,3 miliardi a causa della crisi. In estrema sintesi, banche troppo grandi contribuiscono negativamente alla stabilità finanziaria.48

L’aumento delle dimensioni bancarie porta anche ad una diminuzione della concorrenza all’interno dei mercati, soprattutto a seguito di processi di concentrazione. In particolare, in caso di fusione, l’aumento del potere di mercato può essere così elevato da portare a prezzi meno favorevoli per i clienti.49

Guardando al tema delle dimensioni bancarie dal punto di vista della vigilanza, il quesito che ci si pone è se il raggiungimento di maggiori dimensioni da parte degli intermediari è giustificata da un miglioramento delle prestazioni economiche tali da giustificare la presenza di istituti capaci di destabilizzare il settore finanziario in caso di crisi.

Diversi sono i lavori che hanno ad oggetto l’efficienza e che hanno come obiettivo quello di verificare l’esistenza di economie di scala e di scopo al variare delle dimensioni aziendali.

Per quanto riguarda le economie di scala, il fine è quello di raggiungere maggiori

46 Demirgüç-Kunt A., Huizinga H., Are banks too big to fail or too big to save? International evidence from

equity prices and CDS spreads, CEPR Working paper, Tilburg, 2010, pagg. 15-24;

Demirgüç-Kunt A., Huizinga H., Do we need big banks? Evidence on performance, strategy and market discipline, CEPR Working paper, Tilburg, 2012, pagg. 7-30.

47 De Nicoló G., Size, charter value and risk in banking: an international perspective, Federal Reserve

International Finance Discussion Paper n. 689, New York, 2000, pagg. 13-23.

48 De Hann J., Poghosyan T., Size and earnings volatility of US bank holding companies, in Journal of

banking and finance n. 36, Washington, 2012, pagg. 3012-3015.

49 Prager R., Hannan T., Do substantial horizontal mergers generate significant price effects? Evidence

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23 dimensioni per ripartire i costi fissi su un livello di produzione maggiore e diminuire quindi i costi unitari. Ad esempio, Wheelock e Wilson stimano che nel periodo 1984-2006, molte banche commerciali hanno beneficiato di rendimenti di scala crescenti.50 L’aumento delle dimensioni può anche migliorare la capacità delle banche di realizzare economie di scopo, infatti le grandi banche hanno più possibilità di accostare diverse linee di prodotti che sfruttano gli stessi fattori produttivi.

La maggior parte dei contributi riscontra l’esistenza di economie di scala all’aumentare delle dimensioni bancarie. Ciò che non è ancora chiaro è fin a quando questo concetto resti valido. Berger e Mester, in un lavoro del 1997, riscontrano che le economie di scala nel settore bancario si esauriscono dopo il raggiungimento di un determinato livello di totale attivo, intorno ai 10 miliardi di dollari, mentre uno studio più recente di Wheelock e Wilson rileva che le banche riescono ad ottenere rendimenti di scala crescenti fino alla soglia dei 500 milioni dollari di attivo.51

Al riguardo non vi è quindi alcun consenso sulla dimensione ottimale che le banche dovrebbero raggiungere. Inoltre, l'esistenza di economie di scala varia a seconda delle attività bancarie interessate.

Ad esempio, le economie di scala sono maggiori per il servizi di pagamento dato che questi richiedono alti costi fissi mentre sono minori per i servizi di consulenza finanziaria in quanto queste ultime richiedono una precisa valutazione delle intenzioni di investimento dei clienti e la determinazione del loro profilo di rischio. Infine, anche le piccole banche possono essere in grado di replicare alcune economie di scala, ad esempio, con la formazione di consorzi o sfruttando l’outsourcing per lo svolgimento di determinate attività.

2.5 Il rischio di dissesto

Uno dei motivi principali per l'esistenza di banche è che sono in grado di identificare, valutare e gestire i rischi meglio di altre istituzioni. I rischi che possono manifestarsi in capo all’intermediario sono diversi, dal rischio di credito al rischio di non conformità, ma è possibile sintetizzare il complesso dei rischi bancari nel rischio di dissesto. Quest’ultimo si riferisce alla probabilità che l’intermediario non riesca a tener

50 Wheelock C., Wilson P., Do large banks have lower costs? New estimates of returns to scale for U.S.

banks, Federal Reserve working paper n. 54, St. Louis, 2009, pagg. 12-21.

