• Non ci sono risultati.

Effettivita' dei diritti del lavoratore e tutele avverso il licenziamento ingiustificato. Evoluzione e prospettive alla luce delle recenti riforme che interessano il mercato del lavoro in Italia e in Spagna, con particolare attenzione alla disciplina d

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Effettivita' dei diritti del lavoratore e tutele avverso il licenziamento ingiustificato. Evoluzione e prospettive alla luce delle recenti riforme che interessano il mercato del lavoro in Italia e in Spagna, con particolare attenzione alla disciplina d"

Copied!
239
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza LM5

Effettività dei diritti del lavoratore

e tutele avverso il licenziamento ingiustificato.

Evoluzione e prospettive alla luce delle recenti riforme che interessano

il mercato del lavoro in Italia e in Spagna,

con particolare attenzione alla disciplina del licenziamento individuale

per giustificato motivo oggettivo.

Il Candidato

Il Relatore

(2)
(3)

Indice sommario

INTRODUZIONE 5

CAPITOLO 1 14

1.1. - La costruzione italiana del dogma della stabilità 14 1.1.1 - Parità formale dei contraenti versus obbligo di temporaneità dei

vincoli obbligatori 14

1.1.2 - La “transizione”: la tutela c.d. obbligatoria 18 1.1.3 - L'approdo alla tutela c.d. reale 26 1.2 - Estabilidad en el empleo: ricostruzione del percorso spagnolo 39 1.2.1 - L'esordio della regolazione: Codice del Commercio e Codice

Civile 39

1.2.2 - La transizione repubblicana: verso la causalità del

licenziamento 49

1.2.3 - Il punto d'arrivo: la tipizzazione delle cause di licenziamento 55

1.3 – Riflessioni conclusive 66

CAPITOLO 2 68

2.1 - Coordinate concettuali e politiche: flexicurity e sostegno

all'occupazione in Europa 68

2.1.1 - Un nuovo metodo, una nuova idea 68

2.1.2 - Flessibilizzare per occupare? 77

2.2 - Sviluppi legislativi in Italia: il nuovo regime del licenziamento 85 2.2.1 - Flexicurity at the margin, articolo 18 e Commissione Europea85

2.2.2 - La Riforma Fornero 90

2.2.2.1 - Il nuovo regime dei licenziamenti 91 2.2.2.2 - Difficoltà terminologiche e dubbi ermeneutici 94

2.2.3 - La Riforma Renzi 100

2.2.3.1. L’offerta di conciliazione 109

2.3 - Màs despidòs y màs baratos208:la decostruzione della stabilità in

Spagna 114

2.3.1 - Licenziamenti e precarietà 115

2.3.1.1 - Contrato de Fomento al Empleo (1984-1994) 116 2.3.1.2 - Contrato de fomento de la contratación indefinida e despido

exprès (1995-2007) 119

2.3.2 - L'impatto della crisi 128

(4)

2.3.2.2 - Riduzione del costo del lavoro: la Ley 35/2010 135 2.3.2.3 - Abaratar el despido para crear empleo: la Ley 3/2012 143

2.4 - Riflessioni conclusive 149

CAPITOLO 3 152

3.1 - Il principio della stabilità attraverso la dottrina e il diritto vivente

in Italia 152

3.1.1 – Stabilità del rapporto di lavoro e effettività dei diritti del

lavoratore 152

3.1.2 - Ipotesi ricostruttive: rafforzare la posizione del lavoratore nel

rapporto di lavoro 159

3.1.3 - Il nesso tra l'efficacia delle garanzie del rapporto di lavoro e la

piena fruizione della cittadinanza 167

3.1.4 - Una possibile risposta di sistema: la tutela derivante dagli

armotizzatori sociali 176

3.2 - Il principio della stabilità attraverso la dottrina e il diritto vivente

in Spagna 187

3.2.1 - Il principio della necessaria causalità del licenziamento 193 3.2.2 - Stabilità del rapporto di lavoro, effettività dei diritti del

lavoratore e del cittadino 199

3.2.2.1 - Il Trabajo Garantizado 200

3.2.2.2 - La renta basica 207

CONCLUSIONI 214

(5)

INTRODUZIONE

Il lavoratore che non si sente al riparo dalla minaccia di un licenziamento ritorsivo, difficilmente eserciterà i propri diritti in sede giudiziale.

Tale considerazione suona come l'asserzione di un dato di fatto, e in effetti appare un'ovvietà, ma si ritiene di non poter dire altrettanto riguardo risposta che si potrebbe dare al problema, data la complessità del dibattito più che decennale sulla questione, ancora ben lungi dall'essere chiuso.

Il problema si è sempre posto ad un complesso crocevia di istanze e considerazioni di natura giuridica, umana e politica, anche esorbitanti rispetto alla sola questione della tutela avverso il licenziamento ingiustificato, dal momento che involge da un lato, la tematica dell'effettività dei diritti dei lavoratori, e dall'altro quello dell'atteggiarsi complessivo delle relazioni tra lavoratore e datore di lavoro.

(6)

Il punto di partenza dell'evoluzione delle nozioni implicate in questa riflessione è da collocare, infatti, agli albori della legislazione lavoristica, quando la preoccupazione del legislatore italiano, così come di quello spagnolo, ben lungi da essere costituita dal problema che poteva essere rappresentato dal licenziamento, era quella di sottolineare quanto più possibile l'eterogeneità tra il lavoro subordinato e le relazioni servili, tanto era recente il retaggio sociale e culturale della servitù, pertanto era in primo luogo necessario impedire che un soggetto potesse impegnare la sua opera sine die.

Il modello produttivo industriale, allora in piena fase espansiva, si fondava infatti su relazioni di lavoro contrattuali, e pertanto stipulate tra soggetti formalmente pari e liberi, per il quale l'ordinamento prevedeva lo stesso trattamento e l'attribuzione delle stesse condizioni di partenza.

Da questa weltanschauung, fondata sul diritto civile dei contratti, massima espressione giuridica della riconosciuta uguaglianza dei soggetti di diritto, derivava come logica conseguenza che le norme di legge che regolavano i contratti fossero simmetriche, quindi che quello che si prevedeva per una parte fosse specularmente applicabile all'altra. Da qui, il divieto di stipulare rapporti contrattuali che implicassero vincoli a tempo indeterminato per entrambi i contraenti.

Quando le relazioni produttive e industriali del primo Novecento dimostrarono l'esigenza di costituire relazioni a tempo indeterminato,

(7)

queste furono inserite e accettate nell'ordinamento, ma si conservò l'impostazione simmetrica delle relazioni contrattuali.

Rapidamente il modello ha palesato l'incoerenza con il contesto sociale ed economico e la fallacia della premessa dalla quale derivava, vale a dire l'uguaglianza delle parti contraenti.

Tale premessa, se difficilmente riscontrabile in qualunque ambito del diritto civile (quale contratto non risente di una disparità di potere contrattuale tra le parti contraenti?) a maggior ragione è assolutamente inapplicabile a quella branca rappresentata dal diritto del lavoro, dal momento che uno dei due versanti del sinallagma involge una persona. Infatti, non solo, come si è giustamente osservato, sono eterogenei gli interessi in gioco (meramente economico per il datore di lavoro, strettamente personale per il lavoratore) ma, salvo rari casi, il recesso dal rapporto contrattuale produce effetti drammaticamente più gravi per il lavoratore, sia per la maggiore difficoltà che ha il lavoratore nel trovare un diverso impiego rispetto a quella del datore di lavoro a sostituire il dipendente licenziato, sia perché, soprattutto, per il lavoratore spesso la perdita del posto di lavoro coincide con la perdita della fonte di reddito principale per sé e, eventualmente, per il suo nucleo familiare. Il lavoratore licenziato viene privato di una sfera sociale e culturale decisiva per la sua crescita personale e per l'integrazione nella società e nei gruppi che la costituiscono; alcuni autori, per questo, qualificano l'estinzione unilaterale del rapporto

(8)

di lavoro come un atto di violenza, reso possibile dalla diseguale distribuzione del potere all'interno dell'impresa e del sistema produttivo capitalistico in generale.

Con questo non si vogliono obliterare la complessità e la difficoltà (anche umana) che il fenomeno del licenziamento comporta alla parte datoriale: di per sé, ogni licenziamento costituisce un fallimento e tendenzialmente si preferisce evitare di ricorrervi. Il centro intorno al quale si snoda questa riflessione è che qualunque prestatore di lavoro è libero di esercitare i propri diritti se sa di essere al riparo dalla minaccia di un licenziamento non eccessivamente oneroso per la controparte. Ci si riferisce tanto alla rivendicazione delle storiche libertà sindacali (tant'è che la prima tipologia di licenziamenti illegittimi ad essere oggetto di una tutela specifica è stata quella per ragioni sindacali), quanto alla pretesa degli adeguati standard di sicurezza sul posto di lavoro, così come a questioni più minute, quali possono essere la concessione di un permesso per ragioni familiari o per malattia.

Sia nel caso in cui il lavoratore sappia che il licenziamento può costituire una conseguenza ritorsiva dell'esercizio di un determinato diritto (si pensi ad esempio al diritto di sciopero) sia che possa derivare dall'esercizio di una pretesa in giudizio, in seguito alla lesione di un diritto del lavoratore stesso, si può affermare che il soggetto sotto la minaccia della perdita del posto di lavoro non si senta libero di

(9)

rivendicare l'attuazione di prerogative che gli spettano. Un sistema che consente anche solo l'astratto prospettarsi di una situazione siffatta è da ritenere fallace, a prescindere dall'incidenza con cui la situazione si verifichi effettivamente e dalla propensione dei datori di lavoro ad abusare della loro posizione dominante.

La soluzione data dall'ordinamento italiano, non dissimile da quella fino a poco tempo fa vigente in Spagna, era quella della stabilità del rapporto di lavoro. Questa nozione può riferirsi a tutti gli strumenti normativi che assolvano la funzione di favorire la conservazione del rapporto di lavoro nonostante l'occorrere di vicende che possano metterne a rischio la prosecuzione.

Nella presente ricerca si è scelto di concentrare la riflessione sull'evoluzione della regola della stabilità riferita alla disciplina dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ritenuta la fattispecie che più di ogni altra si pone in relazione con le esigenze dell'impresa e con le oscillazioni della congiuntura economica.

L'acquisizione della sensibilità giuridica necessaria per conseguire questo risultato è stata frutto di un processo graduale.

In Italia l'approdo è stato costituito dall'articolo 18, che ha introdotto nell'ordinamento il “terribile rimedio” della reintegrazione in risposta a un licenziamento comminato senza giusta causa o giustificato motivo; in Spagna gli articoli 52 e 56 dell'Estatuto che prevedono una sanzione

(10)

economica di entità tale da essere ritenuta un efficace deterrente nei confronti della parte datoriale.

Il sistema basato sulla stabilità era rispondente all'esigenza per cui era stato disegnato, ma si fondava su una distorsione concettuale: una norma di legge avente come oggetto il solo profilo sanzionatorio connesso a un licenziamento non giustificato è diventato la cerniera che consentiva al lavoratore di esigere l'attuazione delle prerogative che gli spettavano. Da questo momento si instaura un nesso tra effettività dei diritti e stabilità del rapporto di lavoro che assume un carattere di immanenza e diviene un dato consolidato nella cultura giuridica italiana e spagnola.

Questa relazione, senza dubbio esistente (anzi, esistita) in via di fatto, si fonda sulla premessa che durante lo svolgimento del rapporto di lavoro il prestatore di lavoro sia ontologicamente debole e non possa mai esigere il rispetto dei propri diritti nell'ambito della fisiologia del rapporto, ma che l'unico modo per conseguire questo risultato sia arrivare al momento conclusivo del rapporto, dove si concentrano le tutele che l'ordinamento pone in capo al lavoratore.

Evidentemente, si tratta di un meccanismo patologico dal momento che dovrebbe essere possibile per il lavoratore esigere e ottenere il pieno rispetto dei diritti che gli derivano dal rapporto contrattuale in ogni momento in cui questo si svolge, ed è palese la distorsione insita nella rilevanza che assume la norma sui licenziamenti quando ad

(11)

esempio, l'origine della lesione riguarda la concessione di un permesso o l'esercizio del diritto di sciopero.

Questo meccanismo, per quanto distorsivo, aveva funzionato fino a quando le profonde modifiche culturali e produttive verificatesi all'inizio del nuovo millennio e, soprattutto, la crisi economica, non hanno fatto sì che la “chiave di volta” del sistema non fosse rimossa dalla sua posizione, tanto in Italia quanto in Spagna, e questo, date le premesse di cui fino a questo punto, non poteva che sortire effetti devastanti sugli equilibri ormai consolidati e sul dibattito giuslavoristico.

A questo punto si è riscontrato quanto la regola della stabilità dell'impiego sia stata sovraccaricata rispetto alle relazioni lavoristiche e di quanto fosse difficile colmare il vuoto lasciato dalla rimozione dall'ordinamento della sanzione avverso i licenziamenti ingiustificati. Per tornare all'oggetto centrale della presente indagine, l'assetto regolativo oggi vigente lascia uno spiraglio alla possibilità che il soggetto perda il proprio posto di lavoro in seguito all'esercizio della pretesa dei propri diritti.

Che fare?

Le proposte che si sono avvicendate differiscono sul versante applicativo e degli strumenti da utilizzare, ma sono tutte improntate alla ratio di rafforzare la posizione del lavoratore: nel rapporto di lavoro, attraverso il ricorso ai rimedi civilistici o alla contrattazione

(12)

collettiva oppure all'esterno della relazione lavorativa. Quest'ultima opzione fa riferimento a tesi e orientamenti risalenti e non specificamente ispirati alla tematica del licenziamento, che prevedono un rafforzamento del lavoratore in quanto soggetto sociale e umano, in modo che sia parzialmente emancipato dalla dipendenza dal posto di lavoro.

Ancora, evitando di scindere il nesso tra svolgimento dell'attività lavorativa e reddito che, a parere di chi scrive, non dovrebbe essere scisso, si potrebbe rafforzare il lavoratore in un'ottica di sistema (intendendo per sistema quello del diritto del lavoro), rendendo le prestazioni della sicurezza sociale tali da garantire al soggetto il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa.

Il fenomeno oggetto di studio verrà osservato effettuando una comparazione tra Italia e Spagna: due nazioni simili per l'origine e l'evoluzione della regola della stabilità del rapporto di lavoro, per la situazione di difficoltà provocata dalla crisi economica e per l'orientamento dei moniti ricevuti dalle istituzioni europee.

Nel primo capitolo si costruisce, per i due ordinamenti, l'origine e il consolidamento della regola della stabilità dell'impiego; nel secondo si delineano sinteticamente le principali coordinate politiche ed economiche entro cui si orienta la questione a livello europeo e si descrive come la crisi abbia agito e trasformato il modello italiano e

(13)

quello spagnolo di tutela dal licenziamento ingiustificato per motivo economico, arrivando alla decostruzione -dal punto di vista legislativo-della regola legislativo-della stabilità del rapporto di lavoro.

Infine ci si interroga su come sia stata alterata l'effettività dei diritti del lavoratore e su come la si possa ripristinare, per garantire al lavoratore la dignità che gli spetta in ogni momento del rapporto di lavoro.

(14)

CAPITOLO 1

Osservazioni ricostruttive sulle origini della

regola della stabilità

1.1. - La costruzione italiana del dogma della

stabilità

1.1.1 - Parità formale dei contraenti versus obbligo di

temporaneità dei vincoli obbligatori

La regola della stabilità del rapporto di lavoro1, che oggi ha una

connotazione “unilaterale”, nel senso che assolve una funzione protettiva nei confronti di una sola delle parti del contratto (il lavoratore assunto a tempo indeterminato) contro l'esercizio indiscriminato del potere di licenziamento del datore di lavoro2,

affonda le radici nel diritto dei contratti del XIX secolo, quando invece 1 Coerentemente con l'impostazione della presente ricerca, l'angolo visuale del discorso è limitato alla disciplina sui licenziamenti individuali per motivo “oggettivo”.

(15)

si atteggiava come regola simmetrica, prescrivendo che il contratto non venisse risolto se non “per mutuo consenso” e configurando, quindi, il divieto di recesso ad nutum per entrambe le parti contrattuali3.

Tale regola in un contratto di durata come quello di lavoro scontava l'incompatibilità con il diverso principio, posto a tutela della libertà delle parti, della temporaneità del vincolo obbligatorio, sancito dall'art. 1628 del codice civile del 1865, a norma del quale “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo o per una determinata impresa”4.