51 Berger A., Mester L., Inside the black box: What explains differences in the efficiencies of financial

institutions, in Journal of banking and finance n. 21, Philadelphia, 1997, pag. 43;

Wheelock D., Wilson P., New evidence on returns to scale and product mix among U.S. commercial banks, in Journal of Monetary Economics n. 47, St. Louis, 2001, pag. 18.

(24)

24 fede ai propri impegni e debba dichiarare bancarotta.

Più che per altre aziende, il fallimento di una banca può causare effetti devastanti per l’economia in rapporto alle dimensioni della banca stessa e delle interconnessioni che questa possiede con gli altri attori del sistema economico. Per tale motivo, è interesse collettivo che si evitino fallimenti bancari. Ciò ha portato ad interventi di natura regolamentare che hanno dato vita a soggetti preposti alla vigilanza sulle banche che hanno stabilito dei meccanismi di salvataggio in caso di dissesto e che hanno cercato di rendere più solidi gli intermediari dettando loro diverse metodologie di gestione dei rischi. Per quanto riguarda i meccanismi di salvataggio delle banche, questi possono creare nell’intermediario un incentivo ad aumentare le proprie dimensioni e le proprie interconnessioni al fine di risultare troppo grande per essere lasciato fallire e ricevere dei sussidi pubblici in caso di dissesto finanziario. Questo problema di azzardo morale può andare nella direzione opposta rispetto a quella voluta dai regolatori. In questo caso infatti, eliminando di fatto il rischio imprenditoriale, il soggetto economico e i suoi diretti sottoposti non hanno alcun incentivo alla gestione dei rischi, perché in caso di inadempienza si otterrebbe comunque un intervento pubblico.

Per quanto riguarda invece le metodologie di gestione dei rischi, la risposta normativa viene dalle raccomandazioni del Comitato di Basilea, che si è concentrata dapprima sui requisiti patrimoniali, tramite la normativa prudenziale di Basilea I nel 1988, poi sulla ponderazione dei requisiti con i rischi sottostanti in Basilea II entrata in vigore dieci anni dopo. Nonostante questi interventi, la recente crisi ha portato alla più grande materializzazione dei rischi bancari dopo la crisi del 1929. Ciò ha reso necessario un nuovo intervento del Comitato denominato Basilea III, che ha avuto come scopo quello di migliorare delle disposizioni già esistenti e dell’inserimento di nuove regole tenendo conto delle debolezze dei provvedimenti riscontrate durante la crisi. Il sistema delle disposizioni di vigilanza del Comitato, nonostante il suo spessore, non ha mai tenuto conto dei diversi modelli di business.

Rimanendo in tema di modelli di business, uno studio di Blundell-Wingnall e Roulet relaziona l’indice di distanza dal default (DTD ratio) con i modelli di business utilizzando un approccio econometrico in funzione del leverage, dimensione, strategie di raccolta e incentivi all’assunzione dei rischi. Tra questi, il leverage ratio sembra essere la caratteristica che più contribuisce al miglioramento del DTD ratio, mentre sorprendentemente il Tier 1 ratio non presenta evidenze significative che dimostrino un suo contributo positivo all’allontanamento dal fallimento. Anche la dimensione bancaria

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25 influisce sul DTD ratio ma solo se relazionata in rapporto alle dimensioni del proprio mercato. Le banche che dipendono maggiormente dai mercati all'ingrosso hanno una minore distanza da default. Infine, per quanto riguarda i sistemi di incentivi per i dipendenti, questi risultano essere correlati negativamente al DTD ratio, ovvero un aumento dei bonus promessi ai manager potrebbe portare ad un avvicinamento al

default.52

In un lavoro maggiormente incentrato sui rischi, Altunbas, Manganelli e Marques-Ibanez analizzano la correlazione tra rischi e modelli di business con l’obiettivo di capire quali siano i fattori che favoriscono la materializzazione del rischio durante i periodi crisi. Rimandando l’evoluzione dei rischi durante la crisi al paragrafo successivo, lo studio prende in considerazione le quattro dimensioni di bilancio, ovvero struttura del capitale, struttura patrimoniale, struttura del passivo e struttura reddituale. I risultati ottenuti dall’analisi di un dataset di oltre 1100 banche quotate in Europa e negli Stati Uniti sono sintetizzati di seguito:

- struttura del capitale: un livello più elevato di patrimonio, in particolar modo di Core Tier 1, diminuisce la probabilità di difficoltà durante le crisi e diminuisce la probabilità di sfiducia da parte dei mercati nei tempi di crisi; - struttura patrimoniale: all’aumentare delle dimensioni e della percentuale di

crediti sul totale attivo aumenta anche il rischio bancario;

- struttura del passivo: una maggiore quota di depositi stabilizza al raccolta e influisce positivamente sul rischio mentre il finanziamento tramite mercati all’ingrosso influisce negativamente sul rischio di liquidità;

- struttura del reddito: la crescita dei prestiti associata ad un rilassamento degli standard di credito e un deterioramento della qualità dal lato dell’attivo aumenta il rischio in capo alla banca.

Sembra quindi che un'espansione del credito, una minore dipendenza dai depositi della clientela, una maggiore dimensione e minori livelli di capitale Tier 1 siano i fattori che hanno contribuito più di altri a peggiori ripercussioni durante la crisi.

Inoltre, è stato rilevato che i gruppi bancari che hanno ottenuto migliori performance e maggiori incrementi del prezzo di mercato delle proprie azioni nel periodo 2001-2007 hanno subito un maggior contraccolpo dopo il fallimento della banca d’investimento

52 Blundell-Wignall A., Roulet C., Business models of banks, leverage, and distance-to-default, in OECD

(26)

26 americana Lehman Brothers.53

Ritornando in tema di modelli di business, bisogna rilevare che la manifestazione del rischio durante la crisi ha colpito ogni tipo di intermediario. Negli Stati Uniti, persino le banche commerciali hanno cambiato il loro profilo di rischio negli anni precedenti alla crisi. Durante il periodo 2000-2006 la loro esposizione al rischio è più che raddoppiata dato che hanno seguito l’espansione del mercato immobiliare e hanno provato ad incrementare le loro prestazioni attraverso la concessione di mutui residenziali.54 Anche per loro, i manager hanno puntato ad ottenere guadagni di breve periodo al fine di ottenere maggiori compensi senza tener conto dell’eccessiva assunzione dei rischi. Inoltre, oltre alla creazione di portafogli prestiti più rischiosi, le banche commerciali hanno ceduto sistematicamente parte dei finanziamenti aumentando ulteriormente i rischi assunti.55

Per limitare l’eccessiva assunzione dei rischi in tutte le tipologie di banca sarebbe utile rafforzare il potere e l’indipendenza delle funzioni di controllo del rischio. Infatti, in base ai risultati di uno studio di Ellul e Yerramilli, le banche che già prima della crisi avevano delle funzioni di controllo forti e indipendenti hanno assunto minori rischi e hanno ottenuto migliori risultati durante gli anni della crisi.56

3.

La crisi finanziaria e il possibile cambiamento dei modelli di

business

La crisi finanziaria iniziata nel 2008 ha messo a dura prova le maggiori economie mondiali. Il compito dei governi e degli istituti di vigilanza è far in modo che in futuro non si verifichino nuovamente le condizioni che hanno portato alla crisi. Le cause sono molteplici, ma essendo principalmente di natura bancaria, ci si interroga su come regolamentare il sistema bancario. Nel paragrafo precedente si è cercato di comprendere quali caratteristiche dei modelli di business possano aver contribuito maggiormente allo scoppio della crisi.

53 Altunbas Y., Manganelli S., Marques-Ibanez D., Bank risk during the financial crisis. Do business model

matter?, European central bank working paper n. 1394, Frankfurt, 2011, pagg 21-35.

54 Bhattacharyya S., Purnanandam A., Risk-taking by banks: what did we know and when did we know it?,

Ann Arbor, 2011, pagg. 29-30.

55 Cebenoyan A., Strahan P., Risk management, capital structure and lending at banks, Philadelphia, 2001,

pagg. 19-21.

56 Ellul A., Yerramilli V., Stronger risk controls, lower risk: evidence from U.S. bank holding companies.

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