Nonostante il suddetto divieto, le esigenze dell'economia industriale in espansione del primo Novecento fecero sì che si diffondesse la pratica delle assunzioni a tempo indeterminato5; stante la mancanza di

previsioni sul recesso da contratti a tempo indeterminato (essendo questi ultimi vietati), non vi sarebbe stato modo di risolvere il rapporto giuridico così instaurato.

L' escamotage interpretativo fu rinvenuto da autorevole dottrina6 che,

avvalendosi dell'interpretazione estensiva dell'art. 1609 c.c. (disdetta volontaria della locazione senza determinazione di tempo), nel quale 2 L. MENGONI, La stabilità dell'impiego nel diritto italiano, in La stabilità

dell'impiego nel diritto dei Paesi membri della C.E.C.A., a cura di G. BOLDT,

P. DURAND, P. HORION, A. KAYSER, L. MENGONI, A. N. MOLENAAR, Lussemburgo, 1958, p. 233

3 L. MENGONI, La stabilità dell'impiego nel diritto italiano, cit., p. 235

4 M. PERSIANI, La tutela dell'interesse del lavoratore alla conservazione del

posto, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto da Riva Sanseverino, II,

Padova, 1971, p. 593 s.

5 G. F. MANCINI, Il recesso unilaterale nel contratto di lavoro. Evoluzione della

natura giuridica in AA. VV. , Giusta causa e giustificati motivi nei licenziamenti individuali, Milano, Giuffrè, 1967, I

6 F. CARNELUTTI, Del licenziamento nella locazione di opere a tempo

(16)

ha riconosciuto l'applicazione di un principio di libertà analogo a quello sancito dall'art. 1628, ha ritenuto possibile applicare alla locazione di opere sine die lo stesso regime di recedibilità libera (accompagnata da preavviso) previsto per le locazioni di case.

Benché motivata da un'istanza di tutela del prestatore di lavoro7, la

norma, così costruita, impostava un regime di recedibilità ad nutum che si atteggiava allo stesso modo per entrambe le parti, in ossequio ai principi della libertà contrattuale.

Inquadrando la questione nel contesto delle relazioni di lavoro dell'Italia del primo Novecento, è immediatamente evidente come lo schema della parità delle parti fosse inadeguato e meramente formale, stante lo squilibrio di potere economico e contrattuale, e la diversità delle situazioni soggettive che le parti impegnavano nel rapporto di lavoro: da una parte, il patrimonio, dall'altra la persona stessa del contraente8.

Proprio dalla critica al principio dell'uguaglianza formale delle parti del contratto, ha iniziato a svilupparsi la costruzione della regola della “stabilità dell'impiego”, in stretta connessione con l'idea che l'interesse del datore a fruire di una piena libertà di gestione della manodopera dovesse retrocedere dinanzi all'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, ritenuto, già dalla dottrina risalente,

7 L. MENGONI, cit., p. 230

8 F. CARNELUTTI, Del recesso unilaterale nel mandato di commercio, in Scritti

in onore di Brugi, Palermo 1910, ripubblicato in Studi di diritto commerciale,

(17)

preminente in quanto connesso alla dipendenza economica della vita del lavoratore e della sua famiglia dalla retribuzione9.

Il principio della libera recedibilità ha trovato la sua prima collocazione nel diritto positivo con la legge sull'impiego privato (R.D. 13 novembre 1924, n.1825) che sanciva la normale durata sine die del contratto di lavoro; esso poteva essere risolto da entrambe le parti, purché preceduto dal preavviso e accompagnato dall'indennità10.

L'istituto nel ventennio successivo si è notevolmente rafforzato11, ed è

poi confluito nel codice civile del 1942 (art. 2118, recesso ordinario, e 2119 recesso intimato per giusta causa), resistendo per decenni anche all'ingresso nel nostro ordinamento della Costituzione repubblicana che, sì, ha aperto un importante dibattito sulla questione della libertà di licenziamento12, ma tale dibattito non ha consentito un effettivo

superamento del sistema delineato dall'art. 2118, per via della sostanziale diffidenza da parte della dottrina maggioritaria sulla possibilità di dare applicazione diretta a norme di carattere programmatico13 e della ritenuta incompatibilità tra i principi

9 F. SANTORO PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1955, p.13 10 M. GRANDI, Licenziamento e reintegrazione, riflessioni storico-critiche, in

Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2003, I, p. 7

11 G. F. MANCINI, Il progetto di legge sulla “giusta causa” e la disciplina del

licenziamento nel diritto comparato, in Riv. Giur. Lav., 1966, I

12 Per una ricostruzione completa del dibattito immediatamente successivo all'emanazione della Carta Costituzionale si rinvia a G. F. MANCINI,

Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 30 s.

13 Per una ricognizione e una critica delle tesi qui sommariamente ricordate, si veda M. V. GENTILI BALLESTRERO, I licenziamenti, Franco Angeli Editore, Milano, 1975, p. 45

(18)

costituzionali e la disciplina civilistica imperniata su una visione dell'impresa gerarchica e autoritaria14.

Anche la temperie culturale del tempo era inadatta, intrisa dei principi della libertà contrattuale: ancora si affermava che l'art. 2118 c.c. fosse una norma, indispensabile in ogni ordinamento moderno, volta a salvaguardare “libertà dei singoli e circolabilità dei beni”15.

1.1.2 - La “transizione”: la tutela c.d. obbligatoria

Il sostanziale immobilismo della legislazione post costituzionale ha visto una sola interruzione, costituita dai decreti 14 luglio 1960, n.1011 e 14 luglio 1960, n. 1019, con cui venne estesa erga omnes l'efficacia degli accordi interconfederali 18 ottobre e 21 aprile 1950, rispettivamente concernenti i licenziamenti individuali e i licenziamenti collettivi. Per quanto si tratti di esperienze significative, la loro brevità e lo strumento tecnico impiegato, cioè il rinvio recettizio agli accordi interconfederali, impediscono di qualificarli come intervento dello Stato sulla disciplina dei licenziamenti. Ad ogni modo, nel 1966 è intervenuta la Corte Costituzionale, con due sentenze, una

14 I licenziamenti nell'interesse dell'impresa, Atti delle giornate di studio di Firenze, 27-28 aprile 1968, organizzate dall'Aidlass, Milano, 1969

(19)

del 26 maggio e l'altra dell' 8 febbraio, con cui ha dichiarato incostituzionali i due decreti per i motivi16.

Sul piano della contrattazione collettiva, invece, l'istituto del recesso subiva una notevole evoluzione, i cui snodi fondamentali sono stati gli accordi interconfederali del 1947, 1950 e 1956, che hanno posto limiti sostanziali all'esercizio del potere di licenziare e hanno operato la necessaria distinzione concettuale tra licenziamento e dimissioni, superando l'artificiosa costruzione in termini di parità formale e reciprocità17.

Stante la disciplina civilistica sul recesso dal rapporto di lavoro, gli accordi erano finalizzati a introdurre una serie di limitazioni al licenziamento libero, lasciando invece sostanzialmente inalterata la disciplina prevista dall'articolo 2119, in quanto licenziamento motivato. Il recesso per giusta causa era infatti legittimato da motivi che lo giustificavano e ritenuti, pertanto, compatibili con il necessario contemperamento dell'interesse dei lavoratori alla conservazione del posto di lavoro e delle aziende al buon andamento dell'attività produttiva18.

16 Corte Cost., 26 maggio 1966, n. 50, in Mass. Giur. Lav., 1966, p. 125, con nota di SERMONTI; Corte Cost., 8 febbraio 1966, n. 8, in Mass. Giur. Lav., 1966, p. 385. Tra i diversi commenti: GRANDI, Osservazioni sulla legittimità

costituzionale del D. P. R. 14 luglio 1960, n. 1011, in tema di licenziamenti individuali, in Riv. Dir. Lav., 1966, II, p. 31 s.; PERA, Le sentenze della Corte Costituzionale sulla ricezione in legge degli accordi interconfederali per i licenziamenti, in Foro It., 1967, I, c. 15 s.; MAZZIOTTI DI CELSO, Illegittimità costituzionale di norme sui licenziamenti individuali, in Dir. Lav.

1966, II, p. 186

17 M. V. GENTILI BALLESTRERO, I licenziamenti, cit., p. 26 18 M. PERSIANI, Tutela dell'interesse, cit., p. 629

(20)

Delineato l'ambito di interesse di tali accordi, merita una considerazione separata l'accordo 7 agosto del 1947, che prevedeva l'obbligo del datore di comunicare alla commissione interna il proposito di licenziare un lavoratore “per motivi disciplinari, per scarso rendimento, o per altri motivi”. In caso di mancato accordo della commissione interna sull'opportunità del provvedimento, l'esame della controversia sarebbe stato definito da un collegio arbitrale, che, nel caso fosse stata raggiunta la prova della mancanza di giustificazione del licenziamento, aveva il potere di ordinare la continuazione del rapporto di lavoro. Nel caso in cui il licenziamento fosse risultato non sufficientemente motivato, o il motivo non pienamente provato, il collegio l'avrebbe autorizzato, ma prevedendo la corresponsione di uno speciale indennizzo per il lavoratore.

L'accordo del 1947, oltre a prevedere una forma di controllo preventiva realizzata dalla commissione interna e dal collegio, realizzava una tutela del posto di lavoro avente carattere “reale”, stante il potere attribuito al collegio di impedire che si realizzasse un licenziamento “assolutamente ingiustificato”19.

Tali elementi di indubbio rilievo, vennero cancellati dal successivo accordo del 1950, l'unico di cui, peraltro, è stato possibile osservare gli effetti sul piano applicativo, essendo stato in vigore un periodo sufficientemente lungo (dal 1950 al 1965) che ha eliminato l'intervento

(21)

preventivo della commissione e del collegio e ha attribuito l'iniziativa del procedimento avverso il licenziamento al lavoratore già licenziato. Il collegio, esperito senza successo il tentativo di conciliazione, pronunciava la decisione secondo equità: se avesse riconosciuto ingiustificato il licenziamento, avrebbe invitato il datore di lavoro a riassumere il lavoratore o, in alternativa, a corrispondere al lavoratore una penale in aggiunta al c.d. Trattamento di licenziamento (risultante dalla somma di anzianità e “preavviso”).

Come si vede, la pronuncia del collegio riguardo la riassunzione non è più coercitivo, ma è resa in forma di invito a ripristinare il rapporto, che può essere declinato da parte dell'imprenditore dietro il pagamento di una penale di modesta entità.

Infine, l'accordo 29 aprile 1965, rimasto in vigore per circa un anno, aveva introdotto modificazioni di rilievo, tra le quali la previsione esplicita dell'obbligo, per l'imprenditore, di procedere al licenziamento solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, ma sul piano sanzionatorio rimaneva in vita lo schema alternativo tra ripristino del rapporto e pagamento della penale20.

L'attenzione della dottrina si è immediatamente concentrata sul carattere del limite introdotto dagli accordi, e nel dibattito si fronteggiarono posizioni assai divergenti.

(22)

Gli autori di una corrente, definita “minimizzatrice”, hanno affermato che l'unico effetto del testo21, in mancanza di una limitazione reale del

potere del lavoratore di licenziare liberamente, è stato quello di aver reso più oneroso il licenziamento per il datore di lavoro22;

Altri hanno accolto questi accordi come l'inizio di un processo di superamento della recedibilità ad nutum, nella misura in cui avrebbero disegnato un sistema di stabilità obbligatoria, stante la previsione dell'obbligo del datore di non recedere se non per un motivo giustificato; da questa premessa derivava la lettura del pagamento della penale come risarcimento del danno causato dalla violazione del suddetto obbligo23. L'obbligo per il datore che opta per la riassunzione

di corrispondere al lavoratore ingiustamente licenziato “l'anzianità maturata precedentemente”, invece, ha fatto ipotizzare che si fosse costruito un sistema di stabilità reale24; altra dottrina, più

realisticamente, riferendosi all'accordo del 1950 (che poi verrà ripreso nei contenuti essenziali dall'accordo del 1965), ha affermato che, stante la possibilità per il datore di lavoro di scegliere tra pagamento della penale e reintegra, esso configurava un sistema di stabilità 21 Ci si riferisce all'accordo del 1950, dal momento che essendo quello rimasto in

vigore più a lungo è stato il più commentato dei tre.

22 A. ARANGUREN, La disciplina limitativa dei licenziamenti nell'industria, in

Dir. Econ., 1959, p. 435; C. LEGA, In tema di limitazioni del licenziamento ad nutum dell'imprenditore in base a recenti accordi intersindacali, in Dir. Lav.

1951, I, p. 360

23 G. GIUGNI, La disciplina interconfederale dei licenziamenti nell'industria, Milano, 1954, p. 24 s.; G. F. MANCINI, Il recesso unilaterale, cit., p. 388 s.; M. PERSIANI, La tutela dell'interesse del lavoratore alla conservazione del posto, cit., p. 630

24 U. NATOLI, Sui limiti legali e convenzionali della facoltà di recesso ad nutum

(23)

obbligatoria, “che non è vera stabilità”25: soltanto un sistema di

stabilità reale, da realizzare attraverso l'espressa previsione dell'invalidità dell'atto effettuato senza l'osservanza dei presupposti legali, avrebbe fornito al lavoratore adeguata tutela, impedendo che perdesse le retribuzioni che gli spettavano26.

Come si vede, fin dai primissimi tentativi di superare il regime di recedibilità libera, il problema da cui muovono le riflessioni dei giuslavoristi (ben consapevoli del contesto economico e sociale in cui la tematica si collocava) era quello di arginare attraverso un sistema di tutele esterno al contratto la inevitabile debolezza contrattuale del lavoratore, che, se lasciato “solo” nel rapporto di lavoro, avrebbe subito una inevitabile compressione dei suoi diritti27.

Sul versante applicativo, i risultati di questi accordi risultarono modesti: le pronunce arbitrali sono state scarse e il tasso di licenziamenti effettivamente ritirati si attesta tra il 3% e il 4%28.

La stagione degli accordi interconfederali si chiuse nel 1966, con il primo intervento legislativo sulla materia, la legge n. 604, nella quale la dottrina del tempo vide una sostanziale continuità di contenuti con la

25 L. MENGONI, La stabilità dell'impiego nel diritto italiano, cit., p. 273

26 U. NATOLI, L'art. 2118 Cod. Civ. e il problema della giusta causa di

licenziamento, in Riv. Giur. Lav., 1966, I, p.108; G. F. MANCINI, Il progetto di legge sulla giusta causa e la disciplina del licenziamento nel diritto comparato,

in Riv. Giur. Lav., 1966, I, p.119 s.

27 P. ALBI, La dismissione dei diritti del lavoratore, Giuffrè, Milano, 2016, p. 196 28 La disciplina dei licenziamenti nell’industria italiana (1950-1964), a cura del

Gruppo di lavoro sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro delle Università di Bari e Bologna

(24)

disciplina dell'accordo del 1965. L'articolo 8 della legge, espressione del timore di infrangere una sfera di libertà ritenuta intangibile29, aveva

mantenuto l'alternativa tra riassunzione e pagamento della penale. Su quest'ultimo elemento si era aperto un ampio dibattito30 alla fine del

quale prevalse la configurazione della penale come “surrogato patrimoniale di un bene giuridico il cui titolare non è più da considerarsi restituendus”31, che consentiva di garantire al lavoratore il

diritto alla prestazione patrimoniale in tutti i casi di mancata riassunzione, a prescindere dall'imputabilità soggettiva di tale decisione. Si segnala in proposito una giurisprudenza che, argomentando dal diritto del lavoratore al risarcimento del danno per la mancata prestazione durante il periodo intercorso tra il licenziamento e l'accertamento della sua illegittimità, ha costruito la continuità giuridica del rapporto fino alla data della riassunzione o mancata riassunzione32; la spinta di tale giurisprudenza si propagò alla dottrina

coetanea che, assistendo alle decisioni che accordavano al lavoratore licenziato tutti i diritti derivanti da un rapporto mai interrotto, iniziò a 29 M. D'ANTONA, La reintegrazione nel posto di lavoro, Art. 18 dello Statuto dei

lavoratori, CEDAM, Padova, 1979, p. 28

30 Tesi della natura alternativa dell'obbligazione: D. NAPOLETANO, Il

licenziamento dei lavoratori, 1966, Utet, Torino p. 76; G. ZANGARI, Giusta causa e giustificato motivo nella nuova disciplina del licenziamento individuale,

in Riv. Dir. Lav., 1967, I, p. 72. Tesi della natura facoltativa: G. FINOCCHIARO, La legge sui licenziamenti individuali: l'obbligo di

riassunzione o il pagamento dell'indennità, in Gius. Civ., 1968, IV, p. 105 s.

31 G. GHEZZI, Sul rapporto tra “riassunzione” e prestazione patrimoniale, in

Pol. del Dir., 1971, p. 264 s.

32 Corte Appello Milano, 11 luglio 1967, in Orient. Giur. Lav., 1968, p. 156; Pret. Roma, 20 giugno 1969, in Riv. Giur. lav, 1969, II, p. 536; Pret. Roma 18 marzo 1969, ivi, p. 287; Pret. Genova, 19 novembre 1968, ivi, p. 302; Pret. Pavia 4 ottobre 1968, ivi, p. 521;

(25)

interrogarsi sulla necessarietà della lettura dell'art. 8 della legge 604 in chiave di tutela “meramente obbligatoria”33.

La legge 604 rappresenta la prima conclusione normativa del processo di superamento della libera recedibilità, sebbene non si sia tradotta in una trasformazione qualitativa del sistema di tutela avverso il licenziamento ingiustificato. Un risultato di indubbio valore di questa legge è comunque costituito dall'aver spostato il confronto di interessi intrinseco alla vicenda del licenziamento dal piano individuale (relativo, cioè, al singolo lavoratore) e quello collettivo (che riguardava tutti lavoratori impiegati nell'impresa), consentito dall'aggancio concettuale tra il potere di licenziare e l'interesse dell'impresa34,

coerentemente con una lettura del secondo comma dell' articolo 41 della Costituzione come limite interno all'esercizio del potere di impresa35.

33 A. VAIS, Iter formativo e interpretazione della legge sui licenziamenti

individuali, in Riv. Giur. Lav., 1966, I, p. 285 s.; G. JUCCI, La garanzia del posto di lavoro e la nuova legge sui licenziamenti individuali, in Dir. Lav. 1967,

p. 10; P. R. MENICHETTI, Effetti dell’accertamento dell’illegittimità del

licenziamento, in Riv. it. dir. lav. 1970, I, p. 210; V. DI NUBILA, Ancora sulla risarcibilità dei danni conseguenti a un licenziamento ingiustificato, in Riv. giur. lav., 1968, II, p.726

34 M. V. GENTILI BALLESTRERO, I licenziamenti, cit., p. 75; G. PERA,

Relazione, in I licenziamenti nell'interesse dell'impresa, cit., p. 18

35 U. NATOLI, Limiti costituzionali della autonomia privata del rapporto di

lavoro, I, Introduzione, Milano, 1955, p. 93; U. BELVISO, Il concetto di “iniziativa economica privata” nella Costituzione, in Riv. Dir. Civ., 1961, I, p.

153; L. MICCO, Lavoro e utilità sociale nella Costituzione, Giappichelli, Torino, 1966; M. BARCELLONA, Programmazione e soggetto privato, in

Aspetti privatistici della programmazione economica, Milano, 1969, I, p.104 s.

Contra: A. MINERVINI, Contro la funzionalizzazione dell'impresa privata, in

Riv. Dir. Civ., 1958, I, p. 618; G. PERA, Assunzioni obbligatorie e contratto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1965, p. 133 s.

(26)

1.1.3 - L'approdo alla tutela c.d. reale

A distanza di pochi anni dall'emanazione della legge 604/1966, si ripropose la questione di una protezione più efficace contro i licenziamenti ingiustificati. Il punto di partenza della discussione era costituito dalla disposizione della legge 604 che qualificava come nulli i licenziamenti intimati per motivi di discriminazione ideologica36; il

vulnus della norma consisteva nell'aver introdotto un limite reale al

potere di licenziamento, senza aver predisposto alcun mezzo diretto a farlo valere37. Era viva la consapevolezza che la tutela contro i

licenziamenti arbitrari non potesse essere interamente affidata alla sanzione della invalidità (negoziale) del recesso38 e che qualunque

meccanismo repressivo per essere efficace dovesse anche essere tempestivo39.

Il punto di partenza per realizzare la nuova tutela dell'attività sindacale dell'impresa era un rimedio non insufficiente perché obbligatorio, bensì reale e dimostratosi insufficiente alla prova applicativa.

L'idea della reintegrazione -sempre limitata ai licenziamenti discriminatori- iniziò a definirsi nel disegno di legge governativo n. 738, articolandosi su tre cardini: provvisoria esecutività della sentenza; 36 Legge 15 luglio 1966 n. 604, Norme sui licenziamenti individuali (pubblicata nella G.U. n. 195 del 6 agosto 1966). Art. 4: Il licenziamento determinato da

ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata

37 G. F. MANCINI, Il progetto di legge sulla giusta causa, cit., p. 24 38 M. D'ANTONA, La reintegrazione nel posto di lavoro, cit., p. 21

39 L. GIUGNI, Iniziativa legislativa ed esperienza sindacale in tema di

(27)

obbligo retributivo permanente fino alla reintegratone; astreinte per ogni giorno di ritardo per una somma pari alla retribuzione dovuta40.

La X Commissione del Senato, poi, decise di estendere tale regime anche ai licenziamenti inefficaci per vizi di forma e invalidi per vizi di motivazione. Tale decisione venne argomentata affermando che ogni monetizzazione del licenziamento avrebbe di fatto consentito al datore di lavoro di licenziare senza giusto motivo, ritenendo che qualunque pena pecuniaria non avrebbe sortito efficacia dissuasiva sufficiente se imposta ad un'impresa di media forza: “soltanto mantenendo il provvedimento che stabilisce sempre la reintegrazione del lavoratore […] si attua una effettiva tutela del posto di lavoro”41.

L'esito di queste discussioni è stato l'emanazione dello Statuto dei lavoratori, che con l'articolo 18 innova profondamente la disciplina sanzionatoria per i licenziamenti ingiustificati.

Con la sentenza che dichiara inefficace, annulla, ovvero accerta la nullità del licenziamento, il giudice ordina la reintegrazione nel posto di lavoro, liquida il danno subito per il licenziamento (in misura comunque non inferiore a cinque mensilità), riconosce inoltre al lavoratore, dal giorno della sentenza e fino alla effettiva reintegrazione, il diritto al pagamento delle retribuzioni dovute in forza del rapporto di lavoro.

40 SENATO DELLA REPUBBLICA, Lo Statuto dei lavoratori. Progetti di legge e

discussioni parlamentari, Roma, 1974

41 Replica conclusiva del Sen. Bermani nella seduta del 9 dicembre 1969, in SENATO DELLA REPUBBLICA, cit., p. 596-598

(28)

Di immediato interesse il rilievo per cui il legislatore definisce “retribuzioni” i compensi spettanti al lavoratore per il periodo successivo alla sentenza e “risarcimento” la corresponsione dovuta per il periodo anteriore, donde la costruzione per cui fino alla pronuncia giudiziale che applica i meccanismi di tutela reale, il licenziamento debba ritenersi invalido e tuttavia efficace (e, quindi, in grado di risolvere il rapporto)42.

Questa tesi, così come quella che afferma che il rapporto di lavoro non sopravvive al licenziamento e che deve essere ricostituito dal giudice, perché se il licenziamento in quanto nullo non producesse effetti, allora non vi sarebbe alcun danno di cui il lavoratore potesse risentire, confonde il piano dell'efficacia del negozio del recesso con quello degli effetti che il licenziamento spiega nella sfera soggettiva del lavoratore. Da un punto di vista teorico, optare per l'una o l'altra ricostruzione implica accettare oppure no che il licenziamento in quanto fattispecie di diritto sostanziale abbia tra i suoi elementi costitutivi presupposti di validità stabiliti dalla legge43.

Un diverso (e diversificato) settore della dottrina ha concentrato proprio sull'inidoneità del licenziamento privo di giustificazione a estinguere il rapporto la portata innovatrice dell'art 18.

42 A. ARANGUREN, in Università di Firenze, I licenziamenti individuali e la

reintegrazione nel posto di lavoro, Firenze, 1972; F. P. ROSSI, La reintegrazione nel posto di lavoro, in Notiz. Giur. Lav. 1970, 665; P. FANFANI, Il risarcimento del danno per i licenziamenti invalidi, in Dir. Lav. 1971, 363-386

(29)

Argomento comune alle diverse teorie che propongono questa impostazione è che “il prima” e “il dopo” della sentenza costituirebbero un continuum in quanto unificati dalla mancata collaborazione del datore di lavoro nel “consentire” al lavoratore di svolgere la prestazione, e dalla conseguente costruzione teorica di tale condotta in termini di mora credendi44. Nonostante l'indubbio

vantaggio di consentire una ricostruzione unitaria della vicenda sotto un consolidato schema di riferimento, le criticità riscontrate nell'analisi di questa teoria sono state molteplici45: il più assorbente, a parere di chi

scrive, quello secondo il quale non si può configurare una mora creditoria perché il recesso non può essere identificato con il rifiuto materiale di ricevere una prestazione dovuta, bensì è un negozio giuridico estintivo del rapporto di cui si deve in primo luogo verificare la validità46.

Dagli stessi autori che hanno individuato le principali criticità della teoria della mora creditoria, non provengono proposte ricostruttive

44 Tra i numerosi contributi che, pur impostando la materia in termini differenziati, hanno proposto una ricostruzione dogmatica ascrivibile all'istituto della mora

credendi: G. GHEZZI, I licenziamenti dalla penale alla reintegra, in Pol. Dir.,

1971, p. 305 s.; A. FREGNI e G. GIUGNI, Lo statuto dei lavoratori, Milano, 1971, p. 70 s.; G. F. MANCINI, Commento, sub. Art. 18, p. 296 s.; P. G. ALLEVA, L’evoluzione della disciplina dei licenziamenti individuali dalla

legge 15 luglio 1966, n. 604 allo statuto dei lavoratori, in Riv. Giur. Lav., 1971,

p. 68; L. MENGONI, In tema di “mora credendi” nel rapporto di lavoro, in

Temi, 1954, p. 570-581; E. GHERA, Spunti critici in tema di mora del creditore,

in Dir. Lav., 1970, I, p. 98; L. MENGONI, Note sull'impossibilità sopravvenuta

delle prestazioni di lavoro, in Scritti giuridici in nome di A. Scialoja, vol. VI,

Bologna, 1953, p. 278;

45 M. D'ANTONA, La reintegrazione, cit., p. 35 s.; M. V. GENTILI BALLESTRERO, I licenziamenti, cit., p. 104 s.; M. NAPOLI, La stabilità reale

del rapporto di lavoro, Franco Angeli Editore, Milano, 1980, p. 27 s.

(30)

precise, ma indicazioni estremamente interessanti ai fini della presente ricerca. Si legge infatti, in una delle opere più complete sull'argomento, che nel complesso di pretese azionate dal lavoratore ingiustamente licenziato si può intravedere l'immagine di una corrispondente obbligazione del datore di lavoro “alla conservazione di un rapporto in cui il lavoratore sia correttamente impiegato”47. È la raffigurazione di

un interesse sottostante alle diverse situazioni di vantaggio fruibili dal prestatore di lavoro durante l'esecuzione del rapporto, che è stato definito “bene della continuità”, la cui integrità dipende da un obbligo continuativo della controparte di conservazione e rispetto48.

Non manca la consapevolezza della difficoltà di attribuire un preciso contenuto normativo all'interesse giuridico in questione (così come alle contigue definizioni di “diritto alla stabilità”, o “al posto di lavoro”) : come giustamente è stato rilevato, “far lavorare non è un obbligo del datore di lavoro”49; nonostante ciò, ha assunto una posizione centrale

nel dibattito sulla disciplina del licenziamento ingiustificato e sulla reintegrazione.

Proprio intorno alla configurazione del suddetto bene giuridico, si costruisce il contenuto di illiceità del licenziamento illegittimo, che consiste nell'ingiustificata privazione del diritto alla conservazione del posto di lavoro. L'ordinamento tutela tale diritto nei limiti segnati dal

47 M. V. GENTILI BALLESTRERO, I licenziamenti, cit., p. 130 48 M. D'ANTONA, La reintegrazione, cit., p. 58

49 U. NATOLI, Evoluzione e involuzione del diritto del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1967, I, p. 207 s.

(31)

giustificato motivo di risoluzione del rapporto di lavoro, che deve essere riconosciuta e dichiarata dal giudice mediante la sentenza di accertamento dell'invalidità dell'atto estintivo emanato al di fuori delle ipotesi di legge50.

Il diritto al risarcimento del danno si configura in quanto elemento integrante del regime di stabilità reale del rapporto di lavoro: il lavoratore non è solo titolare di un'azione di accertamento, ma è anche munito della titolarità di un'azione di accertamento, ma anche di un'azione di condanna per la lesione del suo diritto alla conservazione del posto di lavoro provocata dall'uso illegittimo dello strumento negoziale; la condanna al risarcimento del danno non ha carattere rimediale rispetto all'inadempimento, ma reintegratorio della lesione, il cui valore coincide con quello espresso dalla retribuzione51.

L'interesse alla tutela della conservazione del posto di lavoro trova uno specifico ancoraggio anche nella Costituzione, all'articolo 4152.

Del secondo comma di tale articolo, prima dell'emanazione dello Statuto, si era proposta una lettura in termini di funzionalizzazione dell'attività di impresa a scopi sociali che aveva suscitato un vivace dibattito53. Critiche successive all'emanazione dello Statuto dei

50 M. NAPOLI, La stabilità reale, cit., p. 36 51 M. NAPOLI, La stabilità reale, cit., p. 50

52 Non si intende trascurare la rilevanza delle altre disposizioni costituzionali, artt. 4 e 36 in particolare; tuttavia ai fini dello specifico angolo visuale del presente studio, si ritiene di concentrare il discorso sull'art. 41

53 Si vedano, in proposito gli interventi raccolti in I licenziamenti nell'interesse

dell'impresa, Atti delle giornate di studio di Firenze, 27-28 aprile 1968,

organizzate dall'Aidlass, Milano, 1969, che rendono un'immagine fedele della varietà di posizioni assunte sul tema in era pre-statutaria

(32)

lavoratori hanno tacciato tale interpretazione di superfluità e sovrainterpretazione della garanzia costituzionale potendosi, dopo lo Statuto, leggere l'articolo come norma destinata direttamente agli organi legislativi dello Stato autorizzati a operare limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata in nome dell'utilità sociale54.

La disposizione, sancendo che l'iniziativa economica privata “Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, costituisce una norma di collegamento con altre disposizioni della Costituzione che tutelano la dignità del cittadino, stante la dipendenza tra l'efficacia di questo limite e la portata precettiva di quelle norme55.

Il problema dell'efficacia delle garanzie costituzionali all'interno dei rapporti tra privati si collega a situazioni intersoggettive caratterizzate da accentuata disparità, tale da mettere in pericolo l'integrità di diritti e libertà fondamentali di una delle due parti. Nel conflitto tra potere economico e esigenze di protezione del singolo, l'articolo 41 consente di configurare un controllo sull'esercizio del potere nell'attività di impresa che include necessariamente strumenti sanzionatori capaci di condizionare l'attività in modo che cessi l'abuso del potere privato56.

54 F. GALGANO, L'imprenditore, Bologna - Roma, 1971; F. GALGANO, Le

istituzioni dell'economia capitalistica, Bologna, 1974; V. SPAGNUOLO

VIGORITA, L'iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Jovene, Napoli, 1959; G. F. MANCINI, sub art. 4, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA, Bologna - Roma, 1975, pp. 234 s.

55 G. LOMBARDI, Potere privato e diritti fondamentali, in Memorie dell'Istituto

giuridico dell'Università di Torino, Volume 132, Giappichelli, Torino, 1970

(33)

L'articolo 41 indica limite oltre il quale l'esercizio della attività di impresa si configura come danno e l'attività economica non può, giuridicamente, spingersi57; autorizza il legislatore a realizzare forme

di tutela preventiva del danno e a questa ratio bisogna ascrivere anche la normativa ordinaria sui licenziamenti58. L'estromissione dal posto di

lavoro, quando ne sia stata accertata l'illegittimità, configura, date queste premesse, una violazione dell'obbligo di comportamento che l'articolo 41 impone all'imprenditore ed è perciò un illecito di cui si deve scongiurare il perdurare.

Altra dottrina puntualizza che l'ordine di reintegra non coincide con stabilità reale, dato che una cosa è il sistema teorico, altro sono i mezzi con cui si rende il effettivo il sistema stesso.

Il vero nodo da sciogliere, si afferma, non è rappresentato da quali comportamenti l'ordine di reintegrazione possa imporre al datore, ma da come il giudice possa far sì che tali comportamenti siano concretamente posti in essere59.

In questa prospettiva, l'ordine di reintegra assolve alla funzione di rendere effettiva la tutela che dovrebbe essere intrinseca alla pronuncia che dichiara l'invalidità del licenziamento per la mancata integrazione dei presupposti di validità (ma che non lo a causa dell'inidoneità della sentenza di accertamento a modificare la situazione di fatto provocata 57 U. NATOLI, Limiti costituzionali, cit. p. 107

58 U. BELVISO, Il concetto di “iniziativa economica privata”, cit. ; V. SPAGNUOLO VIGORITA, L'iniziativa economica privata, cit.

59 M. D'ANTONA, La reintegrazione nel posto di lavoro, cit., p. 30; M. NAPOLI,

La stabilità reale nel rapporto di lavoro, Franco Angeli Editore, Milano, 1980,

(34)

dal negozio invalido); senza ordine di reintegra, pertanto, si avrebbe la dichiarazione giudiziale della illegittimità e della invalidità negoziale del licenziamento ma mancherebbe uno strumento per porre fine alla situazione lesiva. Il problema che si pone a questo punto è che la sentenza di condanna è esecutiva per quanto riguarda l'obbligo del datore a pagare le retribuzioni, ma la legge non specifica se lo è anche per tutti gli altri contenuti della condanna, compresa la reintegrazione stessa.60

Queste indicazioni normative, e le conseguenti elaborazioni dottrinali hanno concorso alla formazione di un concetto di stabilità del rapporto di lavoro che ha ricevuto anche un solenne riconoscimento giurisprudenziale, attraverso la pronuncia che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha reso pochi anni dopo l'emanazione dello Statuto. Per la Corte è stabile “ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, subordini la legittimità e l'efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obiettive e prederminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”61.

Anche la costruzione giurisprudenziale basa i la stabilità del rapporto di lavoro sui due pilastri del controllo (esterno) delle giustificazioni del 60 M. NAPOLI, La stabilità reale, cit. p. 53; AA. VV. La tutela in forma specifica

dei diritti nel rapporto di lavoro, Atti del convegno, a cura di M. BARBIERI, F.

MACARIO, G. TRISORIO LIUZZI, Giuffrè, Milano, 2004; P. ALBI, La

dismissione dei diritti del lavoratore, Giuffrè, Milano, 2016, p. 187 s.

(35)

licenziamento e della strumentazione sostanziale e processuale che in caso di declaratoria di illegittimità dell'atto di recesso consentono la ricostituzione di quel rapporto62.

Come si vede, quali che siano le premesse, il dato concettuale sottostante alle diverse costruzioni teoriche è sempre la debolezza del lavoratore nel rapporto contrattuale. Di tale dato non si può che confermare la razionalità e la coerenza con il tipo di relazione sul quale il contratto tendenzialmente si innestava: rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nell'industria, da cui dipendeva per il lavoratore non solo la possibilità di garantire un'esistenza libera e dignitosa per sé e per il suo nucleo familiare, ma anche la possibilità di partecipare al processo di emancipazione sociale, crescere professionalmente e fruire dei diritti che gli spettavano in quanto cittadino63. In un simile contesto, il potere contrattuale è evidentemente

squilibrato a favore del datore di lavoro, e si intuisce facilmente come la perdita del posto costituisca un evento traumatico per il lavoratore, da scongiurare in ogni modo; la costruzione interpretativa del bene giuridico della conservazione del rapporto, circondato di un apparato di tutele eteronome rispetto al rapporto contrattuale, sembra, a parere di chi scrive una indicazione di assoluta chiarezza.

62 O. MAZZOTTA, La reintegrazione nel posto di lavoro: ideologie e tecniche

della stabilità, in Lav. Dir., 4, 2007, p. 538

63 Si veda, per quest'ultimo rilievo, S. CHIARLONI, Dal diritto alla retribuzione

(36)

Altro presupposto delle teorie ricostruttive a favore di un regime sanzionatorio “rigido” nei confronti del licenziamento ingiusto risulta essere, accanto – e, verrebbe da aggiungere, conseguentemente- alla debolezza del lavoratore nel contratto, anche la debolezza del contratto stesso di fronte alla vicenda del licenziamento64 e, più in generale,

della situazione di disparità che sembra essere un dato ineliminabile nelle relazioni lavoristiche: si ritiene che la tutela debba provenire da “fuori” e, anzi, che il fenomeno stesso dell'estinzione del rapporto di lavoro sia irriducibile allo schema negoziale, incapace (in senso etimologico) a comprenderne tutti gli aspetti. Procedendo all'interpretazione dell'articolo 18 in una logica strettamente contrattuale si incorrerebbe in uno scarto ricostruttivo, ritenendosi la tutela prevista reintegratoria esorbitante rispetto alle pretese concretamente esercitabili dal lavoratore durante l'esecuzione del rapporto65.

Tale scarto, si aggiunge, non può essere colmato attraverso operazioni definitorie che amplino il raggio di esigibilità del lavoratore concettualizzando un diritto a eseguire la prestazione come sostrato unificante i diversi profili della tutela della attività di lavoro, diversamente da come ha fatto altra dottrina66.

64 P. ALBI, La dismissione dei diritti del lavoratore, Giuffrè, Milano, 2016, p. 213 65 M. D'ANTONA, La reintegrazione, cit., p. 132

66 G. PERA, Sul diritto del lavoratore a lavorare, in Riv. it. dir. lav. 1991, II, 388.

(seppur argomentando dagli artt. 2103 e 2087 cc.); S. CHIARLONI, Dal diritto

(37)

Per finire, si afferma che è necessario tenere presente che l'articolo 18 disciplina un sistema di sanzioni e viene a interferire solo strumentalmente con gli interessi e le aspettative che il lavoratore coltiva durante lo svolgimento del rapporto di lavoro; l'interesse giuridico alla base dell'articolo 18 è l'interesse alla cessazione di un abuso.

Anche la sanzione è irriducibile al quadro dei rimedi ad una crisi di funzionalità del rapporto contrattuale: più che la qualità del corrispettivo dovuto al lavoratore, la norma sembra modificare la qualità del controllo giurisdizionale sui licenziamenti67 che si colloca

non tanto sul negozio del recesso, quanto, piuttosto, sull'attività organizzativa dell'imprenditore, la cui condotta viene condizionata dall'ordine giudiziale di reintegrazione che si configura come intervento riequilibratore nei rapporti di impresa. Così argomentando, si ritiene, si risolverebbe anche l'incongruenza tra le qualificazioni della invalidità negoziale del recesso e i “caratteri ben più energici” del sistema sanzionatorio.

Da questa breve ricostruzione si vede come la tutela contro i licenziamenti arbitrari sembri essere completamente “altro” rispetto al rapporto contrattuale, in cui il prestatore di lavoro soggiace alla volontà della controparte fino a quando non si arriva al momento 67 E. GHERA, Le sanzioni civili nella tutela del lavoratore subordinato, Relazione, in Atti del VI Congresso nazionale di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1979

(38)

dell'estinzione del rapporto, in cui, solo, il lavoratore è titolare di un potente strumento giuridico difensivo esterno al contratto che, modificando, tramite l'intervento giudiziale, l'assetto stabilito con il recesso afferma la forza del lavoratore68.

Non si ritiene in questa sede di muovere alcuna obiezione a questa ricostruzione, se non altro perché, a parere di chi scrive, risulta essere il portato storico e culturale di quello che è stato il concreto atteggiarsi delle relazioni industriali e lavoristiche negli ultimi decenni; per questo, si ritiene, è sembrato, anche astrattamente, l'unico possibile. Quello che interesserebbe in questo studio approfondire è se, stanti i profondi cambiamenti sociali a cui si sta assistendo negli ultimi anni, tale assetto teorico si confermi immutabile come è sembrato fino a non molto tempo fa, e quindi ogni scostamento debba essere interpretato come un tradimento, oppure se il mutato contesto abbia reso il modello irreversibilmente inadatto e si debba immaginare una nuova costruzione.

(39)

1.2 - Estabilidad en el empleo: ricostruzione del percorso

spagnolo

1.2.1 - L'esordio della regolazione: Codice del Commercio e

Codice Civile

La prima fonte normativa che si occupa specificamente di regolare l'estinzione di rapporto di lavoro per volontà datoriale è il Codice del Commercio emanato nel 1829, anche se relativamente alla sola fattispecie del licenziamento dei dipendenti del commerciante.

L'istituto è stato regolato costruendo una disciplina dicotomica, che distingueva il trattamento a seconda che il rapporto da cui si recedeva fosse a tempo determinato oppure indeterminato: nel primo caso, in caso di licenziamento arbitrario, la parte che recedeva era tenuta a indennizzare l'altra per il danno causatole; nel secondo, invece, era sufficiente un mese di preavviso per recedere dal rapporto69. Al di fuori

di questo ambito, tutte le relazioni lavoristiche potevano essere liberamente interrotte dal datore di lavoro senza il rispetto di un periodo di preavviso né la previsione del risarcimento del danno70.

Tale trattamento di maggior favore previsto per i lavoratori nell'ambito del commercio non può ritenersi dovuto a una conquista sindacale, dal momento che il movimento operaio spagnolo era appena incipiente e non aveva la forza rivendicativa sufficiente per condizionare le decisioni legislative: la causa di tale differenziazione è stata rinvenuta 69 Artt. 196 – 197, Codigo del Comercio, 1829

70 J.J. TOVILLAS ZORZANO, El regimen juridico del despido en Espana, BOSCH, Barcellona, 1974, p. 67

(40)

nell'interesse della categoria dei commercianti a sviluppare relazioni pacifiche con i dipendenti tali da consentire la prosecuzione dei buoni risultati del settore produttivo71.

Si ritiene che questo sia dovuto alla preminenza dei commercianti sugli industriali nelle relazioni economiche e al conseguente interesse della categoria di mantenere tale posizione di predominio, perseguito evitando il conflitto con i lavoratori e considerando quello della diserzione come un rischio. Da questo punto di vista la differenza di trattamento degli ausiliari del commercio rispetto agli operai in fabbrica fu sostanziale, dato che ai commercianti interessava mantenere un rapporto proficuo con i collaboratori mentre gli imprenditori nel settore industriale preferivano evitare che tale legame si configurasse, per poter mantenere la situazione di massimo sfruttamento possibile dell'industria, stante la continua discesa dei prezzi delle merci causata dai commercianti72.

Questa disciplina, che si configura come una concessione datoriale più che come una conquista dei lavoratori, per quanto limitato ne sia l'ambito applicativo, rappresenta il momento iniziale della regolazione dell'istituto del licenziamento e apre la prima crepa nel sistema previgente in cui il recesso dalla relazione lavoristica era sostanzialmente libero.

71 J.J. TOVILLAS ZORZANO, El regimen juridico, cit., p. 70 72 J.J. TOVILLAS ZORZANO, El regimen juridico, cit., p. 74

(41)

Nell'epoca in cui si colloca il codice del commercio, mancava ancora la costruzione giuridica del rapporto di lavoro: nella dottrina le ricostruzioni dominanti erano quella che lo identificava con il mandato e quelli che affermavano si trattasse di una relazione giuridica sui

generis. Entrambi i versanti rifiutavano l'ipotesi che fosse una mera

prestazione di servizi derivante dalla figura della locatio condutio. Di particolare impatto fu la tesi che ha ricondotto l'essenza del vincolo che lega datore di lavoro e lavoratore al rapporto fiduciario e alla buona fede73; l'influenza che ha avuto questa tesi sulla successiva

elaborazione teorica del licenziamento è stata fondamentale, dato che inquadrava la relazione contrattuale in un'ottica “giuridico-personale” e quindi consentiva che questa fosse risolto per l'indebolimento del rapporto fiduciario. Così argomentando, la causa generica del licenziamento si inquadra nella perdita dell'interesse del datore di lavoro nella prosecuzione del rapporto74, e non, pertanto, in un

inadempimento contrattuale del lavoratore che, invece, integrando la risoluzione per inadempimento75, avrebbe consentito di configurare il

licenziamento come negozio causale76.

In ordine di tempo, la successiva tappa nel percorso che condurrà alla costruzione della regola della stabilità del rapporto di lavoro è 73 L.E. DE LA VILLA GIL, Los deberes eticos en el contrato de trabajo (en torno

al articulo 72 de la L.C.T.), Tecnos, Madrid, R.D.T., 38, p. 23 s.

74 M. RODRIGUEZ PINERO, El regimen juridico del despido, y el real decreto

de 22 de julio de 1928, Revista de Política Social, nº 74

75 A. GARCIA, Curso de derecho del trabajo. Ariel, Barcellona, 1971, p. 580 76 Soluzione condivisa da M. ALONSO OLEA, Derecho del trabajo, U. M. F. D.,

(42)

rappresentata dal Codice Civile spagnolo, emanato nel 1989, in un contesto sociale sensibilmente mutato rispetto a quello in cui era stato emanato il Codice del Commercio. In questo momento si assiste ad una situazione in cui il conflitto collettivo si è sviluppato, i lavoratori dell'industria sono ormai organizzati in associazioni professionali di carattere permanente che hanno assunto una gran forza rivendicativa davanti al datore di lavoro, a causa della situazione di autentico sfruttamento in cui si trovavano e dell'elevato numero di iscritti a queste associazione. Questo fenomeno non si verificò in egual misura nel settore del commercio e la situazione privilegiata nell'ambito delle relazioni economiche di cui i commercianti godevano rispetto agli industriali all'inizio del XXI secolo iniziò a venire meno77.

Il Codice civile spagnolo, nonostante l'evoluta consapevolezza sociale, similmente a quanto era occorso con il codice civile italiano, ha disegnato un sistema in cui entrambe le parti potevano liberamente recedere dal rapporto, in ossequio ai principi ereditati dalla tradizione francese in tema di diritto dei contratti,

La temporaneità del rapporto (temporalidad) è un requisito necessario per tutte le relazioni contrattuali, derivante dalla dottrina liberale imperante nel secolo XIX78. Il liberalismo si realizza in questo

77 E. BORRAJO DACRUZ, Los auxialires del comerciante en Derecho espanol. Madrid, RDM, 1957, Vol. 23, n. 63, p. 7 s.

78 M. T. SOCHA MANCA, La emergencia del contrato de trabajo (la codificaciòn

civil y los proyectos de ley de contrato de trabajo: 1821-1924), Fundaciòn de

(43)

principio di diritto che è la massima espressione della consacrazione del dogma dell'autonomia della volontà, sulla quale si fonda tutto il diritto civile delle obbligazioni79.

La traduzione normativa di questo principio è rappresentata dall'articolo 1255 del Codice Civile, a norma del quale “I contraenti possono stabilire i patti, le clausole e le condizioni che ritengano opportune, sempre che non siano contrari alla legge, alla morale né all'ordine pubblico”80.

La derivazione di questa norma generale nel campo di nostro interesse è l'articolo 1583, sulla locazione di opere (arrendamiento de servicios), che recita “Si può contrattare questa tipologia di prestazione [quelle rese da lavoratori domestici e salariati] a tempo indeterminato, determinato, o per un'opera determinata. La locazione (d'opere, ndr) stipulato per tutta la vita è nullo”81. Si vede come in realtà la tipologia

di contratto di locazione d'opere a tempo indeterminato sia consentita, mentre il divieto espresso riguardi solo il contratto stipulato “per tutta la vita”. La finalità del divieto altro non è se non la difesa della libertà dell'individuo, in quanto nucleo del sistema valoriale dello stato di diritto: se non si pone un limite legale alla durata del contratto, si corre il rischio di trasformare il rapporto in una forma di schiavitù82.

79 M. GARCIA FERNANDEZ, La formacion del derecho del trabajo, Palma De Mallorca, 1984, p. 129

80 Traduzione mia 81 Traduzione mia

82 Q. M. SCAEVOLA, Codigo civil concordado y comentado espresamente, XXIV, parte 2, Madrid, 1951, p. 13

Riferimenti

Documenti correlati

• al contribuente che sostiene tali spese per familiari non autosufficienti anche se non fiscal- mente a carico. Se più familiari hanno sostenuto spese per assistenza riferite

b.3 se ha segnalazioni di intelligence perché considerato pericoloso.. c) Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non definitiva o «di patteggiamento» per uno dei reati

Con riferimento alla domanda volta all’accertamento di un rapporto di pubblico impiego il Consiglio di Stato ha precisato che il rapporto di lavoro subordinato per un

La Corte, conformemente all'indirizzo giurisprudenziale consolidatosi successivamente alla sentenza impugnata, ha correttamente ritenuto assolto l'obbligo della società

Diritti del Lavoratore per la valorizzazione sociale, culturale ed economica Diritti della Comunità per la promozione della legalità e la lotta alla corruzione Diritti

Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 luglio 2019 n. 18556 In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione

disoccupazione, cit., p. RENGA, Mercato del lavoro e diritto, Franco Angeli, Milano, 1996, p.. Nei fatti, dunque, l’istituto in esame si caratterizza per una spiccata

E tale danno è sempre oggetto di tutela ex art.32 Cost., come la Corte Costituzionale - con la arcinota sentenza 184/86 - ha affermato, chiarendo la piena